A Sant'Alvise.
A Venezia una decina di altri luoghi porta questa denominazione, tra "Muneghe"
e "Muneghete" (monache, ed il vezzeggiativo/diminutivo
monachette): il
nome è giustificato dalla presenza di insediamenti di religiose, o di
proprietà immobiliari dei loro conventi.
In questo caso, qui esistevano proprio delle case che appartenevano alle
monache agostiniane del vicino convento di Sant'Alvise che si trovavano (e
l'edificio si trova ancora) al di là del rio di Sant'Alvise, dove termina
questa calle.
Su un edificio, in corrispondenza del numero civico 3277, è visibile
una targa sagomata in pietra d'Istria che reca un'iscrizione sotto una croce
patente che reca al centro un fiorellino.
L'iscrizione
incisa su pietra d'Istria con l'invocazione contro le tentazioni
del demonio, attribuita a Sant'Antonio di Padova.
L'iscrizione recita:
«ECCE CRUCEM
DOMINI
FUGITE PARTES ADVERSAE
VICIT LEO DE TRIBU JUDA
RADIX DAVID ALL ALL»
Ovvero:
«Ecco
la Croce del Signore
Fuggite forze nemiche
Ha vinto il Leone di Giuda
La Radice di David All[eluia] All[eluia]»
Si tratta di una preghiera che viene
attribuita a Sant'Antonio: una sorta di potente anatema contro le
tentazioni del maligno: papa Sisto V (1521-1590), che come Sant'Antonio
apparteneva all'ordine dei Frati Minori Conventuali, la fece scolpire alla
base dell'obelisco di piazza S. Pietro.
Su un altro edificio si possono notare due moderne decorazioni in terracotta
che sono state inserite per abbellimento sul muro esterno, in corrispondenza
del numero civico 3285: un fregio ed un leone marciano.
Due
moderni rilievi in cotto ad abbellimento di un'abitazione di
calle de le Mùneghe.
Matteo
Lovat aveva meticolosamente predisposto tutto: la croce
appositamente costruita, la corona di spine ed i chiodi da usarsi
per il suo macabro rituale (da: "La storia della crocifissione
di Mattio Lovat da se stesso eseguita comunicata in lettera da
Cesare Ruggieri", Venezia, nella Stamperia Fracasso, 1814).
La storia più emblematica legata a questa calle tuttavia rimane quella
di Matteo Lovat che vi abitava dove oggi c'è il numero civico 3281.
Matteo Lovat, detto "Casal" in quanto originario di Casal
di Zoldo, nella Val Zoldana, oggi in provincia di Belluno, di origini
poverissime, aveva imparato a leggere e (un poco) a scrivere sotto la
guida del cappellano del paese: pare anche che avesse in animo di farsi
prete, ma le condizioni poverissime della sua famiglia non permettevano di
dotarlo economicamente ed anzi lo obbligarono ad imparare un mestiere:
diventò così calzolaio.
Questo non gli impedì di rimanere sempre molto pio, di ascoltare le
prediche in chiesa, di imparare le storie dei santi, di osservare i
digiuni prescritti.
Nel luglio 1802 tuttavia compì un gesto eclatante: chiuso in casa,
utilizzando una lama da calzolaio, si evirò «...gettando in seguito
le recise parti dalla finestra in istrada».
Non fu un gesto improvvisato, ma premeditato: aveva infatti organizzato
tutto, compreso quanto era necessario per medicarsi: erbe officinali
emostatiche e bende: dalle testimonianze dell'epoca, pare che guarì da
questo intervento senza inconvenienti, «...cioè né difficoltà
nell'espellere l'orina, né perdita involontaria della medesima».
Tuttavia nel piccolo paese della Val di Zoldo il fatto non rimase nascosto a lungo,
e quando non resistette più ai mormorii dei paesani, il 13 novembre 1802
partì alla volta di Venezia, dove già c'era il fratello Angelo e dove
trovò da lavorare come calzolaio abitando presso una certa Osvalda
d'Andrea che affittava posti da dormire in calle de la Vida, alle
Fondamente Nove.
Continuò così per alcuni mesi, fino a quando il 21 settembre 1803,
giorno del suo santo protettore, San Matteo, improvvisò una croce
mettendo assieme alcune assi del proprio letto e cercò di crocifiggersi!
Fu fermato prima che riuscisse a compiere il suo progetto e, dopo aver
trascorso un po' di tempo nel suo paese natìo, Casal di Zoldo, tornò a
Venezia abitando in una stanza al terzo piano di una casa in calle delle
Muneghe a S. Alvise, presso un certo Valentino Lucchetta.
L'idea della crocifissione non gli era passata di mente e,
silenziosamente, senza dare nell'occhio, piano piano costruì quello che
doveva diventare il suo patibolo, la croce, con tutto il necessario, dai
chiodi alla corona di spine!
Matteo
Lovat aveva predisposto anche una specie di imbracatura a rete, in
modo da restare appeso alla croce dopo la propria autocrocifissione (da: "La storia della crocifissione
di Mattio Lovat da se stesso eseguita comunicata in lettera da
Cesare Ruggieri", Venezia, nella Stamperia Fracasso, 1814).
La
porta che conduce all'abitazione, al terzo piano, dove Mattio
Lovat viveva e dove mise in atto il suo gesto.
Non si fermò a questo: prevedendo che non sarebbe riuscito a rimanere
attaccato alla croce da solo, preparò con dello spago una specie di rete
che, assicurata ad una trave del soffitto, gli avrebbe consentito di
restare appeso alla croce sulla strada, esposto allo sguardo di tutti.
Il 19 luglio 1805 indossò la corona di spine, si trafisse una mano con un
chiodo, sovrapposti i piedi uno all'altro li trapassò con un altro chiodo
usando la mano destra, con un coltello da calzolaio si ferì il costato ed
infine si lasciò pendere fuori della finestra, non riuscendo tuttavia che
inchiodare alla croce la sola mano sinistra.
Erano le 8 del mattino.
Alcuni passanti accorsero per togliere lo sventurato da quella posizione,
stendendolo poi sul letto di casa e chiamando soccorso: intervenne il
medico Cesare Ruggieri (1768-1828) che accorse con un chirurgo suo amico,
tale Tommaso Paganoni: i due fecero trasportare il malcapitato alla Regia
Scuola Clinica dei Santi Giovanni e Paolo.
Durante il ricovero fu interrogato ripetutamente dai medici, ma anche
dalla polizia, sui motivi del suo gesto: invariabilmente il Lovat
rispondeva che «...la superbia degli uomini doveva essere castigata,
ed era però necessario che ei morisse in croce».
Appena ebbe guarite le mani, il Lovat prese l'uffizio divino e trascorreva
l'intero giorno a leggerlo.
Già ai primi d'agosto poteva dirsi fisicamente guarito; non essendogli
stato permesso di lasciare l'ospedale, un pomeriggio fuggì rivestito
della sola camicia da notte, ma fu subito fermato.
Essendo guarito nel fisico, la Regia Direzione di Polizia Generale ne
ordinò il trasferimento nell'isola di San Servilio (San Servolo), dove
c'era il manicomio maschile ed il Lovat restò sotto le cure di padre
Giovanni Luigi Portalupi, medico e priore dell'ordine dei Padri
Ospitalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli).
Giunse quindi a San Servolo il 20 agosto 1805 e dopo una settimana
cominciò a rifiutare il cibo: successivamente riprese a nutrirsi, ma in
modo incostante alternando digiuni severissimi, anche di una dozzina di
giorni, a periodi in cui riprendeva ad avvicinarsi al cibo.
Le sue condizioni fisiche andarono sempre peggiorando, fino a quando nella
mattina dell'8 aprile 1806 «...dopo breve letargo spirò».