"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino

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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

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Giuseppe
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Il Generale José Borjes ricordato in Abruzzo nel 150° anniversario della morte


1 Dicembre 2011. Sotto l’alto patrocinio della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie, in collaborazione con i Comuni della Città di Tagliacozzo e di Sante Marie in provincia di L’Aquila, l’8 dicembre 2011 è stato commemorato il Generale José Borjes nel 150° anniversario della morte. Ultimo generale del Re Francesco II delle Due Sicilie, di nobile famiglia catalana, alto ufficiale dell’Esercito spagnolo, José Borjes venne chiamato dal Sovrano per valutare la possibilità di ristabilire il legittimo possesso degli Stati del Regno delle Due Sicilie in seguito alla conquista dell’esercito piemontese. A missione compiuta, il Generale, mentre si accingeva a varcare il confine dello Stato Pontificio per riferire a Francesco II sull’impossibilità di ricostituire un esercito che potesse ricondurlo sul trono perduto, fu catturato dal Maggiore Franchini presso il cascinale dei Baroni Mastroddi, nel territorio di Sante Marie e condotto in Tagliacozzo, ove venne fucilato la sera dell’8 dicembre 1861 alla stregua di un brigante senza neanche un processo sommario. Le due Municipalità abbruzzesi, d’intesa con alcune associazioni culturali meridionali, hanno rievocato la storica vicenda dell’illustre e valoroso Personaggio con un nutrito programma di eventi. La serata del 7 dicembre, in Sante Marie, si è svolta la proiezione del film “Li chiamarono Briganti” di Pasquale Squitieri con interpreti di eccezione quali: Enrico Loverso, Branko Tesanovic, Claudia Cardinale, Giorgio Albertazzi, Franco Nero, Carlo Croccolo, Lina Sastri, Remo Girone. E’ seguito un interessante dibattito guidato dal Prof. Luigi Branchini, Presidente dell’associazione “Mediterranea 2000” e organizzatore della “Notte del Brigante di Melfi” (Pz).

Il giorno 8 dicembre poi, alle ore 10, il Sindaco di Sante Marie Dott. Lorenzo Berardinetti ha rievocato la figura del Generale presso il cascinale ove venne catturato, nella località detta Valle di Luppa. Quindi è seguita la Celebrazione Eucaristica nella Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V.M. e nel ricordo dei caduti di tutte le guerre. Il Rito sacro, svoltosi nella splendida cornice dell’antica Chiesa di San Francesco d’Assisi in Tagliacozzo, è stato celebrato dal Rev. Don Ennio Grossi, Cappellano del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio e Cancelliere della Curia Vescovile dei Marsi. Tra i numerosi presenti hanno assistito: il Chiarissimo Prof. Leonardo Saviano, Segretario Generale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie e Cavaliere di Gran Croce di Merito dell’Ordine Costantiniano; S.E. il Marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Delegato S.M.O.C. per Napoli; l’On. Presidente della Pronvincia di L’Aquila Dott. Antonio Del Corvo; il Sindaco della Città di Tagliacozzo Maurizio Di Marco Testa; il Sindaco di Sante Marie Dott. Lorenzo Berardinetti; il Comandante della locale Compagnia dei Carabinieri Cap. Dott. Alessandro D’Errico; l’On. Consigliere provinciale Pasqualino Di Cristofano; il Vice Sindaco di Tagliacozzo Angelo Poggiogalle; il Tenente di Vascello Clarissa Torturo e una nutrita rappresentanza di Cavalieri e Dame provenienti dall’Abruzzo, dal Lazio e dalla Campania. Al termine della Santa Messa il corteo delle Autorità si è recato in Piazza Duca degli Abruzzi, nel largo antistante Villa Zaccagnini luogo ove avvenne l’esecuzione sommaria del Generale e dei suoi compagni, per l’inaugurazione di un busto pregevole opera marmorea dell’artista Don Massimo Patroni Griffi, Duca di Roscigno e Cavaliere di Giustizia del S.M.O.C. di S. Giorgio. Il monumento è stato donato alla Città di Tagliacozzo dal Comm. Arturo Cannavacciuolo il quale nell’occasione è stato insignito da S.A.R. il Duca di Castro anche della Commenda del Real Ordine di Francesco I, per i meriti acquisiti nei confronti della Casa Reale e della rivalutazione della storia dell’antico Regno delle Due Sicilie. Il Comm. Arturo Cannavacciuolo era accompagnato dall’esimio Comm. Augusto Santaniello, entrambi Vice Presidenti dell’Associazione Culturale Neoborbonica. Infine, nella Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Tagliacozzo, il Prof. Leonardo Saviano, Docente di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università Federico II di Napoli, ha tenuto un’interessante conferenza storica sul Personaggio e sulla sua vicenda. L’avvenimento storico della morte del Generale Josè Borjes ad opera dei soldati piemontesi l’8 dicembre 1861 risulta di peculiare interesse per la storia dei Territori comunali di Tagliacozzo e Sante Marie, anche nell’ambito delle celebrazioni del Centocinquantesimo Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia e allo scopo di rendere omaggio, in un clima di acquisita pacificazione, anche a coloro che si sacrificarono per la causa dei Regni preunitari. E’ per questo motivo che S.A.R. il Duca di Castro e Gran Maestro dell’Ordine Costantiniano ha voluto che venissero conferite le Medaglie d’Oro di Benemerenza ai Gonfaloni dei Comuni di Tagliacozzo e Sante Marie per la loro “fedeltà alla memoria storica”.

http://www.reteduesicilie.it

Jose' Borjes - Cattura e fucilazione
La cattura e la fucilazione nei racconti "ufficiali"
Intorno alla sua cattura, abbiamo ragguagli completi in un rapporto dell' officiale che l'operò, il maggior Franchini. Ecco il
documento indirizzato al generale La Marmora:
N. 450. Tagliacozzo, 9 dicembre 1861.
Alle ore 11 e 30 della sera dei 7, una lettera del signor sotto-prefetto del circondano m'avvisò che Borgès con 22 suoi
compagni a cavallo era passato da Paterno dirigendosi sopra Scurcula; ed altra, alle ore 3 del mattino degli 8, del signor
comandante i reali carabinieri, da Cappelle mi faceva sapere che alle 8 di sera dei 7, avevano i medesimi traversato
detto paese, e che tutto faceva credere avessero presa la strada per Scurcula e Santa Maria al Tufo. Dietro tali notizie io
spediva tosto una forte pattuglia comandata da un sergente verso la Scurcula colla speranza d'incontrarli, ed altra a
Santa Maria comandata da un caporale per avere indizii se mai i briganti fossero colà arrivati; ma costoro prima degli
avvisi ricevuti avevan di già oltrepassato Tagliacozzo e traversato chetamente Santa Maria, dirigendosi sopra la Lupa,
grossa cascina del signor Mastroddi. Certo del passaggio dei briganti, io prendeva con me una trentina di bersaglieri, i
primi che mi venivano alla prima, ed il signor luogotenente Staderini che era di picchetto; ed alle due prima di giorno, mi
metteva ad inseguire i malfattori. Giunto a Santa Maria trovava la pattuglia colà spedita, e questa e dai contadini aveva
indirizzi certi del passaggio dei briganti, ed aiutato dalla neve, dopo breve riposo, celermente prendeva le loro tracce, per
alla Lupa. Erano, circa le 10 antimeridiane allorchè io giunsi alla cascina Mastroddi, ma nulla mi dava indizi che essa
fosse occupata dai briganti, quando una cinquantina di metri circa da quel luogo vedo alla parte opposta fuggire un uomo
armato. Mi metto alla carriera, lo raggiungo e gli chiudo la strada, i miei bersaglieri si slanciano alla corsa dietro di me;
ma il malfattore, vistosi impedita la fuga, mi mette la bocca della sua carabina sul petto e scatta; manca il fuoco; lo miro
alla mia volta colla pistola ed ho la medesima sorte; ma non falli' un colpo sulla testa che lo stese a terra. I bersaglieri si
aggruppano intorno a' me ed a colpi di baionetta uccidono quanti trovano fuori (cinque): altri circondano la cascina; ma i
briganti, avvisati, fanno fuoco dalle finestre e mi feriscono due bersaglieri. S'impegna un vivo combattimento, ed i briganti
si difendono accanitamente. Infine, dopo mezz'ora di fuoco, intimo loro la resa, minacciando di incendiare la casa:
ostinatamente rifiutano, ed io volendo risparmiare quanto più poteva la vita ai miei bravi bersaglieri, già faceva appiccare il
fuoco alla cascina, quando i briganti si arrendevano a discrezione. Ventitrè carabine, 3 sciabole, 17 cavalli, moltissime
carte interessanti cadevano in mio potere, 3 bandiere tricolori colla croce di Savoia, forse per servire d'inganno, non che
lo stesso generale Borgès e gli altri suoi compagni descritti nell'unito stato, che tutti traducevo meco a Tagliacozzo,
assieme ai 5 morti, e che faceva fucilare alle ore 4 pomeridiane, ad esempio dei tristi che avversano il Governo del Re
ed il risorgimento della nostra patria. Alcune guardie nazionali di Santa Maria col loro capitano che mi avevano seguito,
si portarono lodevolmente, per i quali mi riserbo a far delle proposte per ricompense al signor prefetto della provincia. Il
luogotenente signor Staderini si condusse lodevolmente, e mi secondava con intelligenza, sangue freddo e molto
coraggio.Il maggior comandante il battaglione FRANCHINI
Ecco ora alcuni ragguagli intorno alla morte di Borgès. Quando fu preso alla cascina Mastroddi, non volle rendere la sua
spada che a Franchini; e quando lo vide, gli disse: "Bene! giovane maggiore". - I prigionieri furono legati due a due e
condotti a Tagliacozzo. Durante il tragitto Borgès parlò poco e fumò delle spagnolette. Disse a varie riprese: "Bella truppa i
bersaglieri!". Poi al luogotenente Staderini: "Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno che miserabili e scellerati
per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langlois un bruto". Manifestò anche il suo dispiacere di essere stato preso
tanto vicino agli Stati romani. Franchini fece quanto potè per ottenere delle rivelazioni. Gli Spagnuoli furono muti e
conservarono un fiero contegno. "Tutte le torture non mi strapperanno una parola" disse Borgès, al quale non si pensava
di infligger veruna tortura; e aggiunse: "Ringraziate Dio che io sia partito questa settimana, un'ora troppo tardi; avrei
raggiunto gli Stati romani e sarei venuto con nuove bande a smembrare il regno di Vittorio Emanuele". Garantisco queste
parole: resultano da un secondo rapporto inedito del maggior Franchini. A Tagliacozzo Borgès e i suoi compagni
vennero condotti in un corpo di guardia, ove dettero i loro nomi. Uno spagnuolo, Pietro Martinez, chiese inchiostro e
carta, ove non scrisse che queste parole: "Noi siamo tutti rassegnati a esser fucilati: ci ritroveremo nella valle di Giosafat,
pregate per noi". Tutti si confessarono in una cappella e dopo furono condotti sul luogo dell'esecuzione. - "L'ultima nostra
ora è giunta, sclamò Borgès: muoriamo da forti". Abbracciò i suoi compatrioti, pregò i bersaglieri a mirar diritto, poi si mise in
ginocchio co' suoi compagni e intuonò una litania in spagnuolo. Gli altri in coro gli rispondevano. Il cantico fu rotto dalle
palle: dieci Spagnuoli caddero; dopo di che venne la volta dei Napoletani, fra i quali eravi un ultimo straniero, il quale
prima che fosse fatto fuoco, gridò ad alta voce: "Chiedo perdono a tutti!"
(Marc Monnier: Op. cit.).

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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L'Assedio di Gaeta 1861

la fedelissima

Alle tre del mattino del 2 novembre 1860 l’esercito napoletano, o almeno quel che ne rimaneva di quell’armata che dai primi di settembre combatteva una guerra estenuante, dovette abbandonare le posizioni lungo il fiume Garigliano.La flotta francese, che aveva impedito a quella piemontese di cannoneggiare la costa, dovette all’improvviso ritirarsi: Cavour aveva un’altra volta convinto Napoleone III a desistere dal proteggere i napoletani.

Non mancò però di togliersi la soddisfazione di tirare qualche bordata contro le navi piemontesi che sconfinavano. La flotta piemontese fu rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali erano passati al nemico, equipaggiate da personale piemontese raccogliticcio, a causa della fedeltà assoluta dimostrata dai marinai napoletani che si recarono in massa a Gaeta. Una batteria di artiglieria fu messa in campo in tutta fretta sulla vecchia torre di Formia al comando di un ufficiale svizzero, il capitano Enrico Fevot e del suo sottoposto tenente Casimiro Brunner: morirono tutti, ufficiali e soldati, ma prima di soccombere riuscirono a danneggiare gravemente alcune navi piemontesi. A Mola si svolse una prima battaglia, nella quale i napoletani difesero palmo a palmo il passaggio, consentendo a buona parte dell’esercito di prendere la strada per Itri e Fondi. In quella furiosa battaglia fu ferito gravemente l’anziano capitano del 10° cacciatori, Ferdinando De Filippis, che morirà in ospedale il 21 novembre dopo una straziante agonia.Ristretti ormai al campo di Montesecco, antistante Gaeta, i napoletani per tre giorni e tre notti tennero le posizioni contro un esercito che li sovrastava in uomini e materiali, perdendo ben 2400 uomini tra morti, feriti e prigionieri.

Re Francesco allora comandò che l’esercito entrasse nella piazza, e a questo punto iniziò il vero e proprio assedio di Gaeta, una pagina che lascerà al popolo napoletano la memoria di una fine gloriosa e dignitosa, che rimarrà di esempio per i posteri. Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila uomini decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da vili quali furono gli uomini di Enrico Cialdini.Con l’impiego dei modernissimi cannoni rigati, l’ex avventuriero romagnolo, divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della modesta villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito la piazza ed i suoi abitanti. La presenza del Re e della Regina fu determinante per tenere sempre alto il morale della guarnigione. La fedelissima isola di Ponza rifornì incessantemente la piazza di vettovaglie e generi vari, per mezzo dei suoi pescatori che mai dimenticarono che la loro stessa esistenza era dovuta alla lungimiranza dei Borbone, che colonizzarono l’isola a spese dello Stato.Il maggiore Pietro Quandel fu incaricato di tenere il giornale degli avvenimenti dell’assedio e, grazie al suo lavoro poi pubblicato a Roma, abbiamo i particolari giornalieri di quell’avvenimento.Il 29 novembre all’alba con una colonna di 440 soldati uscì dalla cittadina per compiere una importante ricognizione, onde scoprire lo stato di avanzamento dei lavori del nemico. Comandava la colonna il Tenente Colonnello dello stato maggiore Aloysio Migy, svizzero ormai naturalizzato napoletano. Compiuta l’operazione nel più assoluto silenzio, il distaccamento si apprestava a rientrare nella piazza quando il nemico si accorse della loro presenza, ed attaccò la colonna con forze nettamente superiori. Migy si batté da leone, finché non fu colpito mortalmente da una scarica di fucileria insieme a tre suoi soldati.Il Re volle che gli fossero tributati i massimi onori, e lo fece tumulare nel Duomo. Il 2 dicembre partì da Gaeta, non senza protestare, l’ottantenne Tenente Generale Pietro Vial, indomito soldato, al quale il Re volle evitare, a causa dell’età avanzata, le immani fatiche dell’assedio. Vial morirà in Roma, in esilio, alcuni anni dopo, ed è sepolto nella Chiesa della Nazione Napoletana, in via Giulia. Il governo della piazza fu assunto dal Brigadiere Gennaro Marulli, ufficiale giovane ed esperto.

Il 4 dicembre il Re emanò un proclama ai soldati, nel quale li incoraggiava a dimostrare il loro valore ed a difendere la causa del diritto e l’onore della Bandiera napoletana: “Voi avete ad emulare una guarnigione più antica quale è quella che nel 1806 resistette con impareggiabile valore agli attacchi dei primi soldati del mondo”. L’inverno del 1860 fu fra i più freddi del secolo. Neve pioggia e vento battente flagellarono le coste tirreniche, ma il vero nemico della guarnigione fu il micidiale tifo, che si manifestò ai primi di dicembre e che mieterà un numero impressionante di vittime civili e militari, tra cui i generali de Sangro, Ferrari e Caracciolo di San Vito. Il generale Antonio Ulloa fu inviato a Marsiglia per trattare la vendita di tre navi militari ferme in quel porto per riparazioni. Con i denari ricavati si poté dare un po’ di sollievo alla guarnigione ed ai suoi ospedali ricolmi di feriti. Il governo piemontese tentò di impedire la vendita sostenendo che i piroscafi erano ormai di sua proprietà, ma i tribunali francesi giudicarono diversamente, proclamando che l’unico Re delle Due Sicilie si trovava ancora sul suo territorio, ed era solo vittima di una vergognosa aggressione.Il 14 dicembre venne ridotto drasticamente l’organico della guarnigione che era in assoluta sovrabbondanza, molti corpi furono sciolti e gli uomini inviati nello Stato Pontificio.

Rimasero così nella piazza fino al termine 994 ufficiali ed impiegati e 12219 soldati. Il 20 dicembre gli ufficiali inviarono al Re un messaggio, nel quale ribadirono la loro ferma intenzione di resistere ad oltranza, per tener fede al giuramento dato: “Signore, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, dei quali la tristizia dei tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed indignati, noi sottoscritti Ufficiali della Guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al trono di V. M. renduto più venerabile e più splendido dalla sventura. Nel cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da Vostra Maestà sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue: noi intendiamo restare fedeli al nostro giuramento. Quali che sieno per essere le privazioni, le sofferenze, i pericoli, ai quali la voce dei nostri Capi ci chiami, noi sacrificheremmo con gioia le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene pel successo o pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell’onor militare che, solo, distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed all’Europa intera che, se molti dei nostri col tradimento o con la viltà macchiarono il nome dell’Esercito Napoletano, grande fu anche il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità. Sia che il nostro destino si trovi presso a decidersi, sia che una lunga serie di lotte e di sofferenze ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con rassegnazione e senza paura; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei bravi con la calma fiera e dignitosa che si conviene a soldati, ripetendo il nostro vecchio grido VIVA IL RE”. Il 7 gennaio il Re, la Regina ed i Principi Reali Conti di Trani e Caserta dovettero abbandonare i palazzi nei quali erano stati ospitati, perché i colpi nemici li avevano ripetutamente danneggiati, e si trasferirono tutti in una modesta casamatta della batteria Ferdinando. Per iniziativa dell’imperatore francese Napoleone III fu stabilita una tregua dall’8 al 19 gennaio, in considerazione della partenza della flotta francese, che da quel giorno non avrebbe più garantito la città dal mare. Scopo dell’armistizio era quello di convincere Francesco II ad abbandonare Gaeta, avendo ormai salvato l’onore. Pochi giorni prima del suo scadere i rappresentanti diplomatici di Austria, Prussia , Sassonia, Baviera, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Brasile, Toscana, Russia e Stato Pontificio raggiunsero Gaeta per presentare i loro omaggi al Re. Nonostante gli ordini dei loro governi rimasero nella piazza a sopportare i disagi ed i pericoli dell’assedio solo i ministri di Spagna, Austria, Baviera, Sassonia ed il Nunzio Apostolico. Il 15 gennaio Francesco II, all’approssimarsi della scadenza della tregua e della partenza della flotta francese, scrisse una nobile lettera all’Imperatore, che lo esortava a cedere: “Come cedere, quando in tutte le province del mio Regno con sentimento spontaneo si insorge contro la dominazione piemontese? Il mio diritto è ora il solo mio patrimonio, ed è mestiere che per difenderlo io mi faccia seppellire, se necessario, sotto le fumanti rovine di Gaeta. Ho fatto ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me. Ella vuole dividere con me la mia fortuna, consacrandosi alle cure degli ammalati e dei feriti. Da questa sera Gaeta conta nelle sue mura una suora di carità in più”. Il 22 gennaio, unilateralmente, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata memorabile. La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi. Il nemico ne sparò oltre 18000, ma il morale napoletano rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ad ogni colpo mancato dal nemico una selva di uomini aveva ancora il morale ed il coraggio di fare gesti irripetibili dall’alto dei parapetti delle batterie. L’11 febbraio il Re prese la decisione di interrompere la carneficina. Il colonnello Delli Franci fu inviato a parlamentare, ed a presentare una proposta di armistizio cui far seguire una vera e propria capitolazione. Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa di assaltare la piazza: “li prenderemo per fame” scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che l’italiano non era molto contemplato da questi signori. Quando iniziarono le trattative Cialdini non volle interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva ancora il generale a Cavour. Fu così che a capitolazione già firmata venne centrata la polveriera della batteria Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di caduti di Gaeta perché, è bene saperlo, solo nel 1881 i parenti dei generali de Sangro e Caracciolo ebbero l’autorizzazione di apporre i nomi dei loro congiunti su di una lapide commemorativa.


da : http://www.militesluci.it
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Una Storia da Riscrivere

Il tenente colonnello Ferdinando La Rosa (1806 – 1860)



Ciro La Rosa ha voluto offrire questo contributo a Brigantino - il Portale del Sud: si tratta della biografia del suo collaterale,

il t. col. Ferdinando La Rosa, caduto nella battaglia di Caiazzo, il 22 settembre 1860. Sul comportamento dell'ufficiale borbonico lo storico de' Sivo aveva all'epoca adombrato dubbi. Valoroso o traditore?

Ciro La Rosa ha ricostruito scenari e contesti, consultato fonti e documenti d'archivio, cosicché la sua opera non è solo una resa di giustizia alla memoria dell'antenato, ma una vera e propria ricerca storica, condotta su fonti e documenti oggettivi, sviluppata con tenacia e con rigore scientifico.

Il libro offre anche ricche illustrazioni ed immagini di documentazioni d'epoca.





Per una migliore comprensione, trascriviamo di seguito la presentazione dell'opera del compianto Silvio Vitale, già direttore della rivista di Storia meridionale“L’Alfiere”.

Ferdinando La Rosa, comandante nel 1860 del 6° Battaglione Cacciatori Reali dell’Armata Napoletana del Regno delle Due Sicilie, cadde in combattimento durante la battaglia di Caiazzo contro i garibaldini nel settembre dello stesso anno. Il maggior storico napoletano, Giacinto de’ Sivo, nel suo famoso libro “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861”, espresse dubbi sulla condotta dell’Ufficiale con queste parole: “del La Rosa fu detto che cadesse per mano dei suoi, per dispetto d’aversi a ripigliare con sangue la città da esso senza colpo abbandonata; onde restò dubbio se da prode o da traditore finisse”. Ciro La Rosa, con una puntigliosa ed esauriente ricerca storico archivistica, intende ristabilire la verità che rende pieno onore al suo antenato. In realtà già Roberto Maria Selvaggi nel suo “Nomi e volti di un esercito dimenticato” aveva spartanamente riconosciuto il comportamento eroico di Ferdinando La Rosa. Ma il discendente Ciro aggiunge una lettera inedita del Governatore Militare di Capua Giovanni Salzano de Luna, datata 24 settembre 1860, e diretta a S. E. il Cardinale Giuseppe Cosenza. In essa è testualmente detto: “devesi alla memoria di detto benemerito Uffiziale quella onoranza che gli è dovuta per aver con lo esempio nobile di sacrificar se stesso, contribuito alla vittoria per le regie truppe alle quali riuscì di discacciare e disperdere le masse nemiche colà fortificatesi”. Conclude giustamente Ciro La Rosa che, se il generale Salzano de Luna avesse avuto dubbi sul comportamento del comandante del 6° Cacciatori, non avrebbe mai scritto questa lettera.


Ciro La Rosa ha anche scritto un altro libro, tuttora inedito, dove ha raccolto con documenti consultati presso l'archivio storico militare di Napoli, la biografia di soldati napoletani dell'Esercito delle Due sicilie, per la cui pubblicazione cerca "sponsor"

Riportiamo di seguito la Premessa dell'opera, con l'auspicio che attragga editori illuminati.

PREMESSA

La verità basata sui documenti degli archivi è al di sopra delle parti, non parteggia per nessuno, basta solo farla parlare.

E' sempre attuale il detto di Brenno "vae victis".

Nell'effettuare le mie ricerche che ho condotto in particolare presso la Sezione Militare dell'Archivio di Stato di Napoli ubicato nei locali siti sulla collina di Pizzofalcone, sono arrivato ad una conclusione a dir poco sconcertante: ancor oggi per chi non approfondisce o non si interessa di Storia Meridionale, l'esercito delle Due Sicilie è sempre l'esercito di "Franceschiello", senza sapere, o volutamente ignorando, le ragioni che portarono alla destabilizzazione e alla distruzione di tutte le istituzioni civili e militari delle Due Sicilie.

“Oggi tutto è dimenticato. La tragedia di un Esercito, perché è tale l’intera sua esistenza, si è trasformata in farsa. L’Italia unita respinse e disconobbe i tanti episodi di valore dell’Esercito Napoletano e valorizzò solamente quelli dell’Esercito vincitore”(1)

Se molti regni e repubbliche crollano fatalmente, la "dignità" dell'essere umano, che è giustizia e carità, resta sempre più in alto delle umane vicende e va difesa su tutto. Le lapidi e i monumenti ricordano e celebrano soltanto i garibaldini e i soldati dell'Armata Sarda, ma anche coloro che servivano lealmente Casa Borbone erano degli Italiani, ed è per loro che ho sentito il dovere di rendere un omaggio sincero, con questo mio lavoro, a tanti Napoletani, eroi misconosciuti, che hanno fatto parte dell'Esercito e dell'Armata di Mare del Regno delle Due Sicilie, servendo con fedeltà, dedizione e valore, sapendo combattere e morire mantenendo alta la fede nella "Patria Napolitana", Stato e Nazione di diritto dal 1734 erede delle tradizioni unitarie dei Normanni e degli Svevi.

Non potendo elencarli tutti, ho tentato di rappresentarli e farli rivivere con le biografie essenziali di alcuni dai cognomi più comuni.

Spero con questo mio modesto lavoro, che non è una mera operazione di nostalgia, di aver testimoniato che la conoscenza delle proprie radici è l'humus necessario per evitare errori ed avere slancio per un più sicuro avvenire.

Ho composto le biografie consultando i fasci "pensioni di reversibilità" del fondo "Ministero della Guerra" delle Due Sicilie dal numero 1 al numero 495, e relativi "libretti di vita e costumi ". Purtroppo le mie indagini si fermano quasi del tutto ai dati precedenti il 1851, perché i carteggi concernenti il periodo successivo andarono dispersi o distrutti nel bombardamento "alleato" dell'agosto del 1943 della attuale sede dell'archivio militare.

Note

1) T. Argiolas – Storia dell’Esercito Borbonico – pagina 143

da : Brigantino - il Portale del Sud
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Ecco la lettera del generale Salzano...a complemento di quanto scritto prima....
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

GARIBALDI A NAPOLI:
IMPRESSIONI DI UN TESTIMONE OCULARE

PASQUALE GIAMPIETRO

Pasqualino Giampietro aveva diciassette anni quando gli toccò la ventura di assistere all'ingresso di Garibaldi a Napoli, dopo la fuga dei Borboni: ecco quanto ne scrisse ad una sua zia, in una lettera del 25 settembre 1860.

«Il Re Borbone partiva il Giovedì sera per Gaeta, portando seco navi, uomini, armi e danaro. Non senza lagrime partiva, come ancora non senza speranza di tornare sul trono! Molte navi non lo vollero seguire, e molte altre che erano in crociera, già tornavano alle rive nostre con la bandiera spiegata di Savoia. La sera, mentre io uscivo dal Teatro di San Carlo, a quell'ora trovai che la popolazione era piena di ansia e ciascuno avea dipinto nel volto la gioia che dovea scoppiare con tanto entusiasmo la mattina appresso. Quella sera si volea tuttavia dar luogo ad una grande dimostrazione, ma fu consigliato il contrario da persone che erano a capo del moto popolare, sicché tutta la notte passò quieta e senza alcuna novità. La mattina del dì 7 (settembre 1860) vi era un affaccendamento per ogni luogo, onde preparare la grande dimostrazione. Migliaia di bandiere con la croce di Savoja! Ognuno lavorava la sua e già sulle prime ore della mattina, alcune sventolavano per i balconi. Giunge nuova che il Dittatore era già alla Cava (= Cava dei Tirreni) e che, per mezzodì, sarebbe a Napoli. Il popolo, come per elettricità, si commuove e corre per tutte le vie della,città gridando: «Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi, Viva l'Italia Una!!!». Non erano le undici della mattina e compivasi già da ogni classe, da ogni individuo, la gran dimostrazione Unitaria! I Preti vi ebbero grandissima parte (e questo fàtelo sapere a Don Angelo) sicché essi procedevano innanzi a tutti con le bandiere alla mano, gridando a tutta gola, e con la coscienza di chi serve anche Iddio in questa santa causa. Donne, fanciulli, soldati dei Borboni, Guardie Nazionali, moltissimi vestiti alla foggia dei Garibaldini, tutti armati contro chi attentasse a quella gioia tanto desiderata, piena ed aspettata, tutti uniti nelle acclamazioni e negli Evviva. Toledo (la famosa strada di Napoli) romoreggiava dall'un capo all'altro, ed era un teatro di amore, per abbracci, baci, lagrime che i fratelli scambiavano con i fratelli. La Guardia Nazionale, in bell'ordine, stava sotto le armi per aspettare a rendere gli onori dovuti al Gran Generale. Questa si divideva in tante parti quanti sono i Battaglioni, distribuiti dalla Stazione della Ferrovia sino a buona strada di Toledo. Per ausiliario alla Guardia Nazionale vedevansi delle schiere armate di fucili e picche, ordinate dai Capi della Rivoluzione Napoletana e composta di uomini risoluti. Queste schiere infondevano sicurezza e mostravano una gran difesa per ogni ostile incontro. Giuseppe Avitabile era il Capo di esse. Alla mezza pomeridiana, il Dittatore Garibaldi giungeva in Napoli accompagnato dal Generale Turr, e pochi altri suoi fidi, seguito dalle Commissioni che la città, fin dalla sera innanzi, Gli aveva inviate incontro. Fra incredibili applausi e grida del popolo, traversando la marina, posò nel Palazzo della Forestiera al Largo di San Francesco di Paola, dove non prima fu arrivato, che si fece al balcone per ringraziare il popolo entusiasticamente plaudente, pronunciando queste parole: «Avete ben ragione di esultare in questo giorno che la tirannide muore e sorge un'era piena di libertà per la più bella città d'Italia! (Grandi applausi).
«Voi siete più degni di libertà, voi che avete molto sofferto (Applausi). Io vi ringrazio di questa accoglienza non per me, ma in nome dell'Italia che voi costituite nell'unità sua mediante il vostro concorso, di che' non solo l'Italia, ma tutta l'Europa vi deve esser grata. (Applausi prolungati).
Queste furono le parole del Dittatore, il quale fatto un inchino alla moltitudine, rientrò dal balcone. Dopo un'ora di riposo, in carrozza, seguito dagli stessi suoi fidi e dalla Guardia Nazionale, transitò Toledo e andò al Vescovado, dove trovò altro che un sol prete, né una sedia, né nulla, chè tutto avea fatto involare la rabbia e la disperazione del Cardinale; in mezzo all'entusiasmo del popolo, fu menato al Palazzo d'Angri nel Largo dello Spirito Santo, dove prese dimora. Il popolo fremente di gioja lo acclamava gridando, «Evviva, Evviva!». Egli, facendosi ad uno dei balconi, che rispondono a Toledo, ringraziava tutti con benigna semplicità, e con una popolarità che è unica in Lui. Per compiacere il popolo, lungamente si trattenne nel balcone, e quivi segnava delle carte che gli presentavano. Don Liborio Romano, col Sindaco di Napoli, consegnava a Garibaldi la Città ed il Regno, in nome del Popolo e dell'Insurrezione!
Con quest'ultimo atto, diciamo il vero, Don Liborio Romano ha suggellata la sua riputazione. Alcuni posti di guardia, tenuti ancora nelle mani dei Borbonici, fecero il saluto militare al passaggio di Garibaldi. La Gran Guardia inchiodò i cannoni. I Forti li ritirarono indietro. La poca truppa stanziata in Napoli, invitata ad uscire e ad affratellarsi col popolo, non volle. Il Borbone, facendo sentire che «chi vuole lo segua» non iscioglie niuno dal giuramento, malizia conosciuta, ma impotente e futile con un popolo, che conoscendo i suoi doveri cristiani, non confonderà i veri con i falsi.
E' indicibile, indescrivibile, come progredì la pubblica dimostrazione sino a mezza notte. Napoli tutta, per ogni tempestata di bandiere con la Croce di Savoja, di gente direi invasata, di carrozze colme, ecc. E' inenarrabile quale fu la gioia di questo povero popolo che sentiva rigenerarsi. L'illuminazione fu splendida non solo nelle vie principali, ma ancora nei vichi soliti ad essere più oscuri. Era un incanto a vedersi, tutta Toledo era percorsa da un migliaio di grandi carrozze stivate di gente e la maggior parte ripiene delle donzelle vergini le più onorate della Città di San Sepolcro e del Palazzo di Cristallo, moltissime vestite a rosso, con la fascia e le bandiere tricolori, sedute sui mantici delle carrozze, o in piedi fumando sigari a bizeffe, ed ubbriache all'intutto, con grida inaudite, incitavano la popolazione fermando qualunque truppa di gente e costringendo a gridare; tutti e tutte, di unanime consenso, seguivano l'esempio con grave danno dei polmoni e delle loro gorgozzùle. Le grida entusiastiche risuonavano sino al cielo ed era da credere di essere in una città abitata dagli Dèi o dalle Fate. Delle giovanette di alto e basso ceto, con la fascia tricolore, e con le bandiere sembravano Dèe di amore, di Carità fraterna e di Virtù. Il gran nome del Dittatore era sulle loro labbra, ed al loro passaggio la folla rispondeva concorde alle loro grida, e le battute di mano seguivano ogni volta. I Bersaglieri Piemontesi, scesero in terra e lascio pensare a voi l'accoglienza che loro fece il popolo, essi erano vittime di baci ed abbracci. Questa festa durò sino alle undici, quando in un momento dal Palazzo d'Angri corre voce: «Il Dittatore dorme»! In meno che io il dica, ogni romore, ogni grido si tacque, l'annunzio si propagò con la velocità del vento dappertutto, e la gente incominciò a ritirarsi per dar riposo alle stanche membra. Un solo fatto menomò per un momento la pubblica esultanza. La fazione che era nella Porta del Castello del Càrmine fu insultata da un individuo e già era pronta per fare una scarica, quando un colpo uscì dalla folla e lo stese morto a terra. A questo, gli altri soldati, che erano di sentinella nei posti vicini, spararono alcuni altri colpi, che ferirono alcuni del popolo; gli artiglieri del Forte tirarono dei colpi di cannone a polvere. Vi fu un momento di allarme, ma dopo poco, immense pattuglie di popolani armati di carabine di picche e di ogni altra arme, percorsero le vie della città e rassicurarono gli animi.
Essi stessi faceano protesta che erano tutti galantuomini, che da loro niente si dovea temere, loro essere cittadini e pronti a dar morte ai reazionari ed ai disturbatori dell'ordine. Quanto è sublime il popolo che difende una causa giusta, è la spada visibile di Dio! La mattina appresso noi stavamo così uniti l'uno all'altro dal Palazzo Maddaloni al Largo San Michele, che sembravamo tanti granelli d'uva, pesti nel tinello. Con fortissimo batter di mano e con clamorosissimi Evviva mostrammo il desiderio vivissimo di riveder Garibaldi, il quale ci appagò. Al suo comparir sul balcone gli applausi divennero infiniti, indescrivibili; tutte le signore dai balconi che ne erano zeppi, e le altre che erano in istrada, agitavano i fazzoletti, gridando come tante impazzite. Noi altri uomini, poi, chi con bastoni e cappelli in alto, e chi battendo le mani con grida fortissime, facevamo un baccano che mai il maggiore; ed il Generale gentilmente, ora voltandosi da una parte, ora dalla altra, salutava tutti con emozione indicibile».

da : http://www.iststudiatell.org/
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Te Deum Gaeta di Raimondo Augello

http://www.youtube.com/watch?v=DG41a3l_RvM Mimmo Cavallo canta Te Deum Gaeta


L’evento bellico che segna formalmente la caduta del Regno delle Due Sicilie fu la capitolazione di Gaeta, roccaforte nella quale si era concentrata la resistenza borbonica, sottoposta da parte delle truppe piemontesi guidate dal generale Enrico Cialdini ad un durissimo assedio durato ben 102 giorni e culminato con la resa della città avvenuta il 13 febbraio del 1861. Noi sappiamo tutto sull’assedio di Stalingrado o sui bombardamenti cui durante il secondo conflitto mondiale è stata sottoposta la città di Dresda, ma in virtù di una colpevole rimozione poco o nulla ci è stato detto su Gaeta; Antonio Ciano, autore di interessanti saggi sugli argomenti che stiamo sviluppando ed ex comunista eletto nel 2008 al Consiglio Comunale di Gaeta nel Partito del Sud (eloquente ed unico caso in Italia di un comune con più di ventimila abitanti che non sia amministrato da uno dei due poli), racconta in un’intervista di come la città nel corso della sua storia sia stata sottoposta a ben 17 assedi ma, afferma, quello dei “fratelli” piemontesi fu di gran lunga il più spietato. Fu in questa circostanza che l’esercito sabaudo sperimentò i modernissimi e potenti “cannoni a canna rigata”, un’arma che per la precisione e per gli effetti devastanti gli storici (da Gigi Di Fiore, autore di una dettagliata monografia sull’assedio di Gaeta, a Giordano Bruno Guerri) sono concordi nell’indicare come una sorta di “arma atomica” per quei tempi. Tra miserie ed atti di eroismo (felicemente trasfigurati in chiave letteraria nel romanzo L’alfiere, pubblicato nel 1942 da uno dei grandi dimenticati della nostra narrativa, Carlo Alianiello, romanzo fatto oggetto dalla regia di Anton Giulio Majano di una riduzione televisiva in sei puntate per uno sceneggiato mandato in onda dalla Rai nel 1956 che ebbe un largo seguito di pubblico, recentemente riproposto in dvd dalla casa editrice Fabbri) la città, sottoposta per tre mesi a martellanti bombardamenti, pagò un tributo altissimo di sangue; ai primi di dicembre, a causa anche delle precarie condizioni igieniche, si era diffusa una grave epidemia di tifo petecchiale, ed il generale Cialdini, per fiaccare la resistenza e diffondere il terrore, non trovò di meglio che ordinare che quei potenti cannoni venissero orientati verso ospedali, chiese e abitazioni; Cialdini, quando gli si faceva osservare che questi comportamenti violavano i codici d’onore e militari, era solito rispondere con tono sprezzante: “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Quando dopo tre mesi di eroica resistenza, l’11 febbraio il re Francesco II, per evitare ulteriori e inutili sofferenze alla popolazione civile ordinerà la capitolazione, Cialdini, in attesa che si metta nero su bianco, continuerà imperterrito per altri due giorni a martellare la città Dunque Gaeta è forse stato il primo esempio di una tipologia nuova di guerra, quella che caratterizzerà poi in modo drammatico lo scenario del secondo conflitto mondiale: una guerra che coinvolgeva le popolazioni civili con bombardamenti indiscriminati.
Dopo la resa, i soldati borbonici cui era stato garantito dalle autorità militari piemontesi il ritorno alle rispettive famiglie entro quindici giorni furono invece avviati ai lager sabaudi del Nord Italia.
Come racconta lo storico senese Giordano Bruno Guerri (Il sangue del Sud, Mondadori, 2010, pag. 66), l’economia della città venne completamente distrutta; agli enormi danni provocati dai bombardamenti di aggiunse la devastazione del territorio circostante: i soldati piemontesi, per scaldarsi durante i mesi invernali avevano abbattuto qualcosa come centomila ulivi, elemento portante dell’agricoltura locale, e poiché di ulivi non ce n’erano più, pensarono bene di smontare i frantoi della zona per portarseli al Nord.
Ma non basta. Racconta Antonio Ciano che casualmente, durante gli scavi effettuati in città nel 1961(giusto in coincidenza con le celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia: ironia della sorte!) per procedere ai lavori di costruzione delle nuove scuole medie, si offrì agli occhi degli operatori una scoperta agghiacciante:
“Si trovarono di fronte a uno spettacolo orrendo: trovarono una fossa profonda dodici metri, venti di diametro piena di scheletri. Erano i resti dei partigiani e civili di idee borboniche fucilati dai piemontesi… scavando, trovarono del calcinaccio e scavando ancora a circa un metro dal basolato trovarono ossa umane per trasportare le quali nel cimitero di Gaeta gli operai comunali impiegarono un mese; si contarono circa 2000 scheletri. I duemila scheletri indossavano pellicce di pecora, calzavano ciocie, bisacce a tracolla, cappotti borbonici, i cui bottoni vennero tutti trafugati in quanto d’argento vivo con giglio borbonico. L’ultimo mezzo della fossa era impregnato di sangue, il sangue caldo che colava dai corpi dopo le fucilazioni sommarie…”.
Si procedette quindi alla chiusura della fossa e alla costruzione della scuola, con un’operazione che ha del simbolico: un edificio in cui si insegna una versione edulcorata dei fatti che poggia le proprie fondamenta sugli orrori della verità nascondendone ogni traccia.
Dunque massacri di civili, fosse comuni, una sorta si Sarajevo ante litteram di cui però nella storiografia ufficiale tutto si tace. Il caso di Gaeta ha un valore paradigmatico per la violenza che su di essa fu esercitata e per le colpevoli dimenticanze della maggioranza degli storici.
Con la caduta di Gaeta iniziano gli anni della cosiddetta “guerra al brigantaggio”, una vera e propria guerra civile costata un tributo di sangue ben più alto della guerra partigiana del 1943-1945 e tuttavia spacciata dai nostri manuali scolastici per una semplice operazione di polizia contro bande armate. Si trattò invece di una vera resistenza di popolo che portò ad atti di ferocia inimmaginabile, che negli dal 1861 al 1865 con maggiore veemenza occupò nelle regioni meridionali più della metà degli effettivi dell’esercito unitario e che pur andando in parte scemando si protrasse almeno sino al 1870.
Dei fatti di Gaeta, degli eroismi, delle viltà, delle sofferenze di tutti coloro che comunque concorsero loro malgrado ad incanalare la storia d’Italia verso un corso unitario, subendola sulla propria pelle questa unità, come detto, ben pochi serbano memoria, e fa specie pensare che L’Italia è invece prodiga di memoria verso il generale Enrico Cialdini cui dappertutto sono state dedicate vie (ho scoperto che se ne trova una anche a Palermo, zona Brancaccio) quasi si vedesse in lui un padre fondatore della patria (e in effetti alcuni hanno proposto che il suo nome venisse aggiunto al novero dei “padri” Garibaldi, Vittorio Emanuele e Cavour); una sensazione di stupore, quella determinata dalla dedica di vie al generale Cialdini, che non può far riflettere su quanto scritto giorni addietro in questo blog riguardo alla piccola Angelina Romano e in merito alla pressante richiesta che si leva da più parti affinché le venga intitolata una strada. Soltanto allora, forse, potremo dire di avere assolto un debito con la nostra coscienza e potremo affermare che i festeggiamenti dei 150 anni testé trascorsi non sono stati una burla intrisa di retorica volta a consolidare un sistema di potere unicamente disposto a togliere voce a chi non ne ha.
Una voce che nel brano che oggi presentiamo (Te deum Gaeta) il cantautore Mimmo Cavallo, oltremodo stimato dalla critica e di cui già in passato ci siamo occupati per il suo rapporto di collaborazione con lo scrittore Pino Aprile e con il regista teatrale Roberto D'Alessandro, cerca di ridare a chi mettendo in gioco il proprio onore e la propria vita in quell’assedio di Gaeta scrisse una pagina di storia dimenticata.
Pubblicato da Raimondo Augello giovedì, luglio 12, 2012
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Il brigante Berardino Viola al di là del mito
di Fulvio D’Amore


La figura del brigante Berardino Viola, nato il 24 novembre 1838 presso il piccolo borgo di Vallececa (comune di Pescorocchiano), non può essere compresa a
fondo se non la si inquadra nel contesto socio-economico del Cicolano di quegli anni drammatici.
E’ il classico caso, quello di Berardino Viola, in cui è impossibile «separare l’albero dal bosco».
Certo se si considera la singola individualità del brigante si rimane colpiti dalla negatività delle sue «imprese memorabili» da inquadrare, comunque, nello scorcio di un’epoca dura e violenta.
Nel paese d’origine, situato sulla riva sinistra dell’allora fiume Salto, suo padre, Angelo Viola faceva il mestiere di guardia doganale e sua madre, Marianna Rossetti, esercitava la professione di filatrice, per arrotondare il magro stipendio del marito.
La famiglia nella quale Berardino Viola nacque non era, quindi, stretta dalla miseria e anzi poteva collocarsi tra quelle fortunate, in un territorio nel quale la sopravvivenza era già un traguardo.
La gioventù del giovane Berardino trascorse in un clima di instabilità politica e sociale, di miseria dilagante in un quadro culturale caratterizzato da un analfabetismo pressoché generalizzato: tutte situazioni che finivano per creare un terreno fecondo per il gonfiarsi del fenomeno brigantaggio, tanto diffuso lungo tutta la frontiera pontificia a ridosso del Cicolano, anche nel periodo borbonico.
L’adolescenza del piccolo Berardino, dopo la metà dell’Ottocento, si svolse quindi in una situazione di scompigli e duri contrasti che giornalmente avvenivano lungo la linea di confine tra guardie doganali e gendarmi papali, a causa di continui sconfinamenti che da ambo le parti avvenivano.
Contrabbando ed incetta di derrate alimentari, furtivamente introdotte nel regno di Napoli, videro coinvolti la maggior parte dei «Signori» del Cicolano che spesso si erano serviti, per imporre le loro condizioni, di bande armate composte da contadini e braccianti, i quali, dopo aver partecipato alle consuete scorrerie, rientravano tranquillamente nei loro villaggi come fosse una normale prassi all’interno di un equilibrio che entrambe le parti sorreggevano.
La famiglia Viola ben presto si trasferì al di là del fiume presso Teglieto (comune di Petrella Salto) proprio quando le mascalzonate di Berardino si andavano moltiplicando al punto che i genitori pensarono bene di mandare quel loro figlio scapestrato a scuola presso il parroco di Rigatti, paese situato dentro i confini papalini, nelle vicinanze di Vallececa.
D’altronde quel fanciullo basso, magro, sporco e stizzoso, tutto nervi, si poteva magari correggere con l’ausilio di un buon insegnamento.
Ma, purtroppo, arrivò il momento in cui persino il rigido sacerdote dovette dichiarare la resa, proclamando a gran voce che di quel tanghero indomabile non ne voleva più sapere.
Nasceva così, in quella tragica contingenza, la fama negativa del giovane Berardino spesso, a detta del vicario foraneo di Rigatti, pieno di «perverse inclinazioni, che fin dalla più tenera età manifestava».
Il suo ingresso nel mondo del lavoro avvenne, molto probabilmente, proprio in questo periodo, al servizio di uno dei tanti proprietari armentizi della Valle del Salto ma, poi, più specificatamente, alle dipendenze come garzone del facoltoso Don Francesco Mozzetti.
Non deve stupirci, quindi, se al momento dello sfaldamento dell’apparato statale borbonico, Berardino Viola, appena scarcerato dal tribunale della Gran Corte Criminale dell’Aquila perché aveva partecipato a tumulti di piazza (23 settembre 1860), dietro promessa di condono della pena, entrò a far parte della compagnia di guardie nazionali di Borgo San Pietro condotte dal capitano Don Francesco Mozzetti.
In questi frangenti, tra il 15 ed il 18 settembre 1860, quasi tutti i municipi del Cicolano, con deliberazioni decurionali, avevano aderito al governo di Vittorio Emanuele II, mentre in tutto l’Abruzzo scoppiava la rivolta caratterizzata da scontri tra reparti garibaldini e truppe borboniche allo sbando, contadini e braccianti inneggianti la causa di Francesco II, avversi ai liberali possidenti.
Berardino Viola, quindi, inserito in un plotone di settanta guardie nazionali cicolane guidate da Don Luigi Boileau, dal 27 settembre al 5 ottobre 1860 rimase a presidiare Avezzano, per poi ritirarsi su Fiamignano, dopo l’ordine impartito del sottintendente di Cittaducale.
L’entrata delle truppe borboniche nella Marsica fece scatenare in tutto l’Aquilano e nel Cicolano una lunga serie di sanguinose sommosse popolari atte a ripristinare in tutti i comuni che avevano aderito in qualche modo alla monarchia sabauda l’autorità legittima dei Borboni e, proprio in questa fase, Berardino Viola, passato ormai definitivamente dalla parte degli insorgenti, sobillò la rivolta perpetrando assalti, ricatti, minacce, sequestri di persona, furti e rapine ai danni di quelli che una volta erano stati i suoi «padroni».
La Corte d’Appello degli Abruzzi gli addebitò ben 21 capi d’accusa, condannandolo in contumacia per: «Attentato che ha avuto per oggetto di distruggere e cambiare il Governo. Di saccheggi e devastazioni, grassazioni, ribellioni, formazione di banda armata» (28 ottobre - 2 novembre 1860).
Arrestato la sera del 13 dicembre 1860 presso Fiumata, dopo circa un anno e mezzo di prigionia e vari tentativi di fuga, tra il maggio ed il giugno del 1862, il reazionario Berardino Viola riuscì finalmente ad evadere dalle carceri aquilane.
Il 2 luglio dello stesso anno, durante la festa della Madonna del Poggio, celebrata con devozione dagli abitanti di Teglieto, Berardino Viola uccise a colpi di coltello la guardia nazionale Berardino Colombi di Rigatti, forse per vendetta.
All’inizio del mese di settembre si unirono briganti delle bande del Cicolano, dell’Aquilano e della Marsica, formando la famigerata «Banda del Cartore», così chiamata perché il drappello dei malviventi spesso trovava rifugio e base per scatenare azioni brigantesche, appunto, nel bosco del Cartore, situato sull’impervia montagna della Duchessa.
Sequestri, saccheggi ed uccisioni si moltiplicarono in maniera impressionante fino al 1863 con relativo assottigliamento della banda che, seppur sempre pericolosa, fu ridotta a mal partito dai numerosi scontri a fuoco con la truppa sabauda.
Il 20 gennaio 1864, il noto brigante di Teglieto, venne arrestato a Roma sorpreso nel rione Trastevere dalla polizia pontificia e tradotto nelle prigioni di Castel S. Angelo.
Dopo sommario processo, considerato dal governatore ecclesiastico però solo un «brigante politico», fu espulso ed inviato a Barcellona insieme ad altri noti reazionari napoletani.
Lavorò per alcuni mesi facendo il mestiere di scaricatore di porto sia a Barcellona che a Marsiglia.
Il piroscafo napoletano Mongibello lo ricondusse a Civitavecchia in data 24 aprile 1864.
Sostenuto da fiancheggiatori, per un certo periodo, si tenne nascosto a Roma e poi a Monterotondo, tornando, infine, ad imperversare nel Cicolano.
Insieme alla sua vecchia banda, spalleggiato dai fedeli briganti Giovanni Colaiuda e Domenicantonio Orfei, ricominciò a taglieggiare i suoi nemici di sempre individuati tra alcuni proprietari di S. Anatolia, Magliano dei Marsi e Corvaro, altri di S. Maria del Sambuco ed ancora: Giambattista Properzi di Lucoli, Don Carlo Mozzetti e Don Luigi Gregori di Campolano.
L’uccisione di Valentino Tocci (14 settembre 1864), considerato dai briganti una spia dei piemontesi, completò il quadro fosco delle vendette compiute dalla banda.
In seguito, Berardino Viola, arrestato di nuovo a Tivoli dalla gendarmeria papalina (27 ottobre 1864) fu trattenuto nelle Carceri Nuove di Roma fino al 26 settembre 1865.
La primavera del 1866 lo vide ancora protagonista di cruente vicende nel territorio del Cicolano, dopo esser evidentemente sfuggito alla sorveglianza dei papalini e pronto a giustiziare il giovane incosciente Emilio De Sanctis di Collaralli di Radicaro, perché, in sua assenza, si era impossessato di alcuni fucili appartenenti alla banda.
Per far perdere le tracce alle forze dell’ordine che lo inseguivano accanitamente, il masnadiero Berardino Viola si mise in salvo nell’Agro romano, ma fu subito dopo catturato dalla polizia pontificia che, in quel periodo, pressata dal governo italiano, non concedeva più molta libertà di movimento ai briganti napoletani.
Espulso di nuovo da Roma nel febbraio del 1867, fu imbarcato insieme ai famosi Crocco e Pilone a Civitavecchia, facendo scalo a Marsiglia ed Algeri, luoghi dai quali però la combriccola venne respinta e rinviata nello Stato pontificio.
Il 14 maggio 1868, la presenza del brigante di Teglieto fu segnalata ancora dalle parti di Monterotondo, mettendo in allarme il pretore di Fiamignano che subito predispose un’attenta sorveglianza dei passi montani lungo la frontiera pontificia, per impedire il rientro nel Cicolano al temibile bandito.
Dopo aver tentato l’11 dicembre 1868 un approccio con Cherubino Donatis, sindaco di Petrella Salto, al quale il Viola intendeva forse arrendersi, venne di nuovo incarcerato dalla gendarmeria pontificia, riuscendo tuttavia ancora una volta a fuggire dalle Terme Diocleziane, in compagnia dei capibanda Crocco e Pilone (6 marzo 1869).
Successivamente, riacciuffato dai papalini in data 26 ottobre 1870, fu ritrovato prigioniero dalle forze italiane d’occupazione dello Stato romano nel carcere di Paliano nel Frosinate.
Stavolta la Corte d’Assise dell’Aquila, con giudizio emanato il 17 giugno 1873, condannò il brigante ai lavori forzati a vita, commutati, poi, a 24 anni di reclusione.
Alla fine, con altro decreto del 24 ottobre 1896, la pena venne ulteriormente ridotta. Il 19 aprile 1890, l’ergastolano Berardino Viola, detenuto nel Bagno penale di Civitavecchia, con successivo decreto 1° dicembre 1889, fu trasferito all’isola della Maddalena, per scontare il resto della dura segregazione.
Uscito dal carcere all’età di 59 anni e tornato nel Cicolano, il 9 aprile 1897 ottenne dal municipio di Petrella Salto la concessione della «carta di permanenza» che, purtroppo, non gl’impedì di commettere, la sera del 3 novembre 1898, un ennesimo e terribile delitto, massacrando a colpi di bastone un certo Francesco Camelletti.
Seppur provocato presso l’osteria di Fiumata dal giovane muratore originario di Pace (Pescorocchiano), anche in questa occasione il Viola non seppe dominare la sua indole focosa nei confronti di chi aveva osato insultarlo più volte davanti a tutti.
Di nuovo alla macchia, il vecchio brigante si scontrò il 15 novembre con un drappello di carabinieri della stazione di Fiamignano nei pressi del bosco chiamato Fontarella, poco distante da Teglieto, riuscendo, con la sua furbizia d’antico masnadiero, a far perdere le sue tracce.
L’alba del giorno dopo lo vedeva già in fuga verso l’alta Sabina e, grazie alla solita congrega di complici (contadini, pastori e cavallari), fece perdere le sue tracce, proprio quando il giorno 11 marzo 1899 la Corte d’Assise emise nei suoi confronti una nuova sentenza di condanna all’ergastolo in contumacia.
Con lunghe marce caratterizzate da repentini spostamenti su percorsi montani impervi e al riparo delle boscaglie, l’ormai leggendario brigante Viola, tra l’aprile ed il maggio del 1900 incontrò il sanguinario bandito Fortunato Ansuini insieme all’altro losco figuro di Bassano chiamato Damiano Minichetti, tutti e due ex compagni di scorrerie del ben più noto Domenico Tiburzi, ucciso dai carabinieri alcuni anni prima.
Insieme a costoro decise di ricattare arditamente «il milionista» duca Grazioli-Lante-Della Rovere di Roma, minacciando di incendiare tutte le sue masserie e di far strage dei suoi armenti sparsi un po’ ovunque dall’Agro romano fino alla montagna marsicana di Pereto, se non avesse soddisfatto le richieste dei tre banditi, che esigevano la somma di ben diecimila lire.
Si arrivò così alla metà del luglio del 1900, quando lo stesso Viola, dopo il fallimento del colpo, decise di separarsi dai due banditi maremmani.
Da solo, tentò un ultimo disperato ricatto nei confronti del ricco Placido Felizzola di Pratoianni, il quale non rispose alle minacce del bandito.
Ma il giorno fatale per Berardino Viola arrivò la mattina del 29 luglio, quando, alle prime luci dell’alba, dopo aver passato la notte all’addiaccio in un bosco in prossimità di Teglieto, scese furtivamente nel casale in località contrada Valle, appartenente a Pietro Silvi fratello di Cecilia, sua nuora.
I carabinieri della stazione di Petrella Salto e Fiamignano, già da tempo sulle tracce del bandito, infine lo catturarono, dopo un cruento scontro a fuoco, dove ebbe la meglio il milite Giuseppe Mencaroni.
Ferito al polpaccio della gamba sinistra ed incatenato a dovere, venne trasportato su un carretto a Fiamignano, poi a Cittaducale e, dopo gli interrogatori di rito, fu tradotto nelle prigioni dell’Aquila con il treno.
Il 25 maggio 1901 il tribunale della Corte d’Assise dell’Aquila lo condannò inesorabilmente alla pena dell’ergastolo da scontare nel penitenziario di S. Stefano (isole Ponziane), dove l’irriducibile brigante morì nel 1906, senza che le autorità di polizia avessero almeno comunicato al comune di Petrella Salto l’avvenuto decesso.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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NON DIMENTICHIAMO .......gianni tramaglino


Pietrarsa, la strage operaia dimenticata: dopo 150 anni Napoli ricorda l’eccidio

di Gigi Di Fiore - il messaggero.it



Questo è un altro primo maggio. Una pagina rimossa della nostra storia nazionale. È la storia di quattro operai uccisi da baionette e spari di bersaglieri, la storia di una protesta, di molto precedente agli scioperi degli anni successivi al Nord. Una storia in un’Italia unita ancora in fasce.

È la storia di Pietrarsa e dei primi operai morti nel nostro Paese durante una manifestazione. Fu 150 anni fa: il 6 agosto del 1863. Si dice Pietrarsa e si ricorda un grande stabilimento, voluto da Ferdinando II di Borbone nel 1830. L’area è tra Portici, San Giorgio a Cremano e il quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio. Era regno delle Due Sicilie, protezionismo doganale, attività industriali estranee a logiche di mercato e concorrenza selvaggia. Pietrarsa, azienda di Stato, fu voluta dal re «perché del braccio straniero a fabbricare le macchine, mosse dal vapore il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse».

Nel 1843, lo stabilimento produceva locomotive e riparava materiale ferroviario. Quando, nel 1845, a Napoli arrivò in visita lo zar Nicola I di Russia, visitò lo stabilimento e chiese una pianta per realizzare una fabbrica simile a Kronstadt. Nel 1847, gli operai erano 500. Lavoro sicuro, in monopolio e per lo Stato. Una struttura modello, con officina per le locomotive, grandi gru, fonderia, reparto lavorazione caldaie, fucineria, magazzini, biblioteca.

Fu il 1853 l’anno di maggiore sviluppo del primo nucleo industriale d’Italia: 44 anni prima della Breda e 57 anni prima della Fiat. Al lavoro, 700 operai. Poi, l’Italia divenne unita. Pietrarsa poteva diventare occasione di sviluppo per le regioni meridionali, ma le scelte furono diverse. Il governo Rattazzi doveva prendere le prime decisioni di politica industriale del nuovo regno. Nella siderurgia, oltre Pietrarsa il nuovo regno aveva l’Ansaldo a Genova: quale conservare come industria di Stato? La scelta fu affidata ad una relazione, che doveva preparare l’ingegnere 44enne, originario di Nizza, Sebastiano Grandis.

Direttore del sistema ferroviario piemontese, aveva gestito il trasferimento delle truppe sui treni nella seconda guerra d’indipendenza. La sua relazione fu consegnata il 15 luglio del 1861, quattro mesi dopo l’unificazione. L’ingegnere, che sarà poi ricordato per il progetto del traforo del Frejus, concluse che i due impianti erano della stessa importanza, con Pietrarsa più ricco di macchinari e di ampi fabbricati. La scelta, però, cadde sull’Ansaldo perché ritenuto impianto «più flessibile per futuri ampliamenti». Condizione ritenuta fondamentale per potenziare il sistema ferroviario italiano. Una scelta politica che, per risparmi di costi, avrebbe comunque favorito gli investimenti ferroviari nel centro-nord.

L’impianto di Pietrarsa veniva definito costoso e con personale eccessivo. Fu la condanna inesorabile per le ambizioni di Pietrarsa. Lo Stato italiano decise una veloce dismissione. E conveniente per il privato che si accaparrò tutto il blocco per un canone di appena 46mila lire annue: Jacopo Bozza. Per risparmiare, chiuse la scuola d’arte per la formazione degli operai, aumentò le ore di lavoro e licenziò. Il nuovo proprietario, speculatore con saldi legami politici, si impegnò a mantenere almeno 800 operai dei 1050 di un anno prima.

Fu accolto da lettere anonime, tensioni. I lavoratori temevano di perdere il posto. Sui muri, comparvero i primi manifesti di protesta: «Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria». Era l’estate del 1863, quando Bozza annunciò che non avrebbe potuto mantenere i suoi impegni. Chi restava a casa, almeno nei primi tempi, avrebbe potuto ricevere metà dello stipendio «pel conto del governo».

Una forma rudimentale di cassa integrazione. Il 31 luglio, gli operai in servizio erano 458, minacciati da licenziamenti e pagati con ritardo. Una situazione di continua tensione e conflittualità dagli effetti imprevedibili, in uno stabilimento privo di prospettive future. C’entravano anche le scelte di politica industriale fatte dal governo con la preferenza data all’Ansaldo. Il 6 agosto la situazione precipitò. Alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda, tale Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio. La risposta erano stati altri 60 licenziamenti.

Al primo allarme, ne seguì un secondo, più drammatico: «Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Al suono convenuto di una campana, tutti gli operai, di ogni officina dello stabilimento, si erano riuniti nel gran piazzale dell’opificio. Zimmermann sottolineò: «In atteggiamento minaccioso». La polizia non bastava ad evitare il pericolo di incidenti, furono allertati i bersaglieri. Il maggiore Biancardi inviò una mezza compagnia, al comando del capitano Martinelli e del sottotenente Cornazzoni.

Dovevano circondare l’opificio, ma ai cancelli trovarono gli operai. I rapporti ufficiali parlarono di minacce, insulti ai bersaglieri. La reazione fu assai violenta: una carica alla baionetta e poi spari alla schiena sui fuggitivi. Il bilancio finale fu di quattro morti: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. I feriti, ricoverati all’ospedale Pellegrini di Napoli, furono invece dieci: Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti.

Tutto riportato nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura. Ci fu qualcuno che non riuscì a nascondere l’imbarazzo per l’accaduto: il questore Nicola Amore, futuro sindaco di Napoli. Scrisse di «fatali e irresistibili circostanze». Per ridimensionare l’accaduto, gli incidenti vennero attribuiti a «provocatori» e «mestatori borbonici».

Gli operai, erano tempi ancora non maturi per un movimento sindacale e anarchico organizzato, vissero una condizione d’isolamento. Due mesi dopo, ne vennero licenziati altri 262. Si cercò di raccogliere denaro per le vedove dei morti, ma con scarso successo. Ecco, fu quella la prima protesta dinanzi ad una fabbrica nell’Italia unita. Quelli i primi morti. Solo 26 anni dopo, si arrivò a celebrare il primo maggio per decisione della Seconda internazionale. L’occasione era stata la protesta, nel 1886, dinanzi alla fabbrica McCormick di Chicago. Sarebbe bello che, nei tanti concerti di oggi a ricordo delle lotte operaie e a difesa del lavoro, si citassero anche i morti di Pietrarsa. Uomini di Resina e San Giorgio a Cremano senza ricordo nazionale.

Quasi fosse una vicenda minore, da rimuovere e dimenticare. Forse, c’è di mezzo la vergogna di uno Stato che, già dall’inizio, mostrava ambiguità e miopie nelle politiche industriali al Sud. Già, perché oltre i morti di 150 anni fa, c’è un epilogo successivo: la lenta agonia di Pietrarsa. Nel 1875, gli operai erano ridotti a 100, due anni dopo lo stabilimento fu affidato in fitto per 20 anni alla Società nazionale per le industrie meccaniche. Fino al 1885, vennero realizzate 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture ferroviarie, caldaie e vapore e altro materiale ed eseguite 77 riparazioni. Dopo il suicidio di 44 anni prima, nel 1905 lo Stato si riprese la gestione diretta di Pietrarsa.

Per assenza di investimenti e abbandono, la chiusura definitiva fu decisa 70 anni dopo.
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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TESTIMONIANZE E DOCUMENTI

L'assedio di Capua nei ricordi di un veterano borbonico

Nel 1960 venne celebrato il primo centenario dell'unità d'Italia. Cerimonie ufficiali, mostre, pubblicazioni, discorsi, medaglie, servirono - quando servirono - a ricordare agli italiani i gloriosi fatti di un passato fin troppo dimenticato e tradito già poco dopo la raggiunta unità.
Anche noi a Capua volemmo ricordare quello storico anno. Ci riunimmo in pochi amici e formammo un comitato che organizzasse qualche conferenza, una piccola mostra documentaria, un numero unico.
E questo per ricordare, come già detto, quella storica data e per alimentare l'amore per le patrie memorie che è la prima leva ad ogni progresso civile per le città e le nazioni.
Ma, privi come eravamo di contatti politici e ufficiali, giacché non suonavamo la grancassa per nessun ministro, potemmo fare ben poco e lo facemmo con qualche biglietto da mille tirato dalle nostre tasche e la stampa di alcune cartoline concessa dal commissario prefettizio che allora reggeva il comune.
Il numero unico fu la prima cosa ad essere sacrificata. E pensare che già avevo cominciato a raccogliere il materiale e le illustrazioni per quello che doveva esserne l'argomento principale: la battaglia del Volturno del primo ottobre 1860.
All'uopo avevo invitato anche l'amico avv. Andrea Mariano, ottimo studioso di storia locale, perché scrivesse qualcosa sull'argomento. E l'egregio studioso, allora quasi novantenne, mi inviò dopo qualche giorno una sua memoria sull'assedio e la difesa di Capua del 1860, riferendo quanto gli era stato detto, in gioventù, da uno dei difensori borbonici, il maggiore d'artiglieria Carlo Corsi (1).
Costui, come mi narrava l'avvocato Mariano in successivi colloqui, fu uno di quegli uomini d'onore che a Capua e a Gaeta, dove seguirono il loro re, seppero rialzare l'onore delle armi napoletane, avvilite e infangate - più che dalle necessità della storia - dalla disorganizzazione, dal tradimento, dall'intrigo politico, dalla corruzione.
E dopo la resa di Gaeta, rifiutando di passare nell'esercito unitario, visse in dignitosa povertà facendo perfino ... l'affittacamere!
Al giovane Mariano mostrava con delicata nostalgia, inseguendo chissà quali sogni lontani, un servizio di bicchieri donatogli dalla sua bella regina non so in quale occasione. E' superfluo aggiungere che egli non bevve mai da quei bicchieri.
Collaborò ai giornali legittimisti che uscivano a Napoli alla fine dell'Ottocento. Di lui posseggo la seconda edizione, corretta e accresciuta di documenti, di un suo saggio: Cav. Carlo Corsi, Maggiore delle artiglierie napolitane, Capitolato di Gaeta: Difesa dei soldati napolitani, Napoli, Tipi Batelli, aprile 1903, cent. 70.
Passo la parola all'avv. Andrea Mariano: «... potrà giovare quanto su tale avvenimento il sottoscritto apprese dalla voce di un ufficiale borbonico che partecipò a quell'avvenimento. Ed ecco come ebbi modo di saperlo dal maggiore di artiglieria borbonico Cav. Carlo Corsi.
Era questi figlio del colonnello Luigi Corsi che fu il fondatore della prima officina meccanica e fonderia, detta di Pietrarsa, che sorge ancora nella località Croce del Lagno sita dove il paese di S. Giovanni a Teduccio diventa poi Portici. Questa officina, sorta per volontà di Ferdinando II di Borbone, fu la prima che in Italia riuscì a costruire una macchina a vapore per il tratto di ferrovia Napoli-Portici.
Dal Cav. Carlo Corsi appresi i particolari di quell'assedio e di quella capitolazione, perché a lui mio padre mi affidò per circa sei anni in Napoli, durante i miei studi universitari ed anche dopo ...
Prima di riferire quanto da lui appresi è opportuno premettere che l'attuale Capua era piazza forte ed era ritenuta la «Chiave del Regno di Napoli» perché, espugnata Capua e superato l'ostacolo del Volturno, era facile ad un esercito nemico, che venisse dal nord, raggiungere Napoli capitale del Regno.
Allora non si pensava alla possibilità di un nemico che venisse dal sud, dove il restante territorio faceva parte del Regno, e tanto meno che venisse dal mare che lo circondava.
Come piazza forte, avendo il fiume in vicinanza, le colline prossime, i terreni montuosi e la pianura di terreni pantanosi, si adattava a servire da scuola di applicazione dei giovani ufficiali, di varie armi, che uscivano dalla scuola militare della Nunziatella di Napoli, allora frequentata dai figli di famiglie molto distinte del Regno.
Qui cominciano i ricordi del Cav. Corsi, il quale, come figlio di un alto ufficiale, fece in Capua la sua scuola di applicazione e riferiva i particolari di quella vita spensierata che sorrideva nei primi anni della vita militare».
A questo punto l'autore fa una ampia digressione per raccontarci episodi e figure della vita militare nella Capua di allora, che però non hanno alcuno interesse per l'argomento di questo articolo.
Poi così ricomincia: «Ma lasciamo ... per venire all'assedio di Capua del 1860, al quale prese parte, tra i difensori della città, il giovane maggiore Carlo Corsi.
Da quel gran galantuomo che era, interpellato sulle condizioni in quell'epoca dell'esercito borbonico egli serenamente rispondeva: «Noi (cioè l'esercito borbonico) eravamo fatti per la parata di Piedigrotta non per la guerra».
L'esercito garibaldino, dopo avere occupata S. Maria C. V. e avere respinto nel 1° ottobre 1860 un attacco dell'esercito borbonico che cercava di cacciarlo da S. Maria (2), cingeva Capua da assedio ed aveva impiantato le sue batterie sui colli di s. Angelo in Formis e propriamente sul colle detto La Costa del monte S. Nicola.
Ai tiri di queste batterie rispondevano i cannoni delle fortificazioni di Capua e qui il Cav. Corsi raccontava che i soldati borbonici, nascondendosi dietro gli angoli dei bastioni gridavano ai loro commilitoni addetti ai tiri, in purissimo dialetto napoletano: «Lasciateli andare, e dagli, dagli e dagli e poi dite che sono loro a sparare».
I garibaldini, arrivando fin sotto le fortificazioni di Capua gridavano insolenze ai borbonici, che erano sulle mura, chiamandoli: «filibustieri!» e questi ultimi rispondevano: «a noi figli di postieri (postiere in dialetto napoletano è l'impiegato di un banco-lotto) voi siete figli di puttana!».
Questo stato di cose non poteva durare a lungo e venne l'ultimato: o la resa della piazza forte o il bombardamento. Al diniego di resa seguì il bombardamento, che cominciò il 1° e continuò il 2 novembre, con la resa della città.
Il bombardamento consisteva nel lancio di grosse e pesanti bombe incendiarie di forma sferica, le quali avevano un'apertura superiore con fuoruscita di fiamma e che scoppiavano venendo a cozzare contro corpi duri (3).
Di fronte all'insistenza del bombardamento e in vista dei danni che produceva, fu decisa la resa della piazza forte, e avvenne qualcosa di simile a quanto si ebbe dopo il bombardamento aereo del 9 settembre 1943, perché furono aperti i depositi di viveri e le truppe, come i cittadini, ne abusarono e la notte che precedette la resa divenne un baccanale disgustoso.
Il fiore dell'esercito borbonico passò a Gaeta, che fu assediata dalle truppe garibaldine e piemontesi, e troviamo tra gli assediati il nostro Cav. Corsi il quale si gloriava di aver servito il suo re fino all'ultimo e di essere uscito da Gaeta nel 1861 «con le micce accese», segno di riconoscimento per l'onorata resistenza da parte delle truppe assediate.
Carlo Corsi, fedele al suo giuramento al re di Borbone, non volle prendere servizio, con lo stesso grado di maggiore, nell'esercito italiano, come avevano fatto altri suoi pari e superiori.
Ebbe una pensione di fame dal governo italiano e con essa visse da solo perché non aveva più persone di famiglia, vendendo l'uno dopo l'altro i suoi beni tra i quali la bellissima villa in Portici all'angolo del largo della Riccia.
Tutto quello che avveniva nel nostro paese nell'ultimo decennio dell'800 e che rappresentava movimento di pensiero, che si allontanava sempre più dal regime monarchico e tendeva alla repubblica di Garibaldi e di Mazzini, egli interpretava come allontanamento dalla casa Sabauda e ritorno ai Borboni.
Per il resto vivemmo insieme circa sei anni, in pieno accordo, per virtù di quell'educazione che rispetta nell'amico le idee diverse dalle nostre quando siano onestamente professate».
Così termina il racconto dell'avv. Mariano dei ricordi del cavaliere Corsi. Ricordi che ci dicono qualche altra cosa sull'assedio di Capua e ci permettono di ricordare due simpatiche figure che a Capua si batterono in epoche e circostanze diverse: l'uno il veterano borbonico, sugli spalti della lealtà e del coraggio per la difesa di un Regno che ai suoi occhi era senza macchia; l'altro, il vecchio avvocato, nelle aule giudiziarie in difesa del diritto.

ROSOLINO CHILLEMI

Note:
(1) Lo ricorda Benedetto Croce nel capitolo «Gli ultimi borbonici» del volume Uomini e cose della vecchia Italia - serie seconda - pagg. 404, 406, 409.
(2) Non è il caso di ripetere qui i vari episodi della battaglia del Volturno. Dopo un successo iniziale i borbonici non seppero approfittare del vantaggio e per mancanza di iniziativa, di obbedienza, di coordinazione, di prontezza, persero la possibilità di marciare su Napoli. Comunque è da notare che si combatté con eguale valore da ambo le parti. L'assedio venne posto, successivamente, dai borbonici e dai piemontesi.
(3) Una di queste bombe si conserva, nella chiesa di S. Eligio, ai piedi di Sant'Andrea che protesse la città in quel cannoneggiamento.
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Il Regno delle Due Sicilie (1816-1860) prima dell’ invasione Piemontese del 1860, era il più ricco degli stati preunitari, e di gran lunga il più esteso ed industrializzato d’Europa.

Nel 1856 a Parigi ricevette il premio internazionale come terzo Paese più industrializzato del mondo.
Con l’ unità d’Italia, trattati da colonia deteniamo primati poco felici, come quello di aver un tasso di disoccupazione, criminalità e povertà, più alti d’Europa.
Di seguito l’ elenco dei primati del Regno delle Due Sicilie.
1735. Prima Cattedra di Astronomia in Italia
1737. Primo Teatro al mondo(S.Carlo di Napoli)
1754. Prima Cattedra di Economia al mondo
1763. Primo Cimitero Italiano per poveri(Cimitero delle 366 fosse)
1781. Primo Codice Marittimo del mondo
1782. Primo intervento in Italia di Profilassi Antitubercolare
1783. Primo Cimitero in Europa ad uso di tutte le classi sociali (Palermo)
1792. Primo Atlante Marittimo nel mondo(Atlante Marittimo Due Sicilie)
1801. Primo Museo Mineralogico del mondo
1807. Primo Orto Botanico in Italia a Napoli
1813. Primo Ospedale Psichiatrico in Italia(Reale Morotrofio di Aversa)
1818. Prima nave a vapore nel mediterraneo “Ferdinando I”
1819. Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte
1832. Primo Ponte sospeso, in ferro, in Europa sul fiume Garigliano
1833. Prima Nave da crociera in Europa “Francesco I”
1835. Primo istituto Italiano per sordomuti
1836. Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel mediterraneo
1839. Prima Ferrovia Italiana, tratto Napoli-Portici
1840. Prima fabbrica metalmeccanica d’ Italia per numero di operai
1841. Primo Centro Sismologico in Italia(Ercolano)
1841. Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843. Prima Nave da guerra a vapore d’ Italia “Ercole”
1845. Primo Osservatorio meteorologico d’Italia
1845. Prima Locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa
1852. Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia(porto di Napoli)
1852. Primo Telegrafo Elettrico in Italia
1856.
Esposizione Internazionale di Parigi, premio per il terzo paese al
mondo come sviluppo industriale
1856. Primo Premio Internazionale per la produzione di Pasta
1856. Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli
1860. Prima Flotta Mercantile e Militare d’Italia
1860. Prima Nave ad elica in Italia “Monarca”
1860. Prima città d’Italia per numero di Teatri(Napoli)
1860. Prima città d’Italia per numero di Tipografie(Napoli)
1860. Prima città d’Italia per numero di Pubblicazioni di Giornali(Napoli)
1860. Primo Corpo dei Pompieri d’Italia
1860. Prima città d’Italia per numero di Conservatori Musicali(Napoli)
1860. Primo Stato Italiano per ricchezza di Lire-oro(443 milioni)
1860. La più alta quotazione di rendita dei Titoli di Stato
1860. La più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia
1860. La più alta percentuale di medici per abitanti in Italia
1860. Il minore carico Tributario Erariale in Europa
Fonte: http://orgogliosud.blogspot.com/2009/11 ... cilie.html
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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La prima crociera turistica al mondo di cui si ha notizia è del 1833 quando si utilizzò il piroscafo di linea Francesco I battente bandiera del Regno delle Due Sicilie che copriva la tratta Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia. Costruito nei cantieri navali di Castellammare di Stabia nel 1831, il piroscafo aveva una velocità eccezionale rispetto alle navi dell’epoca grazie ai suoi motori da 120 cavalli. La crociera fu preceduta da una campagna pubblicitaria incredibile per quei tempi, sulla nave si imbarcarono nobili e principi reali di mezza Europa. In poco più di tre mesi la nave passando per la Sicilia, Malta e la Grecia arrivò a Costantinopoli, tra lo stupore del sultano che ammirava lo spettacolo da una terrazza del suo palazzo, per poi fare ritorno a Napoli con diversi scali intermedi. “Il Francesco I, si scrisse, è il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel Mediterraneo!”
Da :http://libreriainternazionaleilmare.blogspot.it/
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gianni tramaglino ha scritto:La prima crociera turistica al mondo di cui si ha notizia è del 1833 quando si utilizzò il piroscafo di linea Francesco I battente bandiera del Regno delle Due Sicilie che copriva la tratta Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia. Costruito nei cantieri navali di Castellammare di Stabia nel 1831, il piroscafo aveva una velocità eccezionale rispetto alle navi dell’epoca grazie ai suoi motori da 120 cavalli. La crociera fu preceduta da una campagna pubblicitaria incredibile per quei tempi, sulla nave si imbarcarono nobili e principi reali di mezza Europa. In poco più di tre mesi la nave passando per la Sicilia, Malta e la Grecia arrivò a Costantinopoli, tra lo stupore del sultano che ammirava lo spettacolo da una terrazza del suo palazzo, per poi fare ritorno a Napoli con diversi scali intermedi. “Il Francesco I, si scrisse, è il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel Mediterraneo!”
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Ciao Gianni,

chi sarà interessato ne troverà anche notizia ed illustrazione nell'ultimo libro di A. Arseni.

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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Laurent ha scritto:
gianni tramaglino ha scritto:La prima crociera turistica al mondo di cui si ha notizia è del 1833 quando si utilizzò il piroscafo di linea Francesco I battente bandiera del Regno delle Due Sicilie che copriva la tratta Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia. Costruito nei cantieri navali di Castellammare di Stabia nel 1831, il piroscafo aveva una velocità eccezionale rispetto alle navi dell’epoca grazie ai suoi motori da 120 cavalli. La crociera fu preceduta da una campagna pubblicitaria incredibile per quei tempi, sulla nave si imbarcarono nobili e principi reali di mezza Europa. In poco più di tre mesi la nave passando per la Sicilia, Malta e la Grecia arrivò a Costantinopoli, tra lo stupore del sultano che ammirava lo spettacolo da una terrazza del suo palazzo, per poi fare ritorno a Napoli con diversi scali intermedi. “Il Francesco I, si scrisse, è il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel Mediterraneo!”
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Ciao Gianni,

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Laurent Ciao:



Grazie Laurent ! Sarebbe interessante mostrare un disegno della FRANCESCO I° , io purtroppo non l'ho rintracciata!gianni
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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L'orto botanico di Napoli


Il Real Orto Botanico di Napoli fu fondato nel 1807 in un'area ai piedi della collina di Capodimonte, a lato del Real Albergo dei Poveri; oggi si tratta di una struttura universitaria, della facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, ed è sicuramente il più importante in Italia per il numero e la qualità delle specie presenti.

Al primo allestimento contribuirono botanici partenopei del calibro di Vincenzo Petagna e Michele Tenore, e, nel decreto di fondazione firmato da Giuseppe Bonaparte, si indicava come scopo della struttura l'istruzione del pubblico, lo sviluppo delle arti mediche, dell'agricoltura e dell'industria.

Oggi l'Orto botanico di Napoli conta circa 25mila esemplari di 10mila specie diverse, provenienti da ogni parte del mondo. Le collezioni vegetali sono presentate secondo tre criteri: ecologico (raggruppamento delle specie in base ai parametri ambientali delle zone geografiche di provenienza), sistematico (raggruppamento di specie analoghe dal punto di vista filogenetico) ed etnobotanico (raggruppamenti in base al tipo di applicazione determinato dall'uomo).

Dei suddetti raggruppamenti, possiamo citare ad esempio l'area delle succulente, l'area della macchia mediterranea, le vasche di piante acquatice, il filiceto (criterio ecologico), l'area delle Pinophyta, l'area delle Magnoliophyta, l'agrumeto, il palmeto (criterio sistematico), la sezione sperimentale delle piante officinali (criterio etnobotanico).

Interessanti sono anche i complessi di serre e il museo di Paleobotanica ed Etnobotanica, ospitato nel Castello seicentesco.

Da : http://www.danpiz.net/napoli/parchi/OrtoBotanico.htm
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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L'errore dei Borbone fu inimicarsi Londra

L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli di Paolo Mieli

http://www.corriere.it/unita-italia-150 ... f471.shtml









Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un'entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero». Ma l'Inghilterra riteneva che l'aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.

Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell'anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861) , che sarà presto pubblicato da Rubbettino.

Già nelle pagine della premessa a questo volume (che rende omaggio, con un'esplicita dedica, a Giuseppe Galasso e al suo Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, edito da Utet), Di Rienzo si rende conto del fatto che la pietas per il destino del regno borbonico lo espone al rischio di trasformare il suo racconto in quella che Benedetto Croce definì «storia affettuosa», simile alle «biografie che si tessono di persone care e venerate». O anche a quelle che sempre Croce definiva le «storie che piangono le sventure del popolo al quale si appartiene». Un rischio, scrive Di Rienzo, «forse tale da portare acqua al mulino di quell'Anti Risorgimento vecchio e nuovo» che - e qui cita il Giorgio Napolitano di Una e indivisibile (Rizzoli) - «con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell'Italia unita, che rispondeva all'ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese e come ci ha insegnato Rosario Romeo)». Però, prosegue Di Rienzo, a «chi ha scelto la professione di storico», non si può chiedere di «non ricordare che l'unione politica del Sud al resto d'Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali». E non lo si può esortare a «passare sotto silenzio come quell'unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai "unità", sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la Potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande "Piccolo Stato" della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». Parole molto forti: quella dell'Inghilterra nei confronti del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata «una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea».

Da lungo tempo il Regno Unito non aveva nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre (1827) scriveva: «Quest'isola non rappresenta per l'Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari che l'Inghilterra intende intraprendere nell'Italia e nel Mediterraneo».



Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell'estate del 1831, quando fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta, condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono l'isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell'isola Ferdinandea e di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in L'isola che se ne andò di Filippo D'Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data l'assoluta irrilevanza dell'isolotto. Ma che voleva essere un segno inequivocabile nei confronti di un'isola ben più importante, la Sicilia. Sicilia da cui l'Inghilterra importava vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la preparazione della soda artificiale, dell'acido solforico e della polvere da sparo. Zolfo che fu all'origine di un contenzioso dal quale uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne fuori quella che Ernesto Pontieri - nei saggi raccolti in Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento (Esi) - ha definito una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto all'Inghilterra immutata la sua diffidenza».

Ai tempi della rivoluzione del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato «di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò a garantire l'indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia.

Fu Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto, bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo. All'epoca l'Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che «la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla violazione dell'antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva, minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano».

In Inghilterra divenne un caso molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell'Istruzione nel governo costituzionale napoletano del 1848, che nel '49 fu arrestato, processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati 10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato da una certa enfasi e non poche esagerazioni.


È in questo momento storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere - la prima era stata quella di cui all'inizio della «guerra carlista» - che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell'estate di quell'anno, scrive Di Rienzo, «convinto che l'offensiva dei coalizzati si sarebbe infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni sanitarie, giustificate dall'epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio proveniente dall'Impero ottomano».

Palmerston, divenuto primo ministro, nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l'influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale» appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi esplicito.

Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell'ergastolo dell'isolotto di Santo Stefano. L'operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II di rivendicare l'autonomia del suo regno nelle grandi scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un'esemplare punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato, servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie, nell'impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale».

Di qui un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell'Inghilterra (ma anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo' di «spedizione punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun Ieyoshi Tokugawa». Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, termina l'articolo del Times, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l'esistenza di «un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a quell'editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell'opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole: «La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un'apertura delle ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di congedare Mazza.

Trascorre un po' di tempo e si verifica un nuovo incidente. L'ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua, principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve l'importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d'Europa s'intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra».

Qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l'errore di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere, inventate di sana pianta... Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato "re bomba", aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente illegittima».

È un fatto che in quegli anni il Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale. Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti a Palermo, a Cefalù, e, l'8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici avviando trattative per stipulare una convenzione con l'Argentina, al fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici, che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai Comuni che «l'invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borbone».



Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che - per l'ostilità dell'esercito ma anche del popolo - fallì e fu represso con durezza. Dell'equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla gendarmeria napoletana. L'Inghilterra si mosse immediatamente per reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell'«ingiusta detenzione».

Nel gennaio del 1859 Ferdinando II concede l'esilio perpetuo a circa novanta prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri arrestati. Così l'Inghilterra continua a tener viva la tensione con il regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860, l'impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell'intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia napoletana. Da quel momento l'aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.

Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è un'ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica». Eppure c'è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la plausibilità di questa interpretazione». E questo libro ce ne offre un'accurata disamina.

C'è la documentazione dell'aiuto inglese al viaggio e all'impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove della consapevolezza inglese dell'alleanza tra la malavita napoletana e gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella Storia della camorra di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l'ingresso dei volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto dell'attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi «liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in L'inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli edito, anche questo, da Rubbettino.

In seguito alcuni uomini politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il tutto un «dirty affair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa repressione dell'armata sarda che si era macchiata di crimini contro l'umanità ben più efferati di quelli che l'opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio nell'Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo «pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un'impresa illegittima e scellerata che aveva portato all'instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».

Fu per queste vie, conclude Di Rienzo rievocando il successivo sprezzante diniego britannico alla richiesta italiana di istituire una colonia penale in un isolotto prospiciente la baia di Gaya, nel sultanato del Brunei, che l'Italia unita ereditò «quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie». Un destino che si sarebbe riflesso sul nostro Paese fino ai giorni nostri, «nel segno», è la conclusione di Eugenio Di Rienzo, «di un passato destinato a non passare».
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Sulla legislazione borbonica


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Oggi, allorquando in Italia, nella pubblica amministrazione o nella macchina dello Stato, qualcosa non va, oppure se una legge appare ingiusta, meschina, pignola, tormentatrice del cittadino, chi scrive su riviste o quotidiani se ne viene fuori con il luogo comune: «leggi borboniche», dando a questa dizione un significato totalmente negativo. Ma non c’è nulla di più sbagliato: nel 1861, a seguito dell’unificazione politico-territoriale della Penisola, l’intera struttura statale italiana fu modellata su quella piemontese; l’Ordinamento giuridico napoletano fu, quindi, azzerato e delle leggi borboniche non fu conservato un bel niente! Eppure, si continua a parlare spregiativamente di «stato borbonico», di «leggi borboniche», di «burocrazia borbonica», di «carceri borboniche», come in un’estasi di ignoranza o, peggio, di malafede.Se sfogliamo, infatti, un vocabolario della lingua italiana, constatiamo che il termine borbonico viene qualificato come aggettivo dispregiativo che, riferito al ramo della famiglia che regnò su Napoli e l’Italia meridionale dal 1734 al 1860, ha oramai acquisito l’accezione di retrogrado, oscurantista, reazionario, repressivo, ottuso, ingiusto, antiquato, inefficiente e... chi più ne ha più ne metta!

Eppure, nelle nostre civili Due Sicilie, le cose stavano ben diversamente, per cui credo che sia giunto il momento di confutare definitivamente questa calunnia, frutto solo di una propaganda denigratoria per i governanti ed i legislatori dell’ex Regno delle Due Sicilie.

Infatti, dopo un secolo e mezzo dall’annessione del Meridione d’Italia al Piemonte, è possibile affermare, con cognizione di causa, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che, nel 1852, l’imperatore francese Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero proprio la bontà di quelle leggi .Peraltro, nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie»; e, pochi anni fa, il compianto professor Giuseppe Cicala era solito affermare che «per far funzionare il Sud, basterebbe far funzionare bene ciò che ci hanno lasciato i Borbone: leggi e regolamenti compresi».

Lo Stato borbonico, infatti, eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo ed aveva delle leggi all'avanguardia in numerosi settori; in particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto. Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale napoletano l’istituto della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); e quando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto liberale Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode .

È peraltro sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli - fondo Archivio Borbone - la «Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per comprendere la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.

A titolo esemplificativo, menzionerò qui di seguito alcune leggi borboniche le cui materie, come si vedrà, risultano ancora oggi attualissime.

In campo economico-sociale, nel 1789 (qualche mese prima della Rivoluzione francese), il re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) emanò il Codice-statuto delle Seterie di San Leucio, presso Caserta, per regolamentarvi la vita ed il lavoro degli operai e dei loro nuclei familiari. La colonia di San Leucio fu un progetto ideato e voluto dallo stesso re. L’opificio, conosciuto poi in tutta Europa per l’elevato livello tecnologico ed i cui pregiati manufatti venivano largamente esportati, divenne il fiore all’occhiello dell’industria del Sud. Si trattò di un vero e proprio miracolo (non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto l’aspetto sociale), che stupì i contemporanei, realizzato sulla base delle teorie socio-economiche del già menzionato illuminista napoletano Gaetano Filangieri.

Il Codice Leuciano, ben presto tradotto in greco, francese e tedesco, anticipò di quasi un secolo le prime leggi sul lavoro varate in Inghilterra (previdenza, assistenza sanitaria, case ai lavoratori, asili nido, istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i fanciulli). Esso perseguiva, infatti, obiettivi di convivenza tipicamente moderni e mirava a realizzare una sorta di socialismo evangelico: sanciva cioè, per i componenti della colonia, la perfetta uguaglianza, con l’unica possibilità di differenziazione basata sul merito. Le giovani coppie avevano diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito. Lo statuto prevedeva un criterio retributivo, certamente parsimonioso, però in anticipo sui tempi, ed una specie di piano contro il pauperismo del Sud; perché l’iniziativa «dev’essere» – sono parole del re Ferdinando – «utile alle famiglie, alleviandole da’ pesi, che ora soffrono, e portandole ad uno stato tale da potersi mantener con agio, e senza pianger miseria, come finora è accaduto in molte delle più numerose e oziose». Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane e ben due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America. Se mai nella vostra vita aveste la possibilità di toccare la bandiera americana situata nella Sala Ovale della Casa Bianca o quella inglese di Buckingam Palace, sappiate che state toccando le pregiate sete provenienti da San Leucio. E non solo. Dalle seterie san leuciane provengono anche tessuti che si possono ritrovare in Vaticano e al Quirinale, per citare altri esempi dell’arte della piccola comunità. Dal 1997, San Leucio è Patrimonio dell’Umanità.

Con la Convenzione del 14 febbraio 1838, stipulata con la Francia e con l’Inghilterra, il Regno delle Due Sicilie si obbligò a combattere con le armi – se necessario – e con danaro pubblico, la tratta degli schiavi. Ferdinando II (1810-1859) volle in questo modo contrastare quello che lui definiva un «traffico abbominevole» e, nell'autunno del 1839, il re Borbone promulgò la «Legge per prevenire e reprimere i reati relativi al traffico conosciuto sotto il nome di Tratta de' negri». Questa normativa, costituita da 15 articoli, prevedeva pene diverse a seconda che il bastimento, utilizzato per la tratta, fosse bloccato prima della partenza o venisse catturato dopo, in mare, senza che però il traffico fosse stato portato a termine. Potevano beneficiare di sconti di pena sostanziale i membri dell'equipaggio che avessero avvisato per tempo la pubblica sicurezza; tali benefici, però, non potevano mai essere applicati in favore dell'armatore, del capitano, degli ufficiali, del proprietario della nave, dell'assicuratore e del prestatore di capitali. Incorreva nelle sanzioni anche chi fabbricava, vendeva o acquistava i ferri da utilizzarsi nella tratta. La pena era più grave, poi, se qualche schiavo negro fosse stato fatto oggetto di maltrattamenti o di omicidio. La Gran Corte criminale, competente per il giudizio in merito, aveva anche il compito di provvedere alla liberazione degli schiavi di colore, ai quali veniva consegnata gratuitamente «copia legale della decisione di libertà». Ricordo che questa era l’epoca in cui il commercio negriero era molto fiorente, soprattutto negli Stati Uniti d’America, ove lo rimase fino alla conclusione della Guerra di Secessione (1865).

Una legge pionieristica, promulgata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone,([6]) alla quale seguì il decreto n. 10406 del 19 ottobre 1846 del re Ferdinando II,([7]) regolamentava la concessione della cittadinanza agli stranieri. Essa, composta da soli tre articoli, fu la prima normativa della storia sull’immigrazione. Il suo principio informatore era quello secondo cui, per poter acquisire la cittadinanza nel Regno, uno straniero doveva risultare concretamente utile alla collettività ed, in nessun caso, poteva costituire un problema sociale od un peso economico per lo Stato. In particolare, all’articolo 1, così recitava: «Potranno essere ammessi al beneficio della naturalizzazione nel nostro regno delle Due Sicilie: 1. gli stranieri che hanno renduto, o renderanno importanti servizi allo Stato; 2. quelli che porteranno dentro lo Stato de’ talenti distinti, delle invenzioni, o delle industrie utili; 3. quelli che avranno acquistato nel regno beni stabili su’ quali graviti un peso fondiario almeno di ducati cento all’anno; al requisito indicato ne’ suddetti numeri 1, 2, 3 debbe accoppiarsi l’altro del domicilio nel territorio del regno almeno per un anno consecutivo; 4. quelli che abbiano avuto la residenza nel regno per dieci anni consecutivi, e che provino avere onesti mezzi di sussistenza; o che vi abbiano avuta la residenza per cinque anni consecutivi, avendo sposata una nazionale». Questa legge costituisce anche la prova inconfutabile che, prima dell’unità d’Italia, non solo i meridionali non conoscevano il triste fenomeno dell’emigrazione, ma che numerosi erano i casi di emigranti, dall’Italia settentrionale e dal resto del mondo, che venivano a stabilirsi al Sud. Ci è dato, infatti, di sapere che il Regno delle Due Sicilie era meta ambita da svizzeri, piemontesi, genovesi, russi, austriaci, spagnoli, arabi, slavi e, soprattutto, francesi ed inglesi. Tali flussi migratori verso il nostro Sud forniscono, inoltre, un dato inequivocabile: lo Stato meridionale era ricco e felice, vi era pace sociale e lavoro. La differenza di cultura, di religione e di lingua non erano motivi di discriminazione né, tanto meno, di emarginazione. Possiamo, quindi, affermare con orgoglio che la legislazione del Regno delle Due Sicilie, in materia di concessione della cittadinanza agli stranieri ed ai loro figli, era avanti, rispetto a quella attualmente in vigore nello Stato Italiano (ad iniziare dalla legge del 5 febbraio 1992, n. 91), di ben centosettantacinque anni!

Un decreto emanato il 3 maggio 1832 dal re Ferdinando II di Borbone, analizzava e regolamentava la situazione dell’igiene pubblica e della raccolta dei rifiuti dell’intero Regno delle Due Sicilie.([8]) Un’ordinanza della prefettura di polizia disciplinava, poi, nei dettagli, lo spazzamento e l’innaffiamento delle strade, compresa una sorta di raccolta differenziata ante litteram per il vetro. In particolare, a Napoli, il prefetto dell’epoca, Gennaro Piscopo, ordinò ai napoletani: «Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte». Nel dettagliato documento del prefetto di Napoli, composto da 12 articoli, venivano indicate le modalità della raccolta e chi ne era responsabile; si vietava di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura, comprese le acque utilizzate per i bagni, e di lavare o di stendere i panni lungo le strade abitate; venivano, infine, stabilite le pene per le contravvenzioni, non esclusa la detenzione. Questa legge borbonica aveva già risolto il problema della spazzatura quasi duecento anni or sono, facendo sì che Napoli fosse la città più pulita d’Europa.

In campo giudiziario, i re Borbone legiferarono e si adoperarono per la più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta «indipendenza della magistratura» dagli altri poteri dello Stato. L’articolo 194 della legge del 29 maggio 1817, infatti, così recitava: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati».([9]) Inoltre, Ferdinando II, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo... ordinò e richiamò essenzialmente in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause».([10]) Ai sensi dell’articolo 196 della stessa legge del 1817 innanzi menzionata, nessuno poteva essere privato di una proprietà o di alcuno dei diritti accordatigli dalle leggi dello Stato, se non per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato.

Accanto a questi veri e propri primati, sempre in campo giuridico e normativo, è doveroso quantomeno menzionare: il primo Codice Marittimo del mondo (1781), la cui stesura fu curata da Michele Iorio; il primo Codice Militare d’Italia, promulgato nel 1820.

Ricordo, infine, gli usi civici e l’istituto dell’enfiteusi, in virtù dei quali la terra veniva concessa in uso a chi la lavorava, per il sostentamento della propria famiglia, dietro pagamento della cosiddetta decima; in sostanza, i contadini erano detentori ed usufruttuari dei terreni demaniali, che restavano però sempre di proprietà pubblica. A quest’ultimo riguardo, non si può prescindere dal ricordare la Prammatica del 20 settembre 1836, di Ferdinando II, sul demanio e sugli usi civici, dal cui testo emerge chiaramente una caratteristica peculiare del Diritto napoletano: la salvaguardia dei diritti dei più deboli dalle prepotenze e dai soprusi dei più forti .

In conclusione, si può ben affermare che noi meridionali abbiamo ereditato, dalla struttura statale e dalle leggi su cui si reggeva il regno borbonico, un lascito molto prezioso e, cioè, la consapevolezza e l’orgoglio di essere i discendenti e gli eredi di un popolo civile, laborioso, prospero e pacifico (mai aggressore, ma sempre aggredito!). Pertanto, è del tutto ingiusto attribuire all’aggettivo borbonico un significato negativo. Al contrario ed in particolare, le leggi borboniche, semplici ed efficacissime, affondavano le radici nella culla del vero diritto (quello naturale) e, soprattutto, nella legge perfetta, quale è la costituzione universale di Dio, il Vangelo. Anche se laico, quel Regno aveva alla base gli elementi portanti di uno stato di amore fatto di tolleranza, mutuo soccorso ed equità sociale, propri del Messaggio di Gesù Cristo. E certamente fu questa una delle peculiarità che decretarono la condanna morte del Regno delle Due Sicilie, in un mondo in cui le potenze capitalistiche ed ateo-massoniche dell’epoca stavano per sferrare la più vile e violenta delle aggressioni agli antichi Stati cattolici d’Europa.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gipos »

Ciao: Gianni, sempre molto istruttivo leggere i tuoi interventi, credo che ancora oggi si voglia in tutti i modi far passare la tesi che in effetti la popolazione e l'esercito Duosiciliano non abbiano patito in nessun modo, alcunché di violenza e feroce repressione.
http://www.lindipendenzanuova.com/fenes ... accontata/
Ritengo che la chiarezza si debba fare soprattutto con le famose "pezze di appoggio" documenti originali dell'epoca che si ha la fortuna di possedere o di consultare, riporto le scansioni di articoli riprese da copie del giornale l'omnibus uno del 23.02.1861 da cui l'articolo sul raffronto dei due sovrani, l'altro del 15.08.1861 rispondendo così a quanti affermano che i soldati borbonici sono stati trattati in modo umano, come se gli stessi siano stati mandati in villeggiatura sulle Alpi per motivi di svago.
Inoltre immetto una copia del bollettino di guerra dove il Dittatore si rivolge ai soldati Napoletani cercando di invogliarli alla diserzione per poter essere intruppati nell'esercito Unitario, inoltre immetto l'appello di Garibaldi ai siciliani, sperando che siano di vostro gradimento vi saluto cordialmente Ciao: Ciao:
Giuseppe
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gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Ciao: Ciao: a tutti, come riportato dall'articolo dell'indipendenza che fa riferimento al libro del Prof. Barbero, si evince che una colonna di prigionieri borbonici giunga a Fenestrelle il giorno 9.11.1860, detta colonna ammonta a circa 1186 soldati di cui molti furono ospedalizzati mentre tanti altri nelle settimane successive furono trasferiti in altri posti.
Dall'articolo del giornale l'Omnibus del 15 Agosto 1861 che voglio ricordare era l'organo di stampa ufficiale del neonato Stato unitario, si evince in modo chiaro che in data 9.8.61 ben 10 mesi dopo da quanto riportato dal Prof. Barbero, una colonna di oltre 300 soldati borbonici giunge da Napoli per poi essere trasferiti in quel di Fenestrelle dove vi sono di già diverse migliaia di soldati Duosiciliani, per cui tra quanto affermato sia dall'Autore del libro, sia dall'estensore dell'articolo sull'indipendenza risulta di fatto una notevole discrepanza di numeri e di date.
Immetto inoltre un decreto prodittatoriale cui si da la possibilità a F. Crispi di poter attingere dagli archivi pubblici tutte le notizie da poter tramandare ai posteri il "neguittoso" comportamento dell'abborrita dinastia dei Borboni, così si capisce del perché tanti fatti accaduti oltre 150 anni fa siano ancora oscuri ed indirizzati in un determinato modo.
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