"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
....Quei "piccoli grandi " EROI da non dimenticare...
Antonio e Eduardo Rossi
Antonio Rossi Capua 3-2-1843
Eduardo Rossi Nocera 19-1-1846
Figli del tenente dello stato maggiore Paolino Rossi, aiutante di campo del generale Zola, morto eroicamente il 7 settembre del 1848 alla presa di Messina, furono allevati a spese dello stato ed entrano gratuitamente alla Nunziatella.
Antonio entrò nell'istituto di Pizzofalcone nel 1853, Eduardo nel 1856.
Cresciuti nel ricordo del fulgido esempio paterno non ebbero dubbi sulla scelta che li vide coinvolti nei fatti dell'invasione piemontese.
Raggiunsero Gaeta e, promossi alfieri, furono assegnati alle batterie di S. Giacomo e Fico.
Diedero un forte contributo alla resistenza duosiciliana, dando lustro alla figura del soldato borbonico.
Charles Guarnire nel suo 'Journal du siège de Gaeta' ricorda in data 11 febbraio 1861 'On a rencontrèè cette soireè, sur una batterie dont jè ai oubliè le nom, un sous-lieutenant de quinze o seize ans, servant seul avec deux hommes quatre canons, chargeant, pointant, et tirant avec rage. Ce brave enfant se nomme Rossi; il a un frère qui, comme lui, sè est distinquè pedant le siège"
"ho incontrato questa sera, su una batteria di cui non ricordo il nome, un sottotenente di quindici o sedici anni, che serve con solo due uomini quattro cannoni, che caricano, che indicano, e che mirano con perizia." Questo ottimo giovanotto si nomina Rossi; ha un fratello anche molto bravo, e poichè molto legati risiede con lui".
Antonio e Eduardo Rossi
Antonio Rossi Capua 3-2-1843
Eduardo Rossi Nocera 19-1-1846
Figli del tenente dello stato maggiore Paolino Rossi, aiutante di campo del generale Zola, morto eroicamente il 7 settembre del 1848 alla presa di Messina, furono allevati a spese dello stato ed entrano gratuitamente alla Nunziatella.
Antonio entrò nell'istituto di Pizzofalcone nel 1853, Eduardo nel 1856.
Cresciuti nel ricordo del fulgido esempio paterno non ebbero dubbi sulla scelta che li vide coinvolti nei fatti dell'invasione piemontese.
Raggiunsero Gaeta e, promossi alfieri, furono assegnati alle batterie di S. Giacomo e Fico.
Diedero un forte contributo alla resistenza duosiciliana, dando lustro alla figura del soldato borbonico.
Charles Guarnire nel suo 'Journal du siège de Gaeta' ricorda in data 11 febbraio 1861 'On a rencontrèè cette soireè, sur una batterie dont jè ai oubliè le nom, un sous-lieutenant de quinze o seize ans, servant seul avec deux hommes quatre canons, chargeant, pointant, et tirant avec rage. Ce brave enfant se nomme Rossi; il a un frère qui, comme lui, sè est distinquè pedant le siège"
"ho incontrato questa sera, su una batteria di cui non ricordo il nome, un sottotenente di quindici o sedici anni, che serve con solo due uomini quattro cannoni, che caricano, che indicano, e che mirano con perizia." Questo ottimo giovanotto si nomina Rossi; ha un fratello anche molto bravo, e poichè molto legati risiede con lui".
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
....Quei "piccoli grandi " EROI da non dimenticare...
Giovanni Guarriello
1820-1861
Tenente
Era nato intorno al 1820 e le prime notizie su di lui lo danno sottufficiale di battaglione nella campagna siciliana del 1848-49 dove fu decorato con la medaglia d'oro di S. Giorgio commutata, alla promozione ad ufficiale. L'11 settembre 1860 fu promosso I tenente.
Nell'ottobre comandò un reparto nelle gole di Sant'Andrea e San Nicola, a comando del capitano de Rosheneim. Sconfinato nello Stato Pontificio nel mese di novembre, volle rientrare a Gaeta assediata, dove fu sempre fra i più attivi e degni di lode.
Il 4 febbraio rimase ferito dallo scoppio di due granate lanciate dai piemontesi, ma dopo aver ricevuto le prime cure, volle tornare al posto di battaglia e il giorno seguente trovò la morte sotto le macerie del magazzino di munizioni della batteria Cittadella selvaggiamente bombardata dai cannoni sardi.
Giovanni Guarriello
1820-1861
Tenente
Era nato intorno al 1820 e le prime notizie su di lui lo danno sottufficiale di battaglione nella campagna siciliana del 1848-49 dove fu decorato con la medaglia d'oro di S. Giorgio commutata, alla promozione ad ufficiale. L'11 settembre 1860 fu promosso I tenente.
Nell'ottobre comandò un reparto nelle gole di Sant'Andrea e San Nicola, a comando del capitano de Rosheneim. Sconfinato nello Stato Pontificio nel mese di novembre, volle rientrare a Gaeta assediata, dove fu sempre fra i più attivi e degni di lode.
Il 4 febbraio rimase ferito dallo scoppio di due granate lanciate dai piemontesi, ma dopo aver ricevuto le prime cure, volle tornare al posto di battaglia e il giorno seguente trovò la morte sotto le macerie del magazzino di munizioni della batteria Cittadella selvaggiamente bombardata dai cannoni sardi.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Buona serata a tutti.
Dalle ultime immagini della bella Sofia, postate dall’impeccabile amico Gianni:
- a pag. 81, sulla lettera da Napoli ad Agnone troviamo due bellissime posizioni 97 e 87 della rima tavola del 2 grana, gruppo di sinistra;
- sempre a pag. 81, sulla lettera da Vasto a Guardiagrele una evidente frode postale, mediante utilizzo della coppia di francobolli da gr. 2, precedentemente annullati dal bollo in cartella;
- a pag. 82 notiamo l’impiego del bollo circolare borbonico nominativo come annullatore che man mano andava a sostituire gli svolazzi, nonché una bellissima mista;
- a pag. 83, la lettera da Napoli a Lecce affrancata con una striscia di 4 francobolli da gr. 2 della seconda tavola, subito riconoscibili per la maggior distanza delle battute lasciate dalla rulletta nel inferiore e superiore, per quella colorata a destra e per il trattolino bianco nel fondo lineato al di sotto della “N” di “NAPOLETANA”;
- a pag. 83, anche è interessante l’affrancatura di gr. 9 sulla lettera da Bari a Taranto, prevista per lettera da 1 oncia e 5 trappesi;
- a pag. 84 due lettere tassate all’arrivo dalla posta napoletana;
- a pag. 85 e 86, altre interessanti affrancature.
pasfil
Dalle ultime immagini della bella Sofia, postate dall’impeccabile amico Gianni:
- a pag. 81, sulla lettera da Napoli ad Agnone troviamo due bellissime posizioni 97 e 87 della rima tavola del 2 grana, gruppo di sinistra;
- sempre a pag. 81, sulla lettera da Vasto a Guardiagrele una evidente frode postale, mediante utilizzo della coppia di francobolli da gr. 2, precedentemente annullati dal bollo in cartella;
- a pag. 82 notiamo l’impiego del bollo circolare borbonico nominativo come annullatore che man mano andava a sostituire gli svolazzi, nonché una bellissima mista;
- a pag. 83, la lettera da Napoli a Lecce affrancata con una striscia di 4 francobolli da gr. 2 della seconda tavola, subito riconoscibili per la maggior distanza delle battute lasciate dalla rulletta nel inferiore e superiore, per quella colorata a destra e per il trattolino bianco nel fondo lineato al di sotto della “N” di “NAPOLETANA”;
- a pag. 83, anche è interessante l’affrancatura di gr. 9 sulla lettera da Bari a Taranto, prevista per lettera da 1 oncia e 5 trappesi;
- a pag. 84 due lettere tassate all’arrivo dalla posta napoletana;
- a pag. 85 e 86, altre interessanti affrancature.



pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

Pietro e Gianni
e' veramente un piacere leggervi














- gianni tramaglino
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- Iscritto il: 1 novembre 2007, 16:28
Re: Da Napoli a Sofia..........
...continuando....
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
...continuando...
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Re: Da Napoli a Sofia..........
....Quei "piccoli grandi " EROI da non dimenticare...
"Viva 'o Rre"
Luigi Capecelatro
Napoli 2/5/1802- Napoli 9/6/1892
Tenente Colonnello
Appartenente ad una famiglia storica del regno, fu ammesso nelle guardie del corpo a cavallo a 19 anni.
Durante la campagnia di Sicilia del 1848-49 si distinse per coraggio e valore ottenendo la croce di diritto di S.Giorgio e la medaglia d'oro.
Il I maggio 1860 fu promosso tenente colonnello.
L'11 settembre condusse il proprio corpo a Capua.
Il 1 ottobre fu ferito gravemente nell'assalto alle barricate a S.Angelo e fu il primo quel giorno a gridare "Viva 'o Rre".
Nel diario inedito del 14° Cacciatori che era di riserva e si apprestava a raggiungere la prima linea, l'anonimo autore racconta che il colonnello adagiato su di una barella, per non creare sconforto nei soldati che si recavano al fuoco nemico e per esortarli al combattimento, con uno sforzo si alzò dalla barella e più volte gridò "viva 'o Rre", incitando quei bravi e gloriosi militari.
Il Re volle visitarlo e gli consegnò personalmente la croce di cavaliere di S.Ferdinando del Merito.
Nonostante le gravissime ferite riportate, la forte fibra del colonnello ebbe la meglio e dopo una lunga convalescenza rientrò in famiglia, non aderendo nell'esercito italiano, morì a Napoli alla bella età di novant'anni.
"Viva 'o Rre"
Luigi Capecelatro
Napoli 2/5/1802- Napoli 9/6/1892
Tenente Colonnello
Appartenente ad una famiglia storica del regno, fu ammesso nelle guardie del corpo a cavallo a 19 anni.
Durante la campagnia di Sicilia del 1848-49 si distinse per coraggio e valore ottenendo la croce di diritto di S.Giorgio e la medaglia d'oro.
Il I maggio 1860 fu promosso tenente colonnello.
L'11 settembre condusse il proprio corpo a Capua.
Il 1 ottobre fu ferito gravemente nell'assalto alle barricate a S.Angelo e fu il primo quel giorno a gridare "Viva 'o Rre".
Nel diario inedito del 14° Cacciatori che era di riserva e si apprestava a raggiungere la prima linea, l'anonimo autore racconta che il colonnello adagiato su di una barella, per non creare sconforto nei soldati che si recavano al fuoco nemico e per esortarli al combattimento, con uno sforzo si alzò dalla barella e più volte gridò "viva 'o Rre", incitando quei bravi e gloriosi militari.
Il Re volle visitarlo e gli consegnò personalmente la croce di cavaliere di S.Ferdinando del Merito.
Nonostante le gravissime ferite riportate, la forte fibra del colonnello ebbe la meglio e dopo una lunga convalescenza rientrò in famiglia, non aderendo nell'esercito italiano, morì a Napoli alla bella età di novant'anni.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Testalonga”
L'onomastico del re borbonico
di Francesco Longhitano Ferraù
Bronte aveva una sola guardia municipale con a capo “u mastru ri chiazza” e quest’ultimo aveva una specie di aiutante maggiore, che veniva ogni giorno da Maletto.
Si chiamava "Testalonga", aveva un bel paio di baffi e basette alla "franceschiello" fino al mento, uno schioppettone lungo due metri: era la sua armatura a pietra focaia.
In Bronte lui era l'indispensabile: faceva l'attacchino, l'aiutante di sanità, l'accalappia cani, il lampionaro, il mezzo sacrestano e il corista di «spalla con i salmodianti preti», l'uomo di «spallata» al cataletto o alla «vitellina» per i morti di riguardo ed il cameriere al Casinò civile di conversazione dei nobili e «galantuomini» (alias cappelli) di Bronte, che lo conducevano, spesso, nelle partite di caccia come capo della muta e vivandiere.
Non sapeva né leggere né scrivere, eppure era ufficiale giudiziario.
Egli non doveva notificare alcuna carta; solo armato della sua solita, lunga spingarda, più alta di lui, monocolpo ad avancarica, andava ogni giorno a bussare alle porte di quei poveri disgraziati che si erano resi morosi nel pagare la "fonduvària" e spesse volte piantonava l'abituro dei più renitenti.
La misera gente, in quei tempi, se pur miseri, ma di pudore, per levarsi dinanzi quell'omone con quel lungo «crocefisso», andava a pagare. Oggi il "Testalonga" avrebbe brindato con quelli, alla faccia del "precettùri".
Faceva pure servizio alla pubblica pesa (baranzùni), sita accanto al Casinò, e fungeva pure da guardia di rinforzo e truppa di collegamento con la borbonica guardia nazionale che, in caso di emergenza, venendo a Bronte si accampava allo Scialandro, soppresso poi con la prima guerra mondiale.
Quella mattina al posto della «ciappa» aveva messo al capo la «crastora» orlata di seta e con un fiammante stemma borbonico, le brache, i quazuni (uose al ginocchio), e la casacca nuova; anche la sciarpa rossa, che gli cingeva le brache, era per l'occasione di seta, mentre alla giuntura aperta del ginocchio mostrava i «cazitìra» (mutande), nuove di lino, tessuti in casa come il suo vestito di drappo nero.
Per la ricorrenza, sua moglie, "a signa Nunzia a Firrazzola", la sera avanti, con l'unto nero (fumo della pentola), gli aveva affumicato le «scappìtte» nuove di vacchetta senza tacce (bollette, chiodi) per cazarli con le pezze di drappo (orbace) orlate di seta e allacciate con gli «scuppunèri» (stringhe) che, lui Testalonga, aveva rubato con i gemelli di ottone giallo dalle cinghie dei fucili, quando aveva fatto sette anni il soldato di leva in cavalleria e, poi, la guardia da raffermato, alla Vicaria di Palermo.
Quella mattina in Bronte, alla Barriera avevano levato la catena e non si pagava il pedaggio per entrare nell'abitato, era l'onomastico del re Ferdinando. Al Palazzo Ducale, in piazza Cappuccini, oggi venuto in possesso, quasi tutto, dagli stessi servi e gabelloti del Duca Nelson, dinanzi all'ingresso principale fra due candele, era posto il ritratto del Re. Ognuno dei passanti doveva, con riverenza, togliersi la «crastora» od il cilindro e fare alla tela un profondo inchino a schiena ricurva.
Testalonga, esonerato quel giorno da tutti i servizi, messo li con il suo terribile e potente monocolpo, aveva l'incarico di controllare il saluto.
Se qualche villano passava con indifferenza, lui, Testalonga, con la sua mano, grande come una pala di forno, levava al malcapitato la crastora e la gettava a terra intimando: «porco villanu, sarutàti u nostru amatu suvranu!», mentre, con l'indice sinistro, gli indicava il ritratto del re, che, seduto comodamente, mostrava sul largo petto le tante onorificenze, i pantaloni bianchi aderenti, la giubba verde dagli orli dorati, una mano guantata e sull'altra tenente il secondo guanto, come fiori in un vaso.
E mentre il mal capitato raccattava la crastora, lui subito gli dava una pedata nelle magre natiche e lo mandava a capitombolo. Quella scena non destava alcun sorriso fra i passanti, ma a Testalonga si.
Quel giorno aveva il faticoso compito di rimpiazzare le candele e, spesso, gettava «santiuni» contro Eolo (dio dei venti), perché gli procurava la fatica di riaccendere le candele con l'acciarino e l'esca focaia, che teneva nella giberna, per la bisogna.
Non c'è da meravigliarsi: questo succedeva anche in tutti i piccoli staterelli, nei quali era divisa l'Italia. Anche fuori (… )
Per chi voglia appagare la curiosità, può ammirare uno di questi grandi ritratti monarchici borbonici nella preziosa pinacoteca del Real Collegio Capizzi, dalla quale ogni anno, il Testalonga andava per il prestito, seguito dai decurioni, dal Sindaco di Bronte e dal Capitano di giustizia e giurati del mero e misto impero di Randazzo, che aveva su Bronte il diritto di vita e di morte sui cittadini ed opprimerli con angherie, censi, canoni, e pedaggi gravosi.
Sotto quel ritratto leggesi: «Al Real Collegio Borbonico della "Fidellissima Brontis Universitas"».
Bronte giustamente doveva essergli "fidelissima" perché proprio loro, i borboni personalmente, incoraggiarono e finanziarono in perpetuo il Ven. Ignazio Capizzi, nell'istituire quel famoso ateneo che, dalla fondazione, fu regio per una istruzione aperta a tutti e per tutti.
Francesco Longhitano-Checco Ferraù,
scomparso nel 1984. Insegnante elementare, studioso e storico fu un tenace cultore della più profonda ed autentica tradizione culturale del nostro comune.
Aveva assunto, unico e solo nel suo campo, questo ruolo di fedele custode della cultura e della tradizione.
Amante della storia locale, negli anni '50 ricoprì la carica di sovrintendente onorario delle biblioteche brontesi.
Così era commemorato nel gennaio 1984 dall'organo ufficiale del Comune, "Bronte Notizie":
«Lo ricordiamo sotto un duplice aspetto. Il primo è quello del Prof. Longhitano, uomo fra la gente, il giorno insegnante, la sera, al tavolo del bar «Belvedere» a vivere il suo tempo libero tra racconti, tressette e prese di tabacco.
L'altro è Ferraù, straordinario archivio vivente di pensiero, vicende, avventure storiche, miti, leggende e personaggi della sua terra.
Con lui scompare un solido legame col passato.
Parte del suo pensiero e della sua particolare cultura è contenuta nei preziosi manoscritti che egli ci ha lasciato, che si spera possano essere, un giorno, resi pubblici alla cittadinanza brontese».
Genealogia dei Longhitano-Checchi, Chicchitti
Il ritratto del Re, conservato al Real collegio CapizziSe qualche villano passava con indifferenza, lui, Testalonga, con la sua mano, grande come una pala di forno, levava al malcapitato la crastora e la gettava a terra intimando: «porco villanu, sarutàti u nostru amatu suvranu!», mentre, con l'indice sinistro, gli indicava il ritratto del re, che, seduto comodamente, mostrava sul largo petto le tante onorificenze, i pantaloni bianchi aderenti, la giubba verde dagli orli dorati, una mano guantata e sull'altra tenente il secondo guanto, come fiori in un vaso.
E mentre il mal capitato raccattava la crastora, lui subito gli dava una pedata nelle magre natiche e lo mandava a capitombolo. Quella scena non destava alcun sorriso fra i passanti, ma a Testalonga si.
Quel giorno aveva il faticoso compito di rimpiazzare le candele e, spesso, gettava «santiuni» contro Eolo (dio dei venti), perché gli procurava la fatica di riaccendere le candele con l'acciarino e l'esca focaia, che teneva nella giberna, per la bisogna.
Non c'è da meravigliarsi: questo succedeva anche in tutti i piccoli staterelli, nei quali era divisa l'Italia. Anche fuori (… )
Per chi voglia appagare la curiosità, può ammirare uno di questi grandi ritratti monarchici borbonici nella preziosa pinacoteca del Real Collegio Capizzi, dalla quale ogni anno, il Testalonga andava per il prestito, seguito dai decurioni, dal Sindaco di Bronte e dal Capitano di giustizia e giurati del mero e misto impero di Randazzo, che aveva su Bronte il diritto di vita e di morte sui cittadini ed opprimerli con angherie, censi, canoni, e pedaggi gravosi.
Sotto quel ritratto leggesi: «Al Real Collegio Borbonico della "Fidellissima Brontis Universitas"».
Bronte giustamente doveva essergli "fidelissima" perché proprio loro, i borboni personalmente, incoraggiarono e finanziarono in perpetuo il Ven. Ignazio Capizzi, nell'istituire quel famoso ateneo che, dalla fondazione, fu regio per una istruzione aperta a tutti e per tutti.
L'onomastico del re borbonico
di Francesco Longhitano Ferraù
Bronte aveva una sola guardia municipale con a capo “u mastru ri chiazza” e quest’ultimo aveva una specie di aiutante maggiore, che veniva ogni giorno da Maletto.
Si chiamava "Testalonga", aveva un bel paio di baffi e basette alla "franceschiello" fino al mento, uno schioppettone lungo due metri: era la sua armatura a pietra focaia.
In Bronte lui era l'indispensabile: faceva l'attacchino, l'aiutante di sanità, l'accalappia cani, il lampionaro, il mezzo sacrestano e il corista di «spalla con i salmodianti preti», l'uomo di «spallata» al cataletto o alla «vitellina» per i morti di riguardo ed il cameriere al Casinò civile di conversazione dei nobili e «galantuomini» (alias cappelli) di Bronte, che lo conducevano, spesso, nelle partite di caccia come capo della muta e vivandiere.
Non sapeva né leggere né scrivere, eppure era ufficiale giudiziario.
Egli non doveva notificare alcuna carta; solo armato della sua solita, lunga spingarda, più alta di lui, monocolpo ad avancarica, andava ogni giorno a bussare alle porte di quei poveri disgraziati che si erano resi morosi nel pagare la "fonduvària" e spesse volte piantonava l'abituro dei più renitenti.
La misera gente, in quei tempi, se pur miseri, ma di pudore, per levarsi dinanzi quell'omone con quel lungo «crocefisso», andava a pagare. Oggi il "Testalonga" avrebbe brindato con quelli, alla faccia del "precettùri".
Faceva pure servizio alla pubblica pesa (baranzùni), sita accanto al Casinò, e fungeva pure da guardia di rinforzo e truppa di collegamento con la borbonica guardia nazionale che, in caso di emergenza, venendo a Bronte si accampava allo Scialandro, soppresso poi con la prima guerra mondiale.
Quella mattina al posto della «ciappa» aveva messo al capo la «crastora» orlata di seta e con un fiammante stemma borbonico, le brache, i quazuni (uose al ginocchio), e la casacca nuova; anche la sciarpa rossa, che gli cingeva le brache, era per l'occasione di seta, mentre alla giuntura aperta del ginocchio mostrava i «cazitìra» (mutande), nuove di lino, tessuti in casa come il suo vestito di drappo nero.
Per la ricorrenza, sua moglie, "a signa Nunzia a Firrazzola", la sera avanti, con l'unto nero (fumo della pentola), gli aveva affumicato le «scappìtte» nuove di vacchetta senza tacce (bollette, chiodi) per cazarli con le pezze di drappo (orbace) orlate di seta e allacciate con gli «scuppunèri» (stringhe) che, lui Testalonga, aveva rubato con i gemelli di ottone giallo dalle cinghie dei fucili, quando aveva fatto sette anni il soldato di leva in cavalleria e, poi, la guardia da raffermato, alla Vicaria di Palermo.
Quella mattina in Bronte, alla Barriera avevano levato la catena e non si pagava il pedaggio per entrare nell'abitato, era l'onomastico del re Ferdinando. Al Palazzo Ducale, in piazza Cappuccini, oggi venuto in possesso, quasi tutto, dagli stessi servi e gabelloti del Duca Nelson, dinanzi all'ingresso principale fra due candele, era posto il ritratto del Re. Ognuno dei passanti doveva, con riverenza, togliersi la «crastora» od il cilindro e fare alla tela un profondo inchino a schiena ricurva.
Testalonga, esonerato quel giorno da tutti i servizi, messo li con il suo terribile e potente monocolpo, aveva l'incarico di controllare il saluto.
Se qualche villano passava con indifferenza, lui, Testalonga, con la sua mano, grande come una pala di forno, levava al malcapitato la crastora e la gettava a terra intimando: «porco villanu, sarutàti u nostru amatu suvranu!», mentre, con l'indice sinistro, gli indicava il ritratto del re, che, seduto comodamente, mostrava sul largo petto le tante onorificenze, i pantaloni bianchi aderenti, la giubba verde dagli orli dorati, una mano guantata e sull'altra tenente il secondo guanto, come fiori in un vaso.
E mentre il mal capitato raccattava la crastora, lui subito gli dava una pedata nelle magre natiche e lo mandava a capitombolo. Quella scena non destava alcun sorriso fra i passanti, ma a Testalonga si.
Quel giorno aveva il faticoso compito di rimpiazzare le candele e, spesso, gettava «santiuni» contro Eolo (dio dei venti), perché gli procurava la fatica di riaccendere le candele con l'acciarino e l'esca focaia, che teneva nella giberna, per la bisogna.
Non c'è da meravigliarsi: questo succedeva anche in tutti i piccoli staterelli, nei quali era divisa l'Italia. Anche fuori (… )
Per chi voglia appagare la curiosità, può ammirare uno di questi grandi ritratti monarchici borbonici nella preziosa pinacoteca del Real Collegio Capizzi, dalla quale ogni anno, il Testalonga andava per il prestito, seguito dai decurioni, dal Sindaco di Bronte e dal Capitano di giustizia e giurati del mero e misto impero di Randazzo, che aveva su Bronte il diritto di vita e di morte sui cittadini ed opprimerli con angherie, censi, canoni, e pedaggi gravosi.
Sotto quel ritratto leggesi: «Al Real Collegio Borbonico della "Fidellissima Brontis Universitas"».
Bronte giustamente doveva essergli "fidelissima" perché proprio loro, i borboni personalmente, incoraggiarono e finanziarono in perpetuo il Ven. Ignazio Capizzi, nell'istituire quel famoso ateneo che, dalla fondazione, fu regio per una istruzione aperta a tutti e per tutti.
Francesco Longhitano-Checco Ferraù,
scomparso nel 1984. Insegnante elementare, studioso e storico fu un tenace cultore della più profonda ed autentica tradizione culturale del nostro comune.
Aveva assunto, unico e solo nel suo campo, questo ruolo di fedele custode della cultura e della tradizione.
Amante della storia locale, negli anni '50 ricoprì la carica di sovrintendente onorario delle biblioteche brontesi.
Così era commemorato nel gennaio 1984 dall'organo ufficiale del Comune, "Bronte Notizie":
«Lo ricordiamo sotto un duplice aspetto. Il primo è quello del Prof. Longhitano, uomo fra la gente, il giorno insegnante, la sera, al tavolo del bar «Belvedere» a vivere il suo tempo libero tra racconti, tressette e prese di tabacco.
L'altro è Ferraù, straordinario archivio vivente di pensiero, vicende, avventure storiche, miti, leggende e personaggi della sua terra.
Con lui scompare un solido legame col passato.
Parte del suo pensiero e della sua particolare cultura è contenuta nei preziosi manoscritti che egli ci ha lasciato, che si spera possano essere, un giorno, resi pubblici alla cittadinanza brontese».
Genealogia dei Longhitano-Checchi, Chicchitti
Il ritratto del Re, conservato al Real collegio CapizziSe qualche villano passava con indifferenza, lui, Testalonga, con la sua mano, grande come una pala di forno, levava al malcapitato la crastora e la gettava a terra intimando: «porco villanu, sarutàti u nostru amatu suvranu!», mentre, con l'indice sinistro, gli indicava il ritratto del re, che, seduto comodamente, mostrava sul largo petto le tante onorificenze, i pantaloni bianchi aderenti, la giubba verde dagli orli dorati, una mano guantata e sull'altra tenente il secondo guanto, come fiori in un vaso.
E mentre il mal capitato raccattava la crastora, lui subito gli dava una pedata nelle magre natiche e lo mandava a capitombolo. Quella scena non destava alcun sorriso fra i passanti, ma a Testalonga si.
Quel giorno aveva il faticoso compito di rimpiazzare le candele e, spesso, gettava «santiuni» contro Eolo (dio dei venti), perché gli procurava la fatica di riaccendere le candele con l'acciarino e l'esca focaia, che teneva nella giberna, per la bisogna.
Non c'è da meravigliarsi: questo succedeva anche in tutti i piccoli staterelli, nei quali era divisa l'Italia. Anche fuori (… )
Per chi voglia appagare la curiosità, può ammirare uno di questi grandi ritratti monarchici borbonici nella preziosa pinacoteca del Real Collegio Capizzi, dalla quale ogni anno, il Testalonga andava per il prestito, seguito dai decurioni, dal Sindaco di Bronte e dal Capitano di giustizia e giurati del mero e misto impero di Randazzo, che aveva su Bronte il diritto di vita e di morte sui cittadini ed opprimerli con angherie, censi, canoni, e pedaggi gravosi.
Sotto quel ritratto leggesi: «Al Real Collegio Borbonico della "Fidellissima Brontis Universitas"».
Bronte giustamente doveva essergli "fidelissima" perché proprio loro, i borboni personalmente, incoraggiarono e finanziarono in perpetuo il Ven. Ignazio Capizzi, nell'istituire quel famoso ateneo che, dalla fondazione, fu regio per una istruzione aperta a tutti e per tutti.
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Re: Da Napoli a Sofia..........






- gianni tramaglino
- Messaggi: 968
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un grazie di cuore agli Amici che hanno voluto salutarmi con care parole . Continua il mio viaggio che vuole offrire i "gioielli" dell'Amico Mario con il saggio commento del carissimo Pietro Pasfil e alcuni "spaccati" di uno dei periodi piu' difficili e controversi della nostra storia,cercando di mettere in risalto anche persone e fatti quasi dimenticati dall'oblio del tempo.Cordialmente!gianni
Enrichetta Caracciolo: monaca per forza,
garibaldina per vocazione
Raffaele Sorgetti
Il 7 settembre 1860, nel Duomo di Napoli, mentre Garibaldi assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, una suora benedettina deponeva su un altare il suo nero velo di monaca. Quella suora, che era rimasta quasi schiacciata dalla folla nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano al Generale, si chiamava Enrichetta Caracciolo.
Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo di Forino, maresciallo dell’esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni aveva monacato tutte le figlie femmine tranne le primogenite, ed in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori di rinchiudere le proprie figlie in istituti religiosi, a qualsiasi età. Nonostante la generazione di Enrichetta fosse la prima in cui questa prassi si incrinava (più di una delle sue sorelle si sposò), una serie di circostanze fecero sì che lei fosse destinata ad una monacazione forzata.
Alla morte del padre Enrichetta fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurla nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Nel 1841 Enrichetta pronunciò i voti solenni.
Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete. Si procurò la fama di rivoluzionaria comprando senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, approfittando della libertà di stampa concessa dal papa Pio IX. E proprio incoraggiata dal clima di speranza nel Papa liberale, nel 1846 presentò al pontefice la prima di una serie di istanze per ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del Papa.
Durante i moti rivoluzionari del 1848, mentre le monache pregavano per lo sterminio dei malvagi, Enrichetta innalzava taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione, ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferì dare fuoco alle sue memorie. Nel frattempo riuscì ad ottenere almeno l’autorizzazione a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.
Nel Conservatorio di Costantinopoli, però, il partito riunito intorno alla badessa era totalmente ligio alla Curia e ai Borbone, ed Enrichetta subì una drastica censura riguardo alle sue letture, all’esecuzione al piano dei brani di Rossini ed alla possibilità di scrivere lettere o tenere un diario. Enrichetta continuò lo stesso ad inviare lettere, nascondendole nel cesto della biancheria sporca con la complicità di una domestica, ma alcuni suoi scritti, sequestrati e pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vennero da lui inviati a Pio IX affinché non cedesse alle reiterate suppliche di Teresa Cutelli (ora separata dal marito e riconciliata con la figlia) per la libertà di Enrichetta. Solo nel 1849, grazie ai disturbi nervosi di cui soffriva, ottenne finalmente il permesso di uscire con la madre per curarsi con i bagni. Riario Sforza, tuttavia, continuò a perseguitarla, valendosi della sua influenza presso Ferdinando II. Le negò una nuova licenza e le sequestrò l’assegno costituito dai frutti della sua dote di monaca, costringendola a vivere della carità dei parenti.
Nel giugno 1851 Enrichetta, con la complicità della madre, lasciò il Conservatorio di Costantinopoli e si recò a Capua, a casa di una sua sorella, sotto la protezione del vescovo Serra di Cassano, ma il suo protettore morì pochi giorni dopo. Arrestata e condotta nel ritiro di Mondragone, rifiutò il cibo e tentò il suicidio, colpendosi al petto con un pugnale, riuscendo però solo a ferirsi. Sopravvisse, e superò un intero anno di isolamento, nel quale le fu impedito di ricevere i parenti e di lasciare il ritiro, persino per visitare la madre morente.
Dopo la scomparsa della madre, mediante l’intercessione di una zia, Enrichetta ottenne dalla Sacra Congregazione dei Vescovi il permesso di recarsi a Castellammare per la cura dei bagni. Fu uno stratagemma attraverso il quale la Congregazione, fortemente critica verso il comportamento dell’arcivescovo di Napoli, mirava a liberare Enrichetta dal suo persecutore. A Castellammare godette di una relativa libertà, anche se ormai era entrata a tutti gli effetti nelle reti cospirative. Per sfuggire alla sorveglianza della Curia e della polizia borbonica cambiò in sei anni diciotto abitazioni e trentadue donne di servizio.
Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia coi Mille, Enrichetta tornò clandestinamente a Napoli, affidandosi a persone di sua fiducia per depistare i poliziotti in borghese messi alle sue costole e, come già detto, era nel Duomo ad accogliere il Generale il giorno del suo ingresso a Napoli. La mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione scrisse in una lettera ad un amico. Pochi mesi dopo avere abbandonato i voti sposò col rito evangelico il patriota napoletano di origine tedesca Giovanni Greuther.
Nel 1864 pubblicò le sue memorie presso la società editrice Barbera di Firenze col titolo Misteri del chiostro napoletano. Il libro venne accolto con grande interesse e ripubblicato ben otto volte negli anni successivi. Fu tradotto in varie lingue e venne molto apprezzato da critici e autori dell’epoca, tra cui Alessandro Manzoni (che nella storia di Enrichetta trovò molti punti in comune con il personaggio di Gertrude) e Luigi Settembrini. Garibaldi le scrisse, invece, per ringraziarla di alcuni bellissimi sonetti. La pubblicazione del libro le valse, però, non solo una grande notorietà, ma anche la scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche, che interpretarono l’esposizione delle ipocrisie nascoste all’interno delle mura dei conventi come un attacco calcolato alla Chiesa Cattolica.
Nel 1866 pubblicò Un delitto impunito: fatto storico del 1838, che narra l’assassinio di un’educanda da parte di un sacerdote respinto dalla fanciulla, e nel 1883 Un episodio dei misteri del Chiostro Napolitano, un dramma in cinque atti tratto dalle sue memorie. Fu corrispondente di giornali politici, tra cui La rivista partenopea di Napoli, La Tribuna di Salerno e Il Nomade di Palermo. In occasione della terza guerra d’indipendenza, pubblicò un Proclama alla Donna Italiana in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale, e fece parte, con la sorella Giulia Cigala Caracciolo, del Comitato femminile napoletano di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.
Nonostante la sua notorietà e la sua infaticabile attività, Enrichetta non ebbe alcun riconoscimento ufficiale dal governo italiano. Garibaldi, partendo per l’assedio di Capua, non fece in tempo a firmare il decreto con cui aveva intenzione di nominarla ispettrice agli educandati di Napoli. De Sanctis, dopo averle promesso un incarico, la dimenticò. Gli oggetti di sua proprietà che Riario Sforza le aveva sequestrato non furono mai ritrovati. A settant’anni, quando Francesco Sciarelli ne scrisse la biografia, Enrichetta viveva, vedova, ignorata dai suoi concittadini, modesta e solitaria. È ignota la data della morte.
Enrichetta Caracciolo: monaca per forza,
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Raffaele Sorgetti
Il 7 settembre 1860, nel Duomo di Napoli, mentre Garibaldi assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, una suora benedettina deponeva su un altare il suo nero velo di monaca. Quella suora, che era rimasta quasi schiacciata dalla folla nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano al Generale, si chiamava Enrichetta Caracciolo.
Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo di Forino, maresciallo dell’esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni aveva monacato tutte le figlie femmine tranne le primogenite, ed in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori di rinchiudere le proprie figlie in istituti religiosi, a qualsiasi età. Nonostante la generazione di Enrichetta fosse la prima in cui questa prassi si incrinava (più di una delle sue sorelle si sposò), una serie di circostanze fecero sì che lei fosse destinata ad una monacazione forzata.
Alla morte del padre Enrichetta fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurla nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Nel 1841 Enrichetta pronunciò i voti solenni.
Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete. Si procurò la fama di rivoluzionaria comprando senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, approfittando della libertà di stampa concessa dal papa Pio IX. E proprio incoraggiata dal clima di speranza nel Papa liberale, nel 1846 presentò al pontefice la prima di una serie di istanze per ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del Papa.
Durante i moti rivoluzionari del 1848, mentre le monache pregavano per lo sterminio dei malvagi, Enrichetta innalzava taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione, ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferì dare fuoco alle sue memorie. Nel frattempo riuscì ad ottenere almeno l’autorizzazione a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.
Nel Conservatorio di Costantinopoli, però, il partito riunito intorno alla badessa era totalmente ligio alla Curia e ai Borbone, ed Enrichetta subì una drastica censura riguardo alle sue letture, all’esecuzione al piano dei brani di Rossini ed alla possibilità di scrivere lettere o tenere un diario. Enrichetta continuò lo stesso ad inviare lettere, nascondendole nel cesto della biancheria sporca con la complicità di una domestica, ma alcuni suoi scritti, sequestrati e pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vennero da lui inviati a Pio IX affinché non cedesse alle reiterate suppliche di Teresa Cutelli (ora separata dal marito e riconciliata con la figlia) per la libertà di Enrichetta. Solo nel 1849, grazie ai disturbi nervosi di cui soffriva, ottenne finalmente il permesso di uscire con la madre per curarsi con i bagni. Riario Sforza, tuttavia, continuò a perseguitarla, valendosi della sua influenza presso Ferdinando II. Le negò una nuova licenza e le sequestrò l’assegno costituito dai frutti della sua dote di monaca, costringendola a vivere della carità dei parenti.
Nel giugno 1851 Enrichetta, con la complicità della madre, lasciò il Conservatorio di Costantinopoli e si recò a Capua, a casa di una sua sorella, sotto la protezione del vescovo Serra di Cassano, ma il suo protettore morì pochi giorni dopo. Arrestata e condotta nel ritiro di Mondragone, rifiutò il cibo e tentò il suicidio, colpendosi al petto con un pugnale, riuscendo però solo a ferirsi. Sopravvisse, e superò un intero anno di isolamento, nel quale le fu impedito di ricevere i parenti e di lasciare il ritiro, persino per visitare la madre morente.
Dopo la scomparsa della madre, mediante l’intercessione di una zia, Enrichetta ottenne dalla Sacra Congregazione dei Vescovi il permesso di recarsi a Castellammare per la cura dei bagni. Fu uno stratagemma attraverso il quale la Congregazione, fortemente critica verso il comportamento dell’arcivescovo di Napoli, mirava a liberare Enrichetta dal suo persecutore. A Castellammare godette di una relativa libertà, anche se ormai era entrata a tutti gli effetti nelle reti cospirative. Per sfuggire alla sorveglianza della Curia e della polizia borbonica cambiò in sei anni diciotto abitazioni e trentadue donne di servizio.
Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia coi Mille, Enrichetta tornò clandestinamente a Napoli, affidandosi a persone di sua fiducia per depistare i poliziotti in borghese messi alle sue costole e, come già detto, era nel Duomo ad accogliere il Generale il giorno del suo ingresso a Napoli. La mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione scrisse in una lettera ad un amico. Pochi mesi dopo avere abbandonato i voti sposò col rito evangelico il patriota napoletano di origine tedesca Giovanni Greuther.
Nel 1864 pubblicò le sue memorie presso la società editrice Barbera di Firenze col titolo Misteri del chiostro napoletano. Il libro venne accolto con grande interesse e ripubblicato ben otto volte negli anni successivi. Fu tradotto in varie lingue e venne molto apprezzato da critici e autori dell’epoca, tra cui Alessandro Manzoni (che nella storia di Enrichetta trovò molti punti in comune con il personaggio di Gertrude) e Luigi Settembrini. Garibaldi le scrisse, invece, per ringraziarla di alcuni bellissimi sonetti. La pubblicazione del libro le valse, però, non solo una grande notorietà, ma anche la scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche, che interpretarono l’esposizione delle ipocrisie nascoste all’interno delle mura dei conventi come un attacco calcolato alla Chiesa Cattolica.
Nel 1866 pubblicò Un delitto impunito: fatto storico del 1838, che narra l’assassinio di un’educanda da parte di un sacerdote respinto dalla fanciulla, e nel 1883 Un episodio dei misteri del Chiostro Napolitano, un dramma in cinque atti tratto dalle sue memorie. Fu corrispondente di giornali politici, tra cui La rivista partenopea di Napoli, La Tribuna di Salerno e Il Nomade di Palermo. In occasione della terza guerra d’indipendenza, pubblicò un Proclama alla Donna Italiana in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale, e fece parte, con la sorella Giulia Cigala Caracciolo, del Comitato femminile napoletano di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.
Nonostante la sua notorietà e la sua infaticabile attività, Enrichetta non ebbe alcun riconoscimento ufficiale dal governo italiano. Garibaldi, partendo per l’assedio di Capua, non fece in tempo a firmare il decreto con cui aveva intenzione di nominarla ispettrice agli educandati di Napoli. De Sanctis, dopo averle promesso un incarico, la dimenticò. Gli oggetti di sua proprietà che Riario Sforza le aveva sequestrato non furono mai ritrovati. A settant’anni, quando Francesco Sciarelli ne scrisse la biografia, Enrichetta viveva, vedova, ignorata dai suoi concittadini, modesta e solitaria. È ignota la data della morte.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
A Garibaldi toccò il ruolo di carabiniere contro la rivoluzione
Andarono a fare l’Italia e si trovarono a dover soffocare sul nascere una rivoluzione
Sebastiano Vassalli
Chissà se ci fu davvero, alla vigilia della spedizione dei Mille, quel dialogo tra Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi di cui parla qualche biografo di Crispi. Garibaldi, in base a sue informazioni riservate, sapeva che le navi dei volontari sarebbero arrivate nell’isola, ma temeva il dopo; Crispi, invece, aveva paura di ciò che sarebbe potuto succedere durante la navigazione. «Se voi mi garantite il mare», avrebbe detto a Garibaldi, «io vi garantisco la terra». La Sicilia prima dell’Unità, su cui Crispi faceva tanto affidamento e che noi possiamo immaginare leggendo alcune pagine del romanzo giovanile di Pirandello, I vecchi e i giovani, era una terra in attesa di qualcosa che nessuno, nemmeno Garibaldi, avrebbe potuto darle: la rivoluzione. Lo «spettro» che secondo il Manifesto di Karl Marx (1848) si aggirava allora sull’Europa, aveva messo gli occhi sull’isola. Quella era la sorpresa (poi minimizzata dalla storiografia ufficiale) che attendeva i Mille. Andavano a fare l’Italia e si trovarono a dover soffocare sul nascere una rivoluzione. Ippolito Nievo, in una delle sue lettere dalla Sicilia, si lamenta: ci tocca fare i carabinieri. Ma non c’erano alternative: se Garibaldi avesse assecondato le insurrezioni popolari, intorno a lui gli scenari sarebbero cambiati in un batter d’occhi. Le potenze dell’epoca gli avrebbero tolto il loro appoggio e l’avrebbero dato (turandosi il naso) ai Borbone. L’impresa dei Mille sarebbe finita così.
Andarono a fare l’Italia e si trovarono a dover soffocare sul nascere una rivoluzione
Sebastiano Vassalli
Chissà se ci fu davvero, alla vigilia della spedizione dei Mille, quel dialogo tra Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi di cui parla qualche biografo di Crispi. Garibaldi, in base a sue informazioni riservate, sapeva che le navi dei volontari sarebbero arrivate nell’isola, ma temeva il dopo; Crispi, invece, aveva paura di ciò che sarebbe potuto succedere durante la navigazione. «Se voi mi garantite il mare», avrebbe detto a Garibaldi, «io vi garantisco la terra». La Sicilia prima dell’Unità, su cui Crispi faceva tanto affidamento e che noi possiamo immaginare leggendo alcune pagine del romanzo giovanile di Pirandello, I vecchi e i giovani, era una terra in attesa di qualcosa che nessuno, nemmeno Garibaldi, avrebbe potuto darle: la rivoluzione. Lo «spettro» che secondo il Manifesto di Karl Marx (1848) si aggirava allora sull’Europa, aveva messo gli occhi sull’isola. Quella era la sorpresa (poi minimizzata dalla storiografia ufficiale) che attendeva i Mille. Andavano a fare l’Italia e si trovarono a dover soffocare sul nascere una rivoluzione. Ippolito Nievo, in una delle sue lettere dalla Sicilia, si lamenta: ci tocca fare i carabinieri. Ma non c’erano alternative: se Garibaldi avesse assecondato le insurrezioni popolari, intorno a lui gli scenari sarebbero cambiati in un batter d’occhi. Le potenze dell’epoca gli avrebbero tolto il loro appoggio e l’avrebbero dato (turandosi il naso) ai Borbone. L’impresa dei Mille sarebbe finita così.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Sto muzzunciello mio
Ferdinando II, che, appena salito al trono, fece la solenne promessa di visitare tutte le province del regno, cercando così di stabilire un feeling con i sudditi, che mostrarono di apprezzare la sua intenzione di attuare una politica di progresso civile ed economico del Mezzogiorno. Avellino si trovò spesso sulla rotta dei viaggi reali, vivendo, come scrisse con enfasi il “Giornale degli Atti dell’Intendenza” del 1831 nel riportare la cronaca del viaggio del 20 maggio 1831 da Foggia a Napoli, una “giornata eternamente memoranda presso i popoli del principato Ultra visitati dall’amorosissimo padre nostro”. Dopo aver ricevuto il vescovo e tutte le autorità, il re trascorse parte della serata a teatro, tutto illuminato a festa, poi, acclamato dal popolo, riprese il viaggio in cocchio.
Il re auspicò che Avellino fosse collegata alla linea ferroviaria, come affermò nel discorso pronunciato nell’ottobre 1839, all’inaugurazione della tratta Napoli-Portici. “Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando che tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico”. (Dagli “ Annali Civili del Regno delle Due Sicilie “).
Ferdinando era molto religioso e amava recarsi, anche due volte al mese, al santuario di Santa Filomena a Mugnano del Cardinale, a cui, come tutti i Borbone, era devotissimo. Si racconta, che non prendessero una decisione importante senza prima fare voto a questa leggendaria santa anche per ottenerne la protezione prima di intraprendere il tratto stradale in salita in direzione di Monteforte che era così impervio da costringeva il re e tutti i viaggiatori a scendere dalla carrozza.
Anche l’8 gennaio 1859, durante il viaggio da Caserta a Manfredonia per ricevere la principessa Maria Sofia di Baviera, promessa sposa di Francesco II, fece visita al santuario, a cui volle che i principi donassero i bottoni di ametista e malachite delle camicie per farne un ostensorio, dove si sarebbe conservato il sangue della santa.
Ad Avellino un plotone di guardie d’onore, comandato da Giuseppe de Concilj, lo accolse al rione Speranza e lo accompagnò al palazzo dell’Intendenza, dove furono riservate per gli ospiti tre stanze. Gli furono presentate le autorità della città: il sindaco Nicola Maria Galasso, il presidente della corte criminale Michele La Mola, il presidente del tribunale Giuseppe Talamo, di idee liberali, il vescovo monsignor Gallo e alcuni insigni cittadini, come Fiorentino Zigarelli, Carlantonio Solvimene, Crescenzo Capozzi. Il re notò che non era presente Lorenzo de Concilj, ma l’età avanzata e il rigore del clima resero meno sospetta l’assenza dell’eroe irpino.
Il pranzo fu servito dalla cucina reale, che faceva parte del seguito, ma Ferdinando mangiò poco e si levò di tavola prima che il pranzo finisse perché era di cattivo umore. Infatti credeva nella iettatura, che gli sarebbe derivata dall’incontro con un monaco, uno zoppo o un calvo e gli era già capitato di incontrare un monaco. Era anche preoccupato per il viaggio perché aveva cominciato a nevicare.
I viaggi di Ferdinando furono accompagnati da episodi umoristici e motti scherzosi, raccontati da Raffaele De Cesare ne “La fine di un Regno”, che rivelano il carattere e la natura del personaggio, simpatico e “burlone” (la definizione è di Croce), ma alquanto rozzo e incline spesso alla superstizione.
Nel 1847 passando per la nuova strada di Monteforte, che egli aveva fatto costruire dopo che in un precedente viaggio la sua carrozza si era ribaltata, invitò la regina e il seguito a recitare il rosario per lo scampato pericolo.
Nell’estate del 1855, mentre sorbiva un gelato in compagnia di alcuni personaggi su un terrazzino del palazzo dell’Intendente di Avellino, vide passare in carrozza lungo il corso Vittorio Emanuele alcune signore, che sventolavano fazzoletti. Nello sporgersi in avanti per rispondere al saluto, perdette il cucchiaino d’oro, che cadde in strada. Temendo che potesse essere rubato, gridò al caporale Antonio Tamburino, di guardia al portone: “Tamburrì, Tamburrì: piglia ‘sto cocchiarino, prima che i guaglioni ’o fanno volà”
Ancora più gustoso l’episodio avvenuto a Monteforte nel citato viaggio del 1859. Mentre affrontava a piedi la salita del Gaudio lungo la via regia perché i cavalli erano ostacolati dalla neve, nei pressi della fontana, eretta nel 1757 dal re Carlo III, perché i viandanti si potessero riposare e le bestie abbeverare, come recita la lapide con epigrafe in latino (“anhelos ex ascensu arduo viatores salubritate sua refrigeret”), il re con la consueta bonomia offrì un sigaro al cocchiere Modestino Carulli, che guidava a mano i cavalli. Questi ringraziò e conservò il sigaro in tasca. Allora il re, che soleva esprimersi in dialetto napoletano, soggiunse:”Aggio capito, Modestiniè, tu te vuoi sfizzià ‘sto muzzunciello mio” e, levatoselo di bocca, glielo diede.
Giunto ad Avellino, chiese all’intendente della provincia Don Pasquale Mirabelli:” Che ci fai magnà stasera?” “Pacchere, Maestà, pacchere al ragù”. E il Re: ” E comme, pacchere? Bella accoglienza ca ce fai cu ’e pacchere”.
Gli avellinesi gli tributarono festose accoglienze e solenni onori in segno di affetto per la stirpe reale. Infatti, come si legge nell’articolo di Giuseppe Valagara sul Corriere dell’Irpinia del 4 settembre 1926 che cita giudizi di contemporanei, “quando Ferdinando morì, tutta Napoli vestì a nero”, anche se “qualche mese dopo, il nero del lutto reale si era trasformato nel rosso acceso di Garibaldi”.
Gerardo Pescatore
Ferdinando II, che, appena salito al trono, fece la solenne promessa di visitare tutte le province del regno, cercando così di stabilire un feeling con i sudditi, che mostrarono di apprezzare la sua intenzione di attuare una politica di progresso civile ed economico del Mezzogiorno. Avellino si trovò spesso sulla rotta dei viaggi reali, vivendo, come scrisse con enfasi il “Giornale degli Atti dell’Intendenza” del 1831 nel riportare la cronaca del viaggio del 20 maggio 1831 da Foggia a Napoli, una “giornata eternamente memoranda presso i popoli del principato Ultra visitati dall’amorosissimo padre nostro”. Dopo aver ricevuto il vescovo e tutte le autorità, il re trascorse parte della serata a teatro, tutto illuminato a festa, poi, acclamato dal popolo, riprese il viaggio in cocchio.
Il re auspicò che Avellino fosse collegata alla linea ferroviaria, come affermò nel discorso pronunciato nell’ottobre 1839, all’inaugurazione della tratta Napoli-Portici. “Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando che tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico”. (Dagli “ Annali Civili del Regno delle Due Sicilie “).
Ferdinando era molto religioso e amava recarsi, anche due volte al mese, al santuario di Santa Filomena a Mugnano del Cardinale, a cui, come tutti i Borbone, era devotissimo. Si racconta, che non prendessero una decisione importante senza prima fare voto a questa leggendaria santa anche per ottenerne la protezione prima di intraprendere il tratto stradale in salita in direzione di Monteforte che era così impervio da costringeva il re e tutti i viaggiatori a scendere dalla carrozza.
Anche l’8 gennaio 1859, durante il viaggio da Caserta a Manfredonia per ricevere la principessa Maria Sofia di Baviera, promessa sposa di Francesco II, fece visita al santuario, a cui volle che i principi donassero i bottoni di ametista e malachite delle camicie per farne un ostensorio, dove si sarebbe conservato il sangue della santa.
Ad Avellino un plotone di guardie d’onore, comandato da Giuseppe de Concilj, lo accolse al rione Speranza e lo accompagnò al palazzo dell’Intendenza, dove furono riservate per gli ospiti tre stanze. Gli furono presentate le autorità della città: il sindaco Nicola Maria Galasso, il presidente della corte criminale Michele La Mola, il presidente del tribunale Giuseppe Talamo, di idee liberali, il vescovo monsignor Gallo e alcuni insigni cittadini, come Fiorentino Zigarelli, Carlantonio Solvimene, Crescenzo Capozzi. Il re notò che non era presente Lorenzo de Concilj, ma l’età avanzata e il rigore del clima resero meno sospetta l’assenza dell’eroe irpino.
Il pranzo fu servito dalla cucina reale, che faceva parte del seguito, ma Ferdinando mangiò poco e si levò di tavola prima che il pranzo finisse perché era di cattivo umore. Infatti credeva nella iettatura, che gli sarebbe derivata dall’incontro con un monaco, uno zoppo o un calvo e gli era già capitato di incontrare un monaco. Era anche preoccupato per il viaggio perché aveva cominciato a nevicare.
I viaggi di Ferdinando furono accompagnati da episodi umoristici e motti scherzosi, raccontati da Raffaele De Cesare ne “La fine di un Regno”, che rivelano il carattere e la natura del personaggio, simpatico e “burlone” (la definizione è di Croce), ma alquanto rozzo e incline spesso alla superstizione.
Nel 1847 passando per la nuova strada di Monteforte, che egli aveva fatto costruire dopo che in un precedente viaggio la sua carrozza si era ribaltata, invitò la regina e il seguito a recitare il rosario per lo scampato pericolo.
Nell’estate del 1855, mentre sorbiva un gelato in compagnia di alcuni personaggi su un terrazzino del palazzo dell’Intendente di Avellino, vide passare in carrozza lungo il corso Vittorio Emanuele alcune signore, che sventolavano fazzoletti. Nello sporgersi in avanti per rispondere al saluto, perdette il cucchiaino d’oro, che cadde in strada. Temendo che potesse essere rubato, gridò al caporale Antonio Tamburino, di guardia al portone: “Tamburrì, Tamburrì: piglia ‘sto cocchiarino, prima che i guaglioni ’o fanno volà”
Ancora più gustoso l’episodio avvenuto a Monteforte nel citato viaggio del 1859. Mentre affrontava a piedi la salita del Gaudio lungo la via regia perché i cavalli erano ostacolati dalla neve, nei pressi della fontana, eretta nel 1757 dal re Carlo III, perché i viandanti si potessero riposare e le bestie abbeverare, come recita la lapide con epigrafe in latino (“anhelos ex ascensu arduo viatores salubritate sua refrigeret”), il re con la consueta bonomia offrì un sigaro al cocchiere Modestino Carulli, che guidava a mano i cavalli. Questi ringraziò e conservò il sigaro in tasca. Allora il re, che soleva esprimersi in dialetto napoletano, soggiunse:”Aggio capito, Modestiniè, tu te vuoi sfizzià ‘sto muzzunciello mio” e, levatoselo di bocca, glielo diede.
Giunto ad Avellino, chiese all’intendente della provincia Don Pasquale Mirabelli:” Che ci fai magnà stasera?” “Pacchere, Maestà, pacchere al ragù”. E il Re: ” E comme, pacchere? Bella accoglienza ca ce fai cu ’e pacchere”.
Gli avellinesi gli tributarono festose accoglienze e solenni onori in segno di affetto per la stirpe reale. Infatti, come si legge nell’articolo di Giuseppe Valagara sul Corriere dell’Irpinia del 4 settembre 1926 che cita giudizi di contemporanei, “quando Ferdinando morì, tutta Napoli vestì a nero”, anche se “qualche mese dopo, il nero del lutto reale si era trasformato nel rosso acceso di Garibaldi”.
Gerardo Pescatore
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un salto a tutti.
anche se non è la pagina giusta, rimane in tema:
Moisè Maldacea, nato a Foggia il 16 aprile 1822 + Bari il 17 marzo 1898. Sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 12 novembre 1878 è tra i Mille, al numero 578.[
Manifestazione terminata da qualche ora. Modesta e poco pubblicizzata.
pasfil
anche se non è la pagina giusta, rimane in tema:
Moisè Maldacea, nato a Foggia il 16 aprile 1822 + Bari il 17 marzo 1898. Sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 12 novembre 1878 è tra i Mille, al numero 578.[
Manifestazione terminata da qualche ora. Modesta e poco pubblicizzata.



pasfil
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Cari Amici,ecco un nuovo "gioiello" della collezione del nostro caro Mario Merone!Buona visione!gianni
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un saluto a tutti.
Con piacere, dopo una lunga parentesi estiva accompagno l'amico Gianni con qualche mia scemenza e con il fine di coinvolgere un pò tutti in serene discussioni sui nostri FB napoletani...o meglio...per essere più precisi
su quelli medagliati di Merone.
Questa lettera da Canosa a Napoli ha una particolarità. I francobolli sono tutti della prma tavola e facenti parte del gruppo sinistro di 100.
Una immagine di maggiore risoluzione probabilmente avrebbe consentito di essere più precisi, quindi il risultato è inattendibile. Tuttavia, rischiando lapidazioni ho tentato di plattare i FB:
pasfil
Con piacere, dopo una lunga parentesi estiva accompagno l'amico Gianni con qualche mia scemenza e con il fine di coinvolgere un pò tutti in serene discussioni sui nostri FB napoletani...o meglio...per essere più precisi

Questa lettera da Canosa a Napoli ha una particolarità. I francobolli sono tutti della prma tavola e facenti parte del gruppo sinistro di 100.
Una immagine di maggiore risoluzione probabilmente avrebbe consentito di essere più precisi, quindi il risultato è inattendibile. Tuttavia, rischiando lapidazioni ho tentato di plattare i FB:



pasfil
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
pasfil ha scritto:Un saluto a tutti.
Con piacere, dopo una lunga parentesi estiva accompagno l'amico Gianni con qualche mia scemenza e con il fine di coinvolgere un pò tutti in serene discussioni sui nostri FB napoletani...o meglio...per essere più precisisu quelli medagliati di Merone.
Questa lettera da Canosa a Napoli ha una particolarità. I francobolli sono tutti della prma tavola e facenti parte del gruppo sinistro di 100.
Una immagine di maggiore risoluzione probabilmente avrebbe consentito di essere più precisi, quindi il risultato è inattendibile. Tuttavia, rischiando lapidazioni ho tentato di plattare i FB:
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pasfil
Un grazie a Pietro Pasfil,che ancora una volta dimostra il Suo indiscutibile valore di studioso dei francobolli ...partenopei:aspettiamo qualche autorevole commento per certificare o meno l 'esatto plattaggio dei francobolli della bella busta meroniana!Felice sia il continuare!gianni
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Oggi parliamo di...
Maldacea Moisè nasce a Foggia il 16 aprile 1826 da Maria e Vicenzo Previtera, ufficiale dell′esercito napoleonico di stanza in Italia sotto Gioacchino Murat.
Della sua gioventù non si conosce molto se non per aver trascorso alcuni anni presso il Collegio dei Nobili di Parma, famoso istituto per l′addestramento dei giovani alla disciplina militare.
E′ un′esperienza questa che forgerà il suo già impetuoso carattere che lo porterà a 17 anni ad arruolarsi come sottoufficiale nel IV Reggimento Borbonico "Principessa".
Ma la militanza filoborbonica non è destinata a durare. Come tanti giovani abbeveratisi alla propaganda democratica e liberale, anche Moisè decide di attraversare il guado e aderire alla "Giovine Italia" mazziniana, rischiando per questo arduo passo la fucilazione per cospirazione.
Nel frattempo all′età di ventanni sposa Oliva Di Domenico, la quale gli darà una figlia.
Il suo coraggio lo porta, a seguito degli eventi insurrezionali che nel ′48 sconvolgono tutta la penisola, a partecipare alla difesa della Repubblica di Venezia di Daniele Manin (ricevendo anche delle onorificenze al merito dal capo dei moti veneziani).
Come noto, le sorti della primavera veneziano volgono ben presto al peggio e dopo un lungo assedio anche la città lagunare, ultima roccaforte dei democratici italiani si arrende agli austriaci.
Moisè non riesce a sfuggure alla cattura da parte della polizia austriaca durante una battuta repressiva, viene recluso nel Bagno Penale di Brindisi per cinque anni , quindi inviato in esilio a Tunisi.
Dopo l′esperienza di confino, ritorna in Piemonte e si arruola nelle file del Corpo dei Cacciatori delle Alpi, partecipando a varie campagne di guerra contro l′esercito austriaco .
Dopo l′armistizio di Villafranca, sull′onda emotiva dei successi dell′eroe dei due mondi" Giuseppe Garibaldi, decide di partecipare alla "Spedizione dei Mille".
Maldacea Moisè, che è un garibaldino della prima ora sbarca a Marsala con le "Camice Rosse" e prende parte alle più famose battaglie dell′impresa garibaldina.
Durante una di queste, a Catalafimini, in uno scontro a fuoco viene ferito all′omero, ma questa sventura non gli impedisce di partecipare a diverse battaglie .
Alcuni anni dopo, reduce dalle numerose avventure militar e insignito di varie onorificenze al merito, viene destinato ad incarichi di coordinamento e di comando del′Esercito Regolare del nuovo Regno.
Le traversie patite durante la lunga carriera militare e e le persecuzioni politiche lo inducono a ritirarsi a vita privata.
Maldacea Moisè muore a Bari il 21marzo 1898.
Con lui si chiude una delle pagine più significative della partecipazione pugliese alla causa del Risorgimento Italiano.
Maldacea Moisè nasce a Foggia il 16 aprile 1826 da Maria e Vicenzo Previtera, ufficiale dell′esercito napoleonico di stanza in Italia sotto Gioacchino Murat.
Della sua gioventù non si conosce molto se non per aver trascorso alcuni anni presso il Collegio dei Nobili di Parma, famoso istituto per l′addestramento dei giovani alla disciplina militare.
E′ un′esperienza questa che forgerà il suo già impetuoso carattere che lo porterà a 17 anni ad arruolarsi come sottoufficiale nel IV Reggimento Borbonico "Principessa".
Ma la militanza filoborbonica non è destinata a durare. Come tanti giovani abbeveratisi alla propaganda democratica e liberale, anche Moisè decide di attraversare il guado e aderire alla "Giovine Italia" mazziniana, rischiando per questo arduo passo la fucilazione per cospirazione.
Nel frattempo all′età di ventanni sposa Oliva Di Domenico, la quale gli darà una figlia.
Il suo coraggio lo porta, a seguito degli eventi insurrezionali che nel ′48 sconvolgono tutta la penisola, a partecipare alla difesa della Repubblica di Venezia di Daniele Manin (ricevendo anche delle onorificenze al merito dal capo dei moti veneziani).
Come noto, le sorti della primavera veneziano volgono ben presto al peggio e dopo un lungo assedio anche la città lagunare, ultima roccaforte dei democratici italiani si arrende agli austriaci.
Moisè non riesce a sfuggure alla cattura da parte della polizia austriaca durante una battuta repressiva, viene recluso nel Bagno Penale di Brindisi per cinque anni , quindi inviato in esilio a Tunisi.
Dopo l′esperienza di confino, ritorna in Piemonte e si arruola nelle file del Corpo dei Cacciatori delle Alpi, partecipando a varie campagne di guerra contro l′esercito austriaco .
Dopo l′armistizio di Villafranca, sull′onda emotiva dei successi dell′eroe dei due mondi" Giuseppe Garibaldi, decide di partecipare alla "Spedizione dei Mille".
Maldacea Moisè, che è un garibaldino della prima ora sbarca a Marsala con le "Camice Rosse" e prende parte alle più famose battaglie dell′impresa garibaldina.
Durante una di queste, a Catalafimini, in uno scontro a fuoco viene ferito all′omero, ma questa sventura non gli impedisce di partecipare a diverse battaglie .
Alcuni anni dopo, reduce dalle numerose avventure militar e insignito di varie onorificenze al merito, viene destinato ad incarichi di coordinamento e di comando del′Esercito Regolare del nuovo Regno.
Le traversie patite durante la lunga carriera militare e e le persecuzioni politiche lo inducono a ritirarsi a vita privata.
Maldacea Moisè muore a Bari il 21marzo 1898.
Con lui si chiude una delle pagine più significative della partecipazione pugliese alla causa del Risorgimento Italiano.
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Ultima modifica di gianni tramaglino il 13 ottobre 2011, 18:29, modificato 2 volte in totale.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Amici GRAZIE per aver ripreso le pubblicazioni. Il Vostro, Gianni, Pietro, Sergio, Sicilpost con tutti gli altri AMICI, è il vero ed UNICO VEICOLO DI PROPAGANDA della nostra FILATELIA. Saluti sinceri. Mario
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Le pie illusioni di Giuseppe Buttà
di Marcello Donativi, prefazione a Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Giuseppe Buttà
Spesse volte la gloria rifulge più smagliante sul capo del vinto che su quello del vincitore. » Così al capitolo XI delle sue memorie Giuseppe Buttà, cappellano militare del 9° Battaglione Cacciatori dell’Esercito di S.M. Francesco II, Re delle Due Sicilie.
Purtroppo per lui, il reverendo si sbagliava. Almeno nel caso delle vicende di cui fu testimone, valse l’antico motto latino: vae victis! guai ai vinti!
È un sabato di luglio, quando scendo alla stazione di Formia. Tante volte ho visto Gaeta dal finestrino, senza fermarmi: e sembrava tale e quale alla figura del libro di storia delle scuole medie. Su quei manuali all’avvenimento erano dedicate non più di tre righe; si parlava sbrigativamente di un assedio vittorioso da parte dell’esercito italiano, ultimo atto di una gloriosa epopea chiamata Risorgimento. Però non mancava mai la figura di un curioso promontorio dalla forma di un cumulo di farina, con una fortezza ai piedi; caratteristico il dettaglio di una grossa esplosione. A noi ragazzini quell’assedio era raccontato come una sorta di formalità, un cartellino da timbrare perché fosse portata a compimento l’unità e la redenzione della Patria; e in fondo a rinchiudersi lì dentro era un re tiranno e anche un po’ idiota, meritevole di non altro che l’esilio. Poco ci fermavamo a chiederci se e quante persone fossero morte in quell’episodio; né alcuno veniva a raccontarci che a lasciare questo mondo fossero stati non solo tiranni e soldati di tiranni, ma anche bambini della nostra età. Sepolti sotto le bombe degli “italiani”.
Dal piazzale di Formia un autobus porta a Gaeta. A bordo più che altro giovani diretti alla spiaggia, e qualche anziano. Gaeta non è posto da turismo.
E infatti di quell’episodio non rimane oggi quasi nulla. Non una targa, non un cartello che possa far pensare a un luogo storico. Soltanto un paio di ristoranti cercano di sfruttare il passato: insegne come “La taverna dei Borboni” o “Osteria di Federico”. Per il resto il paese è un placido posto di mare, con le navi ancorate nel porto e l’acqua abbastanza pulita da consentire di nuotare fra l’una e l’altra. Eppure, spesso tra gli edifici si intravede qualche casa diroccata; si incontrano muri che non finiscono, arcate solitarie in mezzo alle erbacce, resti di costruzioni che pochi si chiedono perché siano andate incontro a una tale rovina. Addentrandosi per i vicoli del colle, molte facciate sono tuttora bucherellate qua e là nell’intonaco. Strana forma di erosione, inspiegabile secondo l’azione del vento, molto di più secondo l’esplosione di uno shrapnel. Nella piazza centrale due lapidi su opposti palazzi ne specificano i costruttori: “questi edifici furono eretti dal Re tal dei tali della dinastia Borbone nell’anno tale etc. etc.”. Leggo e penso: non sono edifici; sono casematte. Ci si rifugiava durante i bombardamenti.
Dopo un’ora a vagare senza costrutto, decido di fare ritorno. Aspetto l’autobus ai giardinetti di fronte al mare. Nel mezzo, un monumento contornato da mitragliatrici d’epoca ricorda i caduti nella Prima Guerra Mondiale. Caduti per la Patria che nacque in questo luogo nel febbraio del 1861; anche se i più preferiscono pensare che sia nata più a sud e qualche mese prima, a Teano.
D’altra parte, chi dovrebbe ricordare quell’episodio? I testimoni sono morti da più di cento anni. Parecchi fra loro, dopo l’Unità d’Italia, continuarono per anni a raccontare la loro storia, in mezzo a mille difficoltà, censure, persecuzioni poliziesche. In tanti scelsero la via dell’esilio; gli altri, i più bisognosi, si piegarono al nuovo status quo, in molti si arruolarono nel nuovo esercito italiano; ma spesso senza rinunciare a scrivere sul biglietto da visita: reduce da Gaeta. Con l’orgoglio di chi ha compiuto un’impresa eroica, sventurata ma tale da rimanere negli annali.
E invece no. Il tempo ha lentamente coperto la portata degli avvenimenti, la retorica ha stabilizzato quale dovesse essere la versione dei fatti. Come se non bastasse, è arrivato il fascismo a esasperare ancor di più il Mito della Nazione. Dopo la guerra, tanto peggio: la nuova Italia repubblicana aveva bisogno della leggenda di Garibaldi ancor più di quanto non ne avesse lo stesso fascismo.
E così sono stati istituzionalizzati una serie di concetti: il Regno delle Due Sicilie era un’abominevole dittatura; re Ferdinando II era un vampiro, suo figlio Francesco II un imbecille; Vittorio Emanuele II al contrario un galantuomo; i garibaldini erano prodi, leali e coraggiosi; i soldati napoletani codardi e debosciati; e tutti quelli che provarono opporsi all’unità erano retrogradi reazionari o poveri ignoranti sobillati dalla propaganda clericale.
Ma noi, oggi, possiamo dire di avere realmente guadagnato da questa cloroformizzazione della storia nazionale? Quanto ci conviene continuare a ignorare la voce di quanti all’epoca non ne volevano sapere dell’unificazione italiana?
La presente opera fu originariamente pubblicata nel 1875 sul periodico La Discussione. L’autore, testimone oculare della disfatta dell’esercito napoletano, si dichiarava spinto a parlare dalle insistenze degli amici. Un espediente retorico, evidentemente: ciò che lo anima è invece la smania di far sentire la propria versione dei fatti. La sua incrollabile fede nella Provvidenza divina lo rendeva certo che un giorno la « storia imparziale » avrebbe reso giustizia di tanti soprusi e persecuzioni patite.
Giuseppe Buttà era nato a Naso, provincia di Messina, il 4 gennaio 1826. Egli stesso ci confessa di aver attraversato da giovane una fase di ardore liberalesco, durante la quale si era convinto che fosse necessario l’abbattimento della monarchia borbonica; ma dovette presto cambiare idea, se è vero che tra gli anni ’40 e ’50 del XIX secolo lo troviamo prima ordinato sacerdote e successivamente cappellano militare del Reale Esercito. Il suo primo incarico, non privo di conseguenze, fu presso il bagno penale di S.Stefano, esperienza durante la quale poté fare la conoscenza di tanti rivoluzionari liberali incarcerati; personalità come Luigi Settembrini, Silvio Spaventa e Carlo Poerio, che il canonico si vanta di aver spesso protetto e difeso perché fosse alleviata la durezza della loro detenzione.
Nel 1859 fu assegnato al 9° Battaglione Cacciatori stanziato nella sua Sicilia: e da qui ebbe origine l’esperienza che cambierà la sua vita. La particolarità del corpo d’armi cui apparteneva, e della posizione geografica in cui era operativo, fecero sì da fargli vivere da vicino l’intera esperienza della spedizione di Garibaldi. Buttà si trovava a Palermo durante la lotta strada per strada per la conquista della città; era alla battaglia di Milazzo con il suo amato colonnello Beneventano del Bosco; e così via retrocedendo al seguito dell’esercito borbonico in rotta, a Napoli, Capua, fino alla Gaeta assediata dai Piemontesi.
Dopo la caduta della città decise di seguire la sua truppa, destinata a rimanere prigioniera fino alla completa resa dell’esercito meridionale. Ottenuta la libertà, fu però perseguitato dalla polizia italiana quale sospetto cospiratore reazionario; destino comune a molti reduci di Gaeta. E lo stesso Buttà ci racconta con risentimento di aver chiesto l’aiuto di Spaventa nel nome degli antichi favori resigli a S.Stefano, e come questi facesse finta di non riconoscerlo (cap. XXV).
Ricercato in patria, fuggì a Roma, dove si trovava Re Francesco in esilio. Un gustoso aneddoto ce lo rappresenta nel 1866 quasi ubriaco di gioia alla notizia della disfatta italiana di Custoza. Ma quel che più conta, durante il suo soggiorno romano, dietro le insistenze degli amici, mise mano alla penna.
Aveva in mente al principio di raccontare soltanto le proprie esperienze personali, legate a «que’ tempi di rivoluzione e di invasione straniera»; e allo scopo aveva sottratto a un cassetto alcuni appunti presi durante la campagna militare del 1860-61, scritti alle volte nel corso della battaglia stessa, adoperando come scrivania la schiena del proprio attendente. Nella prefazione prometteva di non lasciarsi trascinare dalle passioni e garantiva che queste col tempo si fossero affievolite.
Ma era una linguaccia salace il Buttà; se non lo sapessimo siciliano l’avremmo detto un tosco di quelli all’antica maniera. Man mano che scriveva prendeva piede lo sdegno, e con lo sdegno il bisogno di approfondire, documentarsi per completare il racconto con quegli avvenimenti a cui non aveva avuto il privilegio di assistere. Di qui la consultazione di numerose opere, il contatto epistolare con altri testimoni, la richiesta di documenti, prove. E col progredire della ricerca, le passioni che aveva detto affievolite si riaccendevano rapidamente.
Ne scaturì un racconto torrentizio dell’unificazione italiana, impietoso verso tutto e tutti: i rivoluzionari innanzitutto, il Piemonte di Cavour in special modo, ma anche e non secondariamente gli elementi dell’esercito borbonico che avevano sposato la causa unitaria: « vili e traditori ». Non un’epopea eroica, dunque, ma una dolente inquisitoria nei confronti di un mondo impazzito che si dà all’anarchia e alla guerra: il gran Carnevale d’Italia, come lo definisce nelle ultime pagine.
Piacque molto l’opera, tanto che fu presto raccolta in volume e successivamente ristampata; ma suscitò anche un vespaio di polemiche, e non tanto tra gli unitari, che avevano già vinto e poco potevano curarsi delle lagnanze di un esule, ma tra i reduci chiamati in causa, e colpiti dal sarcastico sacerdote dall’accusa di essere ora vigliacchi, ora traditori.
Buttà ebbe il suo momento di fama, tanto da essere spinto a scrivere ancora sull’argomento: un altro saggio storico, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, e un romanzo; più una terza opera promessa ma mai portata a compimento, dal titolo Perché cadde il Trono di Napoli.
Poi il tempo ha cancellato ogni cosa. Il reverendo, ritornato finalmente dall’esilio, morì nel 1886 nel suo paese natale; e sulla sua testimonianza cadde il velo del silenzio. Nella Storia di Naso del 1938 – come sottolineava Leonardo Sciascia – il suo nome è accennato di sfuggita, e liquidato con pochi cenni, senza né titoli delle opere né, figuriamoci, riferimento ai contenuti.
Fu dunque tutto inutile, e la sua convinzione di rendere testimonianza alla verità un’illusione bella e buona?
Non del tutto. Un nuovo interesse si sta sviluppando negli ultimi anni nei confronti di una rilettura del Risorgimento. Lentamente si sta portando all’attenzione generale quanto di imbarazzante vi fu anche nel contegno dei Padri della Patria; e tante valutazioni, fino ad ora ritenute esclusiva di una ristretta cerchia di fanatici un po’ folcloristici, iniziano a godere di maggiore considerazione. Punto cardine di questo processo, il recupero della letteratura antiunitaria, tanto a lungo dimenticata. Nel bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e a una manciata d’anni dal centocinquantesimo anniversario dell’unificazione, sembra che gli italiani siano più disponibili a uno sguardo critico sul proprio passato, che implichi anche la cessazione della damnatio memoriae sulla storia dei Borboni di Napoli e dei loro sostenitori.
È questo il motivo per cui vale la pena di leggere la presenta opera. Nella quale troveremo spesso versioni dei fatti divergenti da quelle a cui siamo abituati, giudizi sprezzanti su personaggi storici considerati “i buoni” e ammirevoli sui “cattivi”, lunghe requisitorie nel nome di convinzioni che oggi possono sembrare antiquate se non proprio retrograde. Qualcuno magari sobbalzerà a sentir definire la spedizione di Garibaldi non una gloriosa pagina di storia, ma una « striscia di sangue che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta ». Eppure il libro va letto, giacché fosse vero anche solo il 10% di quanto asserito, diventa un qualcosa di cui non si può non tenere conto.
Il Buttà è un conservatore. Sacerdote, cappellano militare, è nemico convinto del liberalismo, e difensore a spada tratta della monarchia assoluta dei Borboni; sostenitore (com’è ovvio, per un prete del XIX sec.!) dei diritti temporali della Chiesa Cattolica; un romantico che ama parlare di valori come fedeltà al giuramento e al Sovrano, onore militare, rispetto della legge.
Un odioso reazionario, dunque? Un accigliato conservatore? Macché.
A noi è simpatico. Egli è tutto fuorché un arrabbiato. Certo, la sua cronaca fu a suo tempo definita – e non senza fondamento – di “ineguagliabile parzialità”. Ma – sottolineava ancora Sciascia – è sì parziale, ma non in modo “ineguagliabile”: lo è almeno allo stesso livello di quanto non lo siano le memorie di garibaldini come Giuseppe Bandi, o l’autobiografia dello stesso Garibaldi.
Ma in Buttà tutto, anche le più odiose insinuazioni, è accompagnato da un’ironia in grado di strappare un sorriso ai meno permalosi. Da conservatore qual è, osserva i palpiti rivoluzionari, ascolta i discorsi patriottici, la retorica nazionalista, le promesse di libertà, uguaglianza e progresso, e semplicemente non ci crede. Non perché le ritenga necessariamente immorali e contro natura; ma più perché le ritiene promesse da marinaio. E Garibaldi, in fondo marinaio lo era.
I numerosi discorsi del Dittatore sono per lui « cicalate ». La sua intensa attività legislativa, una forma di « decretomania ». E quando per legge viene stabilita la « libertà di dogma », osserva: « Ed in verità questi due termini, dogma e libero esame parmi che fanno a calci! » (cap. XXVII). O ancora si prendano ad esempio i numerosi discorsi che riporta, come quello di Cavour al cap. XXXIV, puntualmente accompagnati dai suoi irriverenti commenti fra parentesi. E non si pensi di sottovalutare anche la sua – apparentemente inaccettabile – condanna dell’epoca delle rivoluzioni seguita al 1789: quando nel capitolo finale fa un consuntivo disastroso delle conseguenze delle riforme liberali, sembra che stia descrivendo la nostra epoca, e non la sua.
Molto ci sarebbe da dire, parecchie osservazioni anche critiche nei suoi confronti; ad esempio sull’atteggiamento paranoico (condiviso con molti reazionari dell’epoca) che vedeva gli avvenimenti della rivoluzione come frutto di un complotto internazionale massonico e anticlericale; più e più volte chiama i liberali settari. Incapace di comprendere le dinamiche culturali che portarono all’Unità, ancorato al legittimismo di tipo divino, Buttà non riesce a spiegare l’adesione di così tanta gente al movimento nazionale se non tramite le categorie del complotto e dell’ambizione personale. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare alcuni di quelli che possono apparire eccessi dietrologici: il tema del tradimento da parte dell’alta ufficialità borbonica, così dibattuto con insistenza all’indomani dei fatti, viene oggi lentamente ripreso in considerazione dagli storici, e non più liquidato come una favoletta.
Comunque la si pensi, resta un dato di fatto, che non possiamo più continuare a ignorare: l’unificazione dell’Italia non è stata l’allegra scampagnata a suon di fanfare e sventolio di bandiere che ci hanno dipinto per anni; né la realizzazione tardiva di un desiderio radicato nelle popolazioni della penisola. Si è trattato invece di un evento controverso, sanguinoso, che ha messo contro italiani e italiani e ha lasciato dietro di sé uno strascico irrisolto di problemi, frustrazioni di cui non riusciamo tuttora a liberarci; come fosse un trauma collettivo che non superiamo perché abbiamo rimosso il ricordo della sua causa. Negli anni successivi all’Unità, decine di opere come la presente furono pubblicate, in forma aperta o clandestina, anonima o firmata. I libri di Giacinto de’ Sivo, il pamphlet di Tommaso Cava, l’appassionata ricostruzione di Raffaele de Cesare, il quale pur unitario e liberale non riesce a nascondere un pizzico di nostalgia per un mondo che è crollato nel giro di un mattino. E quando l’anonimo autore de I Napoletani al cospetto delle nazioni civili grida con dolore che la sua terra ha perso l’indipendenza ed è tornata al tempo dei viceré spagnoli, forse dovremmo interrogarci sui motivi di questo sconforto, prima di liquidarlo come becero spirito reazionario.
Davanti a questo dato di fatto, abbiamo due possibilità.
Una, continuare a nascondere la testa nella sabbia e bere una ricostruzione della storia parziale, retorica e – diciamola tutta – oramai un ferrovecchio; storia fatta di tamburini sardi, vedette lombarde, elmi di Scipio e via dicendo.
La seconda opzione, iniziare a rispolverare anche le ragioni degli sconfitti; leggere le loro testimonianze; non necessariamente condividere, ma quantomeno stare ad ascoltare. E cercare finalmente di capire da dove veniamo: l’unica cosa rispettabile che un popolo serio possa fare.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
La leggenda del generale Ferdinando Beneventano Del Bosco
di Ettore d’Alessandro di Pescolanciano
La storia risorgimentale italiana continua, da più di un secolo e mezzo, a celebrare le gesta e le imprese di quei soli personaggi combattenti per l’Unità del paese. Nell’ambito di cotale cultura storica dei “vincitori” sabaudi, intere generazioni d’italiani sono cresciute, dal 1861, con il solo ricordo di quei simboli del patriottismo unitario, che ha visto esaltare l’esclusiva figura dell’eroe immolato al Tricolore, nonché denigrare l’anti-eroe per la sua fedeltà ad altri emblemi e valori presenti in quelle tradizioni locali degli antichi stati pre-unitari. Tra i numerosi personaggi, dimenticati dalla storia patria per l’appartenenza allo sconfitto governo duosiciliano, merita dovuta menzione, per la tenace lealtà al proprio sovrano, il leggendario Don . Costui nacque a Palermo il 3 marzo 1813 dal barone Aloisio Beneventano del ramo “Del Bosco” e da Marianna Roscio. Appartenente ad una nobile famiglia siracusana, che dal XVII secolo signoreggiava sulle terre di Lentini (1620) poi di Monteclimato, Frescura, Casalgerardo, Monella e Montone (1788), Don Ferdinando fu introdotto nel 1821, ancora in età fanciulla, alla corte di re Ferdinando I per il tramite del padre, ivi funzionario. A dodici anni, nel 1825, entrò nel collegio militare della Nunziatella in Napoli e vi uscì nel 1829 come ufficiale con il grado di 2° tenente del 2° granatieri della Guardia Reale. All’età di 27 anni, nel 1840, fu promosso 1° tenente del 2° Regina. A causa del suo temperamento collerico e pieno di orgoglio, il giovane Don Ferdinando accettò una sfida in duello dall’alfiere Francesco Vassallo.
La gravità di tale episodio gli costò,così, l’espulsione dall’esercito. Nel 1848, però, grazie alla clemenza di re Ferdinando II fu riammesso in servizio e poco dopo ottenne anche la promozione a capitano comandante la compagnia del 3° Principe. Il capitano Del Bosco fu, poi, inviato in Calabria con la brigata del comandante Ferdinando Nunziante con la missione di soffocare i focolai di rivolta, accesi dai liberali locali. Nonostante il successo delle manovre militari calabresi, condotte con tenacia e capacità dal Del Bosco, questi, comunque, non ottenne alcun riconoscimento dai superiori, causa il suo atteggiamento critico ed invadente, spesso non rispettoso delle sue stesse gerarchie. Nel settembre del 1849, Don Ferdinando con la sua compagnia riuscì a riportare l’ordine nella città insorta di Messina, mentre nell’aprile del 1850 si distinse nella presa di Catania, caduta nelle mani dei rivoltosi liberali. Per tale impresa siciliana, gli fu proposto un riconoscimento al valor militare (le croci di S.Giorgio e S.Ferdinando con pensione annua), onorificenze che, però, arrivarono solo nel 1859 insieme alla promozione a maggiore, comandante del 9° battaglione Cacciatori di stanza a Monreale. Non passò tanto tempo (maggio 1860) che il maggiore Del Bosco ottenne ulteriore promozione a tenente colonnello per la buona riuscita dei combattimenti di Parco e Corleone. La sua fama di abile militare e fedele ufficiale era ormai diffusa nei territori napoletani già all’indomani dello sbarco dei Mille a Marsala, a tal punto da godere della completa fiducia e lealtà dei suoi soldati. Del Bosco fu tra i pochi ufficiali che subito si attivarono con tenacia ed abilità nell’organizzare la difesa dell’isola siciliana, onde contrastare l’avanzata delle camice rosse. Tra l’altro, i suoi consigli, circa le opportune manovre militari da attuarsi per fronteggiare tale invasione, rimasero inascoltati dai suoi superiori. Il governo napoletano, sospettoso dei diversi tradimenti degli alti ufficiali, ritenne opportuno promuovere Del Bosco a colonnello ed inviarlo, prima, a difendere Messina con il suo 9° Cacciatori, poi con altri due battaglioni (agli ordini del Mar.Clary) a rinforzare il presidio di Milazzo, difendendo la strada litoranea con distaccamenti posti tra Spadafora e trivio d’Archi. La sua colonna militare, insieme a quella del maggiore Von Meckel (3 mila uomini), riuscì a fermare i garibaldini a Partinico, sconfiggendo il gruppo dei volontari dell’Orsini a Corleone. Successivamente, a Milazzo, tra il 14-16 luglio del 1860, la colonna Del Bosco tenne testa alle camice rosse del Medici e poi dello stesso Garibaldi. In questa battaglia, Don Ferdinando, in sella al suo purosangue Alì, rimase sempre in prima linea, intrepido e schivo del fuoco del nemico, incoraggiando i suoi cacciatori a non indietreggiare. Lo scontro di Milazzo del 20 luglio fu alquanto violento con migliaia di perdite tra le fila garibaldine, tanto che anche lo stesso condottiero Nizzardo si trovò in pericolo di vita. Dopo otto ore di combattimento, Bosco, non sostenuto da necessari rinforzi del comandante traditore col.Pironti, capo del 1° reggimento di Linea (1200 soldati), nonché preso dai bombardamenti da mare dell’ex corvetta borbonica Tukory, il cui capitano disertore Anguissola si era messo agli ordini di Garibaldi, ordinò la ritirata all’interno della fortezza cittadina. Soltanto in data del 25 luglio, il prode colonnello Del Bosco lasciò Milazzo e cioè quando il governo di Napoli, che aveva condotto in Sicilia un’ambigua politica difensiva, dette ordine al Mar.Clary di trattare la capitolazione con il gen. Medici. Fu concordato il ritiro delle truppe napoletane dalla Sicilia, con esclusione delle guarnigioni poste a presidio delle fortezze di Messina,Siracusa e Augusta. Bosco e Pironti, amaramente sconfortati dai vari tradimenti verso la corona gigliata (il gen.Landi risultò essersi venduto per una fede di credito di 14 mila ducati ai carbonari per la campagna di Palermo, il gen.Alessandro Nunziante, duca di Mignano, diffuse un proclama tra i militari del corpo dei Cacciatori incitandoli a non combattere contro Garibaldi, il gen.Lanza agì militarmente con ambiguità. Padre Buttà, cappellano del 9° battaglioni, nel suo romanzo storico “Viaggio da Boccadifalco a Gaeta” ben testimoniò il peso del tradimento dei vari alti ufficiali, elogiando di contro la onorata fedeltà delle truppe) si imbarcarono sulle tre fregate del colonnello Anzani alla volta di Napoli. Per le citate gesta eroiche e l’attaccamento alla patria borbonica, Don Ferdinando fu ben accolto da re Francesco II, che lo promosse generale di brigata, il 17 agosto. A seguito della caduta di Napoli in mano garibaldina, il generale Del Bosco, infermo per una sciatalgia, trovò rifugio da parenti, scongiurando l’arresto e rinunciando a raggiungere i reparti militari duosiciliani, schierati sul Volturno per la grande controffensiva. Ad autunno inoltrato, lo stesso generale poté ricongiungersi ai suoi fedeli commilitoni, sacrificati a Gaeta nel tentativo di difendere l’ultimo lembo di territorialità napoletana dall’invasione piemontese.
L’arrivo di Bosco nella cittadella fortificata fu salutato con entusiasmo dai soldati e dallo stesso sovrano borbonico, che prontamente gli affidò una divisione di fanteria. Con tale divisione Don Ferdinando si mosse per talune strategiche incursioni contro il nemico, come nel caso della vittoriosa azione ricognitiva al colle dei Cappuccini. Anche nella tragica Gaeta, il generale siracusano, oltre ad aver sollevato il morale delle milizie presenti grazie alla sola sua presenza, si mise in luce per le doti di esperto militare, ottenendo così la promozione a Maresciallo di campo. Persa anche Gaeta, Del Bosco seguì, in proseguo, la corte duosiciliana nell’esilio in Roma, rimanendo agli ordini del governo napoletano per organizzare, insieme al Vial, la resistenza legittimista nei territori dell’ex regno. A causa del persistente carattere burbero e litigioso, Don Ferdinando si trovò, nuovamente coinvolto, durante il soggiorno romano, in taluni episodi di duello, contravvenendo alle disposizioni di re Francesco II e sollevando le ira di papa Pio IX. Il leggendario nome di D.Ferdinando Beneventano Del Bosco, tanto temuto nel neonato regno d’Italia, finì nel dimenticatoio, allorquando fu costretto a lasciare lo stato Pontificio su decisione papale per le ragioni di cui sopra. Costui sparì dalle cronache dell’epoca, mentre Roma veniva presa dai bersaglieri piemontesi, e si trovò ramingo per varie nazioni estere, tra cui la Spagna ed il Marocco. Finito il sogno di un ritorno del trono duosiciliano, Don Ferdinando rientrò a Napoli in tarda età, ove morì nel 1881, restando nel solo ricordo degli ormai vecchi fedeli commilitoni.
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