Come sappiamo la nostra Italia per la sua costituzione geologica è soggetta a cadenze periodiche a terremoti di una certa entità, questa volta il destino aveva voluto che toccasse all’Umbria e Marche e come sempre noi eravamo là.
Erano passati dieci giorni dalla scossa principale ed ero appena arrivato per dare il cambio al collega, il caso aveva voluto che la zona di nostra competenza operativa fosse molto distante dal campo base e perciò con una sezione autonoma e quasi alla ventura, ci eravamo accampati in prossimità di un campo sportivo di un paesino dell’Appennino marchigiano.
Devo dire, per me amante della natura, che la zona era qualcosa di veramente bello, boschi incontaminati, tanta acqua (ahimè anche umidità e freddo) con i torrenti pieni di splendide trote, poche case e gente molto operosa. Dopo le presentazioni con il sindaco del paesino ospitante ed anche quelli limitrofi cominciai a programmare i lavori richiesti con il mio personale, circa una ventina di persone, visto che la logistica era stata pianificata da chi ci aveva preceduto. Infatti i colleghi avevano già montato le tende con tutti gli accessori sia per noi che per la popolazione, di questa opportunità ne usufruivano chi aveva avuto la casa danneggiata o chi sentiva la necessità di sentirsi un pochino più sicuri con la nostra presenza per via dello sciame sismico che devo dire era piuttosto insistente.
Avevo diviso le squadre in piccoli gruppi di cui uno addetto alle verifiche di stabilità, due al recupero di materiali all’interno di case non praticabili e tre alla rimozione/ripristino/copertura di cornicioni tegole e tetti, io mi spostavo di continuo per verificare l’andamento dei lavori.
Le richieste aumentavano di giorno in giorno anche perché i ragazzi lavoravano ben oltre i loro compiti, ripristinavano i tetti impastando la malta, spostavano mobilio da una casa all’altra affinché nulla andasse perduto, verificano con certosina perizia le crepe e non sto a dirvi altro.
Unico neo le relazioni che correvano tra la cuoca che il comune ci aveva messo a disposizione ed il personale, la poverina malgrado la buona volontà non era in grado di cucinare per tutte quelle persone e perciò una volta per il troppo sale, una volta per la pasta scotta ed un’altra per aver bruciato il condimento si era attirata le antipatie dei vigili ed erano iniziate le defezioni.
Morale è che dopo una decina di giorni, malgrado mi dessi da fare come mediatore, i ragazzi provvedevano sempre più in maniera autonoma con una scusa o con l’altra a procurarsi il desco e la cuoca era sempre più irritata.
Venne così l’undicesimo giorno che organizzai come giorno della riconciliazione, ci regalarono delle fettuccine fatte in casa, feci preparare un ottimo ragù di carne presidiando di persona le operazioni ed acquistai dei dolci, nel frattempo mandai l’autista a cogliere dei fiori per la cuoca raccomandando a tutti di essere presenti per quella giornata.
Ma come si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e accadde quello che non doveva accadere, per una serie di casualità solo una squadra di tre persone rientrò per il pranzo ed io stesso venni chiamato con la massima urgenza tanto da non poter partecipare al lauto banchetto.
E qui inizia la storia filatelica.
Ero stato chiamato in tutta fretta perché la squadra addetta alle verifiche riteneva che un lunghissimo muro di un casolare posto in adiacenza di una strada provinciale stesse per cadere per il fatto che di lì passavano a gran velocità dei camion a pieno carico provenienti da una cava ed il muro stesso, già lesionato dal terremoto, vibrava ogni qual volta in maniera molto pericolosa.
Un casale enorme così non ne vedevo da anni, aveva due corti interne, una chiesa tutta per se con ancora all’interno tutto il mobilio, c’erano le stalle, la zona asciugatura del granoturco con la macchina di legno per la sgranatura manuale, travi di quercia giganteschi, alcuni fuori dal punto di appoggio per via del terremoto, tante stanze alcune ancora con qualche suppellettile il tutto però abbandonato da oltre quaranta anni. C’era una specie di contadino fac-totum che curava i terreni adiacenti e teneva all’interno delle corti dei maiali e del pollame, ci disse che i vecchi proprietari erano deceduti a fine anni ‘40 e che gli eredi erano andati a vivere in altre città non interessandosi più del casale lasciando il tutto in malora ed in mano a diversi fattori e che attualmente l’intero immobile era in vendita con i terreni intorno.
Mentre seguivo nelle varie stanze il contadino la mia attenzione cadde su di un sacco di juta rigonfio appoggiato vicino ad una vecchia stufa di ghisa dal quale fuoriuscivano delle buste affrancate.
“E quello cos’è” chiesi con fare inquisitorio al contadino.
“Niente” mi rispose lui “carta vecchia che utilizzo per accendere il fuoco, ne ho già bruciati tre sacchi!!!”
Un pugno nello stomaco, tra l’altro ancora digiuno del pranzo, mi avrebbe fatto meno male.
“Come ne ha bruciati tre sacchi?” gli dissi con voce strozzata, quasi per giustificarsi visto il mio tono mi rispose
“Eh… ma qui l’inverno è freddo e quando vengo qui a dar da mangiare agli animali devo pur accendere il fuoco per scaldarmi, guardi se vuol portarselo via mi fa quasi un favore è rimasto quello più polveroso e tanto io per accendere adesso utilizzo le foglie della pannocchia del granoturco”
Senza neanche guardare cosa c’era dentro presi il sacco e lo misi nel cofano del fuoristrada, prosegui nelle mie verifiche e verso il tardo pomeriggio dopo aver compiuto gli atti dovuti rientrai all’accampamento con due pensieri uno al sacco di lettere e l’altro alla cuoca.
Era già buio all’arrivo e l’aria non era certo allegra, la cuoca non vi dico con quanti improperi era andata via abbandonando per sempre il campo e lasciando tutta la pasta nel pentolone insieme ai fiori, che devo dire una volta ripulita e scaldata a priori non era proprio niente male. I giorni successivi passarono abbastanza in fretta ed io riposi il sacco all’interno della tenda in posizione sopraelevata dal terreno visto che la pioggia la faceva da padrona e non volevo che il sacco scampato dall’incenerimento dovesse subite l’onta dell’allagamento, una cosa però era certa non l’avrei aperto finché non fossi tornato a casa. La curiosità mi attanagliava ma la decisione era stata presa, per vedere cosa c’era dentro dovevo avere la massima tranquillità ed il massimo comfort.
Dopo diversi giorni e vicissitudini arrivò la mia sostituzione e finalmente ripresi la strada di casa con un pensiero ulteriore, cosa mi dirà mia moglie vedendomi arrivare con un sacco iper-polveroso sapendo che non vede di buon occhio la presenza in casa di buste, lettere, bustoni e similari?
La prova del nove la feci subito, dopo una prima accoglienza euforica (la mia) il sacco di juta fu minacciato di quarantena a casa dei miei genitori, ma oramai la curiosità era talmente tanta che con la scusa di togliere i vestiti sporchi dagli zaini andai in garage e svuotai il sacco in terra.
Una nuvola polverosa si alzò immediatamente e sotto di essa apparvero decine e decine di lettere affrancate, cartoline, buste e fra queste moltissime franchigie di posta militare.
Una settimana non bastò per ripulire il tutto con un pennello e mettere ordine tra quelle buste, di poco valore venale ma di altissimo sentimento umano, in poche parole c’era tutta la storia di quella famiglia, dei contadini e di chi prestava servizio in quel casale dal 1930 al 1943 un vero spaccato di storia che viene rievocata nelle ansie nei timori e nelle gioie di chi viveva in quella realtà con tanto di preoccupazioni per le sorti di quelli coinvolti nella guerra in atto.
C’erano molte franchigie militari scritte dai figli dei contadini, dei fattori e dal figlio stesso del proprietario terriero indirizzate tutte a lui perché le leggesse ai rispettivi genitori, purtroppo analfabeti, in alcune richiedevano un aiuto per poter tornare a casa con la scusa della mietitura in altre di non far sapere ai genitori che erano stati fatti prigionieri.
Da queste franchigie è partita la mia passione per la posta militare che mi porta anche a leggere il retro della cartolina, cosa che molti collezionisti non fanno perché si fermano esclusivamente all’aspetto collezionistico, mentre molto ci sarebbe da imparare su quanto scritto nel “lato B”.
Oggi non riesco pensare cosa ci poteva essere stato negli altri tre sacchi inceneriti dal contadino, anche perché nel “mio” ho ritrovato alcune buste affrancate ed annullate nel 1879, mi piace sognare, come penso lo facciano molti collezionisti.
Per concludere, successivamente in dicembre sono tornato nuovamente al casolare, quel giorno c’era una bufera di neve, i maiali avevano preso la via del prosciutto e con mio dispiacere vidi che il tetto della chiesa era completamente crollato schiacciando tutto quello che c’era sotto così come era crollato una parte del tetto del casolare, pensate in un corridoio trovai altri due lettere in terra, anzi una era un tariffario per veterinari affrancato ed annullato con un bollo datato 1947 forse uno degli ultimi recapiti prima che il casale fosse lasciato dai suoi abitanti per sempre.
Fatti e realtà non sono casuali ma veritieri.

