Il
XIII secolo si conclude a Venezia con una congiura contro la Repubblica
della quale poco si conosce.
Il
Palazzo Ducale (a destra), la Piazzetta e la Piazza San Marco con gli
edifici che vi si affacciano, centro del potere politico della Repubblica
di Venezia, secondo Pieter van der Aa (particolare dell'incisione in
rame tratta dal «Thesaurus Antiquitatum et Historiarum Italiae» con
coloritura datata, 1725 circa).
Del complotto di Marino Bocconio contro la Repubblica di Venezia poco si
sa con certezza.
Siamo sul finire del XIII secolo che ha visto completarsi l'assetto
costituzionale veneziano, frutto della legge approvata il 28 febbraio
1297, passata alla storia come Serrata
del Maggior Consiglio, ed integrata da numerose disposizioni emanate
nei primi tre decenni successivi tendenti a blindare il nuovo sistema
costituzionale.
La riforma del 1297 correggeva un sistema elettorale che avrebbe potuto
indebolire il ruolo dell'aristocrazia, garantendo un assetto di governo
stabile dove, secondo Francesco Sansovino, «...non uno, non pochi, non
molti signoreggiavano, ma molti buoni, pochi migliori e insiememente un
ottimo solo.»
Sappiamo che questa riforma lasciò molti malcontenti, soprattutto tra
coloro che si sentivano colpiti nei propri interessi e nelle proprie
ambizioni, tra i populares e tra la fazione vicina alla famiglia
Tiepolo che invano si era battuta per giungere ad una egemonia che avrebbe
potuto trasformare la figura elettiva del Doge in un Principe ereditario.
E' in questo scenario che si deve inserire la figura di Marino Bocconio,
probabilmente un maggiorente veneziano la cui famiglia si trova citata
nelle fonti anche come "Bocco" e "Boccone". Secondo
alcuni forse sarebbero esistite due diverse famiglie con questo cognome,
una originaria di Trieste, da dove sarebbe arrivata nell'804, l'altra
originaria di Grado, trasferitasi nell'814.
Nella "Cronaca veneta attribuita a Daniele Barbaro" Marino
Bocconio è descritto come «...huomo audace et facinoroso et pronto a
ogni scelerità et grande et bel parlador, et che haveva gran seguito et
parentado con molti populani grandi.»
In realtà più che di una congiura animata da ideali politici, si trattò
di un goffo tentativo che dava seguito al malcontento della fazione dei
Tiepolo che si ripeterà un decennio dopo con un'altra congiura, più
clamorosa, di Bajamonte Tiepolo con il Querini di Ca' Maggiore ed i loro
complici.
Poco in realtà si sa su quanto accadde: anche l'anno è incerto,
collocandolo l'episodio chi nel 1299, chi nel 1300.
Forse sarebbe il caso di limitarsi alle scarne parole che leggiamo sulla
"Chronica" di Andrea Dandolo: «Et tunc dictus dux, certitudine
habita de proditione contra ipsum et patriae statum per Marinum Bocconem
popularem et complices eius tractata, ipsos ultimo supplicio condemnavit.»
Tuttavia, grazie alle ricerche condotte da Giuseppe Tassini (1827-1899),
uno studioso di cose veneziane, sul Codice DCCVI, Classe VII, della
Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, si può venire a sapere qualcosa
di più sulla congiura. Un'altra versione dei fatti, forse con maggiori
concessioni alla fantasia, si può leggere nella cronaca di Zaccaria Del
Pozzo, trascritta dal cronista Marino Sanudo in "Le vite dei
Dogi".
Gli intenti di Marino Bocconio e dei suoi complici sarebbero stati quelli
di assalire a mano armata il Palazzo Ducale in un giorno nel quale fossi
riunito il Maggior Consiglio, di uccidere il doge Pietro Gradenigo e di
impadronirsi del potere confidando in una generale sollevazione popolare.
In qualche modo il piano venne scoperto: forse per i movimenti sospetti
dei congiurati per metterlo a punto cercando l'appoggio del popolo, forse
per opera di qualche traditore o di qualche delatore. Il governo prese
delle contromisure, come quella di presentarsi armati alle sedute del
Maggior Consiglio durante le quali doveva essere presente a Palazzo un
contingente supplementare di armigeri.
Si giunse così al giorno stabilito per l'assalto: lasciato un gruppo di
complici in Piazzetta, Marino Bocconio con altri undici entrò in
Palazzo Ducale e salì indisturbato fino alla sala del Maggiore Consiglio;
infatti sembra che l'ordine fosse stato quello di non perquisire nessuno,
proprio per non destare sospetti e fare così scattare la trappola.
Appena entrati, Marino Bocconio e gli undici complici furono ridotti
all'impotenza ed arrestati.
Gli altri complici, restati all'esterno del Palazzo Ducale, si ritirarono
ed il giorno dopo si diedero alla fuga oltre i confini della
Repubblica. Venezia invano cercò di rintracciarli e catturarli: contro 42
di essi venne emanata una sentenza di bando perpetuo e furono confiscati i
loro beni (il Codice marciano elenca i nomi dei 42 banditi).
Nel frattempo Marino Bocconio e gli altri undici confessarono tutto, ma
ciò non valse loro ad avere salva la vita: infatti furono condannati a
morte a mezzo impiccagione, tra le due colonne di Marco e Todaro in
Piazzetta.
Nel Codice marciano sono tramandati solo otto degli undici nomi: Girolamo
Sabadin, Saba Zorzan, Alessandro Barbuora, Carlo Peghin, Dario Zuccuol,
Gianmaria Dolce, Pietro Erizzo e Marco Gussoni. In altre cronache troviamo
anche i nomi di Donà Ciera e Giovanni Rosso, oppure Giovanni Baldovino.
Il
luogo delle esecuzioni capitali tra le colonne di Marco e Todaro: sono
visibili i quattro fori per erigere la forca, ritrovati durante dei
lavori alla pavimentazione della Piazzetta nel 2007 (dalla Venezia a
volo d'uccello, xilografia di Jacopo de Barbari, 1500).
Una
esecuzione capitale per impiccagione tra le colonne di Marco e Todaro
in Piazzetta di San Marco (da un manoscritto miniato).