"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino

Forum di discussione sulle emissioni e la storia postale del Regno delle Due Sicilie - Domini al di qua del faro - Napoli
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Francesco II
Re delle Due Sicilie



Francesco II è l'ultimo Sovrano a regnare sulle Due Sicilie; è con lui che avviene l'invasione del Regno da parte prima dei garibaldini e poi dell'esercito sabaudo, e quindi l'annessione al neonato Regno d'Italia. Il tutto solo un anno dopo la morte di Ferdinando II, avvenuta quando questi aveva solo 48 anni, mentre Francesco si è trovato inaspettatamente sul Trono alla giovane giovane età di 23 anni.


Era infatti nato il 16 gennaio 1836 primogenito di Ferdinando II e della sua prima moglie Maria Cristina di Savoia (di cui, come detto in precedenza, è in corso il processo di beatificazione), che lo lascerà orfano di madre solo quindici giorni dopo la sua nascita. Sia il padre che la sua seconda moglie, la Regina Maria Teresa d'Asburgo, gli impartirono, con l'ausilio dei padri gesuiti, un'educazione fortemente religiosa, ma non priva di cultura generale, anche se non ebbe mai quella militare di cui era ricco Ferdinando. Per altro, questi gli insegnò sempre l'amore al Regno e i suoi doveri verso i sudditi, che venivano prima di ogni altra cosa, dopo quelli verso Dio, naturalmente. In ogni caso, i rapporti con la matrigna non dovettero essere facili, in quanto, come è anche naturale, ella pensava anzitutto ai propri figli (ne ebbe 11, fra cui il futuro capo della Real Casa dopo la morte di Francesco, Alfonso Maria, Conte di Caserta), ma mai conflittuali; Francesco da parte sua rispettava la Regina, e questa si preoccupava di seguire il futuro sovrano.



Ferdinando gli scelse come moglie Maria Sofia di Baviera, figlia del Duca Massimiliano, sorella di Elisabetta, la moglie dell'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Maria Sofia, come tra poco vedremo, si rivelerà, nei tragici giorni della loro vita, una donna eccezionale, mai più dimenticata dai sudditi ed ammirata in tutta Europa.



I primi tempi a Corte non furono facili per Maria Sofia, destinata a non intendersi con la Regina; ma aveva al contrario tutta la simpatia del Re, che le era sinceramente affezionato. Il problema fu che proprio con il suo arrivo a Napoli iniziò la malattia che condusse Ferdinando alla morte; l'elevazione al Trono di Francesco e Maria Sofia rese ancor più critici i rapporti con la Regina madre; ma ormai ben altri problemi si stavano preparando all'orizzonte, e Maria Sofia saprà dimostrarsi Regina forte e coraggiosa come poche altre nella storia: il pensiero non può non andare alla Maria Antonietta degli ultimi tempi della sua vita, e anche se a Maria Sofia per fortuna fu risparmiata la tragedia della morte sua e del marito, un più lento dolore le toccò in sorte per tutto il resto della sua lunga esistenza (morirà nel 1925).


Francesco di fatto poté regnare da libero sovrano solo l'arco di un anno; poi dovette occuparsi di affrontare l'invasione del Regno. Eppure già in così poco tempo poté fornire qualche minimale dimostrazione di cosa sarebbe stato il suo regno qualora gli fosse stato concesso di governare serenamente come ai suoi antenati.


Certamente non possedeva la forza di carattere del padre, né, come è ovvio, l'esperienza politica, ma era uomo ricco di bontà e umanità, uomo di profonda fede e senso del dovere verso i sudditi, e specie verso i bisognosi. Univa alla capacità riformatrice dei suoi antenati, ancor più di questi un profondo senso dei doveri religiosi, il che in effetti lo rendeva forse il migliore dei sovrani per i suoi sudditi.


Del resto, la feroce resistenza filoborbonica che avvenne negli Anni Sessanta e che vide coinvolti decine di migliaia di uomini e donne - come ai tempi delle insorgenze - in armi a difesa dei suoi diritti legittimi, è la miglior riprova di quanto appena affermato. Fin dalla sua salita al Trono, concesse tante amnistie, nominò delle commissioni apposite per visitare i luoghi di pena e apportare le migliorie necessarie; volle concedere maggiore autonomie locali ai municipi, e diminuì il peso dei legami burocratici; a Palermo e Messina accordò franchigie daziarie, a Catania istituì un Tribunale di Commercio e le Casse di conto e di sconto; condonò in Sicilia gli avanzi del dazio e dimezzò l'imposta sul macinato, abolì il dazio sulle case terrene ove abitava la povera gente e ridusse le tasse doganali, specie quella sui libri esteri; diminuì anche le tasse sulle mercanzie estere, concesse Borse di Cambio a Chieti e Reggio Calabria; ordinò che si aprissero monti frumentari e monti di pegni, e Casse di Prestito e di Risparmio nei paesi che ne erano privi; essendovi stata una carestia di grano, mentre i ribelli già accusavano il Re di voler far gravare il peso sui poveri, egli dava ordine di distribuire a prezzo ridottissimo intere partite di grano estero alle popolazioni, per altro con perdita economica da parte del governo. Creò inoltre cattedre, licei e collegi, e istituì una commissione per il miglioramento urbano di Napoli (aveva in mente a riguardo di costruire mulini a vapore governativi per offrire la macinazione gratuita dei grani, ma l'idea non poté essere attuata per l'arrivo dei garibaldini); ampliò la rete ferroviaria e chiese stretto conto dei ritardi dei privati nelle costruzioni già accordate, e con decreto del 28 aprile 1860 prescrisse l'ampliamento della rete con la linea Napoli-Foggia e Foggia-Capo d'Otranto; poi ordinò le linee Basilicata-Reggio Calabria e un'altra per gli Abruzzi, mentre già pensava anche alla Palermo-Messina-Catania.

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Francesco II
Re delle Due Sicilie


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Il 1° marzo 1860 prescrisse a tutti i fondi la servitù degli acquedotti, ed evitando così gli impaludamenti favorì l'irrigazione dei campi e quindi la salute pubblica; dispose poi il disseccamento del Lago del Fucino, fece continuare il raddrizzamento del fiume Sarno scavando un canale navigabile, ordinò che si continuassero i lavori nelle paludi napoletane e lo sgombro delle foci del Sebeto. Tutto questo in un anno. Ancora nel 1862, ormai esule a Roma, inviò una grossa somma ai napoletani vittime di una forte eruzione del Vesuvio.

Dopo la caduta del Regno, i Reali furono ospitati a Roma da Pio IX (che ricambiava in tal maniera l'ospitalità ricevuta da Ferdinando II nel 1848-1850) prima al Quirinale poi a Palazzo Farnese, fino al 1870. In questi anni, essi tentarono dapprima di fomentare la resistenza filoborbonica che stava prendendo piede nell'ex-Regno, ma poi si resero conto che tutto era perduto e non vollero essere causa di altro sangue, di altro odio e dolore.

Privati dei loro beni personali dai Savoia (erano stati sequestrati senza alcun diritto né giustificazione da Garibaldi, non solo i beni immobili, ma anche quelli mobili, che Francesco non aveva voluto portare con sé), essi dovettero spostarsi spesso, e vissero per molto tempo a Parigi, e di tanto in tanto in Baviera nelle tenute della famiglia di Maria Sofia, conducendo vita serena e modesta. In uno di questi viaggi, nel 1894, in pace con Dio, con il prossimo e quindi con la propria coscienza, Francesco II si spegneva ad Arco (Trento). Capo della Real Casa, non avendo egli eredi, divenne il fratello Alfonso Maria di Borbone delle Due Sicilie, Conte di Caserta.




Non è certo possibile in questa sede fare una storia del Risorgimento, della conquista del Regno da parte dei piemontesi. Quel che si può dire, è che oggi per fortuna esistono ormai tante ricostruzioni storiche degli eventi di quei giorni molto più serene, veritiere ed oggettive della "versione ufficiale" fornita e propalata in questi 140 anni dalla "vulgata" storiografica risorgimentale. Sono ormai legione gli storici (e non tutti simpatizzanti con la causa borbonica, anzi) che stanno ricostruendo onestamente le pagine tragiche dell'invasione e della conquista del Regno. Ci limitiamo solo a elencare le più accertate ed ormai indiscusse acquisizioni storiche, ben note nel mondo degli esperti, ma ancora del tutto o quasi sconosciute al grande pubblico italiano e non, ancora influenzato dai ricordi di scuola sull'eroica conquista dei Mille fra il popolo meridionale esultante per essere "liberato" dalla "barbarie borbonica". Tali favole oggi non le racconta quasi più nessuno, eppure sopravvivono nell'immaginario collettivo.
Non per spirito di polemica, quindi, ma solo come servizio alla verità storica ed alla memoria comune del popolo italiano, ci limitiamo a ricordare le più evidenti, indiscusse (anche se ancora non note a tutti) acquisizioni storiche su tali eventi .

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Francesco II
Re delle Due Sicilie

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Già dagli Anni Cinquanta, ed in particolare nel 1858 con i Patti di Plombières, Cavour aveva preparato, con la complicità di Napoleone III e della Gran Bretagna, e l'aiuto del mondo democratico italiano, l'invasione del Regno delle Due Sicilie, Stato sovrano sette volte secolare, pacifico, amico, alleato del Regno di Sardegna, il cui ultimo Re per altro era cugino del Re Vittorio Emanuele II . Napoleone III appoggiò Cavour nella speranza (poi rivelatasi chimerica) che il Regno andasse a suo cugino Luciano Murat, mentre la Gran Bretagna nella speranza che un nuovo Regno d'Italia, ad essa riconoscente ed amico, potesse contrastare sia la predominanza francese che quella asburgica (inoltre, il mondo anglicano nutriva concrete speranze di "evangelizzare" l'Italia, ancora vittima della "superstizione papista").
Garibaldi, per la sua spedizione, ricevette uomini, navi, ma soprattutto armi dal Regno di Sardegna, mentre i soldi li ricevette dalla Gran Bretagna e dalla massoneria internazionale in grande abbondanza .
Tali soldi servirono per la corruzione dei più alti ufficiali borbonici, che fin dallo sbarco in Sicilia non combatterono mai seriamente i garibaldini (basti pensare che Garibaldi giunse a Napoli in treno! E con solo qualche morto e ferito in tutto), consegnando vilmente intere fortezze e varie postazioni militari all'invasore; ma servirono anche per la corruzione dei principali uomini di governo, che consigliarono sempre Francesco II nella maniera peggiore possibile, fino ad arrivare all'aperto tradimento, come nel caso, solo per fare il nome più celebre, di Liborio Romano, primo ministro e primo traditore del Re .
Cavour diede ordine all'ammiraglio Persano, comandante della flotta sabauda, di seguire da lontano la spedizione di Garibaldi e di aiutarlo qualora tutto fosse andato per il meglio; e così puntualmente avvenne;ugualmente fece la Gran Bretagna, che schierò un'intera flotta in assetto di guerra nel Golfo di Napoli mentre Garibaldi arrivava, chiaro segno di cosa sarebbe accaduto se Francesco II avesse tentato di resistere.
Mentre Vittorio Emanuele II giurava amicizia al cugino a Napoli e deprecava quanto stava avvenendo, Cavour dava ordine al generale Cialdini di scendere con l'esercito a Napoli per impossessarsi del Regno (per altro invadendo lo Stato Pontificio), e lo stesso Re sabaudo venne al Sud per ottenere da Garibaldi il Regno conquistato (l'incontro di Teano);
come è noto, di fronte a quanto stava accadendo, da parte sua Napoleone III, che in pubblico condannava la spedizione come un atto di pirateria internazionale (e come poteva essere altrimenti definita?), di nascosto diede il suo assenso al Cavour con la famosa frase: "Faites, mais faites vite!", chiedendo però, in cambio del suo "non-intervento", Nizza e Savoia;
Francesco II, dinanzi ad uno dei più grandi complotti internazionali della storia, e, soprattutto, dinanzi al tradimento dei suoi ufficiali e dei suoi uomini di governo e più vicini e "devoti" consiglieri, comprese che tutto era perduto, ma che occorreva non perdere l'onore e la memoria storica: per evitare spargimenti di sangue di civili, lasciò Napoli, ma si rifugiò nella fortezza di Gaeta, seguito da tutti coloro che volontariamente scelsero di salvare l'onore combattendo dalla parte del legittimo ed amato sovrano aggredito.





La fortezza di Gaeta
Anche sulla storia dell'assedio di Gaeta, sicuramente una delle pagine più tragiche ed eroiche della storia del Risorgimento, sono stati ormai scritti tanti libri seri ed avvincenti .


Lasciando Napoli, Francesco II emanò un proclama, l'8 dicembre 1860, di cui riportiamo alcune frasi: «(…) ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori d'un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed Ancona. Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un'alleanza intima per veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e fatte violare tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari». Il proclama spaventò il capo della polizia della Luogotenenza Silvio Spaventa, visto che, come testimonia Ruggero Moscati, «produsse larghissima impressione in vasti strati della popolazione meridionale» .
A Gaeta convennero infatti migliaia di borbonici fedeli (contemporaneamente resistevano eroicamente anche le fortezze di Civitella del Tronto - che fu l'ultima a cadere - e Messina), pronti anch'essi a morire in difesa del proprio sovrano e della loro patria e per testimoniare la fede e la civiltà avita e manifestare coi fatti il loro rifiuto di una società corrotta e traditrice alla quale sentivano di non appartenere.
Come già detto, la storia della tragica resistenza della fortezza di Gaeta, assediata da un uomo spietato, è nota, ed esistono pubblicazioni valide che ne forniscono il racconto. L'assedio, iniziato il 13 novembre 1860, durò fino al 13 febbraio 1861. Fu condotto con tale asprezza, che occorre ricordare che Cialdini ebbe l'ardire di far bombardare perfino la stanza dei sovrani, evidentemente nella speranza di ucciderli.

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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Francesco II
Re delle Due Sicilie

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In tal sede, ci si limita a riportare le seguenti commoventi parole di Roberto Martucci, che descrive il tragico clima in cui avvenne l'assedio e specie gli ultimi giorni, e soprattutto descrive lo stato d'animo di chi stava perdendo - tra la fame e la pestilenza - ma sapendo di essere vittima incolpevole di un'aggressione da nessuno desiderata ed eroico difensore non di un Regno, ma di una civiltà plurisecolare, e di chi stava vincendo fra le risa, ma era un riso di amaro sapore: «Il 5 febbraio 1861, un proiettile centrò la polveriera Sant'Antonio, provocando circa cento morti e seppellendo, sotto le macerie, centinaia di soldati vivi. "Il nemico - scrisse Pietro Calà d'Ulloa - faceva un sacrificio di vittime umane agli dei degli inferi; un'ultima esplosione lanciò in aria per poi precipitarli in mare soldati e ufficiali; gli assedianti, a Mola, batterono le mani come a uno spettacolo" .



Dopo una breve tregua per estrarre i feriti dalle rovine, Cialdini rifiutò una proroga che avrebbe consentito di soccorrere le altre vittime ancora vive; il generale sardo volle quindi riprendere il bombardamento, offrendo al tempo stesso una resa senza condizioni alla stremata guarnigione napoletana. Di fronte alla inutilità di un'ulteriore resistenza, Francesco II autorizzò il governatore di Gaeta - che era quello stesso generale Giosué Ritucci che aveva diretto la sfortunata controffensiva sul Volturno - a trattare la capitolazione. Era l'11 febbraio e per due giorni si protrassero i colloqui senza che il generale Cialdini cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco; ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura, quell'ulteriore dispiegamento di artiglieria d'assedio era mortalmente inutile. A meno che non ci si trovasse di fronte a quella sindrome magistralmente descritta dal romanziere francese Jules Verne in "Dalla terra alla luna", quando gli affranti ingegneri e periti balistici, soci del "Gun club" di Baltimora, appresero con dolore ineguagliato che la fine della Guerra di Secessione impediva di sperimentare l'efficacia dei proiettili dei loro cannoni sulla carne confederata. Fu così che a Gaeta, alle tre del pomeriggio del 13 febbraio, mentre i parlamentari napoletani e sardi stavano discutendo gli ultimi dettagli della capitolazione, saltò in aria la polveriera della batteria Transilvania con le sue diciotto tonnellate di esplosivi. Immediatamente, le batterie d'assedio piemontesi concentrarono il fuoco sulle macerie per impedire i soccorsi, mitragliando i barellieri. Morirono inutilmente due ufficiali, cinquanta soldati e l'intera famiglia del guardiano del bastione. I plenipotenziari borbonici, che stavano trattando la resa nel Quartier Generale di Cialdini, trattennero a stento le lacrime mentre i loro ospiti applaudivano fragorosamente contravvenendo simultaneamente alle regole dell'ospitalità e alle leggi non scritte dell'onore militare» .


Cialdini, non ancora soddisfatto, volle anche riuscire sarcastico per umiliare chi aveva avuto il coraggio di resistergli con dignità, e si offrì di fornire con generosità alla coppia sovrana una nave per andare a Roma: ne scelse una che fece ribattezzare "Garibaldi"!
Fra le lacrime dei soldati e degli ufficiali inginocchiati e della popolazione, mentre stringevano le mani a tutti, senza distinzione, fra le lacrime e i sorrisi, Francesco II e Maria Sofia salparono per Roma.


«Francesco di Borbone aveva in quel momento 25 anni, Maria Sofia solo 19, eppure nella sventura seppero dar prova di forza d'animo e dignità che sovrani ben più anziani e temprati di loro non avrebbero posseduto». Commenta Sergio Romano: «Se questi furono i nuovi battaglioni dell'Italia unitaria, la nuova classe dirigente avrebbe dovuto rendere rispettoso omaggio, nel momento in cui assumeva la direzione del nuovo Stato, agli ostinati difensori borbonici di Messina, Civitella del Tronto, Gaeta, e avrebbe dovuto aggiungerne i nomi al "ruolo degli eroi" di cui venerare la memoria. Come gli svizzeri alle Tuileries nel 1792 quegli uomini si batterono perché avevano giurato fedeltà al loro re e non meritavano l'oblio a cui li ha condannati la leggenda risorgimentale».

Tutti gli storici sono concordi nell'affermare che il comportamento eroico di Francesco II all'assedio di Gaeta valse a riscattarlo dalle sue debolezze politiche, vere e presunte. Potremmo riportare tantissimi commoventi giudizi di storici simpatizzanti; preferiamo invece riportare, a nome di tutti, l'obiettivo e più asettico giudizio di uno storico di valore indiscusso e certamente non filoborbonico. Scrive Giuseppe Coniglio: «Tuttavia seppe, di fronte alla storia, riscattare i propri insuccessi con l'assedio di Gaeta cui partecipò con audacia, per dimostrare all'Europa che sapeva agire, e vi riuscì in pieno, anche se sostenuto dall'esempio e dall'incoraggiamento della moglie. Sarebbe stato facile per i due sovrani fuggire (…) Ma Francesco non volle piegarsi a questa umiliazione e preferì combattere a lungo, ottenendo anch'egli davanti al giudizio degli stessi nemici quell'onore delle armi che ebbero tutti i difensori di Gaeta» .
Vogliamo concludere questa pagina con un tributo a S. M. Maria Sofia Regina delle Due Sicilie , vera animatrice dell'assedio di Gaeta, salvatrice dell'onore del Regno e dell'esercito borbonico: non passò giorno che non trascorse ad aiutare i suoi soldati sotto le cannonate, a curare le loro ferite, a condividere i loro stenti e le loro paure, ad incoraggiarli, a nutrirli, a soccorrerli, così come dava forza al marito nei momenti più difficili.
La coppia reale a Gaeta diede degnissimo spettacolo di sé, uno spettacolo fatto di amore, abnegazione, devozione, onore e dignità, senso del dovere e della patria, ma anche di serenità e di affetto per i propri soldati.


Gaeta resterà sempre, nella storia dei Borbone delle Due Sicilie, nella storia del Regno di Napoli, nella storia degli italiani e nella storia in sé una delle pagine più ricche di gloria, dignità e onore. L'hanno firmata migliaia di volontari - e, idealmente, anche i volontari che contemporaneamente combattevano, senza neanche i sovrani presenti, nelle fortezze di Messina e di Civitella del Tronto, gli altri due eroici baluardi della resistenza borbonica, espugnati solo con la truce violenza - che hanno apposto la propria firma di sangue e onore a seguire alle prime due, quelle dei giovanissimi Reali, Francesco II e Maria Sofia di Borbone delle Due Sicilie.
Così il poeta napoletano Ferdinando Russo ha cantato l'eroismo della Regina nella lirica O' surdato 'e Gaeta:





"E ' a Riggina! Signò! … Quant'era bella!
E che core teneva! E che maniere!
Mo na bona parola 'a sentinella,
mo na strignuta 'e mana a l'artigliere…
Steva sempre cu nui! … Muntava nsella
Currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
mo ccà, mo llà … V''o ggiuro nnanz' 'e sante!
Nn'èramo nnammurate tuttequante!
Cu chillo cappellino 'a cacciatora,
vui qua' Riggina! Chella era na Fata!
E t'era buonaùrio e t'era sora,
quanno cchiù scassiava 'a cannunata!…
Era capace 'e se fermà pe n'ora,
e dispenzava buglie 'e ciucculata…
Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia…
Cadiva muorto? Te teneva 'mbraccia…".




I Reali lasciarono il porto di Gaeta al suono della marcia reale di Paisiello con 21 salve di cannone, mentre tutto un popolo piangeva e salutava. Il Regno delle Due Sicilie aveva così cessato di esistere, lasciando attoniti e senza patria milioni di contadini meridionali, mentre buona parte dei notabili cittadini si apprestava a chiedere un'adeguata collocazione nel nuovo organigramma politico e amministrativo dell'Italia unita, e già metteva da parte i pochi soldi con cui di lì a poco si sarebbe impossessata delle terre degli aristocratici fedeli e della Chiesa, per poi trarre a rovina economica milioni di contadini che più non conobbero cosa fossero pietà e umanità, e per i quali unica salvezza rimase l'emigrazione.


Ma non è questa la sede per parlare dei mali piombati sul Meridione d'Italia dopo il 1861, per i quali esiste un noto ed a tutt'oggi irrisolto concetto esplicativo che grava come una spada di Damocle sulla storia nazionale unitaria: "questione meridionale".


fine
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pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

gianni tramaglino ha scritto:Dopo aver visto la pagina 12 , con le annotazioni dall'Amico e maestro Mario Merone , arriviamo alle pagine 13-14-15-16 della collezione presentata a Sofia,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni



E si! L’oro è stato più che meritato.

Che dire sulla parte di lettera da Gaeta a Berna (svizzera) inoltrata per la via di mare da Napoli a Marsiglia (quel bollo doppio cerchio di MARSEILLE utilizzato per lettere giunte dal Regno delle Due Sicilie). Segno tangibile e un connubio di storia postale, politico e di guerra. Gaeta: in quel periodo divenne sede del governo borbonico.
Troviamo dei bellissimi annullamenti tipo “svolazzo”, così indicati per primo dal Vitozzi, accompagnati sulla lettera dal borbonico e dai vari bolli di cancellerie comunali come Terlizzi (BA) che appoggiava a Molfetta.
A seguire nelle belle pagine postate dall’amico Gianni, sulla lettera da Gallipoli a Lecce (23 maggio 1861), notiamo che il bollo borbonico originariamente istituito per “marcare” le lettere, con l’adozione dei regolamenti postali Sardi venne utilizzato come annullatore di FB, ripetuto sulla sovrascritta.
Ormai non esisteva più il Regno delle Due Sicilie. Entrarono in vigore nuove tariffe in grana (dall’1 marzo 1861) con il rapporto di cambio di 5 grana = 20 centesimi, tariffa uniforme per le altre regioni del Regno d’Italia. Da non confondere tanto col fatto che venne disposta la tariffa ridotta di gr. 2 per le lettere scambiate nei territori delle Provincie Napoletane e per le assicurate (attuali raccomandate) venne previsto un porto di gr. 10. Tuttavia nei mesi di marzo e aprile dello stesso anno le troviamo ancora affrancate con la tariffa di gr. 4 o comunque secondo normativa borbonica. La lettera semplice non sarà più considerata di un foglio (di 4 facciate) ma fino a grammi 10.
Ancora, sulla lettera da Chieti a Napoli notiamo che il FB viene annullato da un bollo piccolo (25 giugno 1861) di nuova fornitura che veniva ripetuto sulle sovrascritte e nella pag. 16 notiamo due belle assicurate con affrancatura mista. Sull’uso dei FB della serie borbonica ne abbiamo fatto menzione negli interventi precedenti.

Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

pasfil ha scritto:
gianni tramaglino ha scritto:Dopo aver visto la pagina 12 , con le annotazioni dall'Amico e maestro Mario Merone , arriviamo alle pagine 13-14-15-16 della collezione presentata a Sofia,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni



E si! L’oro è stato più che meritato.

Che dire sulla parte di lettera da Gaeta a Berna (svizzera) inoltrata per la via di mare da Napoli a Marsiglia (quel bollo doppio cerchio di MARSEILLE utilizzato per lettere giunte dal Regno delle Due Sicilie). Segno tangibile e un connubio di storia postale, politico e di guerra. Gaeta: in quel periodo divenne sede del governo borbonico.
Troviamo dei bellissimi annullamenti tipo “svolazzo”, così indicati per primo dal Vitozzi, accompagnati sulla lettera dal borbonico e dai vari bolli di cancellerie comunali come Terlizzi (BA) che appoggiava a Molfetta.
A seguire nelle belle pagine postate dall’amico Gianni, sulla lettera da Gallipoli a Lecce (23 maggio 1861), notiamo che il bollo borbonico originariamente istituito per “marcare” le lettere, con l’adozione dei regolamenti postali Sardi venne utilizzato come annullatore di FB, ripetuto sulla sovrascritta.
Ormai non esisteva più il Regno delle Due Sicilie. Entrarono in vigore nuove tariffe in grana (dall’1 marzo 1861) con il rapporto di cambio di 5 grana = 20 centesimi, tariffa uniforme per le altre regioni del Regno d’Italia. Da non confondere tanto col fatto che venne disposta la tariffa ridotta di gr. 2 per le lettere scambiate nei territori delle Provincie Napoletane e per le assicurate (attuali raccomandate) venne previsto un porto di gr. 10. Tuttavia nei mesi di marzo e aprile dello stesso anno le troviamo ancora affrancate con la tariffa di gr. 4 o comunque secondo normativa borbonica. La lettera semplice non sarà più considerata di un foglio (di 4 facciate) ma fino a grammi 10.
Ancora, sulla lettera da Chieti a Napoli notiamo che il FB viene annullato da un bollo piccolo (25 giugno 1861) di nuova fornitura che veniva ripetuto sulle sovrascritte e nella pag. 16 notiamo due belle assicurate con affrancatura mista. Sull’uso dei FB della serie borbonica ne abbiamo fatto menzione negli interventi precedenti.

Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil



Buona serata a tutti.

Nell’attesa che l’amico Gianni prosegua col postare altre immagini della bellissima collezione Merone, una vera enciclopedia di informazioni iperqualificate, nel fare qualche accenno o meglio ad “incensare” :-)) le belle pagine, nella fretta avevo dimenticato di segnalare che sulla lettera da San Germano a S. Maria (pag. 14) vi è un bellissimo gr. 2 della I tavola, gruppo di sinistra del foglio, posizione nr. 16.

I particolari sono molto ben evidenti, quindi ne posto un ingrandimento per una più facile individuazione e confronto con quelli della VII colonna.
PAGINA 14 coll Merone.jpg


All’amico Sergio ricordo: segnalavi la mancanza di un catalogo specializzato che oltre ad indicarne l’esistenza e descrizione di determinate varietà e curiosità, ne illustrasse anche le immagini. Ebbene, ritengo che pian piano, col contributo di tutti e soprattutto di quanti, come il nostro Mario Merone (borbone0), con simili donazioni virtuali, ci sta dando la possibilità di realizzarlo, almeno sul web

Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Ciao: Eccoci alle pagine 17- 18- 19 - 20- della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni p.s. un particolare plauso a Pietro per le continue notazioni sulla splendida collezione...alla fine avremo veramente un libro-online ....noprofit completamente gratuito fruibile dai tanti amici del forum!Cordialmente!gianni tramaglino
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Liborio Romano...attraverso le parole di Giovanni Sensò...

Ho letto l’articolo apparso Vittorio Zacchino ed ho letto anche Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni di Sergio Romano, saggio di grande levatura storica ed intellettuale, in cui l’Autore affronta, è proprio il caso di dirlo, il problema d’Italia che non è mai stata una nazione “normale” e, tra l’altro, dimostra quanto fosse aleatoria la possibilità che in Italia, partendo dal Regno di Napoli e dal movimento Garibaldino, potesse sorgere nel 1860 una Nazione democratica moderna. Per arrivare all’unità della Nazione bisognava fare esattamente come fu fatto, anche se all’unione degli italiani non ci si arrivò, non ci si poteva assolutamente arrivare in quel modo e forse non ci si arriverà mai. Ho anche ripassato un pregiatissimo libro su Liborio Romano dono qualche anno fa di un caro amico, il Dr. Luigi Villanova di Salve ( vicino Patù), ricchissimo di documenti epistolari del nostro.
A mio avviso la figura storica di Liborio Romano, Don Liborio, va vista con gli occhi di allora. Oggi, alla luce delle conseguenze del suo comportamento, soprattutto dalla connivenza, sempre sinistramente presente nella storia patria tra Politica e Camorra, risulta alquanto sconcertante.
E’ stato il protagonista indubbiamente dell’ultimo atto del Regno di Napoli e della sua fine, nel bene, ma purtroppo e soprattutto anche nel male, in quanto sancì o meglio istituzionalizzò la camorra come bastone ( in tutti i sensi) del futuro stato e di tutti poi quelli a venire.
Per opera sua Garibaldi entrò in Napoli non come un Generale vittorioso alla testa delle sue truppe trionfanti, ma, unico Condottiero vittorioso della storia, in carrozza ( insieme con Antonietta De Pace, sincera patriota, e ad una famosa dama della camorra) , attorniato e preceduto da un folto gruppo di camorristi in festa, in un clamore di urla modulate all’uso di Napoli.
Per quanto strano possa sembrare oggi, dopo tanti anni di ubriacatura patriottico risorgimentale, di tromboneggianti racconti e films e ricostruzioni cosiddette storiche, di tentativi di rimbecillimento scolastico della verità storica, andò proprio così.
Fin dall’inizio del resto la spedizione dei Mille, così ingenuamente e patriotticamente vissuta dai suoi partecipanti e raccontata ai posteri, fu pilotata da Cavour.
A Genova, sul molo dell’imbarco del Mille a Quarto, una stele riporta le parole tratte dalle Memorie di Garibaldi in cui si inneggia al “sangue freddo” necessario al “colpo di mano” per impadronirsi dei due navigli, che si chiamavano, guarda caso, uno Lombardo e l’altro Piemonte.
Bisognava essere scemi a salire su qualche altro vascello dove non si era attesi… La rotta fino a Marsala fu sorvegliata dal Persano ( quello poi di Lissa), che doveva evitare che quei matti facessero cose diverse da quelle programmate e concordate.
Dopo Calatafimi il Generale Lanza anziché contrattaccare si ritirò: doveva pur guadagnarsi la busta che aveva già intascato e che garantiva benessere per lui ed eredi e successori per molti anni a venire… Subito dopo la conquista della Sicilia fu offerto sottobanco agli Ufficiali dell’Armata Borbonica il passaggio nell’Esercito Nazionale, pari grado. La Marina passò a ranghi compatti. Quelli che seguirono l’onore militare e non vollero rinnegare il giuramento fatto al loro re fecero una fine miserevole:
condannati ai lavori forzati morirono di malattie, di fame e di fatiche. La marcia del garibaldini dopo Milazzo fino a Napoli divenne così una marcia trionfale.
I mille di Marsala con l’apporto massiccio di picciotti e briganti erano diventati oltre centomila. Tutti accorrevano in aiuto del vincitore..
Ma cosa sarebbe successo se Napoli fosse stata invasa dai garibaldini? E fosse stata messa a sacco? E - orrore - fosse stata fatta giustizia?
Sergio Romano ne dà ampia ed esauriente documentazione ed alle sue ineccepibili argomentazioni e dimostrazioni non c’è nulla da dire: tutto doveva cambiare affinché tutto potesse rimanere come prima ( Gattopardo), ma con una grande novità: l’Unita della Patria. Non è stato poco.
L’alternativa era l’attacco da parte delle nazioni europee, Impero Austro Ungarico in testa, a distruggere tutto quello che era stato fatto per l’Unità d’Italia fino ad allora.
Era necessario neutralizzare Garibaldi, impedire la guerra civile che stava per insorgere, a chi altri Don Liborio se non all’aiuto della Camorra, l’unica seria e potente organizzazione di Napoli poteva ricorrere?
Questa fu l’opera di Don Liborio, che della determinazione di quella organizzazione conosceva molto bene le potenzialità.
Nell’impossibilità di contrastare il processo unitario e la marcia trionfale di Garibaldi, dice Zacchino, Don Liborio chiamò in aiuto la Camorra.. Viva la verità.
Nella notte tra il 27 ed il 28 giugno Liborio Romano assume la carica di Prefetto di Polizia.
Nei giorni seguenti continui focolai di agitazione sorgevano qua e là per Napoli facendo temere il peggio, nonostante la neonata Guardia Nazionale. Riporto dalle Memorie del Prefetto Don Liborio
“Fra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata…pensai prevenire la triste opera dei camorristi offrendo ai più influenti loro capi un mezzo per riabilitarsi; e così parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze, in quel momento in cui mancavami ogni forza, non che a reprimerle, a contenerle. Laonde, fatto pervenire in mia casa il più rinomato tra essi”…..Tore e’ Criscienzo, che, insieme a Mastro Tredici e Michele il Piazziere, famosi capicamorra del momento, organizzarono una polizia e salvarono l’ordine, la città e le stesse libere istituzioni. G Ghezzi: Liborio Romano con la Camorra fece prodigi.
Tore e’ Criscienzo mise nelle posizioni di comando nella nuova polizia ( camorra riformata…) i suoi affiliati, rispettandone rigorosamente le gerarchie all’interno dell’onorata società ed eliminò trucidandoli in modo bestiale i poliziotti borbonici residui.
Lazzaro G. rimarca esaltando l’ azione “ lo squisito tatto pratico, che solo dottrinari meschini hanno potuto condannare”.
Ma già De Cesare afferma” il provvedimento ebbe il suo bene ed il suo male”.
Che avesse il suo male ne era convinto lo stesso autore, non si vantò mai e lo considerò un atto di disperazione.
Ma era fatto: il seme della malapianta era stato affondato molto bene, in un terreno molto fertile.
Attecchì infatti e soprattutto per l’ottusità tutta piemontese con cui i governanti successivi si accanirono nel Sud dell’Italia. Morto Cavour con il quale Don Liborio ebbe un incontro molto costruttivo, le Sue proposte di leggi per il governo del Sud apprezzate da Cavour, furono assolutamente ignorate dai successori ( Rattazzi – che nome – sembra tutto un programma). Assolutamente sordi ad un governo appena decente, si lanciarono ad una politica di saccheggio e sfruttamento del Sud, che portò ad una crisi economica molto grave, al potenziamento della camorra, ossia ad una serie di attività illecite cui l’assenteismo e la sfiducia anzi l’odio nei confronti dello Stato dettero forza e addirittura alibi morale, infine al brigantaggio.
Unica valvola di sfogo l’emigrazione, che nelle condizioni in cui si svolse, fu un esodo disperato verso un ignoto avvenire.
Nel nostro piccolo i garibaldini, cari e generosi da far tenerezza nel loro sincero ed ingenuo patriottismo, entrarono a Napoli alla chetichella, alla spicciolata, senza farsi notare quasi. La loro armata vittoriosa, anzi gloriosa, fu sciolta. Loro non ebbero neanche la paga promessa, né meritatamente costituirono il nerbo del futuro Esercito Italiano. Tornarono a casa portandosi dietro il loro fucile, ormai vecchio catanaglio da esibire ai nipoti…. .
Garibaldi andò alla cerimonia religiosa ad onorare S. Gennaro: lui che ne aveva definito una “vergognosa composizione chimica” il sangue miracoloso ed aveva definito Pio IX “ metro cubo di letame”
Miracolo di Don Liborio, capo della Polizia Borbonica e della camorra, col solito populazzo festoso con tricche, ballacche e putipù.
Alla luce e con la mentalità democratica odierna non è possibile non turarsi il naso. Ma allora erano altri tempi…
Soprattutto fu salva quella classe dirigente borbonica, se così si può definire tale o piuttosto putridume avanzato di feudalesimo, che tanta parte avrebbe avuto poi nei ricorrenti esodi biblici dell’emigrazione dal Sud e su cui si appoggiava il nuovo Regno.
Ma a quei tempi …secondo il feudalesimo il signore del luogo aveva diritto di vita e di morte su tutto quello che si muoveva nel suo feudo. Nei feudi c’era il signore, nelle città il camorrista avrebbe garantito il politico. Il populazzo?: nessuno.
Don Liborio fu ricompensato con la carica di Ministro dell’Interno….. nel primo governo dell’Italia Unita, ma scaricato poco dopo. Le piaghe del Sud di cui informò il Cavour, ormai ad entrambi restavano pochi anni di vita, prime tra tutte il feudalesimo e la malavita ( Camorra - Mafia ‘Ndrangheta - ossia la Trimurti ), restavano, anzi ne uscivano legittimate ed istituzionalizzate proprio da lui. Di questo forse non se ne rese conto del tutto. Ma era troppo tardi e comunque erano altri tempi….
Si tramanda che Garibaldi dopo l’incontro con il Re a Caianello, visto che a lui era stato concesso di mettersi in fondo al corteo e non al fianco del Re disse: g’a mis ‘n cua . In dialetto nizzardo significa ci hanno messi in coda. Ma la frase può assumere per assonanza anche un altro significato indubbiamente volgare, ma vero. Solo che ad averlo ‘n cua…non fu tanto lui, quanto i meridionali.
La “classe dirigente” suddetta ritornò al suo posto sulla punta delle baionette piemontesi e ne fu difesa. Seguì infatti una guerra civile che durò sei anni, con notevole impegno di gran parte dell’esercito nazionale – ancora lacrime e sangue e distruzioni di interi paesi e lutti - , sempre con l’aiuto e l’alleanza fondamentale della camorra.: . Fu chiamata guerra al brigantaggio. Le volte che i contadini inermi occupavano le terre incolte dei baroni trovavano i fucili dell’esercito nazionale a farne strage. Oggi si commemorano le steli che ricordano quei fatti con l’onore delle attuali Autorità Militari: come si cambia!
L’unità d’Italia fu conseguita al Nord con il contributo determinante dei Francesi e dei Prussiani, attraverso le “trame di Cavour con le sue bustarelle e le…grazie della Castiglione”, non certo delle vittorie sul campo ( Novara, Custoza I e Custoza II, Lissa ), al Sud al costo di un prezzo altissimo d’una guerra civile, pagato dalla plebaglia sudista dei briganti, come venne definita quella massa imponente, dotata d’ immensa forza creativa, che, costretta a rifarsi una patria sotto altri cieli, contribuì alla nascita di splendide Nazioni democratiche moderne, Stati Uniti compresi: era l’ora infatti di o brigante o emigrante. Questo secondo fu un prezzo ancor più alto.
Cantava in una sua rivista degli anni sessanta “Rinaldo in campo” l’indimenticato Domenico Modugno “ ritornerò… se Dio vorrà “ nelle vesti di un brigante/garibaldino..
I lombrosiani studiavano intanto la conformazione dimensionale delle teste dei briganti alla ricerca delle prove scientifiche della loro congenita predisposizione alla malavitosità.
Sbagliavano teste.
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Nicola Longo.....quel medico "liberale" che avrebbe potuto salvare il Re e oggi...forse... scriveremmo di altre storie...


Figlio del Magnifico Angelantonio Longo fu D.Andrea, regio tavolario ed Emanuella Risotti fu notar Nicola, segue gli studi letterari a Roma, poi segue medicina a Napoli e si laurea con il professor Cotugno.

Esercita la professione medica in Puglia e acquista una notevole fama. Durante il viaggio che fece nel gennaio 1859, il re Ferdinando II delle Due Sicilie accusò i sintomi della malattia che lo condusse in poco tempo alla morte. Trovandosi a Bari, fece chiamare i migliori medici della provincia e furono convocati, oltre Nicola Longo, anche Vincenzo Chiaia di Rutigliano e Enrico Ferrara di Bitonto.

Ferdinando II decise di farsi curare da Nicola Longo,il quale aveva notato un ascesso nella regione femorale inguinale pieno di pus.Dopo aver tentato inefficacemente una cura a base di risolventi al mercurio,propose una operazione chirurgica.Ma la Regina,il Duca di Calabria e il medico di corte Ramaglia erano contrari e rimandavano di giorno in giorno l'operazione,oltretutto perché conoscevano la fama di liberale del Longo. Il Longo con schiettezza gli disse: “Maestà, la sventura vostra in questa contingenza è l'essere re. Se foste un infelice gettato in un ospedale a quest'ora sareste probabilmente guarito”, alludendo ai medici che precedentemente per non spaventarlo, non gli avevano prospettato la realtà del male. Ferdinando allora rispose: “Don Nicola, mo me trovo sotto; facite chello che vulite”.» . Nicola Longo insisteva fermamente nella necessità dell'operazione e chiese anche la collaborazione del chirurgo Vincenzo Modugno di Bitonto. Ma dopo aver titubato e rinviato l'operazione per un mese, Ferdinando II tornò a Caserta,ormai in condizioni gravissime e fu sottoposto dai cinque medici di corte alla stessa operazione che il Longo avrebbe voluto eseguire due mesi prima,ma ormai era troppo tardi. Ferdinando II morì il 22 maggio 1859.

Per l'opera prestata, Nicola Longo si meritò la gratitudine di Ferdinando II che gli donò una tabacchiera d'oro cesellato con monogramma reale e corona borbonica in brillanti, custodito gelosamente ancora oggi dai suoi eredi.


Nicola Longo era un carbonaro appartenente dal 1817 alla Vendita di Modugno chiamata “Santo Spirito”.

Partecipò ai moti risorgimentali del 1820 affluendo con gli altri carbonari modugnesi nella legione di Bari in qualità di tenente colonnello medico. La legione di Bari avrebbe dovuto aiutare il generale Guglielmo Pepe a resistere all'esercito austriaco venuto nel Sud Italia per reprimere il movimento che riuscì ad ottenere la costituzione. Tuttavia, l'impresa non riuscì nel suo intento e il governo borbonico, una volta ristabilito l'ordine, iniziò con le repressioni nei confronti di quanti si erano distinti nelle insurrezioni. Il Decurionato (equivalente dell'amministrazione comunale) di Modugno Riuscì ad occultare i nomi di quanti avevano preso le armi contro gli austriaci.


Durante la grave epidemia di colera del 1836, Nicola Longo fu nominato presidente del Consiglio Sanitario della provincia. Egli organizzò la lotta contro il temibile morbo e si recò personalmente nei luoghi, come Toritto e Barletta, dove l'epidemia era più pericolosa e molti malati erano senza assistenza medica. In diverse occasioni prestò la propria opera gratuitamente per curare i poveri.


Durante l'impresa di Giuseppe Garibaldi nel 1860 si costituì in ogni Comune una Giunta Insurrezionale di cui fece parte anche Nicola Longo. In questo movimentato periodo della storia italiana, Nicola Longo fece del Palazzo Valerio-Longo il luogo di incontro dei cospiratori, nonostante nella vicinissima Bari fossero stanziate delle truppe borboniche. Importanti risultano le lettere ritrovate che testimoniano la sua fama di liberale. In particolare due lettere inviate da Giuseppe Garibaldi a Nicola Longo. La prima in data 8 agosto 1860 contiene l'incitamento alla liberazione delle Province napoletane e l'altra in data giugno 1862 contiene l'incitamento alla liberazione di Roma e Venezia.

Con la sconfitta dei Borboni e l'unità d'Italia i liberali iniziarono le loro vendette contro coloro i quali avevano sostenuto i vecchi monarchi, ma a Modugno non si registrano atti del genere anche grazie all'azione di Nicola Longo e del sacerdote Nicola Trentadue.

Nicola Longo fece parte del primo Consiglio Provinciale di Bari che si costituì dopo l'unità d'Italia. Nicola Longo, già insignito del titolo di Cavaliere dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio durante il Regno delle Due Sicilie, fu altresì insignito da Vittorio Emanuele II a Cavaliere della Corona d'Italia il 28/05/1876.
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pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alle pagine 17- 18- 19 - 20- della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni p.s. un particolare plauso a Pietro per le continue notazioni sulla splendida collezione...alla fine avremo veramente un libro-online ....noprofit completamente gratuito fruibile dai tanti amici del forum!Cordialmente!gianni tramaglino


Buon fine settimana a tutti.

Nella pagina 17 troviamo striscia di 6 FB da gr. 1 della prima tavola da Tricarico (scritto a penna) a Napoli.
Il lineare ASSICURATA ha origini prefilateliche e venne utilizzato dalle varie officine di posta.
Per l’assicurata, in periodo borbonico, era prevista una tariffa doppia per la lettera ordinaria.
In questo caso il porto di gr. 6 ci fa capire che la lettera era di un foglio e ½.
Quando si spediva una assicurata (attuale raccomandata) l’addetto alla posta rilasciava una ricevuta “per facilitarne le ricerche in caso di reclamazione”, sulla quale veniva indicato il numero d’ordine, cronologico, di inscrizione del registro dell’ufficio di accettazione, ripetuto anche sulla lettera. Spesso sulle lettere assicurate si notano anche anche altri numeri che sono riferiti al nr. d’iscrizione del registro di arrivo.

A pagina 18:
- la lettera da Castrovillari a Procida, affrancata per gr. 4, sta ad indicare che era composta di fogli 1;
- la lettera da Salerno a Napoli, affrancata per gr. 8, sta ad indicare che era composta di fogli 2.

A pag. 19, troviamo che sulle lettere è riportato il bollo “GIACENTE”, sulla seconda utilizzato come annullatore.
Ebbene il bollo con dicitura "GIACENTE" venne predisposto per i seguenti casi:
"...10. Rimarranno giacenti nelle officine di posta i giornali e le stampe dirette per l'interno del Regno e per l'estero , qualora i bolli appostivi presentassero un valore inferiore alla tassa legale, sia che questa differenza fosse o no inferiore alla metà della tassa medesima, e non sarà mai dovuta la restituzione del prezzo de' bolli apposti.

11. Rimarranno egualmente giacenti nelle officine di posta tutte quelle lettere dirette per gli Stati stranieri, pe' quali la francatura è forzosa, qualora i bolli appostivi presentassero nel loro valore una differenza qualunque in meno dello ammontare della tassa. Gli immittenti a loro piacimento, ma però nel termine non maggiore di sei mesi, potranno accedere alla officina dove hanno depositato le lettere, per supplire alla mancanza con altri bolli necessarii a darvi corso. In ogni caso non potranno mai reclamare, né ottenere la restituzione del prezzo de' bolli delle lettere rimaste giacenti nelle officine.

D'altra parte le officine di posta avranno l'obbligo di spedire ai destinatarii delle lettere giacenti un cartellino di avviso.

12. I giornali, le stampe e le lettere trattenute per differenza di tassa saranno munite di un marchio nero, che indicherà la data e il motto - Giacente...."

Tuttavia si riscontrano usi impropri del bollo GIACENTE come annullatore. E' il caso della lettera da Brindi a Gallipoli.

Sulla lettera da Napoli a Roma è presente anche il bellissimo circolare “T.DI.R. NAPOLI” (TASSA DI RITORNO), con all’interno indicata la cifra 1.
Per le lettere dirette all’estero era prevista l’affrancatura obbligatoria sino al confine del Regno. Da Napoli a Roma era prevista una tariffa di gr. 5. Nonostante fosse affrancata di soli gr. 4, venne comunque consentito l’inoltro e la cifra 1 sta ad indicare “grano 1” che il destinatario doveva pagare al ricevimento in aggiunta al porto previsto dallo Stato Ponticifio. Quel gr. 1 doveva poi essere riconosciuto alle poste napoletane da quelle pontificie.

Per le due belle lettere a pag. 20, anche il bollo di REAL SERVIZIO ha origini prefilateliche, come indicato da Maestro Mario.

Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Ferdinando e Carlo Troya ....fratelli e ministri del Re!!!

Ferdinando Troya (Napoli, 1786 – Napoli, 23 agosto 1861) è stato un politico italiano, primo ministro del Regno delle Due Sicilie dal 1852 al 1859.




Fratello dello storico neoguelfo Carlo Troya (1784–1858), primo ministro costituzionale del Regno delle Due Sicilie nel 1848, Ferdinando Troya si laureò in legge e fu magistrato: dapprima giudice della Gran corte criminale, successivamente presidente del tribunale di Teramo, avvocato generale della Gran corte civile di Catanzaro e di Napoli, infine presidente della Gran corte civile (1848).

Gli incarichi politici gli vennero affidati a partire dal 1849 in governi di indirizzo politico opposto al governo guidato dal fratello. Fu nominato ministro segretario di stato per il culto e ministro ad interim della pubblica istruzione il 7 agosto 1849 nel governo presieduto da Giustino Fortunato (1777-1862); nello stesso governo sedeva, in qualità di ministro degli interni, suo cognato Pietro D'Urso .Divenne primo ministro il 19 gennaio 1852 ,dopo che Ferdinando II ebbe licenziato Giustino Fortunato per non aver saputo impedire la pubblicazione della requisitoria di Gladstone contro le violazioni delle libertà nel Regno delle Due Sicilie. Fu nominato segretario di stato e presidente del consiglio dei ministri il 19 gennaio 1852 e mantenne la carica finché fu in vita Ferdinando II (22 maggio 1859). Venne infatti sostituito con Carlo Filangieri da Francesco II, e promosso al Consiglio di stato .

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Carlo Troya (Napoli, 7 giugno 1784 – Napoli, 28 luglio 1858) è stato uno storico e politico italiano, primo ministro costituzionale del Regno delle Due Sicilie.





Laureato in legge, si compromise agli occhi delle autorità durante la rivoluzione napoletana del 1820-21, nel corso della quale collaborò alla rivista liberale Minerva napolitana e fu intendente in Basilicata, tanto da essere condannato all'esilio dal 1824 al 1826.

Tornato successivamente a Napoli, pur senza abbandonare completamente l'attività politica si dedicò prevalentemente alla ricerca storica, soprattutto sul Medioevo; nel 1844 fu uno dei fondatori della Società storica napoletana, della quale fu anche presidente fino al 1847. Fu inoltre collaboratore del giornale liberale Il Tempo fondato con Saverio Baldacchini.

Esponente del "neoguelfismo" (il movimento che aspirava a una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, secondo quando teorizzato nel 1843 da Gioberti nel Del primato morale e civile degli italiani il 3 aprile 1848 ottenne da Ferdinando II la nomina a primo ministro del regno delle Due Sicilie, secondo la costituzione emanata dallo stesso Ferdinando II l'11 febbraio 1848. Il governo Troya inviò un corpo di spedizione di 15 mila uomini in Lombardia, al comando di Guglielmo Pepe . Il governo costituzionale non ebbe vita lunga: il 15 maggio 1848 Ferdinando II sciolse il parlamento , licenziò Carlo Troja sostituendo il suo ministero con uno, guidato da Gennaro Spinelli di Cariati, composto esclusivamente da elementi conservatori.
Il 29 agosto 1854 fu eletto socio corrispondente dell'Accademia della Crusca
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

La vita quotidiana di Ferdinando II di Borbone di Francesco Maurizio Di Giovine

La morte di Ferdinando II coincise con la scomparsa intellettuale e spirituale dei popoli meridionali dalla storia. Al tempo stesso la morte del Borbone determinò anche la fine della configurazione monarchica nella storia.

Al suo regno ne successe un altro di breve durata e poi venne una nuova dinastia non più rappresentante della legittimità monarchica ma strumento subordinato di una Legge e di una Costituzione nelle quali risiedeva il nuovo potere. Con Ferdinando II, perciò, finisce anche l'idea tradizionale di Monarchia.

E' inevitabile che si debba ripartire dal più grande Re che la storia meridionale dei tempi contemporanei abbia conosciuto: Ferdinando II.

E poichè egli non esercitò la Sovranità silenziosamente, cercheremo di comprendere il suo messaggio attraverso la quotidianità dei comportamenti pubblici e privati. Ferdinando II, che conosceva alla perfezione la lingua francese, si esprimeva abitualmente in lingua napoletana e siciliana, ad alta voce, affinchè tutti potessero ascoltarlo e comprenderlo. Queste lingue si prestavano a discorsi gergali, dalla morale sottintesa e ciò gli permetteva di dare lezioni che avevano sempre delle ripercussioni nella pubblica moralità.

Era un modo ben preciso di esercitare la Sovranità.

Ovviamente le due lingue erano usate con reciprocità da tutti: in privato come a corte, tra gli ufficiali e tra i popolani. Era una manifestazione di napoletanità che si estendeva ai gusti. Tutto doveva essere napoletano. I sigari, sua costante passione, erano anch'essi rigorosamente napoletani. Si può, perciò, dire che Ferdinando II fu un principe napoletano in tutto incarnando la figura del pater familiae meridionale ottocentesco. La sua tavola non aveva nulla di sfarzoso: era simile a quella di un qualsiasi benestante napoletano del tempo. Il piatto tipico era rappresentato dai maccheroni. Ghiotto di baccalà, gustava il soffritto e la caponata. Vero cultore della cipolla cruda, ne mangiava ogni giorno convinto delle sue proprietà benefiche. Amante della pizza, aveva fatto costruire un forno a legna nel parco reale di Capodimonte da Domenico Testa, il figlio del più celebre pizzaiolo che aveva fatta fortuna ai tempi di suo nonno, il re Ferdinando I.

Dalla tavola al talamo. Ottimo marito e padre affettuoso fu sempre fedele al sacramento del matrimonio e la critica antiborbonica, che setacciò tutta la sua vita, nella serietà coniugale riconobbe un aspetto del carattere non suscettibile di censura. Devoto sin anche nella ritualità gestuale ed esteriore, con gli anni accentuò gli scrupoli religiosi.

Il De Cesare raccolse tanti aneddoti attorno alla sua pietà religiosa. E' utile conoscerli per comprendere meglio il personaggio. Se era in carrozza, incontrando un sacerdote che portava il Viatico, si fermava, scendeva e, a capo scoperto, si genufletteva su entrambe le ginocchia, restando nella devota posizione sino a quando il viatico era passato. Ascoltava la messa ogni giorno, si confessava spesso e tutte le sere, riunita la famiglia, recitava il rosario. Entrando nella camera matrimoniale, prima di coricarsi, baciava con le mani le immagini sacre che adornavano le pareti ed infine recitava le preghiere inginocchiato ai piedi del letto. Tuttavia non fu mai un bigotto; anzi era attento a smascherare gli impostori che cercavano di attirare la sua benevolenza facendo i bizzochi. Un giorno riprese l'architetto di corte Francesco Gavaudan perchè costui, volendo manifestare zelo religioso aveva messe nel cappello alcune immaginette sacre per farle cadere al passaggio di Ferdinando, scoprendosi il capo. Il Re la prima volta fece fnta di niente; la seconda, persa la pazienza, disse: "don Ciccì, levate sti santi da dinto 'o cappiello, e finimmo sta cummedia".

In Ferdinando II si concentrarono tutti gli aspetti del meridionale che visse nella prima metà dell'Ottocento: epoca di fermenti, di speranze e di ottimismo. Valori falliti assieme alla storia del popolo sudista, con la rivoluzione del 1860.

Il Re aveva due tenute nel Tavoliere delle Puglie, a Tressanti e a Santa Cecilia. Quando giungeva il tempo della Fiera di Foggia, la più importante manifestazione agricola della zona, egli ci teneva ad essere presente, girando, orgogliosamente, nel suo bel vestito di velluto verde, comportandosi come un buon latifondista pugliese che andava a comperare cavalli e a vendere i suoi prodotti. Si trovava a proprio agio perchè aveva preso a conoscere i proprietari che giungevano a Foggia per la manifestazione e si divertiva nell'apprendere dei matrimoni che annualmente venivano combinati tra i padiglioni della Fiera. Terminato lo svago foggiano, smetteva l'abito di velluto e tornava ad indossare l'uniforme militare. Con questa immagine è stato consegnato alla storia per quel dipinto, eseguito da Vincenzo De Mita detto il foggiano, che, litografato, troneggiava in tutti gli uffici pubblici del regno.







E' un'immagine semplice e bonaria: il Re compare nell'uniforme blu di comandante in "capo dell'esercito con l'immancabile sigaro napoletano nella mano destra.

Cos'altro si può aggiungere per illustrare la personalità ferdinandea? Profondo conoscitore del genere umano, basava le sue osservazioni su elementi semplici: era convinto che per risolvere i problemi bastasse il senso comune e con questo criterio valutava il carattere degli uomini. Dei quali non gli interessava il censo o le virtù quanto le debolezze. Dal comportamento spigoloso e tagliente, nel bene e nel male, non celava mai sentimenti e rancori. A causa della sua diffidenza verso tutti i pubblici funzionari impartiva continuamente rigide disposizioni. Era giunto a proibire, a corte, qualsiasi gioco di denaro mentre nei locali pubblici di tutto il regno erano proibiti i giochi d'azzardo. Obbligato a convivere col difficile mondo di corte ove inevitabilmente si annidavano l'adulazione e l'ipocrisia dei cortigiani, si rifugiava ogni volta che l'occasione lo consentiva, nelle feste popolari, trovandosi a proprio agio. Qui coglieva l'occasione di conoscere e fraternizzare con il popolo, il suo popolo, il popolo napoletano, stringendo solidi rapporti all'insegna di quella che è stata definita la borbonica cordialità. Arduo modo di esercitare la regalità, ma efficiente sistema per comprendere le necessità e le idealità della società civile. Amico del popolo e diffidente verso i ceti agiati, pensò sempre che dalle file di questi ceti fossero usciti i nemici della monarchia e della società cristiana. Non nascose mai la sua antipatia per gli avvocati, i paglietta, sui quali faceva ricadere le responsabilità dei drammatici avvenimenti che portarono ai fatti del 15 maggio 1848. In conseguenza qualcuno, molto opportunamente, lo ha definito re degli umili. Di essi effettivamente si circondò ogni qual volta le circostanze lo consentirono. Dalla scelta dei sacerdoti chiamati ad impartire l'educazione religiosa ai principi reali, tutti di umile origine , ai fedeli marinai della lancia reale provenienti in massima parte dal popolare rione di Santa Lucia.
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borbone0
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da borbone0 »

Gianni il Tuo lavoro non ha uguali. Alla fine mi auguro pubblicherai un volume sul Regno di Napoli. Mario
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

borbone0 ha scritto:Gianni il Tuo lavoro non ha uguali. Alla fine mi auguro pubblicherai un volume sul Regno di Napoli. Mario




Mario,sono commosso dalle Tue parole, ma vorrei ricordare la grande importanza del lavoro dell'Amico Pasfil ,lui è l'attuale vera "giovane" COLONNA del nostro amato regno di Napoli!Grazie ancora,anche a suo nome!gianni
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Ciao: Eccoci alla pagina 21 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro acuto e sagace :clap: relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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Roscianum
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da Roscianum »

Ciao: a Gianni, Pietro e naturalmente Mario
Con un pò di ritardo vorrei togliermi un dubbio sulla pagina 18.
La lettera di Castrovillari presenta l'ovale in parte coperto dal FB e l'annullato sul quarto FB impresso parzialmente.
Mi sono chiesto come mai e sono giunto alle seguenti conclusioni: il mittente consegna la busta direttamente all'ufficio postale senza affrancatura, l'impiegato appone l'ovale (quello di Castrovillari particolarmente "magnum") dopodichè si accorge di non avere FB da 2 gr. ed utilizza una striscia di 4 da 1 gr., ma lo spazio non c'è o copre l'indirizzo o l'ovale e naturalmente opta per la seconda ipotesi; infine per evitare di coprire ulteriormente l'ovale annulla il 4° fb della striscia con un'impronta parziale dell'annullato in cartella.
Mi date conferma o oggi i neuroni girano a casaccio :-)) :-))
Colleziono bolli ed annullamenti fino al 1900 della provincia di Cosenza

"Collezionare francobolli è il primo passo verso l'alienazione mentale"
Honore de Balzac
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borbone0
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da borbone0 »

Una bella domanda di Roscianum. Non ci avevo mai fatto caso. Studierò la lettera, ma aspetto le delucidazioni di Pietro. Mario
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pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da pasfil »

ROSCIANUM ha scritto:Ciao: a Gianni, Pietro e naturalmente Mario
Con un pò di ritardo vorrei togliermi un dubbio sulla pagina 18.
La lettera di Castrovillari presenta l'ovale in parte coperto dal FB e l'annullato sul quarto FB impresso parzialmente.
Mi sono chiesto come mai e sono giunto alle seguenti conclusioni: il mittente consegna la busta direttamente all'ufficio postale senza affrancatura, l'impiegato appone l'ovale (quello di Castrovillari particolarmente "magnum") dopodichè si accorge di non avere FB da 2 gr. ed utilizza una striscia di 4 da 1 gr., ma lo spazio non c'è o copre l'indirizzo o l'ovale e naturalmente opta per la seconda ipotesi; infine per evitare di coprire ulteriormente l'ovale annulla il 4° fb della striscia con un'impronta parziale dell'annullato in cartella.
Mi date conferma o oggi i neuroni girano a casaccio :-)) :-))


Ciao a tutti,
Gianni, sei sempre il solito...."amico". Ti ringrazio per la fiducia che riponi in me. Nel riportarmi ad un recente topic apparso su questo forum, sinceramente i miei pochi mattoncini non sono nulla rispetto alle intere muraglie che da soli possono erigere alcuni che intervengono in questa Sezione, quali Maestro Mario ed altri che ci osservano. Pure servirebbero ancor meno senza il supporto degli altri amici, alla mia pari, che partecipano posando il loro mattone e che col loro contributo ci stimolano ad approfondire questioni, per un sereno confronto ed accrescimento reciproco.

Per tornare al quesito postato dall'amico Nilo, giratomi da Maestro Mario, ebbene ritengo che la tua analisi è perfetta.
Sarebbe stato inopportuno ripetere l'ovale di Castrovillari sulla lettera, avrebbe combinato un pastrocchio per la mancanza di spazio dovuta anche all'apposizione del lineare "ASSICURATA". Come pure poco estetico sarebbe stato colpire quel FB con parte dell'annullato su esso e parte sulla lettera in corrispondenza o sovrapposizione dell'ovale. Tieni presente che l'ovale dell'officina di partenza (eccetto Napoli con i propri bolli) venivano apposti sul recto della lettera, non potendosi apporre al verso.
Ciao: Ciao: Ciao:
pasfil
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Messaggio da gianni tramaglino »

Ciao: La pagina 21 della collezione dell'Amico Mario mi "trasporta" :-)
sull'argomento ,interessantissimo, delle strade ferrate ....e altro del nostro amato regno borbonico : ecco quanto scrive ,circa le opere pubbliche, Giuseppe Ressa.


Nelle Due Sicilie si assisteva al fenomeno per cui alcune opere pubbliche erano all’avanguardia come innovazione e furono realizzate per prime in Italia e tra le prime in Europa .

Ricordiamo:

Il ponte Ferdinandeo sul fiume Garigliano del 1832: è stato il primo ponte ad impalcato sospeso in ferro d'Italia (tra i primi del mondo), costruito in 4 anni con 68.857 chilogrammi di ferro e collaudato dallo stesso Ferdinando II che ci fece passare sopra due squadroni di lancieri a cavallo e sedici carri pesanti di artiglieria; orgoglio delle Due Sicilie, resistette fino al 1943 quando i tedeschi, dopo averci fatto transitare il 60 % della propria armata in ritirata, compresi carri e panzer, lo distrussero; fu seguito dalla costruzione di un ponte simile sul fiume Calore, inaugurato nel 1835.

Il primo telegrafo elettrico d’Italia, inaugurato in pompa magna il 31 luglio 1852, che collegava Napoli, Caserta, Capua e Gaeta; nel 1858 veniva inaugurato il telegrafo sottomarino tra Reggio e Messina, altre linee con cavi marini collegarono le Due Sicilie a Malta, nel 1859 fu collegata Otranto con Valona e da lì partiva la linea aerea per Costantinopoli e Vienna.

La prima rete di fari con sistema lenticolare d’Europa (1841) utilissima per al sicurezza della navigazione.

La prima ferrovia e prima stazione d’Italia Napoli Portici (1839): lungo questa prima linea si sviluppano nuovi agglomerati urbani che costituiscono la struttura del nascente polo industriale attorno alla Capitale; l’anno dopo fu inaugurata dagli Asburgo la Milano-Monza, nel 1845 la prima ferrovia veneta (Padova-Vicenza) e addirittura bisognerà aspettare nove anni per vedere la prima piemontese (Torino-Moncalieri) e la prima toscana (Firenze-Prato). L’ingenerosa critica storica ha fatto prevalere la tesi della costruzione ferroviaria borbonica per esclusiva vanità della corte di collegare la capitale alle residenze reali di Caserta e di Portici, altri ancora sostennero che la ferrovia fu realizzata per spostare più velocemente le truppe della guarnigione di Capua, in caso di disordini a Napoli; è certamente vero che tutte le ferrovie dei diversi stati nacquero anche con finalità strategiche e militari ma in realtà gli scopi principali erano ben diversi. Ferdinando II, nel discorso pronunciato nell’ottobre 1839, all’inaugurazione della Napoli-Portici, ebbe a dire: “Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando che tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico” e infatti la ferrovia raggiunse nel 1840 Torre del Greco, Castellammare di Stabia nel 1842, Nocera nel 1844, contemporaneamente un altro tronco puntava a nord raggiungendo Caserta nel 1843 e Capua nel 1844; in questo stesso anno sulla Napoli-Castellammare transitarono ben 1.117.713 viaggiatori, in gran parte “pendolari“ che quotidianamente si recavano nella capitale per lavoro, le tariffe erano basse sia per il trasporto dei passeggeri (diviso in tre classi) che delle merci.







Dalla cronaca del “Giornale delle Due Sicilie“ dell’epoca si legge : “Ad un segnale dato dall’alto della Tenda Reale parte dalla stazione di Napoli il primo convoglio composto di vetture sulle quali ordinatamente andavano gli invitati, gli ufficiali, i soldati e i marinai … S.M. con la Real Famiglia prese posto nella Real Vettura“…”le popolazioni di Napoli e delle terre vicine - si leggeva sulla cronaca di altri giornali - accorrevano in grandissimo numero come ad uno spettacolo nuovo, tutte le deliziose ville attraversate dalla strada si andavano riempiendo di gentiluomini e di dame vestite in giorno di festa…con tanto entusiasmo traesse d’ogni parte sulla nuova strada e giunto colà facesse allegrezza grande come per faustissimo avvenimento”; erano 7411 metri che furono percorsi in quindici minuti (velocità 20 km \ ora) dal convoglio guidato dalla locomotiva “Vesuvio”, negli anni successivi si toccarono anche punte di 60-80 chilometri all’ora. Dobbiamo ricordare il progetto borbonico di una rete ferroviaria diretta a collegare il Tirreno all’Adriatico con due arterie principali a doppio binario: la Napoli-Brindisi e la Napoli-Pescara; le relative concessioni furono stipulate il 16 aprile del 1855, con un particolareggiatissimo protocollo che prevedeva tempi e modi di realizzazione; in questa maniera si sarebbero accorciati notevolmente i tempi di collegamento (previsti in quattro ore al posto dei giorni di navigazione necessari via mare); la prima linea tagliava in due parti quasi esatte il regno, erano previste nuove arterie stradali comunicanti con le varie stazioni ferroviarie in modo da favorire il trasporto sia dei passeggeri che soprattutto delle merci e del bestiame, come pure delle diramazioni per collegare le nuove linee ferrate a quelle dello Stato della Chiesa e di conseguenza a quelle degli altri stati italiani preunitari e del resto d’Europa; erano anche progettate due litoranee: una da Napoli alla Calabria meridionale con diramazione a Taranto e l’altra da Brindisi ad Ancona (e da lì comunicante con Bologna e Venezia); previste 60 locomotive, 750 carrozze e circa 1000 carri per il trasporto merci. Malgrado questi progetti, al momento dell’unità, le Due Sicilie avevano solo 128 km di linee in esercizio ma l’ultimo re, Francesco II, diede un’ accelerazione alla costruzione delle strade ferrate, come prevedeva un suo decreto del 28 aprile 1860, per un totale di altri 1400 km presumibili , non ebbe, però, il tempo di completarle per lo sviluppo successivo degli avvenimenti storici; nello stesso momento il Piemonte aveva già approntato 866 km di ferrovie, il Lombardo Veneto 240 km, la Toscana 324 km, i ducati emiliani 180 km; ma, se è vero che la lunghezza complessiva delle ferrovie meridionali, al momento dell’unità, era inferiore a quella di altri stati italiani preunitari, anche per le caratteristiche del territorio prevalentemente montuoso che in nulla assomigliava alle pianure del Nord, e che non ne facilitava la costruzione, è comunque accettato da tutti che come qualità tecnico-costruttiva fossero le migliori.

Per ciò che concerne le strade, esse erano, senza dubbio, del tutto insufficienti e molto al di sotto, come lunghezza, dal resto dell’Italia, il sistema viario era funzionale alle esigenze della Capitale dalla quale partivano 4 assi principali: uno per lo Stato Pontificio, uno per gli Abruzzi, uno per la Puglia e uno per la Calabria, la viabilità provinciale era incentrata in molte zone su cammini naturali o su tratturi . Ma anche in questo campo le Due Sicilie pagavano lo scotto della conformazione del Paese, prevalentemente montuoso, che rendeva più rapido ed economico lo sviluppo delle vie marittime; comunque il governo borbonico si era seriamente impegnato nella costruzione di nuovi tracciati progettati da ingegneri che erano alle dirette dipendenze dello Stato, tra di essi ricordiamo Carlo Afan de Rivera e Ferdinando Rocco. Alcune arterie sono dei veri e propri capolavori come la Civita Farnese (tra Arce e Itri) che, pur correndo quasi completamente in territorio montano, in nessun tratto superava la pendenza del 5% il che permetteva l’agevole trasporto di merci su carri e la Pescara-Sulmona-Napoli dove ancora oggi si possono osservare le pietre miliari che indicano la distanza dalla antica capitale; la meravigliosa Costiera Amalfitana, considerata tra i 10 posti più belli del mondo, fu dotata della strada panoramica nel 1854; l’ossatura di alcune strade viene ancora oggi sfruttata per il passaggio di veicoli molto pesanti come i TIR a testimonianza della validità dei loro progetti.

Altre interessanti realizzazioni furono: l’illuminazione a gas di Napoli, prima in Italia (1840) e terza in Europa (dopo Londra e Parigi) (Napoli fu anche la prima città d’Italia ad organizzare nel 1852 un esperimento d’illuminazione elettrica); la bonifica e conseguente sistemazione idrogeologica delle paludi Sipontine (Manfredonia), di quelle di Brindisi, del bacino inferiore del Volturno e della Terra di Lavoro (Regi Lagni): in quest’ultimo territorio furono restituite al lavoro agricolo 53 miglia quadrate di paludi, realizzati 100 miglia di canali di bonifica, muniti d’argini e controfossi, lungo i quali furono posti a dimora 150.000 alberi; costruite 70 miglia di strade, decorate da "ponti in fabbrica" e da altri 120.000 alberi che attraversavano la campagna in tutti i sensi; fu iniziato il prosciugamento del lago del Fucino in Abruzzo.







Menzioniamo l’istituzione: dei Monti di Pegno e Frumentari in tutto il Regno, veri e propri crediti agrari che prestavano denaro ad interessi bassissimi, del primo Corpo dei vigili del fuoco italiano, l’Istituzione di Collegi Militari come la “Nunziatella”, creato da Ferdinando IV nel 1786 come “Real Accademia Militare” ben prima della più celebrata Modena.

Ricordiamo inoltre la realizzazione del confine terrestre: col trattato firmato a Roma il 27 Settembre 1840 e ratificato il 15 Aprile 1852 fu stabilita la linea di separazione con l’unico stato confinante, quello pontificio, Papa Gregorio XVI e re Ferdinando II decisero di posizionare nel terreno ben 686 cippi che partivano da Gaeta sul Tirreno e giungevano fino a Porto d’Ascoli sull’Adriatico. Erano piccole colonne cilindriche in pietra con incisa sulla sommità la direzione del confine, sul lato dello Stato Pontificio due chiavi incrociate e l’anno di apposizione (1846 o 1847) e verso il regno borbonico un giglio stilizzato ed il numero progressivo della colonnina, crescente verso il nord. Alti un metro, del diametro di quaranta centimetri e del peso di 700/800 chili furono realizzati da ambedue i confinanti; sotto ogni cippo era stata sotterrata una medaglia di lega metallica recante lo stemma dei due Stati. Questa semplice, ma allo stesso tempo elegante e civile demarcazione fu abbattuta all’arrivo dei piemontesi, ma alcuni di essi sono stati di recente restaurati e riposizionati grazie all’opera di un gruppo di ricercatori coordinati da Argentino D’Arpino.
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gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Francesco Paolo Castiglione, Una Regina contro il Risorgimento. Maria Sofia delle Due Sicilie, Pietro Lacaita Editore, Manduria, Bari, Roma, 1999.

di Donatella Massara

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Arthur Rimbaud, nella celebre lettera "del veggente" - del 15 maggio 1871, pochi giorni prima della caduta della Comune, scrive: <<Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l'infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, dopo che l'uomo - finora abominevole - l'avrà congedata, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell'ignoto! I suoi mondi di idee saranno diversi dai nostri? - Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.>>

In questa citazione Rimbaud, come nella filosofia del romanticismo, intende la poesia quale sfera ideale di contenuti; contrapposta ai significati prosaici, è elevatezza spirituale e idealismo. In questa accezione ricompare "la poesia" alla data 25 maggio 1867 del diario di Pietro Calà Ulloa, ministro di Francesco II, re esiliato dopo la conquista garibaldina del Sud. Scrive: <<Tutto è poesia nella donna, ma in essa dorme un oceano che bisognava porre in moto, ed invece si volle che restasse come la quiete superficie di un lago>> (P.C.Ulloa, Un re in esilio, Bari, 1928)
La donna è Maria Sofia nata Wittelbach, principessa del regno di Baviera e sposata nel 1859 con il Borbone ultimo re del regno delle Due Sicilie, dopo il 1861 e l'Unità d'Italia. Molto coraggiosa e intrepida ricordava giornate memorabili. La regina, sorella dell'imperatrice Elisabetta d'Austria (Sissi), era stata protagonista dell'assedio di Gaeta dove l'esercito borbonico tentava di resistere all'attacco dei piemontesi. Maria Sofia in mezzo alle mine, sugli spalti delle mura aveva incitato i soldati, li aveva curati e diviso con loro il pericolo. Come le sorelle aveva avuto un'educazione liberale e sportiva (cavalcava, nuotava). In Sicilia si mette alla testa della resistenza all'esercito sabaudo. Organizzò, fomentò le truppe regolari e irregolari che facevano la guerra ai Savoia e per avere partecipato alle battaglie si meritò numerose decorazioni che portava con molta grazia sugli elegantissimi abiti di gala.

Nel volume La prigioniera della Ricerca del tempo perduto, Proust descrive Maria Sofia con parole di rispetto e ammirazione. La sua immagine incorniciata Leonardo Sciascia la conservava nello studio. Ammiratori Maria Sofia ne ebbe molti, giovani nobili romantici che raggiunsero il Meridione italiano per partecipare alla guerra scatenata anche e senza dubbio su spinta della sua determinatezza e influenza. Gli aristocratici romantici avevano raggiunto il Meridione per partecipare al conflitto - dice il testo - e difendere la bella e coraggiosa regina e dallo stesso moto romantico sarebbero stati ispirati anche i soldati che lei curava sul fronte. Per quanto riguarda il giudizio storico è certo che di questo idealismo i Piemontesi non ebbero molto rispetto, a quanto dicono le testimonianze sugli eccidi e le violenze, tese a riportare ordine attraverso il principio della giustizia sommaria. I Piemontesi neppure rispettarono i desideri degli antiborbonici che speravano invece nella distribuzione delle terre ai contadini da parte del nuovo governo di Bixio; come hanno raccontato le cronache di altri massacri - a Bronte. Dal punto di vista dell'elaborazione di una storia della differenza sessuale e del genere spicca, invece, la 'noia', attribuita dal Ministro a Maria Sofia, reintrodotta nella vita domestica. Sarà stata veramente quello lo stato d'animo della regina? Il ragionamento potrebbe rivelarsi giustificazionista e tenacemente convinto del valore dell'idealismo; non è che, se la regina sognava le battaglie passate, la guerra l'avrebbero desiderata anche i semplici soldati mandati al macello e purtuttavia rimasti fedeli alla corona borbonica ? Decostruire l'identificazione di un genere non getta nuovi interrogativi anche sull'altro? Molte risposte le dobbiamo ancora trovare.

Maria Sofia morì a 84 anni nel 1925 a Monaco. Aveva avuto una figlia mai riconosciuta, concepita nella storia d'amore con un ufficiale del suo esercito e una neonata legittima che morì a tre mesi. Aveva visto morire il marito di malattia, la figlia illegittima di tisi, la sorella minore in un rogo scoppiato nella tenda dove a una festa di beneficenza vendeva manufatti; era ancora in vita quando il nipote Rodolfo primogenito della sorella si suicida a Mayerling con la sua compagna Maria, la sorella Elisabetta muore, accoltellata ed infine a questa illustre famiglia che aveva governato mezza Europa per cinquecento anni, tocca l'attentato di Sarajevo in cui muoiono l'arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, cognato di Maria Sofia, e la moglie Sofia. E' l'inizio della prima guerra mondiale: è la fine definitiva dei grandi imperi centrali, quello austriaco, quello tedesco e quello russo.
Torniamo a quanto accadeva negli anni di riorganizzazione della resistenza borbonica contro i Savoia e i francesi alleati.
La regina, durante il soggiorno romano dal 1861, era stata al centro di un vasto piano di calunnie approntato dallo stato piemontese per screditarla.

<<Nel febbraio del 1862, era stato architettato un oltraggioso disegno diffamatorio che toccava il fondo della nequizia. Abili fotomontaggi, nei quali la testa della regina era stata montata sul corpo di una giovane prostituta ritratta in pose lascive, erano stati diffusi a centinaia e spediti a tutte le personalità della ribalta internazionale, dal papa all' imperatore d'Austria, da Napoleone III allo zar, sferrando nei suoi confronti una violenza morale quale <<non ebbero altre donne reali a soffrir mai, e neppure Maria Carolina, contro la quale gli esuli napoletani, raccolti a Firenze nel 1799, si scagliavano con ogni sorta di libelli>> (Ulloa, op.cit.).
Le indagini della polizia pontificia portavano alla scoperta e all'arresto degli autori dei falsi fotografici: i coniugi Antonio e Costanza Diotallevi, dilettanti fotografi dal passato burrascoso.>> (pag.175)

Il brano che segue risponde alla domanda di quale giudizio si facevano le donne contemporanee su Maria Sofia. <<Da ogni parte d'Europa le giungevano testimonianze della stima e dell'ammirazione suscitata con la sua coraggiosa condotta, specialmente da parte di numerose donne che vedevano in lei l'esaltazione di un modello femminile che rompeva con gli schemi tradizionali. >>. Maria Sofia aveva ricevuto a testimonianza e pegno di questa simpatia numerosi doni sottoscritti non solo dalle nobili dame dell'aristocrazia europea. Se non manca la statuina d'argento raffigurante Giovanna d'Arco inviatale dalle dame della Franca Contea, la richiesta delle nobildonne austriache all'imperatore perchè concedesse alla regina l'Ordine Militare di Maria Teresa, rigorosamente riservato ai combattenti distintisi per valore e tanti altri doni e onorificenze, stupisce che anche un gruppo di operaie parigine le avessero inviato un messaggio di solidarietà sottoscritto in milleottocento. (pag. 152)
La biografia della regina è narrata all'interno di un serrato resoconto delle vicende siciliane negli anni che vanno dal matrimonio di Maria Sofia fino alla presa di Porta Pia, 1870. Interessante è quindi lo sguardo di genere dell'autore che la descrive, acuto e maschile, perchè mette in evidenza gli aspetti ardenti di amor patrio più vicini alla storia degli uomini che a quella delle donne.L'autore si rifà a una discreta bibliografia, a documenti di contemporanei, studi sui lasciti d'archivio e a due biografie scritte nel secolo passato dedicate a Maria Sofia, da due donne; quella di Clara Tschudi, sua dama di compagnia, si trova tradotta in italiano e pubblicata nel 1914.
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