Giovanni Piccione ha scritto:Troppe armi. Non mi piace, ...
Hai ragione Giovanni,
anche io penso che le armi sono il modo più sciocco di risolvere i problemi.
Il mio non è un omaggio alla guerra, il mio è un affettuoso pensiero agli uomini. Parlo dei ragazzi che stanno incrociando gli sguardi, quello sull’aereo con il sole e quello con la stella sulle ali, parlo del soldato della storia narrata da
fabiov sul suo sito, che non vediamo perché è fuori dell’immagine, parlo di tutti coloro, uomini e donne che da una parte e dall’altra hanno sacrificato i loro sogni e le loro passioni coinvolti in un sacrificio collettivo che andava affrontato con coraggio.
Come al solito, anche se storicamente corretti, ho inserito oggetti della mia memoria. Quando fare il soldato non era una vocazione ma un dovere a cui tutti gli uomini validi erano obbligati, tranne i più furbi ed i più potenti, mi sono trovato anche io, in una tuta da combattimento verde cupo, ad imbracciare un fucile Garand con baionetta innestata. Erano proprio come quelli che vedi nell’immagine, lo era lo stato d’usura e la patina di vissuto che da essi trasudava.
Ero lì a controllare un muro che divideva la città da obbiettivi militari poco strategici: uffici, automezzi e qualche magazzino. Percorrendo il tragitto tra le due estremità pensavo, al buio, colpito da un vento freddo e da una pioggia sottile, che al di la di quel muro, appena i lampioni si sarebbero spenti con il sopraggiungere dei primi chiarori, avrei sentito i rumori dell’allestimento dei banchi del mercatino dell’usato. Quante volte, la domenica appena possibile, ero uscito dalla caserma, in borghese, e mi ero mischiato alla folla dei venditori e dei primi passanti. Ammirato guardavo i banchi con gli accumuli di posta e cartoline, ma anche quelli con gli oggetti che mi emozionavano facendomi tornare ad un tempo che non avevo vissuto.
Erano queste immagini che travolgevano la noia dell’attesa in quella fredda solitudine.
Lontani rumori di passi sulla ghiaia distolsero i miei pensieri. Sapevo che solo il mio diretto superiore, un caporale, poteva avvicinarsi per farsi riconoscere, altrimenti avrei dovuto sparare.
Di solito nella nostra tranquilla caserma, si montava la guardia con la baionetta innestata, ma con il fucile scarico, i due caricatori, con otto pallottole ciascuno, li avevamo in tasca. Ma la notizia che le Brigate Rosse avevano assaltato le armerie di alcune caserme, aveva spinto il comandante della guardia, uno zelante maresciallo, ad obbligarci a fare la guardia con il fucile carico.
Dalla penombra alcune ombre si avvicinavano, riconobbi in lontananza la squadra d’ispezione guidata da un capitano. Puntai il fucile e detti l’altolà. Non si fermarono, ripetei l’intimazione, sapevo che alla terza avrei dovuto sparare.
Mio padre era un appassionato cacciatore e noi da bambini lo seguivamo nelle sue battute, c’incuriosiva il contatto con la natura ed eravamo eccitati dal primordiale istinto predatorio, che i passi felpati e i movimenti attenti ai più piccoli rumori, che mio padre puntualmente segnalava con piccoli gesti della mano, accentuava.
Per noi bambini le armi erano quelle che vedevamo al cinema o in televisione, davano una visione epica della realtà, che noi volevamo per gioco emulare. Mio padre, persona amabile da cui non abbiamo mai ricevuto il pur minimo atteggiamento sgarbato, in questo era intransigente ed estremamente duro: -
Le armi sono cose serie e non vanno mai puntate sulle persone neanche per scherzo! -.
Queste parole mi risuonavano nella mente, categoriche, mentre l’ispezione avanzava silenziosa. Sapevo che avrei dovuto sparare per colpire, erano gli ordini. La mia buona vista e la familiarità con le armi avevano fatto di me un buon tiratore. Mi piaceva impressionare le ragazze al tirassegno del luna pack, o miei superiori, quando al poligono, sparando a trecento metri al di la della valle, colpivo ripetutamente sagome di soldati in cartone posizionate tra i cespugli.
Sapevo che questa volta, sparando a quaranta metri, avrei sbagliato il colpo. Se qualcuno me ne avesse chiesto conto avrei attribuito alla stanchezza e all’emozione la mia mancanza di perizia, ma bisognava sparare.
Mentre pensavo questo il mio fucile puntava sufficientemente al di sopra della testa del capitano. La tensione si allentò quando gli uomini si fermarono ed il caporale si fece riconoscere. Il capitano, si avvicinò compiaciuto ma con un tono fermo mi disse: -
Soldato lo sai che il fucile deve essere puntato addosso!!!. –
Risposi un po’ imbarazzato: - Signorsì signor Capitano, mi scusi! –
Per completare l’ispezione, il capitano ordinò di mostrare l’arma e i caricatori. Glieli diedi e lui duro: - E l’altro caricatore dov’è ?!! -
Risposi con un sorriso solo interiore: -
Nel fucile signor Capitano –
Vidi l’uomo sbiancare.
Il mio omaggio va a coloro che, in momenti ben più difficili di quelli da me vissuti, dopo essersi guardati negli occhi, hanno dovuto premere quel grilletto, strappando per sempre con questo semplice gesto i colori e la bellezza della propria anima.michele