"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Lettera autografa firmata, 3 pagine e 1/4, datata Messina gennaio 1861, indirizzata al conte di Cavour che
aveva nuovamente inviato La Farina in Sicilia affinché lo informasse della situazione politica all'indomani dell'annessione.


La Farina dice di essere arrivato a Messina il giorno precedente in compagnia di Cordona e di Raeli, ed informa il conte che il nuovo consiglio a Palermo non si è
ancora formato perché i capi del partito autonomista, convocati da (?) non si sono presentati. Il popolo comunque ha reagito e si è fatto sentire; numerose legazioni
infatti, si sono presentate a Montezemolo per chiedergli, in nome della Provincia, il ritorno del vecchio consiglio; anche la Guardia Nazionale s'era almeno per intiero
disciolta, protestando i militi di non voler far parte di un corpo che s'era disonorato. Tutte cose vane, afferma La Farina; la verità è che a causa della corruzione
borbonica un gran numero di persone sono autorizzate a conservare i vizi, o meglio dire gli abusi, che un governo onesto non può tollerare. (...) Noi siamo caduti
appena abbiamo messo mano al coltello per tagliare la cancrena ... Per compiere quella, questa epurazione bisogna che vi sia in Parlamento un presidio di 8.000
uomini almeno ... Insomma senza un notevole appoggio non si può fare alcunché; ed è per questa ragione che anche lui e Cordona, si sono trovati con le mani legate.
La Farina racconta del grande dispiacere che hanno provato nelle Province quando lui e Cordona si sono dimessi dal Parlamento: Messina, Catania, Noto, Caltanisetta,
sono dolenti per la scelta fatta dai due; i consigli civici indirizzeranno proteste in proposito. Egli dice di essere stato accolto con grande stima ed affetto a Messina (...)
Ieri sera una folla numerosa si è adunata sotto la mia casa, accompagnata da una banda musicale, che suonava l'inno reale, con grandi applausi al mio nome (...) Qui e
a Catania (e credo lo stesso in altre capoprovince) le elezioni comunali sono riuscite benissimo; mio fratello e i miei amici personali hanno il maggior numero di voti
nelle elezioni di Messina. In Palermo al contrario il partito onesto si è astenuto di votare per codardia e per inerzia, e risultarono consiglieri con pochissimi voti crispiani,
autonomisti e fino quel vituperato Ferro che io volli arrestare ... Egli afferma che è dunque evidente che Palermo è sotto la pressione di forti spinte autonomiste
mazziniane; né sarà facile, aggiunge, sottrarsi all'influenza dei monarchici che hanno in mano milioni sottratti alla finanza pubblica (...) Ella sa che il voto Bertani ha
riscosso dal tesoro di Licina, senza causa specificata, la bagatella di 7 milioni! ... La Farina si informa della salute del conte; quindi gli chiede di scrivergli del significato
politico della venuta a Napoli di Rattazzi (...) Qui in Sicilia il mio povero nome è così congiunto al suo nella lode e nel biasimo, che non può non risentirsi della sua
prospera ed avversa fortuna, e ciò senza contare il bisogno del mio onore. Noi lottiamo ed ella può essere sicura che dal canto mio non si mancherà né di attività, né di
energia: non sono marinaio da perdermi d'animo per simili tempeste ...

da : http://www.cifcasteltermini.it/
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

SPLENDIDO DOCUMENTO
Ciao: Ciao:
Giuseppe
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

La lettera del conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone del 24 agosto 1860

a cura di Alfonso Grasso




Leopoldo (Beniamino Giuseppe, nato il 22 maggio1813 a Palermo, morto il 4 dicembre 1860 a Pisa) era un fratello del defunto re Ferdinando II, e quindi zio di Francesco II.

Il 16 giugno 1837 sposò, in Napoli, Maria Vittoria Filiberta di Savoia. Le pressioni della moglie, le promesse del re sabaudo (nominarlo viceré di Sicilia!), unitamente alla sua scarsissima capacità neuronica, ne fecero uno dei protagonisti in negativo della dissoluzione del Regno delle due Sicilie.

Fino al 1860 era vissuto rinchiuso nella sua bella villa della Riviera di Chiaia: una vita dedicata al collezionismo e a catalogare reperti di Pompei.

Nell'agosto del 1860 scrisse la lettera che riportiamo di seguito. Formalmente diretta al nipote re Francesco, la lettera fu in realtà distribuita a tutte le cancellerie europee, ed ai giornali, allo scopo di indebolire il già traballante trono di Napoli, mentre Garibaldi ed i piemontesi avanzavano nell'invasione.

Il contenuto è di pura retorica, molto in uso in quei tempi. Leggendola oggi, fuori dal contesto di quei giorni, parrebbe pure sensata. Ma occorre ricordare che il destinatario, il re, non la ricevette mai, ma la lesse sui giornali, o in una delle migliaia di copie diffuse in città. Infatti lo scopo della missiva non era certo quello di convincere il re, ma di abbatterlo.

"Sire,

Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che sovrastavano la Nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio. Le mutate condizioni d'Italia, ed il sentimento della unità nazionale, fatta gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al governo di V.M. quella forza onde si reggono gli stati, e rendettero impossibile la Lega col Piemonte.

Le popolazioni della Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero co' loro voti gli ambasciatori di Napoli, e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze, ed in preda al sentimento delle moltitudini, che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di esterminio lanciato contro la Nostra Casa, fatta segno alla universale riprovazione.

Ed intanto la guerra civile, che già invade le province del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III di Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del reame, e voi, un di speranza e amore dei popoli, sarete riguardato con orrore, unica cagione di una guerra fratricida.

Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta l'Italia! Seguite il nobile esempio della Regale Congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile sciolse i sudditi dalla obbedienza, e li fece arbitri dei propri destini. L'Europa e i vostri popoli vi terranno conto del sublime sagrifizio; e Voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M.V.

Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della Patria, e Voi benedirete il giorno in cui generosamente Vi sacrificaste alla grandezza d'Italia.

Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m'impone; e prego Iddio che possa illuminarvi, e farvi meritevole delle sue benedizioni.

Di V.M. Affezionatissimo zio

Leopoldo conte di Siracusa

Napoli, 24 agosto 1860

"Ma neppure la pugnalata alle spalle che gli veniva da un membro della sua famiglia indusse Francesco II ad abdicare (anche se lo turbò enormemente). L'effetto sulla popolazione e sull'esercito, che consideravano Siracusa nulla di più che una «macchietta», restò, in pratica, nullo. Ma ebbe grande risalto in Piemonte, Inghilterra e Francia, cioè nella coalizione che conduceva l’invasione delle Due Sicilie". (Jaeger)

Qualche giorno dopo aver scritto e diffuso la lettera, Leopoldo andò a bordo della Maria Adelaide, nave piemontese dell'ammiraglio Persano, alla fonda nel golfo di Napoli (ufficialmente per "proteggere gli interessi del Piemonte", in pratica base operativa per prezzolare l'insurrezione antiborbonica di Napoli - che mai avvenne - e appoggiare i garibaldini, nelle cui fila militavano molti soldati sabaudi "in permesso" o "disertori").

Leopoldo di Borbone andava a "riscuotere", si aspettava complimenti e la conferma della promozione a "vicerè", e pensò bene di farsi precedere da un biglietto per Persano in cui scriveva:

"Pretendo di essere salutato colla bandiera allo stemma dei Savoia e non col borbonico, quale suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re degno di regnare sull’Italia".

Di complimenti ne ricevette a iosa, ma ebbe anche la tremenda delusione di vedersi offrire da Persano solo una transitoria e platonica "Luogotenenza in Toscana".

Qualche mese dopo, Leopoldo morì a Pisa, in circostanze mai chiarite, anche se si diffuse la notizia di un possibile suicidio.
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

Ciao: Ciao: posto un documento a firma del Conte di Siracusa allorquando fù mandato in Sicilia con mansioni di Luogotenete del regno dal fratello sovrano, affinché iniziasse un processo di responsabilizzazione.
Ciao: Ciao:
Giuseppe
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Ultima modifica di gipos il 25 aprile 2013, 16:29, modificato 1 volta in totale.
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Laurent
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da Laurent »

Sempre interessante, Giuseppe !




Laurent Ciao:
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

Laurent ha scritto:Sempre interessante, Giuseppe !




Laurent Ciao:

Grazie Laurent per la tua considerazione.
Ciao: Ciao:
Giuseppe
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pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

Giuseppe...sei sempre Grande. :clap: :clap: :clap:
Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

Ciao: Pietro ed un Ciao: a tutti, ti ringrazio per il tuo intervento ed il tuo apprezzamento nei miei riguardi, quando i complimenti vengono da persone che stimo profondamente sono doppiamente accettati :abb: :abb: Ciao: Ciao:
Giuseppe
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pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

Un saluto a tutti.

da "LETTERE DEI COMBATTENTI DEL RISORGIMENTO - LA REGIA POSTA MILITARE SARDA E DEI VOLONTARI (1848-1861). Collana Raybaudi (4) d Studi filatelici. Filatelia S.r.l. Editrice.
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Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

.... Corre il giorno 8 settembre 1860 e a Catania si legge.....
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »


Breve la vita felice di un capo brigante

di Giampiero Di Marco


All’alba vennero a prenderlo. Damiano era già sveglio, non aveva chiuso occhio quella notte. Due guardie accompagnate da un frate, aprirono la cella ed entrarono, gli misero i chiavettoni ai polsi e lo fecero uscire nel lungo corridoio dei locali del carcere della fortezza di Gaeta. Lui davanti, le guardie appena dietro e il frate che chiudeva la piccola fila che continuava a recitare preghiere in suffragio della sua anima. Lo condussero su e poi fuori sugli spalti, fino a una larga piazzola dove già era schierata la piccola fila di sei soldati con il fucile, pronti per l’esecuzione. Un tenente della guarnigione lo aspettava per comandare il plotone. Damiano aveva in testa il suo berretto del corpo dei Cacciatori minturnesi, respirò a pieni polmoni l’aria salsa del mattino, si riempì gli occhi del mare che cominciava ad intravedersi nel chiarore dell’alba. Ebbe solo la possibilità di chiedere per favore di fucilarlo avendo di fronte a se monte Fammera e monte Redentore ma non gli venne accordata questa grazia. Lo fecero sedere su una sedia con le spalle rivolte verso il plotone e lo legarono. La cerimonia molto sbrigativa si concluse in brevissimo tempo. Plotone Caricate. Puntate, Fuoco. Cadde a terra colpito da almeno cinque delle sei pallottole, quasi tutti avevano mirato giusto. Il tenente si avvicinò e con calma estrasse la sua pistola e gli esplose un colpo alla nuca. Il corpo slegato dalla sedia da due inservienti del carcere, venne avvolto in un lenzuolo e condotto via, fino ad una fossa nel piccolo cimitero dei senza nome all’interno della fortezza. Aveva soltanto 28 anni.
Era il 7 ottobre del 1863. Uno dei primi ad essere giustiziato come voleva la legge Pica, emanata dal governo Minghetti appena il 15 agosto di quello stesso anno. Non che prima di questa legge non fucilassero egualmente i briganti come li chiamavano loro, i napoletani che ancora resistevano. Ma ora la legge giustificava in pieno i comportamenti dell’esercito italiano. Damiano Vellucci era stato un soldato di una guerra perduta e che lui aveva iniziato controvoglia. Era nato a SS. Cosma e Damiano piccola frazione di Traetto il 22 marzo 1835. Figlio di braccianti agricoli il padre si chiamava Giuseppe e la madre Rosalia Ionta, la casa della sua famiglia si trovava nella via detta della Cuparella. Si era presentato volontario, si volontario, però spinto a farlo da tutte le persone che contavano al paese a cominciare dall’arciprete a finire al sindaco e al notaio. Insieme a lui si arruolò anche il suo inseparabile compagno Angelo Mallozzi. Questo avvenne nel mese di settembre del 1860, quando già Garibaldi era giunto in Terra di Lavoro e furono inquadrati nella Brigata Lagrange costituita proprio in quel mese il giorno 15. La brigata doveva portare la sollevazione realista delle popolazioni contadine in Abruzzo. Questa strategia era molto cara a Francesco II, ma non ebbe molto seguito negli alti gradi del suo esercito e venne abbandonata quasi subito l’idea della guerra di guerriglia. Ecco perché i due amici si ritrovarono poi alla difesa del Garigliano nel secondo battaglione di Cacciatori.
Vieni, qui compare, disse Damiano, vieni a riposarti accanto a questo fuoco. E con questo fece posto ad Angelo Mallozzi, attorno al fuoco di bivacco presso il quale un gruppo di soldati cercava di riscaldarsi e di asciugare l’umido del fiume che impregnava e appesantiva le divise e il pastrano. Oggi gli ufficiali ci hanno fatto un culo quadrato, si lamentò Angelo, lasciandosi cadere sfinito accanto all’amico. Tieni mangia qualcosa, gli fece Damiano, cavando dal tascapane un pezzo di pane raffermo e un formaggio di pecora che lui aveva avuto da uno zappitto, un pastore del suo paese, durante il servizio di perlustrazione del giorno. Un altro soldato tirò fuori un fiasco di vino rosso che fece girare tra i commilitoni. La notte avanzava velocemente sul posto di bivacco dei Cacciatori del secondo battaglione, situato a poca distanza dalla torre di Pandolfo Capodiferro e dalla osteria del Garigliano, ormai chiusa e abbandonata. Il fiume ingrossato dalle piogge faceva sentire in sottofondo la sua presenza, con la forza della corrente che trasportava verso la foce e il mare ogni sorta di cose che aveva incontrato lungo il suo cammino, tronchi d’albero e materiale di risulta, travi di legno, assi, fascine. Il livello del fiume si era alzato e ormai era quasi all’altezza degli argini, se il tempo avesse continuato a peggiorare di sicuro ci sarebbe stata un’esondazione. Come tutti gli anni del resto. Il Garigliano è un fiume cattivo e insidioso, ricco di acque che vengono giù dalle montagne attorno a San Germano, un anno si e un altro pure provocava inondazioni e disastri nei terreni posti sulle due sponde, specialmente verso la foce dove ora erano acquartierati i soldati dei due eserciti contrapposti. L’armata napoletana, dopo la battaglia del Volturno e la resa di Capua, si era ritirata sul Garigliano ed aveva scavato trincee, allestito fortificazioni e postazioni d’artiglieria e aveva anche distrutto tutti i ponti e le scafe sul fiume, dalla foce fino a Pontecorvo. Non si erano sentiti di distruggere però il ponte sospeso di ferro alla foce. Questo, che era sempre un vanto dell’ingegneria napoletana, venne solo privato della pavimentazione di legno. Il giorno prima, il 27 ottobre Francesco II, insieme al comandante dell’armata il generale Salzano, aveva passato in rassegna le truppe schierate a difesa del Garigliano sulla sponda meridionale, dal lato della piana di Sessa. Lo schieramento vedeva posizionati in prima linea il secondo battaglione dei cacciatori comandato dal maggiore Castellano, il terzo del maggiore Petrone e il quarto del maggiore Barbera. Inoltre erano schierate quattro compagnie scelte del terzo Reggimento di linea del colonnello Cortada, tre squadroni di lancieri e uno del primo reggimento di ussari. Infine vi erano quattro batterie di trentadue cannoni e ancora quel che restava del 14° Reggimento di linea del colonnello Zattera, tenuto come riserva. Il comando dell’avamposto era stato affidato ad un sessantunenne veterano dell’esercito muratiano, il maresciallo Filippo Colonna. Il resto dell’esercito si trovava acquartierato dietro l’altra sponda del fiume, in territorio di Traetto, appostati tra le rovine dell’acquedotto romano e del teatro dell’antica Minturno. Un aiutante a cavallo raggiunge il bivacco, si ferma, spronando brevemente i soldati a stare pronti e alle sentinelle di porre grande attenzione nei loro turni di guardia. Subito dopo riparte per visitare e sorvegliare tutto il fronte. Nella notte si vedevano in lontananza i fuochi dell’accampamento piemontese nella pianura di Sessa. Il grosso dell’esercito piemontese si era accampato all’altezza della chiesa di S. Maria della piana e il Quartier Generale era stato posto nell’osteria della piana. I piemontesi se ne stanno all’asciutto, disse Damiano, avvolgendosi nel pastrano per calmare i brividi che nonostante il vino l’umido del fiume gli provocava. Chissà se è meglio affrontare questi piemontesi, piuttosto che quei rotti in culo dei garibaldini con le camicie rosse. Garibaldi suscitava quasi una forma di timore superstizioso, si diceva che fosse protetto in modo soprannaturale e i suoi soldati fossero dei diavoli e anche fortunati. In effetti c’era stato il cambio e adesso il fronte era tenuto in maggioranza dall’esercito regolare. I garibaldini avevano ormai terminato il loro compito e lo stesso Vittorio Emanuele, che alloggiava nel casino Struffi a Sessa sulla via consolare, aveva detto al Generale che adesso finire la guerra era compito suo, specialmente dopo il voto di annessione delle regioni meridinali al regno di Sardegna. Voleva anche lui conquistarsi un po’ di gloria.
La notte passò e all’alba del 29 ottobre tre forti colonne di fanteria piemontesi, protette da cinque squadroni di cavalleria avanzano nella pianura di Sessa, dirigendosi verso il fiume. Il secondo battaglione di Cacciatori napoletano è costituito da buoni tiratori, armati anche di moderne carabine a canna rigata e riescono, con un fitto fuoco di fucileria per un poco a contenere l’assalto nemico. Per più di un’ora reggono il fronte poi in ordine si ritirano al di là del ponte, togliendo le ultime tavole della pavimentazione. Resta solo lo scheletro in ferro con la catenaria sospesa alle colonne egizie. L’assalto al ponte viene tentato dai bersaglieri che con grande coraggio si avventano, sotto il preciso fuoco nemico, sulle assi di ferro del ponte. Tre volte attaccano e tre volte sono respinti, anche perché il generale Barbalonga sposta le batterie di cannoni del tredicesimo e quattrodicesimo battaglione di cacciatori in un’ansa del fiume, riuscendo a fare fuoco sul fianco del ponte. I bersaglieri subiscono così il fuoco incrociato napoletano e sono costretti a ritirarsi, lasciando anche quaranta prigionieri ai cacciatori che hanno di nuovo superato il ponte e ora li incalzano inseguendoli. Sul campo sono restati un centinaio di bersaglieri, una decina di napoletani e varie decine di feriti. Tra i caduti napoletani purtroppo è da mettere Matteo Negri il migliore ufficiale di artiglieria dell’esercito borbonico, che nel giro di due mesi si è guadagnato sul campo i gradi, passando da quello di maggiore a quello di generale. E’ lui ad organizzare la collocazione delle batterie sul Garigliano e a dirigere il tiro dei cannoni, finchè durante un attacco, mentre è appostato a cavallo dietro una batteria per incoraggiare i suoi uomini, viene colpito prima al piede sinistro e poi all’addome. Trasportato lontano dal fronte in una casa della campagna di Scauri, muore al tramonto di quella giornata. Intanto la prima giornata di battaglia si conclude con un nulla di fatto, la difesa del Garigliano si è dimostrata all’altezza, l’esercito napoletano si è battuto con determinazione. Dopo tante pagine ingloriose, tanti voltafaccia, tradimenti, intese con il nemico, un esercito schierato in campo aperto ha resistito combattendo, rispondendo colpo su colpo. La notte, organizzate le sentinelle di guardia, permette finalmente ai soldati stanchi e affamati, infreddoliti per il tempo rigido anzitempo di rinfrancarsi e prendere un meritato riposo. Il campo napoletano è abbastanza contento, persino il re e la bella regina Maria Sofia hanno fatto sentire il loro incoraggiamento, ordinando rancio abbondante e vino per la truppa. Al quartier generale piemontese Cialdini è infuriato. Si rende conto che sarà difficile e dispendioso di vite umane oltrepassare il Garigliano, così com’è difeso da truppe agguerrite e, problema ancora maggiore, protetto a mare dalla presenza della flotta francese, comandata dall’ammiraglio Barbier de Tinan, che impedisce l’intervento di quella piemontese di Persano. Capisce Cialdini che ha di fronte un ostacolo durissimo che rischia di prolungare per molto tempo la guerra, che poi è proprio quello che Vitttorio Emanuele non vuole, sia per il confronto con le imprese lampo di Garibaldi, sia perché una guerra lunga può rinfocolare a Napoli il partito borbonico. Sotto la pressione di Torino e di Londra, Napoleone III fa arretrare la flotta, limitando la sua azione alla protezione di Gaeta. Così nella notte fra il primo e il 2 di novembre la squadra navale di Persano avanza verso la foce del Garigliano e inizia un nutrito bombardamento cogliendo di sorpresa le truppe napoletane.
Francesco II sperava in una lunga difesa del fiume ma ora di fronte alla nuova situazione la posizione sul fiume diventa indifendibile, sottoposta al cannoneggiamento sul fianco delle batterie e delle truppe. Il 2 novembre il re ordina la ritirata verso Mola, lasciando a copertura del ponte soltanto due compagnie del sesto battaglione di cacciatori al comando del capitano Domenico Bozzelli. La sera dello stesso giorno i bersaglieri piemontesi attraversano il fiume. La prima Divisione di Granatieri di Sardegna del generale De Sonnaz allestisce un ponte di barche ed ha facilmente ragione delle due compagnie di cacciatori. Quella sera si riunisce un Consiglio di Guerra al quartier generale napoletano. Con Salzano ci sono De Ruggiero, Sanchez de Luna, Polizzy, Bartolini, Barbalonga. Si decide che se anche Mola sarà attaccata dal mare, non sarà difesa e le truppe si sarebbero ritirate all’interno della fortezza di Gaeta. Francesco e il suo ministro Ulloa a questo punto vorrebbero che l’esercito si spostasse in Abruzzo. Alla fine alcuni reparti vengono spediti a rinforzare la guarnigione di Gaeta, mentre il grosso si dirige verso Itri. Persano naturalmente il 4 novembre attacca violentemente Mola con 14 navi cannoneggiando e distruggendo case e strade. La popolazione nel panico fugge cercando riparo in campagna e nelle grotte. I napoletani avevano piazzato cinque cannoni sulla spiaggia che ben presto vengono colpiti e distrutti. Alle tre del pomeriggio avanzano i granatieri di De Sonnaz, una colonna si dirige verso la collina di Maranola e un’altra all’ingresso della Terra. Là sono schierate in prima linea la Brigata Estera, ora al comando del colonnello De Mortillet, dopo che Meckel malato si era ritirato, e la brigata Polizzy in seconda. Sotto il fuoco incessante della flotta i napoletani ripiegano. La brigata Estera, quella a contatto con i granatieri di Sardegna, dopo aver frapposto una scarsa resistenza si sbanda. La ritirata avviene in una confusione enorme. Sotto il fuoco nemico e lo scoppio delle granate, nelle strette vie che da Mola portano a Gaeta, fuggono soldati, carri, ambulanze che trasportano feriti, treni d’artiglieria trainati da muli. In mezzo a loro la popolazione civile che si trascina dietro masserizie e tutto quanto può trasportare. Pigiati, urtandosi l’un l’altro, si procede a stento, tra pianti, urla e bestemmie. De Sonnaz avanza con prudenza, superando la breve seppur tenace resistenza apposta da alcune compagnie del decimo battaglione di cacciatori, comandate dal capitano Ferdinando de Filippis e dagli svizzeri della batteria numero 15, dei quali cade in battaglia il comandante capitano Enrico Fevot. In breve tempo davanti alla fortezza di Gaeta, nel piccolo istmo di Montesecco, si ammassano quasi 12.000 uomini dei reparti che non si erano portati verso Itri. Farli entrare nella fortezza è impensabile, avrebbero ridotto la possibilità di resistenza della guarnigione in caso di assedio, facendo terminare i viveri. Salzano tenta di trattare la resa, proponendo di congedarli. Il generale piemontese Fanti comprende benissimo che questa massa di soldati costituisce una zavorra per i napoletani e contropropone la resa di tutta la guarnigione di Gaeta.
Alla fine si giunge ad un accordo che prevede solo uno scambio di prigionieri. I napoletani si schierano a difesa dell’istmo di Montesecco. Sulla destra nel borgo marinaro il 15° battaglione di cacciatori del tenente colonnello Pianell. Al centro sui colli dei Cappuccini e del Lombone il 14° ed il 3° cacciatori, sulla sinistra nei pressi della Torre Viola, bagnata dal mare, quattro compagnie del 3° battaglione carabinieri cacciatori esteri comandati dal capitano Johann Rudolph Hess. In seconda linea il 4° cacciatori nel cimitero ed il 6° tra il cimitero e il colle Atratino. Nella piana di Montesecco tra la seconda linea e le mura della fortezza sono ammassati il 2°, 7°, 8°, 9° e 10° cacciatori, mentre i cacciatori a cavallo si distribuiscono su tutto il fronte. Le batterie di cannoni 11 e 13 sono fatte rientrare nella fortezza, mentre la 10 è divisa tra il colle dei Cappuccini ed il borgo con due cannoni per postazione. Ma la storia della conquista del sud è una storia di tradimenti e defezioni. L’11 di novembre si dimette il comandante in capo Salzano e con lui se ne vanno Colonna, Barbalonga e Polizzy. Il comando viene allora affidato a Vincenzo Sanchez de Luna e allo svizzero Alosio Migy. La sera i piemontesi attaccano il colle Lombone. Il quattordicesimo cacciatori oppone una forte resistenza, ma è costretto a ritirarsi. Il mattino seguente il capitano napoletano Sinibaldo Orlandi ordina ai suoi di riprendere la posizione. L’assalto disperato al colle riesce e per questa azione il capitano ottiene il grado di maggiore. Viene richiesta e contrattata una tregua per i feriti e lo scambio di prigionieri, ma i piemontesi attaccano comunque il centro e l’ala sinistra. Sulla destra Pianell provoca una falla sulla prima linea consegnando in pratica il suo 15° cacciatori nelle mani del nemico. Con il fianco destro scoperto, il 3° cacciatori è costretto ad abbandonare il colle dei Cappuccini, ritirandosi nell’istmo di Montesecco. Sanchez de Luna ordina di riprendere a tutti i costi il colle al 3° Cacciatori. I soldati si lanciano con foga su per la salita, riescono per un po’ nell’impresa ma alla fine sono costretti a ripiegare. Rimangono prigioniere tre intere compagnie del 3° per lo scarso coraggio dimostrato dal capitano Guglielmo Santacroce. Alla Torre Viola vengono attaccate le quattro compagnie estere, le quali, non avendo copertura di artiglieria, sono decimate. Su 400 soldati soltanto 130 ne entrano a sera nel forte di Gaeta, anche il comandante Hess viene fatto prigioniero. Sanchez de Luna tenta di contenere i pressanti attacchi sul colle Lombone e al cimitero, ma dopo nove ore di combattimento, i napoletani sfiniti e distrutti, digiuni tra l’altro, sono autorizzati dal re a entrare nelle mura. La battaglia e la guerra è praticamente finita. Resta il forte assediato, ma gli assedi prima o poi hanno ragione degli assediati.
Tecnicamente l’assedio vero e proprio inizia il 13 novembre. Qual è l’assetto e le forze in campo dall’una e dall’altra parte? L’antica fortezza aragonese di Gaeta possiede 300 cannoni, dei quali solo 4 sono a canna rigata. I cannoni sono distribuiti in otto batterie, ognuna delle quali ha un suo proprio nome come la Transilvana, la Torre d’Orlando, Regina, Trinita, Philippstadt, Santa Maria, S. Giacomo, Malpasso, poi ci sono altre batterie del borgo quella di Guastaferri, del Torrione francese, Cittadella, Addolorata, Annunziata, Trabacco. Le munizioni per i cannoni sono scarse, mentre abbondano quelle per i fucili. I camminamenti sugli spalti del forte dai quali i soldati possono sparare sono vulnerabili perché poco protetti. Le scorte di viveri non sono sufficienti. In tutto nella fortezza vi sono 16.700 soldati e 994 ufficiali con un migliaio di cavalli e di muli da trasporto. Inoltre nel porto di Gaeta vi sono cinque legni da guerra napoletani rimasti fedeli alla corona: il Partenone, il Delfino, il Messaggero, Saetta e l’Etna. Stazionano nel porto quattro navi spagnole, il Vulcan, il Colon, il Villa de Bilbao, il Generale Alava, una nave prussiana, la Loreley e sette navi da guerra francesi: Bretagne, Fontenoy, Saint Louis, Imperial, Alexandre, Prony e Descartes al comando dell’ammiraglio Barbier de Tinan. La Francia è contraria all’allargamento dei piemontesi e alla nascita di un regno d’Italia così grande. L’esercito piemontese a sua volta è composto da 18.000 soldati, con 1600 cavalli, 66 cannoni a canna rigata e 180 a gittata lunga. Vengono organizzate dai piemontesi cinque batterie d’artiglieria dette Castellone, Conzatora, Montecristo, Monte Lombone e Valle Calegna dal nome della posizione in cui si trovano.
L’assedio di una posizione è fatto di attesa, appostamenti di cecchini e resistenza fisica e morale da parte degli assediati e cannoneggiamenti soprattutto da parte degli assedianti. C’è poco da fare altro, tanto prima o poi, a meno di provvidenziali interventi esterni, il forte cadrà, quando non si sa, dipende dalle scorte e anche dalla fortuna. Le giornate trascorrono eguali. Le batterie piemontesi martellano il forte sia a mitraglia, se ci sono soldati sui camminamenti, sia a palla per abbattere le mura. Dal forte si risponde ogni tanto con qualche colpo di cannone, tentando di colpire le batterie nemiche. Si tende a risparmiare. Il 28 novembre, dopo due settimane di assedio, quattrocento uomini al comando del generale Bosco, tentano una sortita sul colle dei Cappuccini, riescono anche a mettere in fuga i piemontesi, pagando però un altissimo prezzo. In questa circostanza muore anche lo svizzero Aloisio Migy. Alla fine decimato il contingente napoletano rientra nella fortezza. Ancora una nuova sortita viene tentata il 4 dicembre. Sotto una pioggia fitta e gelida, 120 cacciatori riescono a far saltare con una mina alcune case che ostruivano la vista di una batteria piemontese. Il mese di dicembre vede comparire il nemico più terribile. Il tifo petecchiale, micidiale negli affollamenti e qui specialmente nei sovraffolati cameroni dove migliaia di soldati dormono uno sull’altro su luridi giacigli di paglia. Il tifo comincia a fare le sue vittime sia nelle fila dell’esercito, che tra la popolazione civile del borgo marinaro di Gaeta. Il tifo costa la vita dell’aiutante del re Caracciolo di Sanvito. Francesco l’otto dicembre lancia il suo proclama alle nazioni, chiedendo aiuto e protezione da un’aggressione subita senza motivo, da parte di una nazione amica alla quale è legato anche da vincoli di sangue. Nello stesso giorno Vittorio Emanuele visita Mola. Intanto la politica è in azione. Cavour fa sospendere i bombardamenti per permettere a Cialdini di far giungere un messaggio di Napoleone III all’ammiraglio francese de Tinan. L’ammiraglio dovrebbe promuovere la resa dei borbonici, ma questi non è d’accordo e prende tempo, riuscendo a portare avanti la tregua per qualche giorno, finchè nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, alcuni soldati, usciti dal forte vengono interpretati dagli avamposti piemontesi come un atto ostile e si ricomincia a sparare. Il 14 dicembre Francesco scioglie due Reggimenti della Guardia Reale e 50 soldati per ogni battaglione di cacciatori per alleviare la condizione degli assediati, rispetto anche alle scorte di viveri. 4500 uomini vengono imbarcati su due navi francesi con viveri per tre giorni e paga per otto giorni, partono alla volta di Terracina. Il 15 dicembre Cialdini fa bombardare Gaeta anche su obiettivi civili, case, chiese, ospedale, seminando il terrore tra la popolazione. Così trascorre la fine del 1860 e l’inizio del nuovo anno, poco o nulla di nuovo, bombardamenti incessanti, risposta fiacca a tratti. Il 19 gennaio però qualcosa cambia, improvvisamente la flotta straniera salpa le ancore dal porto di Gaeta e se ne va. E’ successo che, come poi il trattato del 2 febbraio stabilirà, il Piemonte ha ceduto alla Francia i comuni di Mentone e di Roccabruna. I francesi ritengono che ciò basta per accettare lo stato di fatto. Lo stesso giorno l’ammiraglio Persano butta l’ancora a Mola di Gaeta. Sono dieci navi da guerra. Maria Adelaide, Costituzione, Ardita, Veloce, Carlo Alberto, Confienza, Vittorio Emanuele I, Monzambano, Garibaldi che è una nave borbonica ribattezzata, Vinzaglio. Il 20 di gennaio una nave francese il Dahomey evacua da Gaeta 600 persone tra civili e malati. Il 22 gennaio anche la flotta comincia il bombardamento da mare. Ormai siamo alla fine. Il 4 febbraio un colpo di cannone ben diretto centra la polveriera Cappelletti, dove sono 180 chili di esplosivo. Soltanto la disperata azione dei soldati riesce a dominare l’incendio ed evitare che si propaghi giungendo fino alla batteria Transilvana. Il giorno 5 febbraio alle ore 16.00 salta in aria il magazzino munizioni della batteria S. Antonio. L’esplosione crea una breccia di 30-40 metri nelle mura, sono perdute sette tonnellate di polvere e 42.000 cartucce di fucile. Nel crollo muoiono 316 soldati e un centinaio di civili. Si parla di sabotaggio, certo una palla così ben indirizztata. Fortuna, precisione di tiro? Di sicuro i piemontesi erano informati delle posizioni dei punti delicati da parte di ufficiali e soldati che avevano cambiato campo e che conoscevano bene il forte di Gaeta. A fare il colpo fortunato sono gli addetti alla batteria Madonna di Conca. Quando ci fu il tremendo scoppio e col diradare del fumo ci si accorse del danno grave riportato dalla struttura, le grida di giubilo dei piemontesi che vedevano ormai vicina la fine dell’assedio, si alzarono da tutto il fronte. Si tenta di andare all’attacco di questa breccia ma un’intensa fucileria dei borbonici impedisce ulteriori danni. Il giorno seguente il comando concede una tregua di 48 ore per assicurare l’evacuazione di altri 200 soldati feriti e malati. Il comandante di Gaeta generale Ritucci convoca un Consiglio di difesa. Finalmente il giorno 11 Francesco per evitare ulteriore spargimento di sangue consente di trattare la resa. Una delegazione composta dal generale Antonelli, dal Brigadiere Pasca e dal tenente colonnello Delli Franci esce dal forte per recarsi a Mola dove si trova il quartiere generale avversario. Cialdini intanto continua a bombardare giustificandosi con il dire che lui continuerà finchè non ci sarà la capitolazione. Alle ore 15.00 esplode la santabarbara della batteria Philippstadt e alle 16.00 anche quella della Transilvana. Il tiro continuo impedisce il soccorso dei feriti. Il massacro continua fino al giorno 13 quando il cessate il fuoco è fissato alle 18.15. Il giorno 14 alle ore 8.00 Francesco e Maria Sofia, salutati dalle truppe borboniche schierate sul molo di Gaeta e da numerosa popolazione, si imbarcano sulla Mouette un legno francese alla volta di Roma. Mentre la nave lascia il porto una salve di 20 colpi di cannoni porta l’estremo saluto al re e da terra si innalza per l’ultima volta da parte di soldati e popolani il grido: Viv’o rre! La guarnigione esce dal forte con l’onore delle armi, sfila e depone spade e fucili e poi viene imbarcata per il nord. Moltissimi saranno tenuti prigionieri nelle fortezze dell’Alta Italia e non torneranno mai più, anzi sulla loro sorte non si avranno mai più notizie certe.
Damiano Vellucci e Angelo Mallozzi furono congedati a Cisterna nel mese di gennaio 1861. Riuscirono a tornare al loro paese, insieme ai molti compaesani che avevano militato nel corpo dei cacciatori. A Traetto i liberali avevano innalzato la bandiera tricolore sul Municipio. I pochi liberali che esistevano qui prima della guerra avevano visto infittire le loro fila, specialmente da quella massa di persone che si erano tenute con prudenza defilate dal prendere una qualsiasi posizione nel momento del pericolo e che ora che le cose erano chiare e netti i vincitori, erano diventati ferventi patrioti della nuova Italia. Magari erano quegli stessi che avevano approvato la partenza dei giovani alla difesa della corona borbonica. Damiano ci provò a ritornare alla vita di prima spinto anche dalla sua promessa sposa che aveva lasciato al momento della partenza come soldato e che ora scorrazzava con lui, spesso fuggendo dalla casa colonica in cui abitava, giocando a nascondersi tra i boschi sulla riva del Garigliano. Si faceva raggiungere però e ancora ansante per la corsa, si aggrappava disperatamente a lui mentre il giovane copriva di baci il suo collo e la sua faccia. Le già difficili occasioni di lavoro per Damiano però diventavano chimere irrangiugibili, in qualche modo la sua partecipazione alla difesa di Gaeta gli veniva imputata come una colpa. Erano continue piccole questioni, continui motteggi fino a veri e propri soprusi compiuti nei riguardi dei reduci sconfitti di un esercito senza onore. Da poco era nata la Giaurdia Nazionale ed erano questi i più assidui nei motteggi. Nella Guardia c’era anche un lontano cugino di Damiano e questo, anziché procurargli vantaggi, contribuiva, come spesso capita nei piccoli paesi, a ingigantire piccole questioni di cortile. Da queste parti si dice. Tu vuo’ vede’ nu strunzo? Miettece na coppola n’capa. Mettigli una divisa! Niente come una divisa esalta le peggiori qualità di un uomo. Così pian piano Damiano comincia a pensare che le cose non vanno bene, non è giusto come lui ed altri vengono trattati in paese dalle guardie. Insieme ad altri sbandati come lui comincia a battere le campagne e le colline.
Una costante di tutti i tempi quella degli eserciti di rendersi invasori di un paese senza capire nulla della sua cultura, magari anche con le migliori intenzioni, come quella di portare la “libbertà” senza che questa parola abbia un significato univoco vantaggioso per il popolo e comprensibile innanzitutto. I visi pallidi scesi dal nord non comprendevano la lingua che quei neri delle province meridionali parlavano, né facevano alcuno sforzo per comprenderla. Per loro era come aver a che fare con gli africani e come africani appunto trattavano i meridionali. L’improntitudine caratteristica degli eserciti e l’ignoranza delle usanze locali, provoca tutta una serie di incomprensioni che si tramutano piano piano in veri atti di guerra. Un esercito numeroso come quello napoletano sciolto senza paga, senza pensioni di invalidità per i numerosi feriti e invalidi. Non solo ma anche sottoposto a continue vessazioni e sfottimenti, come quella dei giornali satirici che paragonavano il soldato napoletano rappresentandolo con una testa di leone, gli ufficiali li rappresentavano con la testa d’asino e i generali senza testa. Grosso modo era vero, perché i soldati in qualche modo il loro dovere lo avevano fatto, i gradi superiori a volte invece sembrava che lavorassero per l’avversario e magari era proprio vero, perché la massoneria era d’accordo tutta nel favorire la sconfitta della dinastia borbonica. Il primo grande errore che fece l’esercito settentrionale fu quello di mandare a casa senza paga i soldati che però avessero accettassero il nuovo assetto delle cose. Quelli che non volevano giurare fedeltà, invece, li deportavano e ne deportarono a migliaia, costretti dopo a tenerli per anni nei loro carceri senza possibilità di rilascio fino alla morte. Questa notizia delle deportazioni trasformò decine di migliaia di reduci in potenziali insorti, o briganti come preferivano chiamarli. Errore fu quello di permettere solo agli ufficiali dell’esercito borbonico di mantenere grado e paga entrando nell’esercito piemontese. Errore perché agli occhi dei soldati che non avevano avuto lo stesso trattamento questi apparvero come dei traditori e ne aumentarono la voglia di vendetta. Inoltre quasi tutte le innovazioni che si videro furono causa di malumore e di crisi. L’abolizione delle dogane mandò in malora la nascente piccola industria del sud, con conseguente fallimento e aumento della disoccupazione. L’abolizione dei conventi e l’incameramento delle terre favorì il latifondo che comperò i terreni a poco prezzo, senza che si potesse attuare un minimo di riforma agraria. La svendita ai capitali inglesi delle privative per la costruzione di strade ferrate, per la compagnia del gas nelle città, strangolò ancora di più la società meridionale. Tutte queste cose erano giustificate dal forte debito del nuovo stato che aveva dovuto programmare una guerra e un armamento conseguente, partendo all’inizio dal piccolo Piemonte. Ora però doveva ancora affrontare il compito della costruzione di un’amministrazione centrale unica, di un solo esercito, di una marina e queste cose avevano un prezzo che pagarono le nuove province meridionali.
Nel mese di giugno del 1861 mentre si trovavano al lavoro nelle campagne, una volta tanto che avevano trovato da lavorare per qualche giorno nelle campagne di Cellole, dalla parte del pantano di Sessa, Damiano ebbe un diverbio acceso che poi degenerò in uno scontro a fuoco con la Guardia Nazionale di Sessa. Questo episodio lo costrinse alla fuga dal paese e a riparare nello stato del papa. Accompagnato come sempre dal suo amico e compagno di sventura Angelo Mallozzi, Damiano si porta a Roma dove viene ricevuto da Francesco II, al quale giura fedeltà, prendendo l’impegno di combattere per il ritorno sul trono del legittimo sovrano. Se ne tornano i due verso il confine del regno, con loro hanno due bei fucili Enfield P53 a canna rigata modernissimi e molte pallottole. L’Enfield il miglior fucile del mondo, usato dalla fanteria inglese, era anche stato usato dai garibaldini e con la sua capacità di tiro fino a circa 2 km era l’arma ideale per un cecchino. Avevano anche un bel sacchetto pieno dei dieci tornesi falsi coniati a Roma da Francesco. Falsi, proprio falsi non erano dato che Ulloa il ministro di Francesco aveva portato con se i veri conii della moneta, l’unica differenza era che erano coniati a Roma e non a Napoli ma per il resto sono perfetti. Sono eguali. Dovevano servire a finanziare qualche impresa, dato che ancora avevano corso nell’ex regno di Napoli, ora Regno d’Italia. Era in corso la complessa opera di conversione del denaro e per questo ci volle del tempo. Anche questa operazione perfettamente logica assunse il valore della vera e propria truffa, perché il nuovo stato cambiava la vecchia piastra di dodici carlini, quelle belle piastre d’argento che pesavano 27, 53 grammi, con una moneta da cinque lire che ne pesava 25. Era chiaro che molti contadini preferivano conservare le loro piastre per tempi migliori e non le consegnavano al cambiatore. Figuratevi! Nel regno di Napoli molti avevano conservato le piastre della repubblica Napoletana del 1799 e anche le piastre di Gioacchino Murat soltanto per affetto verso quei regimi, ora che avevano visto l’imbroglio che si voleva fare a loro danno, tanto più si tennero le piastre. Ne fecero magari quadri e quadretti con le piastre in bella vista, ne fecero collane per le loro donne, ne fecero tesoretti che conservarono in buche nel giardino, nei pozzi e nelle travi di soffitta, dove ogni tanto ancora oggi vengon fuori, ma non le consegnarono. Ma che ci fai con dieci tornesi, è comunque una moneta di rame, qui l’argento e l’oro ci vuole per fare delle cose. Va bene ci penseremo, poi a finanziarci, qualcosa troveremo. Damiano dobbiamo organizzare dei rapimenti, dei sequestri di persona, magari di qualche facoltoso borghese liberale, lo teniamo nascosto nei boschi e ci facciamo pagare il riscatto dai parenti. Si questa è l’unica strada. Ci penseremo. Intanto ci serve anche una banda di una certa importanza. Dobbiamo raccogliere tutti gli sbandati che conosciamo delle nostre parti e così armarli e iniziare a dare conto della nostra presenza. Questo non è difficile farlo perché erano molti i reduci sbandati e tanta la disoccupazione, le monete poi che i due usarono con larghezza stavano a dimostrare che non tutto era perduto e che ancora si poteva ribaltare una situazione nel regno. Ben presto attorno ai due si aduna una piccola combriccola tutta di minturnesi e comunque dei paesi vicini. Non tutti avevano abbandonato la vita normale, non tutti erano se si può dire entrati in clandestinità, partecipavano a qualche piccola azione la sera magari tornavano alle loro case. Del resto questa tecnica era stata già sperimentata molti anni addietro al tempo della venuta dei francesi e i giovani avevano ascoltato molte volte il racconto delle gesta dei loro nonni raccontate attorno al fuoco nelle sere d’inverno. Così organizzarono le prime gesta seguendo gli esempi antichi, andavano all’appostamento sulla via consolare, assaltando il procaccia, derubando qualche viaggiatore, sparando e uccidendo qualche soldato se una pattuglia isolata faceva per caso il cammino reale. Piccoli obiettivi, ma efficaci nel creare panico tra la popolazione civile e al tempo stesso preoccupazione nella forza militare. Gli eserciti in tutte le parti del mondo e in qualsiasi latitudine hanno sempre avuto grande difficoltà nell’affrontare la guerra di guerriglia, dove non hai da affrontare un nemico in campo aperto ma un avversario che sfugge e che si mimetizza perfettamente in un ambiente a lui congeniale. Il raggio di azione della piccola banda si trova tra il confine del regno pontificio e i monti aurunci.
Come brillantemente esposto da Damiano, la banda organizza alcuni sequestri di persona che riescono perfettamente allo scopo di finanziare le azioni. Non è facile organizzare un sequestro di persona. Occorre prima di tutto un’azione di intelligence, di infromazione. Bisogna scegliere il soggetto adatto che sia immediatamente solvibile, che sia ricco insomma e che questa ricchezza sia reale, non supposta come di tanti che fanno una vita dispendiosa al di sopra delle loro reali possibilità perché sono degli scialacquatori e che magari anche se avevano un patrimonio lo hanno sperperato in breve tempo ed ora sopravvivono con l’allure. Quindi una volta scelto il soggetto e anche due o tre, bisogna organizzare il pedinamento per capire le sue abitudini, come vive, chi frequenta, come insomma poterlo prendere senza eccessiva fatica e spargimento di sangue. Per questo sono utili quei componenti della banda che non sono fuorilegge e che vivono una vita normale nei loro paesei. A loro è demandato il compito di fare da basisti, da informatori. Dopo infine bisogna provvedere al rifugio dove tenere il sequestrato, che sia lontano da occhi indiscreti, ma che sia possibile raggiungerlo per recapitare viveri e quanto altro possa essere utile al mantenimento in vita del sequestrato. Si perche il sequestrato non deve morire, oddio questo può capitare, ma in teoria no. Deve poter tornare a casa, spaventato ma sano, contento di aver pagato il riscatto. Così può esser da monito per gli altri futuri sequestrati, se pagheranno senza ritardi la somma pattuita, non ci saranno problemi. La somma del riscatto deve essere ponderata bene perché se è troppo forte, metteranno la famiglia nelle condizioni di non poter pagare, costringendo loro ad adottare dei metodi brutali come tagliare un orecchio al sequestrato, o anche alla fine a ucciderlo. Tutto questo era nella testa di Damiano che si accingeva a iniziare la sua carriera nel campo dei sequestri. Ne portò a termine felicemente tre nel corso della sua attività. Il primo ad esser sequestrato fu Francesco Minutillo, che abitava nel piccolo borgo di Maranola, sulla collina che si erge alle spalle di Mola di Gaeta. Lo avevano studiato bene il suo percorso giornaliero e lo sorpresero che tornava di sera da un suo campo nei pressi di Maranola. Lo fecero scendere dal calesse su cui viaggiava e si presero anche il cavallo. Minutillo era un ricco borghese di campagna e la somma di mille ducati che venne chiesta alla sua famiglia era perfettamente nelle sue possibilità, ma dovettero prima strapazzarlo un poco perché non voleva sentire ragioni e rifiutava di scrivere alla sua famiglia di propria mano dando le istruzioni su come trovare la somma. Quando finalmente si convise che la banda faceva sul serio e che lo avrebbe certamente ucciso allora scrisse alla moglie, raccomandandole di prendere i denari dove lui li aveva messi e di consegnarli al latore della lettera. Il sequestrato era stato tenuto soltanto pochi giorni in una grotta sulla montagna. Non ci fu molto lavoro da fare per assicurare il vitto giornaliero e le consegne ai due componenti della banda che lo tennero in custodia. Mille ducati, Damiano non aveva mai neanche visto una somma simile e quando se li vide davanti in belle monete d’argento, quasi mille piastre, quasi quasi non ci credeva. Mille ducati che lui divise equamente, quasi cento ducati a testa, suo padre bracciante a tre carlini la giornata avrebbe dovuto lavorare almeno per due anni, per circa 180 giornate, ma quando le trovava 180 giornate di lavoro, diciamo almeno tre o quattro anni, per mettere insieme una somma simile. Mettere insieme ma quando mai, per metterla insieme cioè per risparmiarla non sarebbe bastata una vita. I primi cento ducati di suo guadagno, Damiano li divise tra la sua sposa Gemmetella e la sua famiglia. Poi ci fu il sequestro di don Francesco Cinquanta, speziale della terra di Castelforte, un buon uomo ma l’obiettivo era facile e sicuro. E ancora quello del loro concittadino Dionisio Sparagna di SS. Cosma e Damiano. In tutti i casi il rapimento ottiene un buon riscatto e si conclude senza spargimento di sangue. Il nome di Damiano comincia a incutere terrore nella zona, il suo carattere taciturno e la sua spietatezza gli guadagna presto il soprannome di Inferno. Con i soldi la vita diventa facile, si moltiplicano gli amici e si ritrovano i parenti, nei boschi si organizzano festini e gozzoviglie con vino e spiedi con maialini e cinghialetti. Non mancano le donne e anche la sua Gemmetella che l’arciprete della collegiata gli aveva fatto sposare segretamente, veniva periodicamente a trovarlo. Ogni tanto quando la caccia al cinghiale come aveva denominato la grassazione a spese di qualche viaggiatore straniero fermato e derubato, o costretto gentilmente a contribuire alla confraternita dei Santi Cosma e Damiano, nella carrozza che faceva servizio di posta sulla strada che da Portella, all’ingresso dell’ex regno porta fino a Napoli, aveva buon frutto, allora si spingeva magari fino all’osteria di S. Maria la piana a mangiare il famoso ragù del suo oste con i maccheroni fatti in casa dalla moglie. L’omertà era sovrana, come anche la paura di subire la vendetta della banda nel caso qualcuno avesse parlato. Si presentavano i due amici accompagnati dai alcuni dei loro sgherri, Piazzavano uno all’entrata di guardia e un altro sul retro a guardia anche dei cavalli ed entravano nella locanda. Regola vuole che il tavolo cui sedere abbia buona vista sulla porta d’ingresso e poi a quel tavolo è bene sedere con le spalle al muro in modo da avere almeno le spalle al sicuro. Una volta seduti i due ecco arrivare l’oste servizievole ad acconciare la tavole in meno di un attimo e a presentare la lista delle vivande da lui preparate. Siamo venuti soltanto per i tuoi maccheroni al ragù gli dice quasi affettuosamente Damiano e intanto ha già lanciato uno sguardo alla comitiva di viaggiatori che siede ad un tavolo nella locanda. Oste dice, mandami qualcuno a tagliare la più bella rosa del tuo giardino e falla portare in omaggio a quella signora che siede a quel tavolo. Il fiore posato davanti alla bella signora inglese, suscita un movimento di reazione da parte del suo accompagnatore che viene subito represso dall’espressione del cameriere e anche dallo sguardo che l’uomo ha lanciato d’attorno, realizzando subito di che pasta sia il galante. Del resto non è difficile capirlo, sia dalla atmosfera di timore che aleggia nell’aria, che dalle armi che spuntano dalla cintola dei due avventori. Accenna allora la bella signora con il suo capo biondo un ringraziamento ed un sorriso verso la testa ricciuta e la faccia impunita e scanzonata di Damiano. Non sembra affatto un brigante quel bel ragazzone, non assomiglia ai terribili figuri descritti sui giornali di viaggio dell’Inghilterra, con tanto di tromboni e stivali, la cui lettura faceva dolcemente rabbrividire e anche sognare di un loro incontro tutte le testoline bionde d’Oltremanica nei loro avventurosi (molto poco ormai) viaggi nel sud della penisola. Del resto la figura avvenente di Damiano gli aveva permesso una volta, travestito da pacchiana di andare in paese fino alla casa della sua donna e di non essere riconsociunto da nessuno. Comunque anche se qualcuno lo avesse incontrato e riconosciuto difficilmente avrebbe parlato. Gemmetella in paese era riverita e ossequiata quando usciva per il paese, nel suo bel vestito di pacchiana. carica di cannacchi e scioccagli come la statua della Madonna delle Grazie che si porta in processione. Il 14 agosto del 1861 l’esercito italiano reagisce ad un attentato da parte di un abanda di briganti con la messa a ferro e fuoco di un intero paese, è quello che sarà chiamato poi l’eccidio di Casalduni con centinaia di vittime. Questa vera e propria azione di guerra provocò una reazione molto forte facendo incrudelire la lotta delle bande.
Nel mese di gennaio 1862 la bandadi Damiano partecipa ad un’azione di appostamento nei pressi del ponte borbonico di Sessa, all’ingresso della città, contro un plotone di lancieri a cavallo. L’agguato ben disposto e meglio eseguito provoca l’uccisione di sedici lancieri senza nessuna vittima nei ranghi degli insorti. La banda si era appostata dietro il muretto del semicerchio e aveva sparato a colpo sicuro sul plotone che scendeva da Sessa verso la consolare. Subito dopo l’attentato si erano dispersi nei boschi del rio Travata, dandosi appuntamento in luogo sicuro. Più che altro Damiano preferiva agire da solo, in piccole azioni di disturbo, che facevano danni ed erano relativamente sicure per se ed i suoi. Non gli piaceva concentrare le sue forze con quelle di altri capi banda per tentare azioni più clamorose. Soltanto in un caso contravvenne a questa sua regola, quando si aggregò temporaneamente alla banda di Francesco Piazza di Ittri, il famoso Curcitto. Con questo combatte contro i regolari dell’esercito italiano la battaglia detta di Fossa della Neve sulle montagne che si ergono tra Mola e Itri, il primo di luglio 1862. Ma l’esperienza di dover stare alle dipendenze di un altro capo non gli piacque e se ne tornò alle azioni solitarie. Del resto lui che era stato soldato conosceva la potenza di uno schieramento regolare in campo aperto e sapeva di non poter competere. Il suo raggio di azione era limitato alla piana di Sessa e di Traetto, in questa zona conosceva a perfezione come mimetizzarsi e come scappare, attraverso i sentieri di montagna fino ad un sicuro rifugio. Le montagne e i boschi di questa zona sembravano fatti apposta per permettere dei rapidi ed efficaci colpi di mano. I monti aurunci erano dominati dal massiccio di monte Petrella, il monte più alto della piccola catena con i suoi 1500 metri, da qui attraverso rupi scoscese e veri e propri precipizi si giungeva alla valle dell’Ausente e si poteva anche proseguire, montagna montagna, fino al Garigliano, attraversando i monti Vescini, più bassi certo e con pendii meno aspri, come monte Maio e monte Fuga, ma che intanto offrivano protezione. Damiano aveva fatto di Campo di Venza il suo rifugio preferito. Attraverso un antico sentiero da Roccaguglielma si poteva raggiungere una spianata, dove c’erano ancora uliveti ricavati sulle terrazze costruite dalla paziente opera dei contadini nel corso dei secoli nei canaloni del versante orientale di monte Finitizia. Poi iniziavano boschi di castagni secolari, con piante enormi che a volte avevano un diametro anche di quattro metri, boschi comodi per ripararsi dagli sguardi indiscreti. Di qui attraverso una faggeta si saliva ancora fino a una seconda spianata detta di Guado del Faggeto sulle pendici di monte Forte e monte Cavecce a una quota di mille metri. Qui c’è la Fossa Juanna detta anche delle streghe, che secondo il popolino ogni anno si riuniscono nella faggeta. E poi ancora salendo si giunge ad un altopiano che è chiamato Campo di Venza, il più alto di tutti. Il pianoro termina nella sella incassata di Serra di Campo che si apre tra il monte Belvedere e il monte Coculo. Da qui si domina la valle di Polleca, mentre sullo sfondo si vedono monte Petrella e monte Revole. Alcune capanne di pastori, le mannere, costruite con pareti di pietra e un tetto di paglia servivano come ricovero di pastori che portavano capre e anche vacche ai pascoli estivi. Questo sua segreto rifugio servì per i sequestri di persona fatti da Damiano che usava le molte grotte carsiche esistenti nella zona per nascondere il sequestrato. Per molto tempo il suo rifugio venne tenuto segreto ma poi alla fine l’esercito riusci a capire dove si nascondesse e con un’azione coordinata di accerchiamento riuscì nell’estate del 1863 a respingere la banda dalle campagne di Traetto sempre più in alto, mentre contemporaneamente vari contingenti di soldati convergevano sul Campo di Venza salendo da Maranola, da Itri e da Roccaguglielma, chiudendo in pratica tutti gli accessi e impedendo la fuga.
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

Un saluto a Pietro ed a Gianni, splendidi ed avvincenti come sempre gli interevnti dei nostri due GRANDI amici ed esperti :clap: :clap: :clap: :clap: un grazie di cuore per quello che riuscite a trasmettere a tutti noi Ciao: Ciao: :abb:
Giuseppe
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Napoli, 16 settembre 1860
Copia del decreto dittatoriale, con il quale Garibaldi, a pochi giorni dal suo ingresso in Napoli, dispone la riapertura degli scavi di Pompei.
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Pompei: La denuncia di Garibaldi: troppo degrado negli Scavi


Ritrovata una lettera del 1860: cinquemila scudi per i lavori.
di Susy Malafronte Il Mattino



Nel settembre del 1860 Giuseppe Garibaldi visitò gli Scavi «miseramente abbandonati» e decretò: «siano consacrati cinquemila scudi annui» perché, sottolineava l’eroe dei due mondi, «la nostra rivoluzione deve essere veramente italiana cioè degna della patria delle arti e degli studi». Nel luglio 2008 il governo ha dichiarato l'area archeologica pompeiana «in emergenza degrado», nominando un commissario straordinario, Renato Profili, con a disposizione un fondo di quaranta milioni di euro per il risanamento. A distanza di un secolo e mezzo la città sepolta, dunque, ha bisogno ancora di una attenzione speciale. All'epoca dell'unificazione d'Italia, nel 1860, solo 22 ettari, circa un terzo del sito, erano stati scoperti. I primi scavi, per riportare alla luce la città di epoca romana, consistevano in realtà in vere e proprie «cacce al tesoro» che servivano a riportare alla luce reperti che poi sarebbero finiti nei musei europei. Questo fino dal 1763, quando la scoperta di un'iscrizione portò all'identificazione sicura delle rovine come quella dell'antica città di Pompei. Una delle prime importanti domus a essere scavata, tra il 1853 e il 1869, fu la «Casa del Citarista». Oggi gli ettari scavati sono 44 sui 66 complessivi. E i problemi di gestione restano. Ma il 16 settembre 1860 Garibaldi scriveva: «Visto che gli scavi di Pompei sono miseramente abbandonati da più mesi con dolore del mondo studioso e con danno delle popolazioni circostanti, considerando che la nostra rivoluzione deve essere veramente italiana, cioè degna della patria delle arti e degli studi, decreta che agli scavi di Pompei, proprietà nazionale, sono consacrati cinquemila scudi annui, ed i lavori debbono essere immediatamente ripresi. I ministri delle Finanze e dei Lavori Pubblici faranno eseguire, per quanto spetta a ciascuno, il presente decreto». «Tale decreto - spiega Luigi Donnarumma, il collezionista che, dopo minuziose ricerche, è entrato in possesso dell'importante documento e delle foto storiche che immortalano la visita agli Scavi di Garibaldi - permise il proseguimento dei lavori di scavo della zona archeologica». Successivamente alla firma del decreto, il 25 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi e il figlio visitarono l’area archeologica di Pompei. Il fotografo napoletano, Giorgio Sommer, incaricato a quel tempo dal governo di effettuare un servizio sulla città romana che stava venendo alla luce, pregò il generale Turr di dire a Garibaldi di fermarsi per uno scatto. Garibaldi acconsentì. Nel 1869, invece, fu Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, a visitare gli scavi di Pompei. Il Savoia rimase affascinato dalla città sepolta che finalmente veniva riportata alla luce e come segno tangibile del proprio «compiacimento volle destinare ai lavori di scavo un fondo suppletivo di trentamila lire, prelevato dalla dotazione della Corona». Il re nominò, anche, il primo direttore degli Scavi di Pompei: Giuseppe Fiorelli, professore di archeologia all'università di Napoli.
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Il Messaggero 09/11/2010

Alexander Dumas e lo sconfinato amore per l’antica Pompei


di Maurizio Scaparro


Alexandre Dumas, nella primavera del 1860, aveva 58 anni. A bordo della goletta “Emma”, sulla quale aveva imbarcato, oltre al capitano e agli uomini dell’equipaggio, la sua giovane amante, Emilie Cordier, precedette di poco i Mille di Garibaldi a Napoli, con l’intenzione di scrivere, sull’impresa dell’Eroe dei Due Mondi, alcuni articoli per il giornale francese La Presse.In un primo tempo, la sua intenzione era stata quella di incontrare Garibaldi a Genova, ma poi, venendo a sapere dell’insurrezione di Palermo e dell’ascesa dei Mille verso Napoli, aveva cambiato rotta. Il diario di bordo, o di guerra, scritto da Dumas in quell’occasione è confluito nell’opera “Les Garibaldiens: Revolution de Sicile et de Naples”, del 1861. Che consta delle lettere inviate dallo scrittore a La Presse e degli scritti compilati fin dall’inizio del viaggio. Si tratta del primo libro di un corrispondente di guerra moderno. La spedizione dei Mille viene definita «l’avventura siciliana di Garibaldi» e narrata in modo vivido, competente, interessante. Non a caso Dumas, per ben quattro anni, si consacrò al generale e alle sue gesta italiane. Mi sto occupando dei “Garibaldiens” per uno spettacolo dedicato a celebrare i 150 anni dell’Unità del Paese. Si chiamerà “Il sogno dei Mille”. In esso c’è il Dumas innamorato dell’Italia. Proprio in questi giorni di “disastri pompeiani”, di fronte a un’area archeologica di valore inestimabile che può essere sì gestita anche come un luogo di spettacolo, ma non soprattutto, è lui a farsi vivo con prepotenza. Dumas ci insegna che l’antica Pompei andrebbe innanzitutto amata. Per una incredibile coincidenza lo scrittore, incontrando finalmente Garibaldi a Napoli, ebbe dal generale, assieme al tu confidenziale, l’incarico di responsabile degli scavi, oltreché dei musei napoletani. Gli aveva infatti confessato di inseguire un sogno: vivere nella città del Vesuvio e occuparsi dei suoi tesori. «Era la prima volta che il Generale mi dava del tu troviamo annotato nei “Garibaldiens” . Mi gettai nelle sue braccia piangendo di gioia. «Basta» disse Garibaldi «Non c’è tempo da perdere. I nostri scavi e un permesso di caccia per Dumas!».Si rivolgeva al responsabile di turno, Don Liborio, al quale fece preparare e firmare un decreto con la nomina dello scrittore a sovrintendente dei Musei cittadini e degli scavi di Pompei. Dumas fu quindi accompagnato a Palazzo Chiatamone, dove era stata fissata la sua residenza. Non ho bisogno di sottolineare ulteriormente l’ammirazione e il rispetto con i quali il Francese aveva confessato il proprio “sogno” all’eroe vittorioso, ricevendo da lui piena corrispondenza e soddisfazione.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Carmine Crocco detto “Donatello”, il Generale dei Briganti
da : http://www.foggiatoday.it
Uno dei più noti briganti all'epoca del Risorgimento. Abile e temuto fuorilegge, per alcuni era un ladro e un assassino, per altri semplicemente un eroe



Carmine Crocco, detto Donatello o Donatelli, è stato uno dei più noti briganti italiani all’epoca del Risorgimento. Nato in Basilicata a Rionero in Vulture nel 1830, morì in Toscana a Portoferraio agli inizi del Novecento a 75 anni.

Fu il capo delle bande del Vulture-Melfese, ma il suo potere si estese anche in Capitanata e in Irpinia. Da bracciante agricolo divenne dapprima militare borbonico, poi si diede alla macchia e combatté per Giuseppe Garibaldi. Fino a diventare comandante di un esercito di duemila uomini e protagonista della guerriglia antisabauda.

Crocco era ritenuto un abile e temuto fuorilegge, tant’è che su di lui pendeva una taglia di ben 20mila lire. Si guadagnò gli appellativi di “Generale dei Briganti”, "Napoleone dei Briganti" oppure “Generalissimo".

Sul suo conto ci sono pareri contrastanti. Per alcuni resta soltanto un ladro e un assassino, per altri un eroe popolare. Quando veniva trasferito da una struttura carceraria all’altra, la gente accorreva numerosa per poterlo osservare da vicino.

INFANZIA - Probabilmente il destino feroce di Carmine Crocco fu segnato nel 1836, quando, ancora bambino, assistette ad una vicenda poco carina.

Il fratello Donato uccise con un randello un cane levriero che pochi istanti prima era entrato in casa uccidendo un coniglio. Il padrone, tale don Vincenzo, vedendo la bestia esamine a ridosso dell’abitazione dei Crocco, aggredì con un frustino Donato. Nel tentativo di difenderlo, la madre, incinta di cinque mese, subì un calcio al ventre e abortì.

Pochi giorni dopo Don Vincenzo fu minacciato di morte con un fucile, si presentò dal giudice e accusò il padre di Carmine e Donatello. Ma in realtà due anni dopo si scopri che fu un anziano del posto a compiere il tentato omicidio.

Avvilita e depressa per la perdita del bimbo in grembo, la mamma impazzì e fu rinchiusa in un manicomio.

L’OMICIDIO CARLI - Da ragazzo fece il pastore in Puglia. Ritornò a Rionero tra mille problemi. Strinse amicizia con Don Ferdinando, figlio di Don Vincenzo, il quale si mise a disposizione pur di rimediare agli errori del padre, ma nel 1848 morì trucidato dai soldati svizzeri.

Crocco si arruolò nell’esercito di Ferdinando II e si diede alla fuga dopo aver ucciso a coltellate Don Peppino Carli, un uomo che si era invaghito della sorella. Si rifugiò nel bosco di Forenza, dove conobbe numerosi fuorilegge. Tornato a Rionero, fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere. Il 13 dicembre 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi nei boschi di Monticchio.

L’ARRESTO E LA NUOVA EVASIONE - Nella speranza di un’amnistia aderì ai moti liberali del 1860 unendosi agli insorti lucani, seguendo Garibaldi fino al suo ingresso a Napoli e partecipando ai diversi conflitti garibaldini, tra cui la celebre battaglia del Volturno. Crocco però non ricevette la grazie e fu arrestato.

Tentò nuovamente la fuga dal carcere, ma fu bloccato a Cerignola. Al secondo tentativo riuscì a scappare e a rifugiarsi nei boschi del Vulture. Deluso dalla promessa non mantenuta, fu approcciato da membri di comitati filoborbonici che gli diedero l'opportunità di riscattarsi, di diventare il capo dell'insurrezione legittimista contro lo stato Italiano appena unificato, offrendogli un solido supporto di uomini, soldi e armi.

Crocco decise così di passare alla causa di Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie che subentrò al padre Ferdinando II dopo la sua morte.

LA RIVOLTA ANTISABAUDA - A questo punto, approfittando della miseria in cui viveva il popolo lucano, divenne il comandante di 43 bande e al servizio di Francesco II comandò la rivolta antisabauda.

L'espansione di Crocco riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche all'appoggio del suo subalterno Giuseppe "Sparviero" Schiavone di Sant'Agata di Puglia, occupando la stessa Sant'Agata, Bovino e Terra di Bari. Nell'agosto 1861, Crocco decise improvvisamente di sciogliere le proprie bande, intenzionato a trattare con il nuovo governo.

Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui ed informò il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re a Napoli, riguardo alle trattative di resa del brigante. Questi però incaricò di dire che sarebbero stati ricompensati quelli che avrebbero reso dei servigi, ma non avrebbe accordato la grazia piena a nessuno.

IL TRADIMENTO DI CARUSO, L’ARRESTO E LA MORTE – Dopo tante battaglie, l’esercito di Crocco, che ormai era riuscito ad occupare anche la Capitanata e l’Irpinia, si indebolì con il tradimento di uno dei suoi fedelissimi: il brigante Caruso che rivelò piani e nascondigli di “Donatello” al generale Fontana. Fu catturato dai militari del Papa a Veroli. Fu condannato a morte l’11 settembre del 1872, ma la pena fu commutata nei lavori forzati. Morì il 18 giugno del 1905.

GLI AMORI - Oltre alla già citata relazione con la brigantessa Filomena Pennacchio, Crocco fu legato inizialmente ad una donna chiamata Olimpia. In seguito, quando divenne comandante di un proprio esercito di rivoluzionari, ebbe una relazione con Maria Giovanna Tito, conosciuta quando la brigantessa si aggregò alla sua banda.

Da allora lo seguì fedelmente, rompendo la relazione di Crocco con Olimpia, la quale instaurò in seguito un rapporto di convivenza con Luigi Alonzi detto "Chiavone", brigante della provincia di Frosinone.

La Tito poi fu abbandonata dal capobrigante, che si era invaghito della vivandiera della banda di Agostino Sacchitiello, luogotenente di Crocco di Sant'Agata di Puglia. Nonostante la fine della loro relazione, Maria Giovanna continuò ad operare sotto le dipendenze di Crocco, fino al 1864, quando fu arrestata.
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gianni tramaglino
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FILOMENA PENNACCHIO: CON RABBIA E CON AMORE

di: Maria R. Calderoni - da: Liberazione martedì 23 luglio 2002




Maria Giovanna Tito, Maria Lucia Dinella, Maria Rosa Marinelli, Filomena Cianciarulo, Reginalda Rosa Cariello, Filomena Di Pote, Marianna Oliverio, Giuseppina Vitale, Arcangela Cotugno, Elisabetta Blasucci, Serafina Ciminelli, Maria Capitanio, Carolina Casale, Giocondina Marino, Teresa Ciminelli, Angela Maria Consiglio, Michelina De Cesare, Maria Maddalena De Lellis detta Padovella, Marianna Petulli: questi i nomi delle più note (non tutte) donne-brigante passate alla storia, le cui biografie (ivi compresa quella di Filomena Pennacchio) sono raccontate nel libro di Maurizio Restivo, "Ritratti di brigantesse" (Lacaita editore, 1997). "Quella delle brigantesse è la storia, come è stato giustamente sottolineato, "al femminile", di un Sud segreto e selvaggio, una storia di rabbia ed amore". Era bellissima. La descrizione più precisa ce l’ha tramandata tal sergente Sista, che la ebbe sott’occhio durante il processo: snella, carnagione olivastra, occhi scintillanti, capelli corvini e ricci, ciglia folte, labbra turgide, profilo greco. Bellissima, corteggiatissima, poverissima. Quella che doveva diventare la Brigantessa dell’Irpinia, una specie di amazzone rusticana temuta quanto amata, al secolo Filomena Pennacchio, nasce il 6 novembre 1841 a Sossio Baronia, distretto di Ariano Irpino, da Giuseppe di professione macellaio e da Vincenza Bucci, entrambi analfabeti. Una famiglia in miseria fonda e Filomena già da piccola comincia a sgobbare, fa la servetta e la ragazza di fatica nella casa di ricchi proprietari terrieri della zona. E’ splendida e in tanti le ronzano intorno, ma l’incontro fatale avviene un giorno di primavera, anno 1861, nella campagna di contrada Civita, dove lei sta lavorando: è quello con Giuseppe Schiavone, il ragazzo di 23 anni che è già un brigante conosciuto in tutta la zona e che si è dato alla macchia per evitare la leva militare. E’ amor fu , il colpo di fulmine: appena pochi mesi, e lei è già fuggita col bandito, dopo aver venduto, per 39 ducati, tutto ciò che possiede, beni e casa compresi, iniziando subito una nuova vita di brigantessa al fianco del suo uomo.

Armi in pugno

A cavallo, vestita da uomo, col fucile a tracolla, Filomena non è solo la donna del bandito - la sua druda, come la chiamano i resoconti della polizia - ma è una guerrigliera in prima persona: partecipa alle razzie, tende imboscate, fa a schioppettate con le guardie piemontesi. Non è solo la donna del capo: bella, coraggiosa, ardita, coraggiosa gli uomini della banda la ammirano e "hanno per lei cura e rispetto inimmaginabili per dei briganti". Ha ventun anni appena compiuti quando mette a segno il suo primo colpo: una spedizione punitiva in un podere di Migliano presso Trevico contro Lucia Cataldo, rea di non aver consegnato a Schiavone il denaro e gli oggetti d’oro che il bandito le aveva ingiunto di devolvere con tanto di biglietto scritto e firmato. Alla testa degli uomini Filomena irrompe, si impossessa di un bue della inadempiente, lo sgozza davanti ai suoi occhi e se ne fugge via, punizione eseguita. Da allora sono tanti i reati legati al suo nome; gli atti processuali ne forniscono un lungo elenco, sequestri, incendi, razzie, aggressioni. Come dice il tribunale di guerra di Avellino che nel 1870 la processerà e condannerà, lei è appunto la Filomena Pennacchio che "associandosi nell’agosto 1862 alla banda comandata dal famigerato capobrigante Giuseppe Schiavone ora fucilato, del quale divenne pure la druda, e col quale pure avrebbe scorso le pubbliche vie e le campagne commettendo crimini e delitti". Mesi cruenti, lei non si tira mai indietro, masserie, case padronali, possidenti patiscono le sue irruzioni, qualche ricco è preso, legato e sequestrato dentro grotte e nascondigli fra i boschi, a scopo di riscatto, pena la vita. Ha imparato a manovrare il fucile, Filomena, e, insieme agli uomini, non si sottrae nemmeno allo scontro coi soldati dell’odiato esercito piemontese. Accade il 4 luglio 1863, in località Sferracavallo, sulla consolare che da Napoli conduce a Campobasso, quando la 1a Compagnia del 45mo fanteria si imbatte nella grossa banda che per l’occasione vede riuniti i briganti di Schiavone, Michele Caruso e Teodoro Ricciardelli, oltre 60 uomini: sul terreno restano dieci soldati, un eccidio. Filomena la Spietata, ma anche la Soccorritrice: narrano che non raramente sfida la sorte per dare conforto, medicare feriti, concedere possibilità di scampo a qualche malcapitato, briganta a suo modo generosa. Affascinante, appassionata, spavalda; corre voce che per lei hanno perso la testa anche altri banditi importanti, per esempio Caruso, Crocco, Ninco Nanco, Donato Tortora; corre voce che lei non è restia a concedere a più d’uno i suoi favori, non è sicuro. E’ sicuro invece che il terribile Schiavone, il capobrigante cui i soldati danno la caccia in tutta la regione e che per lei ha abbandonato l’amante Rosa Giuliani, è perdutamente innamorato della ragazza di Sossio Baronia. Amore e morte, il dramma sta per consumarsi tra i guerriglieri dei boschi. Rosa Giuliani non perdona affatto il tradimento; divorata dalla gelosia per vendetta passa alla delazione: è lei a denunciare al delegato di Candela che "Schiavone, col capobanda Petrelli di Deliceto, e coi briganti Marcello, Rendina e Capuano, si sarebbero nascosti nella masseria Vassallo la notte tra il 25 e il 26 novembre 1864". E’ la fine. I soldati a colpo sicuro piombano sui banditi e li sorprendono tutti e cinque, arrestati vengono tradotti incatenati a Melfi e qui sono fucilati, in località Morticelli, la mattina del 28 novembre.

L’ultimo bacio

Filomena non era con loro la notte dell’agguato: prossima a partorire è infatti nascosta a Melfi, in una casa sicura, quella della levatrice, Angela Battista Prato. Prima di essere passato per le armi, Schiavone (che ha appena 36 anni) chiede e ottiene di poterla vedere per l’ultima volta. "Alla vista della Pennacchio si inginocchiò, le baciò i capelli, le mani, i piedi e chiedendole perdono la strinse fra le sue braccia e le scoccò l’ultimo bacio d’amore". Anche per Filomena è però venuto il momento della resa dei conti e dell’espiazione. Tratta in arresto - ad opera del maggiore Rossi del 29mo Battaglione bersaglieri, dicono le cronache - la temibile brigantessa, rimasta sola, disperata per la morte del suo uomo, imbocca la via del pentitismo, collabora, come si dice; e sono le sue informazioni, dicono le cronache, a permettere la cattura di caporal Agostino (Agostino Sacchietiello) e della sua banda, ivi comprese due brigantesse già sue amiche e socie, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito, la donna del "generale" Crocco. Condotta davanti al tribunale di guerra, con sentenza del 30 giugno 1865 Filomena è condannata a venti anni di lavori forzati. Poi ridotti a nove e poi a sette, con regio decreto in data 6 marzo 1870. Da allora, della Brigantessa irpina non si è mai più saputo nulla.
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La gloriosa famiglia Marulli

Generale conte e barone Don Gennaro Marulli (Napoli, 16.3.1808 - Napoli, 25.12.1880)


Era figlio del generale Don Trojano, conte del S.R.I., nobile di Barletta e di Bologna, patrizio di Firenze e di Donna Maria Marulli dei conti di Casamassima, appartenente ad un altro ramo della sua stessa famiglia.
Suo fratello era il famoso avvocato e scrittore Don Giacomo, che il Re Ferdinando chiamava affettuosamente - ma non senza una nota di biasimo - “Don Giacomo paglietta”. Infatti le categorie umane che Don Ferdinando amava di meno al mondo, dopo i liberali, erano proprio gli avvocati, che lui chiamava pagliette, e i pubblicisti, che definiva, con ironico disprezzo, pennaruli.
Don Gennaro aveva sposato Donna Maria Concetta Santasilia dei marchesi di Torpino. La sua carriera militare cominciò presto: nel 1829 era già I tenente dei Cacciatori della Guardia. Nel 1845 fu promosso capitano; l'anno successivo dette alle stampe un pregevolissimo volume storico dal titolo "Ragguagli storici sul Regno delle Due Sicilie dall'epoca della francese rivolta fino al 1815": un’opera di più di duemila pagine con cui Don Gennaro raccontò, con notevole imparzialità, quegli accadimenti militari. Nel 1848 partecipò direttamente agli scontri che il 15 maggio accaddero nella capitale, dando prova di essere un valoroso soldato. Appassionato cultore di storia militare collaborò con i fratelli Ulloa all'Antologia Militare: sono tutte sue le didascalie che accompagnano il lavoro di Zezon sui figurini militari. Nel 1856 ebbe la promozione a maggiore. Nel 1859, Don Francesco - che aveva, come Suo Padre, una profonda stima per il conte – quando salì al Trono, gli affidò il comando del 9° Reggimento Fanteria di linea "Puglia", di stanza a Palermo. Il 1 maggio 1860 fu promosso colonnello. Il 27 maggio, quando Garibaldi assalì la città, toccò a Don Gennaro ed ai suoi uomini reggere il primo urto e difendere Porta Maqueda. Alla testa del suo Reggimento, Don Gennaro si gettò contro il nemico con coraggio, combattendo come un leone fino a che, già ferito, non fu colpito ad una spalla da un proiettile che lo mise definitivamente fuori combattimento. Per premiare il suo coraggio, il Re conferì al conte l’onorificenza di grande ufficiale del Reale e Militare Ordine di San Giorgio della Riunione, con una pensione di 100 ducati.
Trasportato a Napoli per le cure, ancora dolorante volle rientrare immediatamente in servizio. A Capua, il 6 settembre, Don Gennaro era al suo posto. Nella battaglia del Volturno il maresciallo Ritucci gli affidò un’intera brigata della divisione della Guardia Reale, composta dal I e II Reggimento Granatieri della Guardia e dalla I Batteria. All'attacco di Santa Maria, a causa dell'errore del D'Orgemont - che attaccò il nemico dal lato sinistro anziché dal destro - e per la difficoltà dei corpi della Guardia di avanzare in ordine aperto, la Brigata, dopo aspri combattimenti e falciata dalla mitraglia sarda, indietreggiò nonostante il colonnello, con il suo braccio fasciato, incitasse eroicamente in ogni modo alla resistenza i suoi dipendenti, gettandosi lui stesso nella mischia. Ad un certo punto, a dare manforte al conte ed incoraggiare i soldati, giunsero sul campo di battaglia addirittura il Re Francesco in persona insieme ai Suoi fratelli.
Promosso brigadiere, maggiore e poi tenente generale, fu nominato Sottogovernatore e poi Governatore della fortezza di Gaeta assediata; furono compiti gravosi che assolse con fedeltà ed abnegazione, dimostrando di meritare, giorno per giorno, la stima che i Sovrani avevano nei suoi confronti. In quel periodo il Re si tratteneva spesso in lunghi colloqui privati con il Generale, discorrendo non solo di questioni militari, ma anche di tematiche metafisiche e religiose; infatti, come il Sovrano, anche Don Gennaro, che come i suoi avi era cavaliere di Malta, era un fervente cattolico.
Successivamente l’Imperatore Don Francesco Giuseppe d'Austria, volendo dare un segno della propria stima a questo coraggiosissimo soldato, conferì al generale conte Don Gennaro “von” Marulli il titolo nobiliare di barone. Dopo la resa, fu fatto prigioniero e deportato a Genova; quando fu liberato, tornato nell’ex Regno, si ritirò a vita privata, vivendo in maniera molto semplice e riservata. Portava sempre però, sopra di un semplice abito borghese, la medaglia a ricordo della difesa di Gaeta, appuntatagli personalmente da Re Francesco. Rifiutò sempre ogni compromesso con il nuovo regime, che pure fece di tutto per convincerlo ad entrare nei ranghi del nuovo esercito offrendogli onori e cariche. Pagò la sua fedeltà subendo un violento agguato da un gruppo di sconosciuti armati che tentarono di ucciderlo, mentre rincasava in pieno giorno, e da cui poté difendersi utilizzando solamente il suo bastone da passeggio. Ferito gravemente da quei malviventi, sopravvissuto perché ritenuto morto, riuscì poi lentamente a riprendersi, trascorrendo il periodo della convalescenza, al sicuro, nel castello di Turi dei suoi cugini marchesi Venusio.
Nel 1874 perse il suo amatissimo primogenito Trojano, morto combattendo per i legittimisti Carlisti a Igualda in Spagna. Finché visse fu sempre un punto di riferimento morale per tutti coloro che auspicavano il ritorno del Re e morì senza aver mai rinnegato la Patria perduta.

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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La gloriosa famiglia Marulli

Principe Don Carlo Marulli duca di San Cesario (Napoli 1.11.1829 - Napoli 7.5.1877)




Apparteneva alla linea del ramo di San Cesario della famiglia dei principi Marulli, decorata il 19 marzo 1734 del titolo di principe del S. R. I., da Don Carlo VI d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero. Famiglia cosiddetta “di San Gennaro” ovvero appartenente al novero di quelle famiglie nobilissime del Regno delle quali i primogeniti dei vari rami erano insigniti della prestigiosissima Croce dell’Insigne e Reale Ordine di San Gennaro. Tale onorificenza, alla morte del suo titolare, veniva riconsegnata dal primo figlio maschio nelle mani del Re, il quale poteva, successivamente, decidere se conferirla di nuovo, decorando il nuovo capo della Casata o trattenerla; eventualità, quest’ultima che mai si verificò in Casa Marulli. Don Carlo era figlio del principe Don Gennaro, cavaliere di San Gennaro, il quale era Gentiluomo di Camera con entrata, Cavaliere di Compagnia di Sua Maestà il Re delle Due Sicilie ed era cugino del principe Don Sebastiano Marulli d’Ascoli, cavaliere di San Gennaro e Somigliere del Corpo. Aveva sposato Donna Maria Doria dei principi d’Angri; una delle sue sorelle, Donna Maria Giulia, aveva sposato il principe Don Michele de’ Medici d’Ottajano; l’altra, Maria Laura, aveva sposato il patrizio genovese principe Don Marcantonio Doria d’Angri. Don Carlo, che era Gentiluomo di Corte, fu deputato della Suprema Magistratura della Salute di Napoli e presidente del Consiglio provinciale di Terra d’Otranto, territorio in cui si trovava la maggior parte dei feudi della sua famiglia. Fu devotissimo ai Borbone: seguì i Sovrani prima a Gaeta e poi nell’esilio romano. Per la sua fedeltà, nel 1861, fu decorato dell’Ordine di San Gennaro. Memorabile, durante l’esilio romano, fu il duello che ebbe con Don Ludovico Guglielmo di Wittelsbach duca in Baviera, fratello della Regina Maria Sofia: la madre di Don Carlo, la principessa Francesca - la Dama di Compagnia più ascoltata dalla Regina e dalla stessa definita “una seconda Madre” - aveva fatto di tutto per convincere Donna Maria Sofia affinché tornasse dalla Baviera a Roma dal Marito, nella speranza che nascesse un Erede. Per questo rimproverò aspramente il di Lei fratello duca di Baviera che invece tramava in senso opposto; questi, offeso per le energiche critiche ricevute, ne sfidò il figlio a duello al primo sangue. Don Carlo partecipò anche al fallito tentativo di rivolta generale che sarebbe dovuto scoppiare in Abruzzo nell’inverno 1861. Dopo il 1870 ritornò nei confini dell’ex Regno, dove visse fra il suo palazzo di Lecce e quello di San Cesario, raccogliendo intorno a sé gli aristocratici salentini che cospiravano per la restaurazione del Regno. In questo periodo diede fondo a quasi tutto il suo patrimonio per finanziare in tutti i modi la guerriglia reazionaria, sostenere le vedove e gli orfani dei caduti e mantenere gli esuli. In quel periodo, era sua caratteristica abitudine portare, sopra un pittoresco abito da caccia, una bombetta con al centro il giglio dorato dei Borbone.
Morì senza mai aver rinnegato i legittimi Sovrani e i di lui discendenti, fino alla fine della monarchia sabauda, sempre rifiutarono di accettare qualunque incarico nella nuova Corte

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

QUANDO UN BORBONE RACCONTA DI UN ALTRO BORBONE



Francesco II delle Due Sicilie: un vero Re, un vero Napoletano, un vero Borbone

di

Carlo di Borbone Principe delle Due Sicilie e Duca di Castro


“Io sono napoletano, nato in mezzo a voi, io non ho respirato altra aria, non ho veduto altri Paesi. Ogni mio affetto è riposto nel Regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia […].
Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità”.
Sono le parole di Francesco II di Borbone pochi giorni prima della fine del Regno.
E quelle parole spiegano bene come era forte il legame tra Francesco II e la sua terra e perché ancora oggi è forte il mio legame con Francesco II di Borbone, l’ultimo Re del Regno delle Due Sicilie.
“Non vi resteranno neanche gli occhi per piangere”, profetizzò Re Francesco lasciando la sua reggia e la sua capitale il giorno prima dell’arrivo di Garibaldi e, forse, non aveva torto, considerando quello che il suo ex Regno fu costretto ed è costretto a sopportare dal passato al presente.
Francesco II, per pochi mesi, governò nel segno di una dinastia che seppe fare grandi Napoli e il Sud dell’Italia fin dal 1734.
Gli interventi per l’assistenza ai poveri, la costruzione e l’ampliamento di ospedali, le bonifiche, la scuola di diritto internazionale, i progetti per la diffusione delle ferrovie, i decreti per la valorizzazione delle industrie e dell’economia.
Sua madre Maria Cristina di Savoia era morta poco dopo la sua nascita trasmettendogli una religiosità profonda che caratterizzò la sua vita e le sue scelte. Aveva sposato una grande donna, la principessa Maria Sofia di Wittelsbach, sorella della famosa Imperatrice Sissi. Il 27 dicembre del 1894 Francesco II moriva ad Arco di Trento. Si faceva chiamare “signor Fabiani”, per timidezza e riservatezza o solo per evitare di riaprire vecchie ferite.
E solo quando i rappresentanti delle corti di tutta Europa arrivarono lì per il funerale, gli abitanti del posto si resero conto che quel signore cortese e semplice era l’ultimo Re di Napoli.
Francesco II, non fu soltanto l’ultimo Re di Napoli, ma fu anche uno degli ultimi cavalieri nobili dell’Ottocento, l’ultimo Re “santo”, il primo emigrante meridionale, l’esempio da seguire ogni volta che un uomo nella vita perde tutto, l’amore, la sua unica figlia, il suo Regno, i suoi cari, il suo popolo e aspetta con “gioia” e rassegnazione la fine del suo tempo.
Questo significa essere uomo e santo. Aspettare Dio in silenzio e vivere la propria vita in punta di piedi, senza dare fastidio a nessuno, senza rancore, senza rabbia, con grande dignità e onore.
Un vero Re. Un vero Napoletano. Un vero Borbone.

Notiziario Telematico Legittimista n°126

Direttore responsabile: Alessandro Romano

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