A San Simeon Grando.
Questa calle, laterale della fondamenta di Rio Marin, prende il nome dal palazzo che la fiancheggia per tutta la sua
lunghezza, palazzo Contarini del XVII secolo.
Questo palazzo è l'edificio privato più lungo di tutta la città, con i
suoi circa 80 metri di lunghezza. Oggi, ovviamente, è stato suddiviso in
più unità immobiliari.
Nel 1785 la casa era stata data in affitto dal Procuratore di San Marco
Contarini ad un assicuratore di origini ebree, tale Antonio Colombo ed era
divenuta sede della loggia massonica "La fedeltà", che venne
scoperta casualmente il 6 maggio.
Diverse sono le versioni su come andarono i fatti: una ci viene offerta da
Fabio Mutinelli nelle sue "Memorie storiche degli ultimi
cinquant'anni della Repubblica Veneta", Venezia 1854. Il Mutinelli
riferisce che uno dei massoni, Girolamo Zulian, di ritorno da una riunione
notturna, avesse dimenticato sulla barca alcune carte che vennero
ritrovate dai due gondolieri, che rimasero alquanto perplessi vedendo
formule e disegni misteriosi.
Il più anziano dei due pensò di mostrarle ad un frate del vicino
convento di Santa Maria Gloriosa dei Frari per sapere di che cosa si
trattasse.
Il frate capì al volo e suggerì al gondoliere che se non volesse finire
diritto tra le fiamme dell'Inferno avrebbe dovuto portare tutto al più presto
a chi di dovere.
Il povero gondoliere si precipitò così da Girolamo Diedo, Inquisitore di
Stato, al quale narrò i fatti, consegnò le carte e chiese protezione.
Il Diedo nascose il gondoliere in una stanza all'ultimo piano, sotto il
tetto, della propria casa. La notte successiva Cristoforo Cristofori (o
Cristofoli),
messo degli Inquisitori di Stato, con trenta guardie abbatté la porta
della loggia massonica e sequestrò tutto l'arredamento e i documenti,
compreso l'elenco degli aderenti alla loggia, e fece trasportare il tutto
nel cortile del Palazzo Ducale.
Il giorno dopo fu permesso a tutti di vedere «...quel trono, quel
bizzarro tamburo a geroglifici, quelle nere vesti, quelle spade, quelle
cazzuole, quegli stili, quegli ossarii...» e il successivo rogo che
le distrusse mentre il popolo prorompeva «...nell'usitato e lieto grido:
"viva san Marco"».
Girolamo Dandolo, nella sua "Caduta della Repubblica di Venezia ed i
suoi ultimi cinquant'anni", Venezia 1855, ci fornisce, non senza
polemizzare con il Mutinelli, una differente versione dei fatti,
ricordando, tra l'altro,che era impossibile che Girolamo Zulian potesse
dimenticare delle carte a Venezia nel maggio 1785 dal momento che dal 9
giugno 1783 al 1788 era Bailo a Costantinopoli!
Comunque la ricostruzione del Dandolo si affida alle notizie fornite da
Emmanuele Antonio Cicogna (1789-1868) in base a due manoscritti stesi da
Don Antonio Ghezzi, prete nella chiesa di San Zulian.
Il Dandolo scrive dunque che il 25 aprile 1785 (giorno di San Marco) venne
dolosamente appiccato fuoco all'Arsenale, ma fortunatamente una donna,
probabilmente una cucitrice di vele, se ne accorse subito sventando quella
che poteva diventare una tragedia.
Per prevenire il ripetersi un simile gesto, venne rafforzato il servizio
di guardia all'Arsenale ed anche in tutta la città.
Le guardie notturne osservarono così che in un palazzo sul rio Marin
c'era un certo via vai notturno di persone che, per farsi aprire,
semplicemente bussavano alla porta.
Venivano quindi ordinate ulteriori indagini, quando si presentò un
falegname. Questi raccontò che aveva avuto l'incarico di costruire un
armadio e, avendolo terminato, aveva chiesto al committente (del quale il
Dandolo omette il nome) dove portarlo. Gli venne così detto di portarlo
in un certo palazzo di rio Marin, nell'ingresso; poi sarebbe stato
avvertito sul dove collocarlo.
Ma il committente non si fece più vivo, così il nostro falegname una
notte si recò a quel palazzo e poté constatare che l'armadio non c'era
più. Ebbe dispiacere perché il suo armadio avrebbe avuto bisogno di
alcune regolazioni una volta collocato nel posto definitivo e quindi
qualche altra persona doveva aver messo mano al suo lavoro.
Ricordandosi che gli era stato detto che l'armadio era destinato a
rimanere a ridosso di due finestre di un pergolo, e ricordandone le
misure, non gli fu difficile guardando il palazzo dall'esterno individuare
dove doveva essere stato collocato.
Chiese quindi il permesso agli abitanti del piano superiore di poter fare
con una trivella un foro sul pavimento per controllare se il suo armadio era
stato collocato al posto giusto. Non ebbe difficoltà ad essere assecondato
in questa sua richiesta, perché gli abitanti il piano superiore erano
curiosi di capire chi abitava sotto e chi erano le persone che riceveva
durante la notte.
La notte del 4 maggio il falegname tornò con la trivella, fece il buco e
restò in attesa che arrivasse qualcuno nell'appartamento al di
sotto:
«...osservò illuminarsi dopo la mezza notte una sala vestita a lutto, ed
addobbata con un Trono coperto di panno blù, con altri attrezzi mortuali, e qua
e là dispersi piccoli ferali con persone parimenti qua e là sedute in vesti
nere: sicché a quell'orrida vista ebbe a spaventarsi. (...) in quella stanza
scoperse effettivamente a ridosso del pergolo il suo armerone.»
Timoroso di aver visto opere del demonio, corse dal suo confessore, il parroco
di San Simeon Grande, e gli raccontò quanto aveva veduto. Su consiglio del
religioso il falegname riferì tutto agli Inquisitori di Stato che inviarono in
quell'appartamento il proprio messo Cristoforo Cristofoli accompagnato dal
Capitan Grande e da 24 uomini armati che arrestarono un uomo che vi faceva la
guardia.
Il Dandolo ammette che la vicenda del falegname potrebbe trattarsi di
un'invenzione e che la loggia massonica potrebbe essere stata scoperta solo per
la maggiore sorveglianza notturna che veniva fatta nei sestieri a seguito dello
sventato incendio all'Arsenale.