Ai Carmini.
Questi luoghi prendono il nome da Giuseppe Briati (1686-1772) e dalla sua
fabbrica del vetro che qui installò nel 1737.
Il Briati apparteneva ad una famiglia muranese che si dedicava alla
produzione del vetro. A Murano ricoprì anche incarichi nella
confraternita che raccoglieva gli artieri del vetro oltre ad aver fatto
parte del Consiglio dell'isola.
Pare tuttavia che come vetraio non riscuotesse abbastanza successo, o forse
aveva voglia di tentare altre strade e così sarebbe andato in Boemia per
imparare la lavorazione del cristallo, che stava soppiantando il vetro che
si fabbricava a Murano.
La tradizione racconta che si sarebbe fatto passare per facchino in una
vetreria per carpire i segreti della lavorazione, ma non abbiamo prove di
come e quando ciò sarebbe accaduto (fonti fanno riferimento al 1730,
altre al 1733).
La
casa sul luogo dove esisteva la fabbrica di Giuseppe Briati
posseduta da Angelo Busetto dal 1855 (per questo detta anche
casa Busetto).
Una
testa barbuta di vecchio (o di profeta) del XVIII secolo collocata
sulla chiave di volta della porta d'ingresso alla casa Busetto
nell'Ottocento.
Il Briati chiese
al Consiglio di Dieci, ed ottenne il 23 gennaio 1736, il privilegio (una sorta di brevetto) di poter
intraprendere la lavorazione dei cristalli in una piccola fornace che
aveva fatto costruire a Murano, astenendosi dal produrre il
vetro tradizionale per non far concorrenza ai vetrai tradizionali.
Nonostante questa attenzione che il Briati poneva nei confronti dei suoi
concittadini isolani, egli non era ben visto in isola: già il padre e lo
zio gli erano stati uccisi dai muranesi e lui stesso, per invidia o per
qualche rancore che aveva provocato, il 2 giugno 1739 era stato minacciato di morte essendo
stato assalito una notte da gente armata di armi da fuoco.
Un
dei tanti frammenti lapidei che adornano la casa Busetto che
facevano parte di una piccola collezione privata di reperti
messa assieme da quella famiglia, proprietaria del palazzetto
dal 1855.
Accadde infatti che dopo un primo diverbio accaduto in piazza San Marco, «...alle
due della notte...» (ovvero due ore dopo il tramonto) mentre il
Briati giunto a Murano stava rientrando alla propria abitazione fosse
aggredito «...con armi alla mano...» da «...Gio Batta Serena
e Antonio Gazabin, e con questi Gio Antonio Gazabin, di detto Antonio
fratello [...] e Gio Batta Serena particolarmente armato di
schioppo...»: i due fratelli «...absenti ma legittimamente
citati...» furono «...banditi da questa città di Venezia e
Dogado e tutte le altre Città, Terre e luoghi del Dominio...».
Colonna
con leone marciano nel giardino di casa Busetto.
Il
luogo una volta occupato dalla fabbrica di cristalli di
Giuseppe Briati diventato nel 1855 la casa di Angelo Busetto.
Questo episodio consigliò il Briati di spostare la sua fabbrica da
Murano a Venezia, ma questo non sarebbe stato possibile perché già
nel 1271 la Repubblica aveva ordinato che le fornaci fossero
portate fuori della città (da Venezia a Murano) per scongiurare il pericolo
di incendi. Tuttavia riuscì ad ottenere ugualmente dal Consiglio di Dieci
il permesso di erigere
la nuova fabbrica presso i Carmini, su un terreno adiacente a questa
fondamenta che adesso prende il suo nome.
Il Briati portò notevoli innovazioni nell'arte della fabbricazione del
vetro, studiando l'impiego dei minerali e di nuovi coloranti
nel processo produttivo, risollevando in qualche modo questa industria che subiva sempre di
più la concorrenza estera e le nuove mode.
I manufatti del Briati si arricchirono anche di nuove forme (le
"cineserie", che erano divenute di gran moda), riprendendone anche
alcune di antiche della tradizione muranese che erano andate perdute; famosi
sono stati i suoi lampadari, i centri tavola, le cornici in vetro. «Non eravi oggetto di cui non intraprendesse e non conseguisse
l'imitazione, e fiori e frutti, e ponti e giardini e animali e figure
tutto riduceva alla perfezione. Allora per tutte le mense i signori
pompeggiarono i vaghi adornamenti, chiamati dezert, e questi, spesso di
pasta, di zucchero, e di porcellana, diventarono quasi tutti di vetro, e
di vetro del Briati, abbellendosene gli stessi pranzi pubblici del doge.»
(Cons. Giovanni Rossi, citato da Giuseppe Tassini).
Il dotto gesuita portoghese Emmanuel de Alzevedo (1713-1796) sotto lo
pseudonimo di Nicander Jasseus cita con due versi la vetreria del Briati
ai Carmini (avendo come punto di vista palazzo Zenobio sull'opposta
fondamenta):
«Hunc contra
insudat sufflando fabrica vitro
Unica in urbe, tuis sed quae dabit omnia votis.»
Nonostante non sia stato mai amato dai suoi concittadini di Murano, il
Briati invece mantenne il suo affetto per l'isola, erigendovi un oratorio
ed un ospizio femminile per donne povere rimaste vedove di maestri vetrai
muranesi.
La fabbrica del Briati continuò la sua attività anche dopo la morte del
suo fondatore e cessò definitivamente nel 1808.
Nei locali dove sorgeva la fabbrica venne aperta una trattoria che restò
aperta fino al 1854 o 1855: infatti nel 1855 lo stabile venne acquistato
da Angelo Busetto detto "Bubba".
Il Busetto aveva formato una piccola
collezione privata di antichità che aveva raccolte, a volte anche
acquistandole, durante la seconda metà del XIX secolo: ancora oggi sono
rimaste decine di frammenti erratici nel giardino, sui muri di cinta, sul
tetto e sull'abbaino, tra elementi decorativi, statue, busti, stemmi, una vera
da pozzo, eccetera.
Tra questi anche una colonna (incompleta) sovrastata da un leone marciano.
Il leone marciano
ottocentesco sopra l'abaco della colonna.
Il
graffito del 1822 sul quarto rocchio partendo dall'alto.
La
colonna, completa di otto rocchi, venne portata a Venezia nel 1826 per
opera del marchese Amilcare Paolucci delle Roncole (1773-1845), Vice
Ammiraglio Comandante Superiore di Marina e della Veneta Squadra in
Levante: faceva parte del peristilio del tempio di Posidone eretto
attorno agli anni 444-440 a. Cr. a Capo Sunio, estrema punta sud
orientale della penisola Attica, chiamato dai veneziani Capo Colonne.
Conservata inizialmente all'Arsenale di Venezia, la colonna nel 1830 venne
ricomposta nel giardino di palazzo Erizzo sul rio di San Martino che
apparteneva al marchese Paolucci, assemblando cinque degli otto rocchi; i
rimanenti tre rocchi non poterono essere utilizzati e così furono
lavorati per un diverso impiego: uno forse venne usato per costruire il
basamento della colonna. Secondo Emmanuele Antonio Cicogna (1789-1868), fu
l'ingegnere Giovanni Casoni (1783-1857), funzionario dell'I.R. Marina
durante la dominazione austriaca, a ricomporre la colonna.
Nel 1862 Angelo Busetto l'acquistò e la fece trasportare qui ad
arricchire la propria collezione di antichità. Sopra l'abaco è stato
collocato un leone marciano ottocentesco.
Il
graffito del 1816 sull'abaco della colonna.
La sicura provenienza di questa colonna dal tempio di Capo Sunio è
confermata (oltre che dalle fonti coeve al suo arrivo a Venezia) da altri
elementi intrinseci e da un particolare curioso: come molte colonne
esistenti a Capo Sunio recano graffiti ed incisioni che ricordano il
passaggio di navi ed equipaggi (a Capo Sunio è stato rinvenuto inciso
anche il nome di Lord Byron che visitò il sito nel gennaio/febbraio
1810), così la colonna arrivata a Venezia reca alcune di queste
incisioni.
Di molte si intuiscono deboli tracce che il tempo ha oscurato, ma almeno
tre sono ancora parzialmente leggibili.
In alto riproduciamo l'iscrizione del 1816:
«Le ZEPHIR Bric Du ROI
1816».
Qui a fianco quel poco che si riesce
a leggere del graffito datato 1822:
«FLEUR
DE [...] C[HE]VALIER
VE
1822».
Qui sotto infine una breve
iscrizione del
1814:
«AUNE
1814»
Una
delle mensole cinquecentesche che reggono il poggiolo del palazzetto
ai numeri civici 2531, 2532 e 2533.
Un
frammento lapideo al secondo piano della facciata del palazzetto ai
numeri civici 2531, 2532 e 2533.
Il
graffito del 1814 sul quinto rocchio dall'altro della colonna.
Dopo il 1920, precisamente nel 1921, nella casa Busetto venne inaugurata
la sezione a terra della nave-asilo "Scilla" promossa agli inizi
del Novecento da David Levi Morenos (1863-1933) e da sua moglie Elvira,
inizialmente con l'intento di farne un asilo per gli orfani dei pescatori:
vennero ricavati all'interno della palazzina i locali adatti ad ospitare
gli alunni delle prime quattro classi elementari (con varie
vicende, passate anche attraverso il fascismo, l'erede di questa
istituzione si può considerare attualmente l'Istituto Professionale Giorgio Cini,
incorporato nell'Istituto Superiore Vendramin Corner).
Oggi la casa Busetto, che si trova dove una volta esisteva la fabbrica di
Giuseppe Briati, ospita alcuni corsi dell'Università di Ca' Foscari
di Venezia: .
Proseguendo lungo la fondamenta Briati si incontra subito dopo una bella
palazzina sulla facciata della quale si possono osservare al primo piano
delle eleganti mensole cinquecentesche reggipoggiolo, al secondo piano
sulla facciata un frammento
decorativo lapideo e sopra l'abbaino una pigna, possibile
terminale di un portale gotico.
Bel
palazzetto sulla fondamenta Briati ai numeri civici 2531, 2532
e 2533.
Al
numero civico 2531 si apre un varco privatizzato che porta a spazi
ricreativi fra cui l'impianto di bocce dell'Associazione Bocciofila
Mariano Cucco.
Il
palazzo Angaràn sulla fondamenta Briati.
Per
un passaggio attraverso il civico 2531 sotto il palazzetto
mostrato sopra, si può accedere (mentre scriviamo questa
pagina) ai campi di bocce dell'Associazione Mariano Cucco.
Segue subito dopo il
palazzo Angaràn: la famiglia Angaràn era originaria di Vicenza dove era
presente già nel XIII secolo e poteva fregiarsi del titolo di conte.
Nel 1655 un Fabio Angaràn, in occasione della guerra di Candia (Creta),
aveva offerto 140mila ducati alla Repubblica ottenendo l'ammissione al
Maggior Consiglio per sé, i nipoti e i discendenti. Dalla supplica che
presentò per ottenere l'ingresso al patriziato veniamo a sapere tra
l'altro che un Girolamo Angaràn fu luogotenente di Bartolomeo d'Alviano
(1455-1515), condottiero e generale al servizio dei veneziani dal 1498.
Sopra la porta di questo palazzo al numero civico 2536 risalta uno scudo
gotico entro una cornice dentellata attorniato da fogliame nella parte
bassa (XIV secolo): nonostante sia stato scalpellato, si intuisce che
recava l'arma della famiglia Angaràn.
Nonostante
lo stemma sia stato scalpellato, si intravede l'arma della
famiglia Angaràn.
Due
rampe di scale conducono al portico che si affaccia sul cortile
interno di palazzo Ariani.
Proseguendo
ancora si giunge dove il rio dei Carmini che costeggia la fondamenta
Briati assume il nome di rio dell'Angelo Raffaele ed incrocia quello di
San Sebastiano.
Proprio in questo punto sorge un palazzo, la cui costruzione, o meglio
ricostruzione, risale al XIV secolo. Apparteneva alla famiglia Ariani, le cui origini sono incerte: forse di
origine istriana, forse proveniente dalla regione settentrionale della
Puglia (la Capitanata): sappiamo che in tempi antichi (IX secolo) erano
proprietari dei terreni sui quali poi venne eretta la vicina chiesa
dell'Angelo Raffaele forse con il loro intervento.
Verso la metà del Trecento un membro della famiglia, indicato da alcune
cronache come Antonio del fu Nicolò morto nel 1363, commise delle
frodi che portarono ad un pesante indebitamento e la conseguente
esclusione dal patriziato (e dal Maggior Consiglio).
Questo Antonio Ariani, con proprio testamento del 1° luglio 1361, proibì
ai suoi figli di sposare donne patrizie ed alle figlie di sposare uomini
patrizi.
Al di là di questa proibizione, un figlio, Marco, cercò di riottenere
gli antichi privilegi facendo generose elargizioni di denaro alla
Repubblica durante la guerra di Chioggia, ma senza alcun successo: così,
abbandonata la moglie, Marco si rifugiò a Ferrara dove scelse la vita
conventuale.
Palazzo
Ariani, poi Cicogna.
La
spettacolare esafora di palazzo Ariani Cicogna Pasinetti nello stato
in cui si trovava attorno al 1855 (foto di Domenico Bresolin.
Ci
furono altri tentativi, da parte della famiglia, di riottenere il
patriziato, ma ogni sforzo fu vano: così gli Ariani si estinsero nello status
di cittadini nel 1650 con un Giacomo Arian[i] del fu Marco.
Questi aveva fatto testamento l'8 novembre 1630, presentato al notaio
Bernardo Malcavazza il 2 luglio 1631: dopo aver disposto di venir sepolto
nella tomba «...che ha sopra l'arma Arian...» nel convento dei
Carmini, lascia come usufruttuaria di tutti i suoi beni la madre (che
apparteneva alla famiglia Pasqualigo) ed erede il nobile Vincenzo
Pasqualigo del fu Pietro.
Con delle ulteriori aggiunte di qualche altro legato (fatte il 16 agosto
1643 ed il 30 novembre 1647) conferma erede il nobile Vincenzo Pasqualigo
designando lui e la propria madre suoi commissari.
Il testamento ed i due codicilli furono pubblicati il 15 novembre 1650 viso
cadavere.
In questo modo abbiamo la certezza che il palazzo passò alla famiglia
Pasqualigo: nel 1661 vi abitava ancora questo Vincenzo Pasqualigo, nel
1712 era posseduto da suo figlio Pietro con i fratelli, ma affittato
assieme all'orto per 300 ducati annui, e così via: i Pasqualigo
continuarono ad averne la proprietà fino a quando Laura Pasqualigo del fu
Giorgio, vedova di Vincenzo Gradenigo, con testamento 20 giugno 1768 lo
lasciò ai fratelli Antonio e Carlo Pasinetti del fu Francesco.
I loro eredi ne vendettero un piano a Lucia Cicogna, ex monaca
benedettina, che lo adibì a collegio femminile. Alla sua morte, avvenuta
nel 1849, la sua parte venne acquistata dal Comune di Venezia che
successivamente acquistò anche l'altra parte che era restata ai Pasinetti
mantenendoci la funzione di edificio scolastico
Funzione che conserva ancora oggi.
La
stessa esafora fotografata oggi (da angolazione un po'
diversa) che più di ricordare certi trafori del palazzo
Ducale, è essa stessa che li anticipa.
Proseguendo per la fondamenta Briati,
superato il palazzo Ariani, giunti quasi al ponte dell'Angelo Raffaele
dove la fondamenta cambia denominazione diventando fondamenta Barbarigo, si incontra il luogo dove
esisteva l'Ospizio delle Pizzocchere.
In origine era stata la famiglia Acotanto a costruire nel 1207 un ospizio
destinato ad accogliere i pellegrini diretti in Terrasanta o provenienti
da essa.
Quando cessò il transito dei pellegrini, furono qui accolte le pizzocchere
(o pinzochere), ovvero terziarie francescane, pie donne che si
dedicavano ad opere di misericordia ed all'insegnamento della religione
cristiana alle fanciulle (ma anche i rudimenti della grammatica e dei
lavori domestici).
Il numero dovette incrementarsi notevolmente se troviamo questo convento
nominato come Ca' Granda (Casa Grande).
A queste pizzocchere apparteneva la Beata Luigia Tagliapietra vissuta
attorno al 1355.
Con le soppressioni napoleoniche, nel 1807 le terziarie furono costrette
ad abbandonare il luogo e concentrarsi a San Francesco della Vigna dove
già esistevano delle consorelle dello stesso ordine.
I locali furono abbandonati per alcuni anni fino a quando, nel 1812,
furono assegnati all'Istituto di Educazione delle Oblate di San Filippo.
Nel 1841 la sede si ampliò comprendendo anche il vicino cinquecentesco palazzo
Minotto.
Palazzo
Minotto, sul tratto finale della fondamenta Briati, che
ospitò l'Istituto di educazione delle Oblate di san Filippo.
Dopo varie vicissitudini il luogo venne abbandonato nella metà Novecento
e successivamente gli spazi verdi retrostanti adibiti ad orti per gli anziani.
Il palazzo passò poi di proprietà dal Comune al Consiglio dell'Ordine
degli Avvocati di Venezia per mezzo della Cassa di Previdenza ed
Assistenza Forense con il proposito di farlo diventare sede dell'Ordine
degli Avvocati e anche del Consiglio dell'Ordine dei Commercialisti:
propositi maturati alla fine degli anni Novanta del Novecento ma ad oggi,
mentre scriviamo, non ancora concretizzatisi.
Sulla fondamenta Briati, nel tratto compreso tra il sotopòrtego
dei Guardiani e palazzo Ariani, sulla facciata di recente restaurata di
uno stabile sono stati collocati dei rifacimenti moderni di frammenti
architettonici (anche un leone di San Marco) ad imitazione di pàtere e
stemmi lapidei che a volte realmente si possono scorgere sulle facciate di
case veneziane.
Gli
stemmi dei tre Provveditori che hanno fatto costruire il ponte
Briati.
Alcuni
falsi frammenti architettonici moderni (con un leone marciano)
posti a decorazione di una facciata di uno stabile recentemente
restaurato in fondamenta Briati.
Il ponte Briati, con cui termina la fondamenta su di un lato, una volta era
chiamato anche ponte dei Martini: così lo nomina ad esempio Vincenzo
Coronelli (1650-1718) in una sua pianta di Venezia del 1698 ed era «...di
pietra senza bande», ovvero senza parapetti.
Prendeva questo nome da una famiglia che abitava nei pressi:
nel 1434 il N.H. Felice Bon sposò una figlia di «...Piero Martini dai
Carmini».
Nel 1566 «...Alberto de Martini fo de m. Alvise...» notificò di
possedere «...una casa da statio [casa di famiglia - N.d.R.] qual habito
in contrà de S. Rafael appresso il ponte per andar alli Carmini».
Nella "Cronaca di famiglie cittadine originarie" è detto di un
Bernardino Martini che «...ha casa ai Carmini e vive d'entrada».
Esisteva più di una famiglia Martini a Venezia: quella di cui stiamo
parlando venne da Lucca per commerciare sete nel XIV secolo.
Nel 1483 un Pietro Martini dispose di essere sepolto a Santa Maria delle
Grazie, nella cappella che si era fatta costruire. Alcuni suoi
membri entrarono nell'ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, come
quell'Andrea che nel 1580 ebbe la tomba nella chiesa della Croce alla
Giudecca.
Il
ponte Briati sull'omonimo rio all'intersezione con il rio dei
Carmini.