
"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un saluto a tutti.
A pag 94:
La normativa tariffaria borbonica prevedeva che le lettere assicurate (raccomandate di oggi) fossero affrancate con una tassa pari al doppio di quella spettante per le lettere ordinarie.
La lettera (ordinaria) sino a due fogli scontava una tassa di grana 4, quindi qualora si decideva di spedirla assicurata doveva affrancarsi con grana 8.
Per le lettere che avevano un volume maggiore dei due fogli la tassa veniva calcolata aumentando di cinque trappesi fino all’oncia, a cui corrispondeva una affrancatura di grana 8.
In questo caso, la lettera da Napoli a Gallipoli, spedita l’11 febbraio 1858 venne provvista di francatura pari a grana 24, spettante appunto per lettera assicurata avente un peso di un’oncia e 3/8 (secondo l’indicazione riportata nel catalogo Vaccari 1 oncia e ½)
Altra affrancatura di pregio è la lettera da Gioia di Calabria a Napoli, per grana 26, quindi seguendo la proporzione prima descritta, tariffa spettante per lettera assicurata di un’oncia e 25 trappesi. Su essa maggiormente appariscente è il 5 grana IIa tavola, nella sua tipica veste con colori carmini e con diciture ombreggiate.
A pag 95:
Altra bombarda da ammirare e che con affrancature difficilmente reperibile a prezzi popolari è la lettera assicurata da 60 trappesi, da Napoli a Vallo, con FB da 20, 10 e 2 grana, tutti della Ia tavola.
Pag. 96 e 97
Per quanto riguarda le bellissime lettere per la Sicilia, eviterò di trattare della tariffa, il cui argomento è stato già discusso con la partecipazione di altri amici del forum. Mi limito a segnalavi quella bella striscia di 5 dell’un grano IIa tavola, di tipica gradazione carminio, e sull’altra lettera “finalmente” un FB della prima tavola senza incisioni multiple
. Riconoscibile per la definizione del disegno e per l’angolo inferiore sinistro spesso incompleto e privo di macchie di colore (non per tutti i FB della tavola).
pasfil
A pag 94:
La normativa tariffaria borbonica prevedeva che le lettere assicurate (raccomandate di oggi) fossero affrancate con una tassa pari al doppio di quella spettante per le lettere ordinarie.
La lettera (ordinaria) sino a due fogli scontava una tassa di grana 4, quindi qualora si decideva di spedirla assicurata doveva affrancarsi con grana 8.
Per le lettere che avevano un volume maggiore dei due fogli la tassa veniva calcolata aumentando di cinque trappesi fino all’oncia, a cui corrispondeva una affrancatura di grana 8.
In questo caso, la lettera da Napoli a Gallipoli, spedita l’11 febbraio 1858 venne provvista di francatura pari a grana 24, spettante appunto per lettera assicurata avente un peso di un’oncia e 3/8 (secondo l’indicazione riportata nel catalogo Vaccari 1 oncia e ½)
Altra affrancatura di pregio è la lettera da Gioia di Calabria a Napoli, per grana 26, quindi seguendo la proporzione prima descritta, tariffa spettante per lettera assicurata di un’oncia e 25 trappesi. Su essa maggiormente appariscente è il 5 grana IIa tavola, nella sua tipica veste con colori carmini e con diciture ombreggiate.
A pag 95:
Altra bombarda da ammirare e che con affrancature difficilmente reperibile a prezzi popolari è la lettera assicurata da 60 trappesi, da Napoli a Vallo, con FB da 20, 10 e 2 grana, tutti della Ia tavola.
Pag. 96 e 97
Per quanto riguarda le bellissime lettere per la Sicilia, eviterò di trattare della tariffa, il cui argomento è stato già discusso con la partecipazione di altri amici del forum. Mi limito a segnalavi quella bella striscia di 5 dell’un grano IIa tavola, di tipica gradazione carminio, e sull’altra lettera “finalmente” un FB della prima tavola senza incisioni multiple




pasfil
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
IL GENERALE LANDI
Dopo la rivolta di Palermo del 4 aprile 1860, mentre tentava di contrastare i movimenti dei ribelli, fu promosso con l'alto incarico di brigadiere generale. Questa scelta rientrava in un progetto più ampio, perché nel momento della crisi, il giovane neo-re Francesco II stava tentando, con numerosi avanzamenti di carriera, di cambiare tutti i vertici militari, politici e amministrativi del Regno, per crearsi una rete di consenso. Il 6 maggio 1860 – alla guida di una colonna formata da quattro compagnie di Fanteria, uno squadrone di Cacciatori a cavallo e quattro pezzi d'Artiglieria – il brigadiere diresse le operazioni per reprimere i fermenti rivoluzionari: scopo precipuo era quello di prevenire le rivolte, disarmando la popolazione dei paesi interni del palermitano, come Partinico e Alcamo. Da qui fu poi richiamato per muovere verso Calatafimi, dove si stavano dirigendo un battaglione di Cacciatori e uno di Fanteria pronti a mettersi ai suoi comandi per contrastare i Mille. Qualcosa però non funzionò nella macchina da guerra borbonica: il 15 maggio, mentre i volontari si mettevano in marcia da Salemi, Landi ricevette l'ordine da Palermo di ripiegare su Partinico, per concentrare le truppe vicino alla capitale. Il generale, ormai anziano – che seguiva le sue truppe – rimase confuso sul da farsi: era combattuto tra la paura di disobbedire agli ordini di un superiore e la necessità di difesa; scelse così una via di mezzo, sentendosi “isolato in un paese nemico”: divise le forze e le sottoutilizzò nel campo di battaglia, e in breve fu costretto alla ritirata. Raggiunta Palermo, non fu eliminato dai vertici, anzi rimase per la difesa della città, che lasciò quando fu deciso lo sgombero delle truppe borboniche. A Napoli fu sottoposto con alti ufficiali dell' esercito ad una commissione di inchiesta borbonica che lo giudicò sulla sconfitta siciliana: nessuno di loro ebbe la colpa degli avvenimenti, che fu attribuita a circostanze eccezionali. A questo punto, Landi scelse il ritiro dall'esercito. Morì poco dopo, il 2 febbraio 1861.
La figura di Landi è stata svilita dalla propaganda di guerra dei liberali e successivamente dalla storiografia risorgimentale: da un lato, il racconto patinato dei Mille esagerò nella celebrazione dei vincitori, dipingendo con toni scuri i nemici, bollati come vili e inetti; d’altra parte, la storiografia borbonica, concentrata a spiegare la fine del regno con la tesi del tradimento, imputò ai singoli militari tutti gli errori, le defezioni e le collusioni.
Dopo la sua morte, a Napoli circolava la voce che il generale avesse tentato di scambiare una fede di credito del valore di 14.000 ducati (pari a lire 59.500 del 1861 che equivalgono a circa € 263.575,20 euro) datagli da Garibaldi in cambio del suo tradimento e, scoperto che si trattava di un falso, fosse morto di crepacuore. La notizia fu riportata dalla “Civiltà Cattolica” e in numerosi giornali stranieri dell'epoca, nonché dagli storici borbonici coevi .
Da "La Civiltà Cattolica", anno duodecimo, vol. X, s. IV, pagg. 278-279.
«Si legge nei giornali francesi un bel tratto che riguarda il tradimento del generale Landi. Un suo servitore si presentò a Napoli al banco di S. Spirito per farsi pagare una polizza di quattordici mila ducati. Il cassiere l'esamina, e dice - Non vi pago se non viene di persona il vostro padrone - Il Landi si reca al banco; e il cassiere gli domanda, onde avesse quella polizza? Il Generale risponde, ch'egli non aveva nissun diritto di domandarlo; che la polizza dovea pagarsi a vista, ed egli non dovea cercar altro. Il cassiere gli rispose secco - O voi manifestate chi vi diede quella polizza, o voi non uscite di qui che per balzare in carcere; imperocché la polizza è falsa. Allora il Landi allibito dichiarò, che l'ebbe in Sicilia di mano del Garibaldi: e così il traditore fu pagato di quella moneta che meritava. Fu tanta l'ira e la vergogna del Landi, che pochi giorni appresso morì di crepacuore. Vedi come si conquista l'Italia! Coi traditori e coi falsari».
La versione borbonica
Da Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Italia 1863, p. 172-173.
«In marzo 1861, un famiglio si presenta al pubblico Banco di Napoli per riscuotere il pagamento di cartelle pel valore di sedicimila ducati. Fu fatto rifiuto di pagare somma così rilevante ad un famiglio , che confessava quella non essere roba sua, ed anche sorgevano sospetti su l'autenticità di quelle carte bancarie. Dovette presentarsi il padrone: - era il generale Landi . Fu richiesto dire onde le avesse ricevute: egli ricusò sdegnosamente. Allora gli fu significato, doversi assoggettare a giudizio penale, perché oramai si faceva chiaro, che quelle cartelle erano false. Per sottrarsi dal carcere, e dalla pena di falsario, il misero dovette confessare averle ricevute da Garibaldi in ricompensa de' servizii prestatigli in Sicilia. Poco appresso trafitto d' onta e di cordoglio , l'infelice si morì. Il tradimento era stato degnamente pagato».
Per salvare l'onore del padre, il figlio Michele, che era entrato a sua volta nell'esercito italiano, scrisse a Garibaldi, il quale smentì tutta la vicenda .
Lettera di Garibaldi a Michele Landi
Da Il generale Francesco Landi un ufficiale napoletano dai tempi napoleonici al Risorgimento, di G. Landi, in Rassegna storica del Risorgimento, XLVII (1960), p. 354.
«Caprera il 1 novembre 1861
Mio caro Landi,
Ricordo di aver detto nel mio ordine del giorno di Calatafimi, che non avevo veduto ancora soldati contrari combattere con più valore, e le perdite da noi sostenute in quel combattimento lo provano bene.
Circa i quattordicimila ducati ricevuti dal vostro bravo Genitore in quella circostanza potete assicurare gl'impudenti giornalisti che ne insultano la memoria che 50 mila lire era il capitale che corredava la prima spedizione in Sicilia e che servirono ai bisogni di quella non a comperare generali.
Sorte dei Tiranni! Il Re di Napoli doveva soccombere! Ecco il motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella sua ritirata su Palermo, fece il suo dovere da soldato.
Dolente su quanto avete perduto, vogliate presentarmi alla vostra famiglia come un amico, e credetemi con affetto
Vostro Giuseppe Garibaldi».
Landi era figlio di Antonio e Raimonda Buonocore e apparteneva ad una famiglia di militari, di cui aveva seguito le orme, entrando nella prestigiosa Reale Accademia militare nel 1806. Fece carriera nell'esercito murattiano, partecipando alle vicende militari del tempo e seguendo con fedeltà le talvolta contrastanti decisioni politiche prese dal re di Napoli: fu sottotenente nella campagna di Sicilia; partecipò poi alla repressione del brigantaggio in Calabria; intervenne come tenente nel 1814 al blocco e assedio della cittadella di Ancona; infine, fu capitano nella campagna contro gli Austriaci, nella quale si distinse ottenendo la croce di cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie. Restaurato sul trono del nuovo Regno delle Due Sicilie, Ferdinando I gli confermò i gradi militari ottenuti durante la parentesi murattiana. Dopo l'esperienza costituzionale del 1820, tuttavia, fu sottoposto a scrutinio, e nonostante il suo buon servizio fu posto a riposo. Nel 1832 venne richiamato, come tanti altri ufficiali, da Ferdinando II, in attesa di destinazione, e ottenne il primo incarico nel 1837. Fu solo con il servizio prestato durante la rivoluzione del 1848-1849 che ebbe, all'età di 53 anni, la promozione a Maggiore, alla quale seguirono quella di Tenente Colonnello e poi di Colonnello nel 1856.
Dopo la rivolta di Palermo del 4 aprile 1860, mentre tentava di contrastare i movimenti dei ribelli, fu promosso con l'alto incarico di brigadiere generale. Questa scelta rientrava in un progetto più ampio, perché nel momento della crisi, il giovane neo-re Francesco II stava tentando, con numerosi avanzamenti di carriera, di cambiare tutti i vertici militari, politici e amministrativi del Regno, per crearsi una rete di consenso. Il 6 maggio 1860 – alla guida di una colonna formata da quattro compagnie di Fanteria, uno squadrone di Cacciatori a cavallo e quattro pezzi d'Artiglieria – il brigadiere diresse le operazioni per reprimere i fermenti rivoluzionari: scopo precipuo era quello di prevenire le rivolte, disarmando la popolazione dei paesi interni del palermitano, come Partinico e Alcamo. Da qui fu poi richiamato per muovere verso Calatafimi, dove si stavano dirigendo un battaglione di Cacciatori e uno di Fanteria pronti a mettersi ai suoi comandi per contrastare i Mille. Qualcosa però non funzionò nella macchina da guerra borbonica: il 15 maggio, mentre i volontari si mettevano in marcia da Salemi, Landi ricevette l'ordine da Palermo di ripiegare su Partinico, per concentrare le truppe vicino alla capitale. Il generale, ormai anziano – che seguiva le sue truppe – rimase confuso sul da farsi: era combattuto tra la paura di disobbedire agli ordini di un superiore e la necessità di difesa; scelse così una via di mezzo, sentendosi “isolato in un paese nemico”: divise le forze e le sottoutilizzò nel campo di battaglia, e in breve fu costretto alla ritirata. Raggiunta Palermo, non fu eliminato dai vertici, anzi rimase per la difesa della città, che lasciò quando fu deciso lo sgombero delle truppe borboniche. A Napoli fu sottoposto con alti ufficiali dell' esercito ad una commissione di inchiesta borbonica che lo giudicò sulla sconfitta siciliana: nessuno di loro ebbe la colpa degli avvenimenti, che fu attribuita a circostanze eccezionali. A questo punto, Landi scelse il ritiro dall'esercito. Morì poco dopo, il 2 febbraio 1861.
La figura di Landi è stata svilita dalla propaganda di guerra dei liberali e successivamente dalla storiografia risorgimentale: da un lato, il racconto patinato dei Mille esagerò nella celebrazione dei vincitori, dipingendo con toni scuri i nemici, bollati come vili e inetti; d’altra parte, la storiografia borbonica, concentrata a spiegare la fine del regno con la tesi del tradimento, imputò ai singoli militari tutti gli errori, le defezioni e le collusioni.
Dopo la sua morte, a Napoli circolava la voce che il generale avesse tentato di scambiare una fede di credito del valore di 14.000 ducati (pari a lire 59.500 del 1861 che equivalgono a circa € 263.575,20 euro) datagli da Garibaldi in cambio del suo tradimento e, scoperto che si trattava di un falso, fosse morto di crepacuore. La notizia fu riportata dalla “Civiltà Cattolica” e in numerosi giornali stranieri dell'epoca, nonché dagli storici borbonici coevi .
Da "La Civiltà Cattolica", anno duodecimo, vol. X, s. IV, pagg. 278-279.
«Si legge nei giornali francesi un bel tratto che riguarda il tradimento del generale Landi. Un suo servitore si presentò a Napoli al banco di S. Spirito per farsi pagare una polizza di quattordici mila ducati. Il cassiere l'esamina, e dice - Non vi pago se non viene di persona il vostro padrone - Il Landi si reca al banco; e il cassiere gli domanda, onde avesse quella polizza? Il Generale risponde, ch'egli non aveva nissun diritto di domandarlo; che la polizza dovea pagarsi a vista, ed egli non dovea cercar altro. Il cassiere gli rispose secco - O voi manifestate chi vi diede quella polizza, o voi non uscite di qui che per balzare in carcere; imperocché la polizza è falsa. Allora il Landi allibito dichiarò, che l'ebbe in Sicilia di mano del Garibaldi: e così il traditore fu pagato di quella moneta che meritava. Fu tanta l'ira e la vergogna del Landi, che pochi giorni appresso morì di crepacuore. Vedi come si conquista l'Italia! Coi traditori e coi falsari».
La versione borbonica
Da Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Italia 1863, p. 172-173.
«In marzo 1861, un famiglio si presenta al pubblico Banco di Napoli per riscuotere il pagamento di cartelle pel valore di sedicimila ducati. Fu fatto rifiuto di pagare somma così rilevante ad un famiglio , che confessava quella non essere roba sua, ed anche sorgevano sospetti su l'autenticità di quelle carte bancarie. Dovette presentarsi il padrone: - era il generale Landi . Fu richiesto dire onde le avesse ricevute: egli ricusò sdegnosamente. Allora gli fu significato, doversi assoggettare a giudizio penale, perché oramai si faceva chiaro, che quelle cartelle erano false. Per sottrarsi dal carcere, e dalla pena di falsario, il misero dovette confessare averle ricevute da Garibaldi in ricompensa de' servizii prestatigli in Sicilia. Poco appresso trafitto d' onta e di cordoglio , l'infelice si morì. Il tradimento era stato degnamente pagato».
Per salvare l'onore del padre, il figlio Michele, che era entrato a sua volta nell'esercito italiano, scrisse a Garibaldi, il quale smentì tutta la vicenda .
Lettera di Garibaldi a Michele Landi
Da Il generale Francesco Landi un ufficiale napoletano dai tempi napoleonici al Risorgimento, di G. Landi, in Rassegna storica del Risorgimento, XLVII (1960), p. 354.
«Caprera il 1 novembre 1861
Mio caro Landi,
Ricordo di aver detto nel mio ordine del giorno di Calatafimi, che non avevo veduto ancora soldati contrari combattere con più valore, e le perdite da noi sostenute in quel combattimento lo provano bene.
Circa i quattordicimila ducati ricevuti dal vostro bravo Genitore in quella circostanza potete assicurare gl'impudenti giornalisti che ne insultano la memoria che 50 mila lire era il capitale che corredava la prima spedizione in Sicilia e che servirono ai bisogni di quella non a comperare generali.
Sorte dei Tiranni! Il Re di Napoli doveva soccombere! Ecco il motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella sua ritirata su Palermo, fece il suo dovere da soldato.
Dolente su quanto avete perduto, vogliate presentarmi alla vostra famiglia come un amico, e credetemi con affetto
Vostro Giuseppe Garibaldi».
Landi era figlio di Antonio e Raimonda Buonocore e apparteneva ad una famiglia di militari, di cui aveva seguito le orme, entrando nella prestigiosa Reale Accademia militare nel 1806. Fece carriera nell'esercito murattiano, partecipando alle vicende militari del tempo e seguendo con fedeltà le talvolta contrastanti decisioni politiche prese dal re di Napoli: fu sottotenente nella campagna di Sicilia; partecipò poi alla repressione del brigantaggio in Calabria; intervenne come tenente nel 1814 al blocco e assedio della cittadella di Ancona; infine, fu capitano nella campagna contro gli Austriaci, nella quale si distinse ottenendo la croce di cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie. Restaurato sul trono del nuovo Regno delle Due Sicilie, Ferdinando I gli confermò i gradi militari ottenuti durante la parentesi murattiana. Dopo l'esperienza costituzionale del 1820, tuttavia, fu sottoposto a scrutinio, e nonostante il suo buon servizio fu posto a riposo. Nel 1832 venne richiamato, come tanti altri ufficiali, da Ferdinando II, in attesa di destinazione, e ottenne il primo incarico nel 1837. Fu solo con il servizio prestato durante la rivoluzione del 1848-1849 che ebbe, all'età di 53 anni, la promozione a Maggiore, alla quale seguirono quella di Tenente Colonnello e poi di Colonnello nel 1856.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Josè Borges
"LA FINE DI UN EROE"
di Valentino Romano
Con la concisione del suo autore preferito - quel Cesare che aveva tanto amato
negli anni della sua formazione culturale giovanile e che aveva tentato di
emulare scrivendo una cronaca della propria ultima avventura bellica - Josè
Borges, generale catalano e guerrigliero borbonico, chiude il diario della
spedizione in soccorso di Re Francesco. Confesso che raramente, esaminando
uno scritto originale di un personaggio storico, mi sono soffermato tanto a lungo,
tante volte e sempre emozionandomi allo stesso modo. E’ la struggente
constatazione del proprio fallimento, è il maschio riconoscimento della sconfitta,
dell’impossibilità di raggiungere l’obiettivo fissato: ma è anche la consapevolezza
estrema che solo i limiti fisici e diverse ragioni a lui estranee lo hanno piegato;
non la viltà, non la codardia, non il comodo patteggiamento con il nemico.
Borges ha fallito, senza colpe e senza macchia. Con l’onore del soldato leale e
coraggioso di fronte ad un nemico più forte. La fine del suo diario precede di
poco la sua stessa: di lì a qualche giorno una scarica di fucile consegnerà
definitivamente alla storia lui e l’ignominis dei suoi esecutori.
E oggi che a 143 anni da quella fine, un gruppo di meridionali ripete, presso
i luoghi del misfatto, il rito della restituzione di quell’onore proditoriamente
scippato, sento il dovere di unirmi idealmente a loro e a tutti coloro che lo
ricordano come uno degli ultimi eroi romantici di un mondo che si
dissolveva.
E, all’attenzione di questi amici, vorrei porre alcuni elementi forse poco conosciuti
sulla fine del generale catalano. Dal suo ultimo scritto e fino alla sua cattura, non
si hanno precise notizie documentali sul percorso di Borges e del manipolo di
spagnoli e di italiani che lo segue nel tentativo di raggiungere lo stato pontificio:
non ha più tempo di scrivere; la ritirata è un’impresa disperata; se ne perdono le
tracce, s’ignora da quali luoghi sia passato, lo si ritrova quasi alla frontiera. Una
generica corrispondenza da Napoli de "Il Pungolo" potrebbe ricondurre allo
spagnolo: la notte del 29 novembre una comitiva di briganti – tra cui molti
stranieri al comando di un individuo che tutti chiamano generale – viene avvistata
nei dintorni di Ariano Irpino. Altri credono di individuare Borges il 4 dicembre
sull’altopiano di Cinque Miglia, diretto verso Pescasseroli: da qui il generale
punta su Avezzano. A due miglia dalla città devia per Cappelle e Scurgola.
Traversa quest’ultimo paese, passando – incolume – proprio davanti alla sede
della Guardia Nazionale alle dieci di sera. Su consiglio delle guide i fuggiaschi
rispondono al milite di guardia di essere castagnari diretti a Santa Maria. Si
avvicinano, credendo d’essere ormai in salvo, a Tagliacozzo: é l’ultimo
avamposto italiano; mancano appena quattro miglia al confine con lo Stato
pontificio. Borges, con gli ufficiali spagnoli è a cavallo: una decina d’italiani sono
invece appiedati e, perciò, stremati. Il generale, per non abbandonarli, decide
una breve sosta per far riposare gli uomini più stanchi e si ferma in località La
Luppa alla cascina Mastroddi. In questo gesto si evidenzia tutta la tragica
grandezza dell’eroe. E’ un comandante, uno di quelli veri, uno di quelli che
pensano prima di ogni cosa ai loro uomini, a tutti i loro uomini. Pagherà con la
vita quest’ultimo atto di generosità. Il tradimento si consuma proprio in queste
ore: <<la guida, dicendo avere una lettera per Aquila chiese licenza: indi lo
fecero andare; il tale sebbene pagato in oro, tornò a S. Maria e li denunziò al
Colella capo nazionale, che tristo montò la sua guardia, e chiamò da Tagliacozzo
il maggiore sardo Franchini. Costui già per telegrafo avea saputo la passata per
Scurcola, ma non sapea dove andare; però alla chiamata corse con
bersaglieri>>. All’alba dell’8 dicembre, il Franchini, comandante di un battaglione
di bersaglieri, con l’ausilio delle Guardie Nazionali di Sante Marie, seguendo le
tracce lasciate sulla neve fresca giunge nei pressi della cascina e ne scorge a
guardia alcuni uomini armati. Il rifugio è circondato: vengono uccisi a colpi di
baionetta gli uomini che erano di guardia all’esterno della cascina; tra gli
assedianti e gli occupanti si ingaggia uno scambio di fucilate. Giacché questi
ultimi rifiutano di arrendersi, Franchini ordina che sia appiccato il fuoco ai piani
inferiori dell’edificio. E’ la fine! Borges, circondato, è costretto ad arrendersi, non
prima però di aver ottenuto la promessa della salvezza della sua vita e di quella
dei suoi. Idealista fino alla fine, si congratula dell’altrui valore dicendo rassegnato
al nemico piemontese: <<Andavo a dire a Re Francesco II che non vi sono che
miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langlais un
bruto...>>. Da vero ufficiale - porge la sua spada al vincitore, ma questi la rifiuta,
considerandolo solo un brigante. I prigionieri sono portati a Tagliacozzo e - sul
far della sera dell’otto - frettolosamente fucilati, dopo essersi rifiutati di fornire
notizie e fare i nomi di chi li aveva aiutati. Prima dell’esecuzione della sentenza
uno dei condannati (Pedro Martínez) chiede un foglio e scrive, a nome di tutti:
<<Gesù e Maria. Noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati; Addio. Ci
ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi>>. Ricevono tutti la
confessione, si abbracciano, s’inginocchiano ed una scarica di moschetto alle
spalle interrompe l’ultima litania spagnola recitata da Borges e da tutti gli altri.
L’esecuzione, pur inserita in un più generale e sistematico quadro di ricorso alla
pena di morte per reprimere il brigantaggio, suscita reazioni e condanne anche in
Parlamento. Lo stesso Giuseppe Massari, successivamente, avvertirà il bisogno
di darle una parvenza di giustificazione: <<…né dall’abuso delle fucilazioni si può
inferire la loro assoluta inefficacia, e perché mal si corregge un eccesso
appigliandosi all’eccesso opposto, e perché l’asserzione di quell’abuso e di
quell’efficacia è insussistente. Se i briganti fossero stati immuni dalla pena di
morte il loro numero sarebbe a quest’ora non di poco accresciuto; se Borjes e
Trazégnies non fossero stati fucilati le irruzioni di bande dalla frontiera pontificia,
gli sbarchi d’avventurieri di tutte le parti del globo si sarebbero moltiplicati oltre
ogni credere. La sicurezza dello Stato meglio tutelata, le numerose vittime
risparmiate attestano che la severa punizione di pochi fù pietà a molti ed alla
patria, come crudele a molti e alla patria sarebbe stata la pietà usata a pochi >>.
Perfino La Marmora, il 15 dicembre - scrivendo a Ricasoli – afferma in una sorta
di implicito "onore delle armi": <<…deploro la sua fine tristissima, ma come mai
un galantuomo si può dimenticare a segno di collegarsi coi briganti i più scellerati
che si trovino in questi paesi? I generali borbonici che stanno a Roma fanno una
bella figura mandando gli spagnoli a farsi fucilare, mentre loro non osano
avventurarsi>>. Ed anche di fronte alla Commissione Parlamentare d’inchiesta
sul Brigantaggio dirà in seguito: <<…la sicurezza delle frontiere pontificie è
dovuta alla fucilazione di Borges e di Trazeigny…i tribunali non funzionando, la
fucilazione nei casi di fragranza con le armi alla mano è una dolorosa
necessità!>>. Con Borges vengono fucilati gli spagnoli: Francisco Forns, Pascual
Marginet, Magín Novellá, Pascual Salinas, Pedro Martínez, Cayetano Cambra,
Laureano Carenas Miguel Queralt. Gli italiani sono: Leonardo Brigo di Corleto,
Mario Gallicchio di Corleto, Rocco Luigi Volino di Trivigno, Michele Perrelli di
Barile, Francesco Pacari di Avigliano, Michele Capuano di Cosenza, Michele
Panni, molisano, Pasquale Salines di Mogliana. I corpi degli sventurati, spogliati
di tutti i loro effetti personali, vengono seppelliti in fretta in una fossa comune nei
pressi del cortile della caserma della Guardia Nazionale. Per intercessione del
principe di Scilla e del visconte di Saint Priest, il generale La Marmora consentirà
poi che la salma del generale spagnolo venga riesumata dal dottor Bernard,
medico dell’ambasciata francese presso lo stato pontificio, e trasferita a Roma
dove – nel febbraio del 1862, nella Chiesa del Gesù - vengono celebrate solenni
esequie. Finisce così tragicamente l’avventura di un valoroso convinto fino alla
fine di sacrificarsi per una nobile causa: I giudizi coevi su Borges risentono
naturalmente dell’orientamento politico degli scrittori. E’ importante invece
sottolineare come, addirittura nella relazione della Commissione d’inchiesta
parlamentare sul brigantaggio, il deputato Massari esprima un giudizio pacato e -
per quanto possibile - obiettivo sul generale carlista: <<…i briganti forestieri sono
avventurieri, i quali si vorrebbero spacciare come campioni del principio della
legittimità, ma in realtà altro non sono fuorché gente che va in busca di lucri e di
ricchezze […] alla schiera di avventurieri stranieri appartenevano il De Christen, il
Lagrange, il Langlais, lo Zimmerman, ed il più infelice di tutti lo spagnolo Borjes,
il quale troppo tardi si avvide che le decantate falangi di Francesco II erano
torme di volgari assassini…>>. Sulle cause della cattura di Borges e sui motivi
della sua subitanea esecuzione esistono almeno tre versioni, quella ufficiale
italiana, quella del vice console francese e quella spagnola. Il loro confronto,
seppure non consenta di far completamente luce su quello che viene definito da
alcuni come uno dei primi intrighi internazionali dell’Italia unita, evidenzia tuttavia
come il povero Borges sia stato vittima inconsapevole di trame politicodiplomatiche
più grandi dei suoi ideali di soldato. Il governo italiano, allo scopo di
rassicurare l’opinione pubblica nazionale ed europea, di contenere gli attacchi
delle opposizioni interne e di scoraggiare altri tentativi di rivolgimenti antiunitari, è
impegnato in una capillare azione pubblicitaria sui risultati della lotta al
brigantaggio. Ricasoli ha appena invitato il generale La Marmora ad adoperarsi
per ottenere qualche grosso "coup d’eclat": <<…l’arresto di Bories, di Langlois, di
Donatello farebbero stupendo effetto per la pubblica rassicurazione>>. La
lettera, per una tragica fatalità è datata 7 dicembre! Nella stessa giornata, infatti,
Franchini viene avvertito dell’avvistamento di Borges, se ne mette alla caccia e il
giorno appresso lo cattura e lo fucila. Il governo consente - in maniera del tutto
insolita - che venga reso pubblico il rapporto dello stesso maggiore, facendo così
propria la versione dell’ufficiale. Secondo questo rapporto, verso la mezzanotte
del 7 dicembre, Franchini viene avvertito dal sottoprefetto di Avezzano, Giovanni
Di Giura, che Borges è stato avvistato con il manipolo dei suoi uomini nei dintorni
di Tagliacozzo. Con una trentina di bersaglieri se ne pone all’inseguimento ed
alle 10 del giorno successivo, nei pressi della cascina "La lupa" avvista i
fuggiaschi. Uccisi gli uomini posti a guardia, impegna una breve sparatoria con
gli occupanti la masseria che ben presto, - sotto la minaccia di un incendio - si
arrendono. Vengono condotti a Tagliacozzo e fucilati – come scriverà il maggiore
Franchini nel suo rapporto - verso le quattro del pomeriggio: <<ad esempio dei
tristi che avversano il Governo del Re ed il risorgimento della nostra patria >>.
Sostanzialmente analoga è la versione fornita dal vice console francese a Chieti,
Léon Rotrou nel rapporto che ne fa alle autorità del suo governo, almeno nella
parte resa pubblica: rispetto alla stringata relazione del maggiore Franchini,
Rotrou aggiunge alcuni particolari ripresi poi da vari autori, come le
recriminazioni di Borges verso Langlois e Crocco, il suo atteggiamento
cavalleresco, la sua religiosità e la fierezza nell’andare incontro alla morte. Si
discosta invece dalle precedenti la versione di parte spagnola, che viene
sviluppata soprattutto nei rapporti inviati al Primo Segretario di Stato a Madrid il
14 dicembre dal console spagnolo a Napoli ed il 24 dicembre da S. Bermúdez de
Casto, ambasciatore di Spagna presso la corte borbonica a Roma: il primo
afferma di aver avuto la possibilità di consultare proprio il rapporto del vice
console francese, dal quale traspare il ruolo ambiguo avuto proprio dal Rotrou.
L’incaricato francese si trovava nella zona perché intendente del principe di
Torlonia nei lavori del Fucino. Borges, giunto nei pressi di Tagliacozzo, vi
avrebbe sostato, incontrandosi con un corriere dello stesso Rotrou in una
locanda. Con lui sarebbe rimasto almeno quattro ore, ingiungendogli di lasciare
la locanda solo mezz’ora dopo la sua partenza. Il corriere, non rispettando la
consegna, avrebbe avvertito immediatamente il Rotrou che avrebbe subito
informato il sotto-prefetto Giura e questi – a sua volta – i bersaglieri del maggiore
Franchini. Il ruolo di delatore di Rotrou, parrebbe confermato dalla natura dei
suoi rapporti economici con le autorità italiane e da un’onorificenza che gli
sarebbe stata successivamente concessa dal governo italiano. Anche la resa
sarebbe il frutto di una viltà: Borges avrebbe avuto promessa della salvezza della
vita dei suoi uomini, promessa proditoriamente non mantenuta dal Franchini.
Ancora: avrebbe chiesto di essere fucilato di fronte, ricevendone un secco rifiuto.
Ad avvalorare la veridicità di questa versione, Bermúdez allega una
testimonianza anonima di un individuo presente in quei tragici momenti. Nel
rapporto del console spagnolo a Napoli si fa un preciso riferimento ai documenti
trovati in possesso di Borges: assieme ai ritratti di Francesco II e di sua moglie
ed al suo diario, sarebbero stati rinvenuti 4.000 franchi in oro e lettere di credito
per banche napoletane. Una conferma indiretta di tanto viene data da De Sivo,
laddove accenna ad un’improvvisa disponibilità economica del maggiore
Franchini e del comandante della Guardia Nazionale, Colella, avanzando così
l’ipotesi che l’esecuzione di Borges e dei suoi compagni sarebbe stata suggerita
anche dalla necessità di impadronirsi dei loro denari. In assenza di riscontri
documentali certi, è praticamente impossibile oggi accertare quale versione, tra
quelle citate e le molte altre che se ne discostano con piccole varianti, possa
essere più rispondente alla realtà. Appare evidente come ciascuna di esse
risenta delle posizioni e degli interessi di chi la sostiene e che ciascuna contenga
degli elementi di verità, la cui estrapolazione risulta oltremodo opinabile e di
dubbia scientificità. Può essere accaduto ad esempio che a Borges sia stata
effettivamente promessa la vita in cambio di chissà quali informazioni e che
questi abbia sdegnosamente rifiutato. Per converso, può ipotizzarsi che la
frettolosità dell’esecuzione sia da ricercarsi nella necessità di tappare la bocca al
catalano, per evitare cioè che eventuali sue rivelazioni potessero nuocere a
taluno dei tanti personaggi ambigui che hanno fatto la storia di quegli anni. Può
ritenersi, anche con fondatezza, che Borges sia stato effettivamente vittima di
una delazione ma appare difficile attribuirne con esattezza la paternità.
Certamente la sua ingloriosa fine suscita commenti e reazioni della stampa
italiana ed internazionale. I giornali italiani, in maggioranza, inneggiano alla
morte del "brigante" come alla definitiva sconfitta del brigantaggio. Notevole
risalto all’episodio attribuisce anche la stampa spagnola. Quella di parte
legittimista, come "La Esperanza", dapprima non dà credito alla notizia,
ritenendola un falso della propaganda piemontese: costretta ad accettare la
realtà, si consola sostenendo che <<el alma del héroe religioso-monarquico
estarà ya entre las de los mártires de la fe y de la justicia: consuélense con que
la causa que él defendìa no està, ni con mucho, definitivamente perdida>>. La
stampa di parte avversa, quella dichiaratamente liberale, commenta l’esecuzione
con soddisfazione. I giornali moderati come "La España" esprimono ammirazione
per il coraggio, il valore e la lealtà di Borges, senza tuttavia schierarsi
apertamente dalla sua parte. Ora, dopo oltre 140 anni, un pezzo di verità viene
restituito alla storia: l’infame cippo che ricordava il massacro bollando il manipolo
di Borges come "ardita banda mercenaria" è stato sostituito da un altro che recita
giustamente "… s’infranse l’illusione del generale Jose Borges e dei suoi
compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie…".
E’ stato necessario un secolo e mezzo, amici: alla fine, però, un
"mercenario" è tornato ad essere un "generale". E gli "eroi", cominciano ad
apparire per ciò che erano veramente: assassini. Josè Borges adesso può
riposare veramente in pace, soprattutto se continueremo a difenderne la memoria .
"LA FINE DI UN EROE"
di Valentino Romano
Con la concisione del suo autore preferito - quel Cesare che aveva tanto amato
negli anni della sua formazione culturale giovanile e che aveva tentato di
emulare scrivendo una cronaca della propria ultima avventura bellica - Josè
Borges, generale catalano e guerrigliero borbonico, chiude il diario della
spedizione in soccorso di Re Francesco. Confesso che raramente, esaminando
uno scritto originale di un personaggio storico, mi sono soffermato tanto a lungo,
tante volte e sempre emozionandomi allo stesso modo. E’ la struggente
constatazione del proprio fallimento, è il maschio riconoscimento della sconfitta,
dell’impossibilità di raggiungere l’obiettivo fissato: ma è anche la consapevolezza
estrema che solo i limiti fisici e diverse ragioni a lui estranee lo hanno piegato;
non la viltà, non la codardia, non il comodo patteggiamento con il nemico.
Borges ha fallito, senza colpe e senza macchia. Con l’onore del soldato leale e
coraggioso di fronte ad un nemico più forte. La fine del suo diario precede di
poco la sua stessa: di lì a qualche giorno una scarica di fucile consegnerà
definitivamente alla storia lui e l’ignominis dei suoi esecutori.
E oggi che a 143 anni da quella fine, un gruppo di meridionali ripete, presso
i luoghi del misfatto, il rito della restituzione di quell’onore proditoriamente
scippato, sento il dovere di unirmi idealmente a loro e a tutti coloro che lo
ricordano come uno degli ultimi eroi romantici di un mondo che si
dissolveva.
E, all’attenzione di questi amici, vorrei porre alcuni elementi forse poco conosciuti
sulla fine del generale catalano. Dal suo ultimo scritto e fino alla sua cattura, non
si hanno precise notizie documentali sul percorso di Borges e del manipolo di
spagnoli e di italiani che lo segue nel tentativo di raggiungere lo stato pontificio:
non ha più tempo di scrivere; la ritirata è un’impresa disperata; se ne perdono le
tracce, s’ignora da quali luoghi sia passato, lo si ritrova quasi alla frontiera. Una
generica corrispondenza da Napoli de "Il Pungolo" potrebbe ricondurre allo
spagnolo: la notte del 29 novembre una comitiva di briganti – tra cui molti
stranieri al comando di un individuo che tutti chiamano generale – viene avvistata
nei dintorni di Ariano Irpino. Altri credono di individuare Borges il 4 dicembre
sull’altopiano di Cinque Miglia, diretto verso Pescasseroli: da qui il generale
punta su Avezzano. A due miglia dalla città devia per Cappelle e Scurgola.
Traversa quest’ultimo paese, passando – incolume – proprio davanti alla sede
della Guardia Nazionale alle dieci di sera. Su consiglio delle guide i fuggiaschi
rispondono al milite di guardia di essere castagnari diretti a Santa Maria. Si
avvicinano, credendo d’essere ormai in salvo, a Tagliacozzo: é l’ultimo
avamposto italiano; mancano appena quattro miglia al confine con lo Stato
pontificio. Borges, con gli ufficiali spagnoli è a cavallo: una decina d’italiani sono
invece appiedati e, perciò, stremati. Il generale, per non abbandonarli, decide
una breve sosta per far riposare gli uomini più stanchi e si ferma in località La
Luppa alla cascina Mastroddi. In questo gesto si evidenzia tutta la tragica
grandezza dell’eroe. E’ un comandante, uno di quelli veri, uno di quelli che
pensano prima di ogni cosa ai loro uomini, a tutti i loro uomini. Pagherà con la
vita quest’ultimo atto di generosità. Il tradimento si consuma proprio in queste
ore: <<la guida, dicendo avere una lettera per Aquila chiese licenza: indi lo
fecero andare; il tale sebbene pagato in oro, tornò a S. Maria e li denunziò al
Colella capo nazionale, che tristo montò la sua guardia, e chiamò da Tagliacozzo
il maggiore sardo Franchini. Costui già per telegrafo avea saputo la passata per
Scurcola, ma non sapea dove andare; però alla chiamata corse con
bersaglieri>>. All’alba dell’8 dicembre, il Franchini, comandante di un battaglione
di bersaglieri, con l’ausilio delle Guardie Nazionali di Sante Marie, seguendo le
tracce lasciate sulla neve fresca giunge nei pressi della cascina e ne scorge a
guardia alcuni uomini armati. Il rifugio è circondato: vengono uccisi a colpi di
baionetta gli uomini che erano di guardia all’esterno della cascina; tra gli
assedianti e gli occupanti si ingaggia uno scambio di fucilate. Giacché questi
ultimi rifiutano di arrendersi, Franchini ordina che sia appiccato il fuoco ai piani
inferiori dell’edificio. E’ la fine! Borges, circondato, è costretto ad arrendersi, non
prima però di aver ottenuto la promessa della salvezza della sua vita e di quella
dei suoi. Idealista fino alla fine, si congratula dell’altrui valore dicendo rassegnato
al nemico piemontese: <<Andavo a dire a Re Francesco II che non vi sono che
miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langlais un
bruto...>>. Da vero ufficiale - porge la sua spada al vincitore, ma questi la rifiuta,
considerandolo solo un brigante. I prigionieri sono portati a Tagliacozzo e - sul
far della sera dell’otto - frettolosamente fucilati, dopo essersi rifiutati di fornire
notizie e fare i nomi di chi li aveva aiutati. Prima dell’esecuzione della sentenza
uno dei condannati (Pedro Martínez) chiede un foglio e scrive, a nome di tutti:
<<Gesù e Maria. Noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati; Addio. Ci
ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi>>. Ricevono tutti la
confessione, si abbracciano, s’inginocchiano ed una scarica di moschetto alle
spalle interrompe l’ultima litania spagnola recitata da Borges e da tutti gli altri.
L’esecuzione, pur inserita in un più generale e sistematico quadro di ricorso alla
pena di morte per reprimere il brigantaggio, suscita reazioni e condanne anche in
Parlamento. Lo stesso Giuseppe Massari, successivamente, avvertirà il bisogno
di darle una parvenza di giustificazione: <<…né dall’abuso delle fucilazioni si può
inferire la loro assoluta inefficacia, e perché mal si corregge un eccesso
appigliandosi all’eccesso opposto, e perché l’asserzione di quell’abuso e di
quell’efficacia è insussistente. Se i briganti fossero stati immuni dalla pena di
morte il loro numero sarebbe a quest’ora non di poco accresciuto; se Borjes e
Trazégnies non fossero stati fucilati le irruzioni di bande dalla frontiera pontificia,
gli sbarchi d’avventurieri di tutte le parti del globo si sarebbero moltiplicati oltre
ogni credere. La sicurezza dello Stato meglio tutelata, le numerose vittime
risparmiate attestano che la severa punizione di pochi fù pietà a molti ed alla
patria, come crudele a molti e alla patria sarebbe stata la pietà usata a pochi >>.
Perfino La Marmora, il 15 dicembre - scrivendo a Ricasoli – afferma in una sorta
di implicito "onore delle armi": <<…deploro la sua fine tristissima, ma come mai
un galantuomo si può dimenticare a segno di collegarsi coi briganti i più scellerati
che si trovino in questi paesi? I generali borbonici che stanno a Roma fanno una
bella figura mandando gli spagnoli a farsi fucilare, mentre loro non osano
avventurarsi>>. Ed anche di fronte alla Commissione Parlamentare d’inchiesta
sul Brigantaggio dirà in seguito: <<…la sicurezza delle frontiere pontificie è
dovuta alla fucilazione di Borges e di Trazeigny…i tribunali non funzionando, la
fucilazione nei casi di fragranza con le armi alla mano è una dolorosa
necessità!>>. Con Borges vengono fucilati gli spagnoli: Francisco Forns, Pascual
Marginet, Magín Novellá, Pascual Salinas, Pedro Martínez, Cayetano Cambra,
Laureano Carenas Miguel Queralt. Gli italiani sono: Leonardo Brigo di Corleto,
Mario Gallicchio di Corleto, Rocco Luigi Volino di Trivigno, Michele Perrelli di
Barile, Francesco Pacari di Avigliano, Michele Capuano di Cosenza, Michele
Panni, molisano, Pasquale Salines di Mogliana. I corpi degli sventurati, spogliati
di tutti i loro effetti personali, vengono seppelliti in fretta in una fossa comune nei
pressi del cortile della caserma della Guardia Nazionale. Per intercessione del
principe di Scilla e del visconte di Saint Priest, il generale La Marmora consentirà
poi che la salma del generale spagnolo venga riesumata dal dottor Bernard,
medico dell’ambasciata francese presso lo stato pontificio, e trasferita a Roma
dove – nel febbraio del 1862, nella Chiesa del Gesù - vengono celebrate solenni
esequie. Finisce così tragicamente l’avventura di un valoroso convinto fino alla
fine di sacrificarsi per una nobile causa: I giudizi coevi su Borges risentono
naturalmente dell’orientamento politico degli scrittori. E’ importante invece
sottolineare come, addirittura nella relazione della Commissione d’inchiesta
parlamentare sul brigantaggio, il deputato Massari esprima un giudizio pacato e -
per quanto possibile - obiettivo sul generale carlista: <<…i briganti forestieri sono
avventurieri, i quali si vorrebbero spacciare come campioni del principio della
legittimità, ma in realtà altro non sono fuorché gente che va in busca di lucri e di
ricchezze […] alla schiera di avventurieri stranieri appartenevano il De Christen, il
Lagrange, il Langlais, lo Zimmerman, ed il più infelice di tutti lo spagnolo Borjes,
il quale troppo tardi si avvide che le decantate falangi di Francesco II erano
torme di volgari assassini…>>. Sulle cause della cattura di Borges e sui motivi
della sua subitanea esecuzione esistono almeno tre versioni, quella ufficiale
italiana, quella del vice console francese e quella spagnola. Il loro confronto,
seppure non consenta di far completamente luce su quello che viene definito da
alcuni come uno dei primi intrighi internazionali dell’Italia unita, evidenzia tuttavia
come il povero Borges sia stato vittima inconsapevole di trame politicodiplomatiche
più grandi dei suoi ideali di soldato. Il governo italiano, allo scopo di
rassicurare l’opinione pubblica nazionale ed europea, di contenere gli attacchi
delle opposizioni interne e di scoraggiare altri tentativi di rivolgimenti antiunitari, è
impegnato in una capillare azione pubblicitaria sui risultati della lotta al
brigantaggio. Ricasoli ha appena invitato il generale La Marmora ad adoperarsi
per ottenere qualche grosso "coup d’eclat": <<…l’arresto di Bories, di Langlois, di
Donatello farebbero stupendo effetto per la pubblica rassicurazione>>. La
lettera, per una tragica fatalità è datata 7 dicembre! Nella stessa giornata, infatti,
Franchini viene avvertito dell’avvistamento di Borges, se ne mette alla caccia e il
giorno appresso lo cattura e lo fucila. Il governo consente - in maniera del tutto
insolita - che venga reso pubblico il rapporto dello stesso maggiore, facendo così
propria la versione dell’ufficiale. Secondo questo rapporto, verso la mezzanotte
del 7 dicembre, Franchini viene avvertito dal sottoprefetto di Avezzano, Giovanni
Di Giura, che Borges è stato avvistato con il manipolo dei suoi uomini nei dintorni
di Tagliacozzo. Con una trentina di bersaglieri se ne pone all’inseguimento ed
alle 10 del giorno successivo, nei pressi della cascina "La lupa" avvista i
fuggiaschi. Uccisi gli uomini posti a guardia, impegna una breve sparatoria con
gli occupanti la masseria che ben presto, - sotto la minaccia di un incendio - si
arrendono. Vengono condotti a Tagliacozzo e fucilati – come scriverà il maggiore
Franchini nel suo rapporto - verso le quattro del pomeriggio: <<ad esempio dei
tristi che avversano il Governo del Re ed il risorgimento della nostra patria >>.
Sostanzialmente analoga è la versione fornita dal vice console francese a Chieti,
Léon Rotrou nel rapporto che ne fa alle autorità del suo governo, almeno nella
parte resa pubblica: rispetto alla stringata relazione del maggiore Franchini,
Rotrou aggiunge alcuni particolari ripresi poi da vari autori, come le
recriminazioni di Borges verso Langlois e Crocco, il suo atteggiamento
cavalleresco, la sua religiosità e la fierezza nell’andare incontro alla morte. Si
discosta invece dalle precedenti la versione di parte spagnola, che viene
sviluppata soprattutto nei rapporti inviati al Primo Segretario di Stato a Madrid il
14 dicembre dal console spagnolo a Napoli ed il 24 dicembre da S. Bermúdez de
Casto, ambasciatore di Spagna presso la corte borbonica a Roma: il primo
afferma di aver avuto la possibilità di consultare proprio il rapporto del vice
console francese, dal quale traspare il ruolo ambiguo avuto proprio dal Rotrou.
L’incaricato francese si trovava nella zona perché intendente del principe di
Torlonia nei lavori del Fucino. Borges, giunto nei pressi di Tagliacozzo, vi
avrebbe sostato, incontrandosi con un corriere dello stesso Rotrou in una
locanda. Con lui sarebbe rimasto almeno quattro ore, ingiungendogli di lasciare
la locanda solo mezz’ora dopo la sua partenza. Il corriere, non rispettando la
consegna, avrebbe avvertito immediatamente il Rotrou che avrebbe subito
informato il sotto-prefetto Giura e questi – a sua volta – i bersaglieri del maggiore
Franchini. Il ruolo di delatore di Rotrou, parrebbe confermato dalla natura dei
suoi rapporti economici con le autorità italiane e da un’onorificenza che gli
sarebbe stata successivamente concessa dal governo italiano. Anche la resa
sarebbe il frutto di una viltà: Borges avrebbe avuto promessa della salvezza della
vita dei suoi uomini, promessa proditoriamente non mantenuta dal Franchini.
Ancora: avrebbe chiesto di essere fucilato di fronte, ricevendone un secco rifiuto.
Ad avvalorare la veridicità di questa versione, Bermúdez allega una
testimonianza anonima di un individuo presente in quei tragici momenti. Nel
rapporto del console spagnolo a Napoli si fa un preciso riferimento ai documenti
trovati in possesso di Borges: assieme ai ritratti di Francesco II e di sua moglie
ed al suo diario, sarebbero stati rinvenuti 4.000 franchi in oro e lettere di credito
per banche napoletane. Una conferma indiretta di tanto viene data da De Sivo,
laddove accenna ad un’improvvisa disponibilità economica del maggiore
Franchini e del comandante della Guardia Nazionale, Colella, avanzando così
l’ipotesi che l’esecuzione di Borges e dei suoi compagni sarebbe stata suggerita
anche dalla necessità di impadronirsi dei loro denari. In assenza di riscontri
documentali certi, è praticamente impossibile oggi accertare quale versione, tra
quelle citate e le molte altre che se ne discostano con piccole varianti, possa
essere più rispondente alla realtà. Appare evidente come ciascuna di esse
risenta delle posizioni e degli interessi di chi la sostiene e che ciascuna contenga
degli elementi di verità, la cui estrapolazione risulta oltremodo opinabile e di
dubbia scientificità. Può essere accaduto ad esempio che a Borges sia stata
effettivamente promessa la vita in cambio di chissà quali informazioni e che
questi abbia sdegnosamente rifiutato. Per converso, può ipotizzarsi che la
frettolosità dell’esecuzione sia da ricercarsi nella necessità di tappare la bocca al
catalano, per evitare cioè che eventuali sue rivelazioni potessero nuocere a
taluno dei tanti personaggi ambigui che hanno fatto la storia di quegli anni. Può
ritenersi, anche con fondatezza, che Borges sia stato effettivamente vittima di
una delazione ma appare difficile attribuirne con esattezza la paternità.
Certamente la sua ingloriosa fine suscita commenti e reazioni della stampa
italiana ed internazionale. I giornali italiani, in maggioranza, inneggiano alla
morte del "brigante" come alla definitiva sconfitta del brigantaggio. Notevole
risalto all’episodio attribuisce anche la stampa spagnola. Quella di parte
legittimista, come "La Esperanza", dapprima non dà credito alla notizia,
ritenendola un falso della propaganda piemontese: costretta ad accettare la
realtà, si consola sostenendo che <<el alma del héroe religioso-monarquico
estarà ya entre las de los mártires de la fe y de la justicia: consuélense con que
la causa que él defendìa no està, ni con mucho, definitivamente perdida>>. La
stampa di parte avversa, quella dichiaratamente liberale, commenta l’esecuzione
con soddisfazione. I giornali moderati come "La España" esprimono ammirazione
per il coraggio, il valore e la lealtà di Borges, senza tuttavia schierarsi
apertamente dalla sua parte. Ora, dopo oltre 140 anni, un pezzo di verità viene
restituito alla storia: l’infame cippo che ricordava il massacro bollando il manipolo
di Borges come "ardita banda mercenaria" è stato sostituito da un altro che recita
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"mercenario" è tornato ad essere un "generale". E gli "eroi", cominciano ad
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........


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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
CARLO GEMMELLARO E L'ISOLA DELLA DISCORDIA:
VITA E RICERCHE DI UNO DEI PIU' GRANDI SCIENZIATI CATANESI
di Ignazio Burgio.
“Se l'uomo sente tremarsi sotto a' piedi la terra, e vede una montagna eruttar dalla cima, immezzo ad enormi colonne di fumo, masse di infocate materie, ed aprire i di lei fianchi per dar uscita ad orridi torrenti di lava brucianti e desolatrici, non può non riguardare i fenomeni de' vulcani come i più grandiosi, come i più sorprendenti della natura...”. Così si esprime Carlo Gemmellaro all'inizio della sua “Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l'isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831”. Frutto di una ricognizione scientifica ufficiale verso quella che sarebbe stata più comunemente nota come Isola Ferdinandea, essa venne letta dal medesimo scienziato nell'aula magna dell'Università di Catania il 28 agosto dello stesso anno e rappresenta il resoconto scientifico più dettagliato di quel curioso fenomeno naturale destinato a concludersi nel giro di pochi mesi con l'inabissamento della medesima isoletta.
Nato il 4 novembre 1787, nella prima parte della sua vita questo geniale “figlio dell'Etna” girò in lungo e in largo l'Europa e il Mediterraneo, prima come medico nell'esercito inglese contro Napoleone, poi in veste civile di semplice studioso di cose naturali e umane. Nonostante infatti avesse conseguito la laurea in Medicina, i suoi interessi andavano dalla geologia e vulcanologia fino alla zoologia, la botanica, la paleontologia e la climatologia. Persino l'archeologia, la filosofia, la letteratura e la numismatica rientrarono nel suo campo d'indagine. Nel 1823 pubblicò il suo primo studio avente come argomento l'Etna, “Sopra alcuni pezzi di granito e di lava antica trovati presso la cima dell'Etna". Nel 1824 fu uno dei fondatori dell'Accademia Gioenia, in onore di Giuseppe Gioeni, il pioniere degli studi di geologia e vulcanologia a Catania. Due anni dopo nel 1826 vinse un concorso a cattedra, ma le autorità borboniche sospettose delle sue amicizie con gli intellettuali, anche radicali, di tutta Europa gli impedirono d'insegnare all'Università. Ciò nonostante grazie alle pubblicazioni delle sue prime ricerche, la sua fama travalicò ben presto i confini della sua città e l'Università di Catania pensò per tempo di tenersi ben stretta una tale mente geniale nominandolo, per meriti speciali, proprio nel 1831 docente di Storia Naturale, Geologia e Mineralogia. Proprio in tale veste fu incaricato di recarsi nel mare antistante la costa di Sciacca dove dai primi giorni del mese di luglio numerosi spettatori – pescatori, navi siciliane, napoletane e inglesi – erano stati testimoni dell'improvvisa comparsa di un vulcano dalle profondità marine. Mentre infatti la dinamica delle eruzioni vulcaniche sulla terraferma era già stata ampiamente descritta da molti naturalisti, l'attività di un vulcano sottomarino era ancora totalmente sconosciuta a quei tempi in cui la vulcanologia era una scienza ancora in fasce. Dunque il neo-professore catanese si affrettò a recarsi in quelle acque infuocate “onde aver finalmente la vera storia de' fenomeni di un Vulcano, che nasce sotto le acque del mare” .
Come riferisce lo stesso Gemmellaro, tutto era iniziato poco più di un mese prima. Tra il 28 giugno e il 10 luglio la cittadina di Sciacca venne turbata da ripetute scosse sismiche e da un forte odore di idrogeno solforato proveniente dal mare, in quantità tale da annerire anche gli oggetti d'argento. Nei giorni successivi mentre era ben visibile da Sciacca una colonna di fumo levarsi dal mare a circa 30 miglia di distanza, coloro che si avventuravano nella zona di mare in questione - come Francesco Trafiletti capitano del brigantino “Gustavo”, Mario Provenzano, comandante della bombardiera “Madonna delle Grazie” il capitano Corrao di Sciacca e numerosi pescatori - potevano osservare la medesima colonna di fumo alta 15 metri levarsi dal mare in ebollizione ed una gran quantità di pesci morti o tramortiti. Intorno al 17 luglio iniziò una vera e propria eruzione di lapilli, pomici e scorie incandescenti che accumulandosi l'una sulle altre crearono un isolotto in rapida crescita. La Deputazione sanitaria di Sciacca spedì allora ufficialmente sul luogo un peschereccio comandato da Michele Fiorini, il quale – a quanto si dice – sarebbe riuscito a piantare un remo sulle falde del nuovo vulcano, come per rivendicarne la scoperta. Era questa la prima avvisaglia dello scatenarsi di un interesse, oltre che scientifico, anche politico e strategico attorno alla nuova isoletta da parte della monarchia Borbonica, degli Inglesi e successivamente anche dei Francesi.
Tra il 18 e il 24 luglio i fenomeni eruttivi furono molto intensi, contribuendo alla crescita dell'isola in volume e altezza, dopodichè cominciarono a perdere d'intensità fino a ridursi notevolmente nei primi giorni di agosto. Secondo la Gazzetta di Malta del 10 agosto, otto giorni prima, il 2, il capitano inglese Senhouse del vascello Hinde avrebbe messo per primo piede sull'isola, e dopo avervi piantato una bandiera britannica l'avrebbe battezzata Graham. Questa notizia suscitò molta perplessità nello stesso Gemmellaro, anche perchè aveva saputo che il 7 agosto un altro viaggiatore inglese avvicinatosi privatamente con una barca di pescatori nei pressi dell'isola avrebbe voluto piantarvi anch'egli la bandiera di Sua Maestà, ma ne sarebbe stato impedito dall'attività vulcanica ancora vigorosa. Da interessi esclusivamente scientifici vennero invece condotti in quelle acque il geologo tedesco Karl Hoffman ed il fisico Domenico Scinà, i primi scienziati a dare sommarie notizie sul nuovo evento naturale.
Carlo Gemmellaro giunse nei pressi dell'isola vulcanica l'alba del giorno 11 agosto insieme al fratello Antonino e allo studioso domenicano Padre Gallo. I tre poterono rendersi conto che l'isola era poco più di una collinetta quasi circolare corrispondente al cono vulcanico emerso, più alto dalla parte di levante (63 metri all'incirca) e meno dal versante meridionale (8,5 m.). Verso settentrione tuttavia il cono risultava aperto fino alla superficie del mare, tanto da permettere alle onde di penetrare regolarmente dentro il cratere. A causa dei materiali di cui era composta – scorie e ceneri nere di natura vetrosa, stratificate – Carlo Gemmellaro si rese subito conto che l'isola era piuttosto friabile e soggetta all'erosione del mare che “...rodendo la base del nuovo cono, produce ne' fianchi di esso delle frane che ne scoprono la struttura; ed il caduto materiale unito a quello, che le forti esplosioni rigettano sul mare, vien trasportato dalle onde fin sulla spiaggia di Sicilia, come io stesso ho potuto osservare lungo il litorale, da Sciacca sino a Terranova (oggi Gela )...” (Relazione..., op. cit. p. 24). Lo scienziato catanese ne descrisse inoltre, in dettagliato stile scientifico, le spettacolari eruzioni – miste di vapore e di materiale eruttivo - della durata ognuna di mezz'ora/tre quarti d'ora, intervallate da due o tre minuti di pausa fra l'una e l'altra.
L'imbarcazione con a bordo i tre studiosi rimase in quelle acque per quattro giorni, poi riprese la via del ritorno. Nella relazione che scrisse, e che avrebbe letto alla fine di quel mese nell'Ateneo catanese, Carlo Gemmellaro giunse a due fondamentali conclusioni: che non vi era sostanziale differenza tra eruzioni sottomarine e terrestri (arrivando ad essere il primo a fare questa affermazione); e che se l'attività eruttiva del nuovo vulcano si fosse esaurita di lì a poco tempo, come tutto lasciava presagire, l'isola non sarebbe stata sufficientemente consolidata nella sua struttura e avrebbe subìto l'erosione del mare fino alla totale scomparsa. Di lì a qualche giorno dopo la sua ripartenza infatti, tra il 19 ed il 20 agosto il vulcano cessò di eruttare, e l'acqua del mare potendo finalmente ristagnare sul fondo del cratere formò due laghetti: il primo della circonferenza di 20 metri di colore rossastro; l'altro, più piccolo di colore giallo-sulfureo.
Ma l'acquietamento del vulcano provocò anche il riaccendersi delle dispute internazionali attorno ad esso. Il medesimo 20 agosto alcuni ufficiali della nave britannica Ganges misero piede sull'isola e issarono la bandiera di Sua Maestà sulla cima del cratere. Ciò provocò il risentimento di re Ferdinando II di che per parte sua aveva già incluso quella collinetta di ceneri fra i suoi domini, battezzandola, su suggerimento dello stesso Gemmellaro, Isola Ferdinandea (a differenza della Royal Society e della Geological Society di Londra che avevano già adottato il nome di Graham). Poco più di un mese dopo, il 29 settembre, anche i Francesi nel corso di una spedizione scientifica diretta dal Prof. Prèvost issarono la loro bandiera sulla parte più alta dell'isola, battezzandola Giulia. Ma il medesimo Prof. Prèvost si accorse che le dimensioni di questa si erano già parecchio ridotte a causa dell'azione delle onde. Appena un mese dopo, verso la fine di ottobre, l'isola si era talmente rimpicciolita che emergeva appena di un metro al di sopra della superficie del mare, e l'8 dicembre Vincenzo Allotta, comandante del brigantino Achille, al suo posto trovò soltanto una piccola colonna di acqua calda emanante odore di bitume. Qualche giorno dopo, il 17 dicembre, due ufficiali dell'Ufficio Topografico di Napoli, constatarono ufficialmente che tutta l'isola era stata ricoperta dal mare.
Quanto a Carlo Gemmellaro in quel periodo era solo all'inizio della sua sfolgorante carriera. L'anno seguente nel 1832 dotò l'Università di Catania di un Osservatorio Meteorologico, fornendolo anche di un pluviometro di sua invenzione, e fondò nel medesimo Ateneo un Istituto di Storia Naturale. Nel 1834 presentò a Strasburgo una carta geologica della Sicilia che suscitò unanime interesse nel mondo scientifico, mentre al Congresso dei Fisici a Stoccarda corresse le teorie sull'antica formazione della “Valle del Bove” sull'Etna, da lui correttamente attribuita allo sprofondamento di un altro arcaico cono vulcanico. S'interessò anche di questioni agronomiche chiarendo i motivi della naturale fertilità della Piana di Catania, e pubblicando anche un progetto di rilancio dell'agricoltura siciliana. Insistette sulla necessità di costruire un porto a Catania (a quei tempi ancora inesistente) indispensabile per lo sviluppo economico della città, e contribuì inoltre anche alla fondazione dell' Osservatorio Astronomico e dell'Orto Botanico sempre a Catania.
Ma nonostante tutti i suoi impegni di studio e la produzione di saggi scientifici trovava anche il tempo di dedicarsi alla letteratura e alla poesia. Nei momenti liberi era sua piacevole occupazione tradurre dal latino i versi di Orazio, e nel 1844 scrisse “Il Martirio di S. Agata”, dramma in versi dedicato alla patrona della sua città.
Gran parte delle sue energie vennero naturalmente dedicate allo studio dell'Etna, il vulcano da cui fin da bambino era stato affascinato, e che, come già detto, aveva iniziato a studiare anche prima di divenire cattedratico. Le sue ricerche sul vulcano più grande d'Europa vennero riassunte nella monografia “Vulcanologia dell'Etna 1859-1860”.
Particolarmente delicato fu il suo rapporto con le autorità borboniche, improntato alla prudenza, come da suo carattere di tranquillo studioso e non di animoso rivoluzionario, ma anche da una obiettiva consapevolezza che i mali della Sicilia derivavano dal malgoverno di Napoli. Nella raccolta di scritti che compongono “Gli avvenimenti notabili successi in Catania nel 1837” egli ricorda tra l'altro “...quei martoriati decenni nei quali la cecità politica, la cupidigia dei governanti, l'intolleranza del Governo di Napoli stremarono la sopportazione del popolo”. Proprio a causa di queste sue critiche cadde ancora più in sospetto presso la polizia borbonica che gli impedì di partecipare nel 1839 al famoso congresso degli scienziati italiani a Pisa. Forse fu anche per il risentimento provocato da questo fatto che una decina di anni più tardi in occasione della rivoluzione del '48, aprì le porte dell'Università, di cui era diventato rettore l'anno prima, al Comitato rivoluzionario che vi si insediò. E quando infine i garibaldini giunsero a Catania nel 1860, Carlo Gemmellaro fu naturalmente tra coloro che compresero e approvarono la svolta risorgimentale.
Negli ultimi anni della sua vita fu tormentato da una grave malattia che lo costrinse a restare segregato fra le sue mura domestiche. Non per questo tuttavia cessò di studiare e di scrivere. L'ultima sua opera, “Addio al maggior vulcano d'Europa” oltre che una sintetica autobiografia, è anche un commosso saluto al principale oggetto dei suoi studi scientifici, prima di spegnersi il 21 ottobre del 1866.
VITA E RICERCHE DI UNO DEI PIU' GRANDI SCIENZIATI CATANESI
di Ignazio Burgio.
“Se l'uomo sente tremarsi sotto a' piedi la terra, e vede una montagna eruttar dalla cima, immezzo ad enormi colonne di fumo, masse di infocate materie, ed aprire i di lei fianchi per dar uscita ad orridi torrenti di lava brucianti e desolatrici, non può non riguardare i fenomeni de' vulcani come i più grandiosi, come i più sorprendenti della natura...”. Così si esprime Carlo Gemmellaro all'inizio della sua “Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l'isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831”. Frutto di una ricognizione scientifica ufficiale verso quella che sarebbe stata più comunemente nota come Isola Ferdinandea, essa venne letta dal medesimo scienziato nell'aula magna dell'Università di Catania il 28 agosto dello stesso anno e rappresenta il resoconto scientifico più dettagliato di quel curioso fenomeno naturale destinato a concludersi nel giro di pochi mesi con l'inabissamento della medesima isoletta.
Nato il 4 novembre 1787, nella prima parte della sua vita questo geniale “figlio dell'Etna” girò in lungo e in largo l'Europa e il Mediterraneo, prima come medico nell'esercito inglese contro Napoleone, poi in veste civile di semplice studioso di cose naturali e umane. Nonostante infatti avesse conseguito la laurea in Medicina, i suoi interessi andavano dalla geologia e vulcanologia fino alla zoologia, la botanica, la paleontologia e la climatologia. Persino l'archeologia, la filosofia, la letteratura e la numismatica rientrarono nel suo campo d'indagine. Nel 1823 pubblicò il suo primo studio avente come argomento l'Etna, “Sopra alcuni pezzi di granito e di lava antica trovati presso la cima dell'Etna". Nel 1824 fu uno dei fondatori dell'Accademia Gioenia, in onore di Giuseppe Gioeni, il pioniere degli studi di geologia e vulcanologia a Catania. Due anni dopo nel 1826 vinse un concorso a cattedra, ma le autorità borboniche sospettose delle sue amicizie con gli intellettuali, anche radicali, di tutta Europa gli impedirono d'insegnare all'Università. Ciò nonostante grazie alle pubblicazioni delle sue prime ricerche, la sua fama travalicò ben presto i confini della sua città e l'Università di Catania pensò per tempo di tenersi ben stretta una tale mente geniale nominandolo, per meriti speciali, proprio nel 1831 docente di Storia Naturale, Geologia e Mineralogia. Proprio in tale veste fu incaricato di recarsi nel mare antistante la costa di Sciacca dove dai primi giorni del mese di luglio numerosi spettatori – pescatori, navi siciliane, napoletane e inglesi – erano stati testimoni dell'improvvisa comparsa di un vulcano dalle profondità marine. Mentre infatti la dinamica delle eruzioni vulcaniche sulla terraferma era già stata ampiamente descritta da molti naturalisti, l'attività di un vulcano sottomarino era ancora totalmente sconosciuta a quei tempi in cui la vulcanologia era una scienza ancora in fasce. Dunque il neo-professore catanese si affrettò a recarsi in quelle acque infuocate “onde aver finalmente la vera storia de' fenomeni di un Vulcano, che nasce sotto le acque del mare” .
Come riferisce lo stesso Gemmellaro, tutto era iniziato poco più di un mese prima. Tra il 28 giugno e il 10 luglio la cittadina di Sciacca venne turbata da ripetute scosse sismiche e da un forte odore di idrogeno solforato proveniente dal mare, in quantità tale da annerire anche gli oggetti d'argento. Nei giorni successivi mentre era ben visibile da Sciacca una colonna di fumo levarsi dal mare a circa 30 miglia di distanza, coloro che si avventuravano nella zona di mare in questione - come Francesco Trafiletti capitano del brigantino “Gustavo”, Mario Provenzano, comandante della bombardiera “Madonna delle Grazie” il capitano Corrao di Sciacca e numerosi pescatori - potevano osservare la medesima colonna di fumo alta 15 metri levarsi dal mare in ebollizione ed una gran quantità di pesci morti o tramortiti. Intorno al 17 luglio iniziò una vera e propria eruzione di lapilli, pomici e scorie incandescenti che accumulandosi l'una sulle altre crearono un isolotto in rapida crescita. La Deputazione sanitaria di Sciacca spedì allora ufficialmente sul luogo un peschereccio comandato da Michele Fiorini, il quale – a quanto si dice – sarebbe riuscito a piantare un remo sulle falde del nuovo vulcano, come per rivendicarne la scoperta. Era questa la prima avvisaglia dello scatenarsi di un interesse, oltre che scientifico, anche politico e strategico attorno alla nuova isoletta da parte della monarchia Borbonica, degli Inglesi e successivamente anche dei Francesi.
Tra il 18 e il 24 luglio i fenomeni eruttivi furono molto intensi, contribuendo alla crescita dell'isola in volume e altezza, dopodichè cominciarono a perdere d'intensità fino a ridursi notevolmente nei primi giorni di agosto. Secondo la Gazzetta di Malta del 10 agosto, otto giorni prima, il 2, il capitano inglese Senhouse del vascello Hinde avrebbe messo per primo piede sull'isola, e dopo avervi piantato una bandiera britannica l'avrebbe battezzata Graham. Questa notizia suscitò molta perplessità nello stesso Gemmellaro, anche perchè aveva saputo che il 7 agosto un altro viaggiatore inglese avvicinatosi privatamente con una barca di pescatori nei pressi dell'isola avrebbe voluto piantarvi anch'egli la bandiera di Sua Maestà, ma ne sarebbe stato impedito dall'attività vulcanica ancora vigorosa. Da interessi esclusivamente scientifici vennero invece condotti in quelle acque il geologo tedesco Karl Hoffman ed il fisico Domenico Scinà, i primi scienziati a dare sommarie notizie sul nuovo evento naturale.
Carlo Gemmellaro giunse nei pressi dell'isola vulcanica l'alba del giorno 11 agosto insieme al fratello Antonino e allo studioso domenicano Padre Gallo. I tre poterono rendersi conto che l'isola era poco più di una collinetta quasi circolare corrispondente al cono vulcanico emerso, più alto dalla parte di levante (63 metri all'incirca) e meno dal versante meridionale (8,5 m.). Verso settentrione tuttavia il cono risultava aperto fino alla superficie del mare, tanto da permettere alle onde di penetrare regolarmente dentro il cratere. A causa dei materiali di cui era composta – scorie e ceneri nere di natura vetrosa, stratificate – Carlo Gemmellaro si rese subito conto che l'isola era piuttosto friabile e soggetta all'erosione del mare che “...rodendo la base del nuovo cono, produce ne' fianchi di esso delle frane che ne scoprono la struttura; ed il caduto materiale unito a quello, che le forti esplosioni rigettano sul mare, vien trasportato dalle onde fin sulla spiaggia di Sicilia, come io stesso ho potuto osservare lungo il litorale, da Sciacca sino a Terranova (oggi Gela )...” (Relazione..., op. cit. p. 24). Lo scienziato catanese ne descrisse inoltre, in dettagliato stile scientifico, le spettacolari eruzioni – miste di vapore e di materiale eruttivo - della durata ognuna di mezz'ora/tre quarti d'ora, intervallate da due o tre minuti di pausa fra l'una e l'altra.
L'imbarcazione con a bordo i tre studiosi rimase in quelle acque per quattro giorni, poi riprese la via del ritorno. Nella relazione che scrisse, e che avrebbe letto alla fine di quel mese nell'Ateneo catanese, Carlo Gemmellaro giunse a due fondamentali conclusioni: che non vi era sostanziale differenza tra eruzioni sottomarine e terrestri (arrivando ad essere il primo a fare questa affermazione); e che se l'attività eruttiva del nuovo vulcano si fosse esaurita di lì a poco tempo, come tutto lasciava presagire, l'isola non sarebbe stata sufficientemente consolidata nella sua struttura e avrebbe subìto l'erosione del mare fino alla totale scomparsa. Di lì a qualche giorno dopo la sua ripartenza infatti, tra il 19 ed il 20 agosto il vulcano cessò di eruttare, e l'acqua del mare potendo finalmente ristagnare sul fondo del cratere formò due laghetti: il primo della circonferenza di 20 metri di colore rossastro; l'altro, più piccolo di colore giallo-sulfureo.
Ma l'acquietamento del vulcano provocò anche il riaccendersi delle dispute internazionali attorno ad esso. Il medesimo 20 agosto alcuni ufficiali della nave britannica Ganges misero piede sull'isola e issarono la bandiera di Sua Maestà sulla cima del cratere. Ciò provocò il risentimento di re Ferdinando II di che per parte sua aveva già incluso quella collinetta di ceneri fra i suoi domini, battezzandola, su suggerimento dello stesso Gemmellaro, Isola Ferdinandea (a differenza della Royal Society e della Geological Society di Londra che avevano già adottato il nome di Graham). Poco più di un mese dopo, il 29 settembre, anche i Francesi nel corso di una spedizione scientifica diretta dal Prof. Prèvost issarono la loro bandiera sulla parte più alta dell'isola, battezzandola Giulia. Ma il medesimo Prof. Prèvost si accorse che le dimensioni di questa si erano già parecchio ridotte a causa dell'azione delle onde. Appena un mese dopo, verso la fine di ottobre, l'isola si era talmente rimpicciolita che emergeva appena di un metro al di sopra della superficie del mare, e l'8 dicembre Vincenzo Allotta, comandante del brigantino Achille, al suo posto trovò soltanto una piccola colonna di acqua calda emanante odore di bitume. Qualche giorno dopo, il 17 dicembre, due ufficiali dell'Ufficio Topografico di Napoli, constatarono ufficialmente che tutta l'isola era stata ricoperta dal mare.
Quanto a Carlo Gemmellaro in quel periodo era solo all'inizio della sua sfolgorante carriera. L'anno seguente nel 1832 dotò l'Università di Catania di un Osservatorio Meteorologico, fornendolo anche di un pluviometro di sua invenzione, e fondò nel medesimo Ateneo un Istituto di Storia Naturale. Nel 1834 presentò a Strasburgo una carta geologica della Sicilia che suscitò unanime interesse nel mondo scientifico, mentre al Congresso dei Fisici a Stoccarda corresse le teorie sull'antica formazione della “Valle del Bove” sull'Etna, da lui correttamente attribuita allo sprofondamento di un altro arcaico cono vulcanico. S'interessò anche di questioni agronomiche chiarendo i motivi della naturale fertilità della Piana di Catania, e pubblicando anche un progetto di rilancio dell'agricoltura siciliana. Insistette sulla necessità di costruire un porto a Catania (a quei tempi ancora inesistente) indispensabile per lo sviluppo economico della città, e contribuì inoltre anche alla fondazione dell' Osservatorio Astronomico e dell'Orto Botanico sempre a Catania.
Ma nonostante tutti i suoi impegni di studio e la produzione di saggi scientifici trovava anche il tempo di dedicarsi alla letteratura e alla poesia. Nei momenti liberi era sua piacevole occupazione tradurre dal latino i versi di Orazio, e nel 1844 scrisse “Il Martirio di S. Agata”, dramma in versi dedicato alla patrona della sua città.
Gran parte delle sue energie vennero naturalmente dedicate allo studio dell'Etna, il vulcano da cui fin da bambino era stato affascinato, e che, come già detto, aveva iniziato a studiare anche prima di divenire cattedratico. Le sue ricerche sul vulcano più grande d'Europa vennero riassunte nella monografia “Vulcanologia dell'Etna 1859-1860”.
Particolarmente delicato fu il suo rapporto con le autorità borboniche, improntato alla prudenza, come da suo carattere di tranquillo studioso e non di animoso rivoluzionario, ma anche da una obiettiva consapevolezza che i mali della Sicilia derivavano dal malgoverno di Napoli. Nella raccolta di scritti che compongono “Gli avvenimenti notabili successi in Catania nel 1837” egli ricorda tra l'altro “...quei martoriati decenni nei quali la cecità politica, la cupidigia dei governanti, l'intolleranza del Governo di Napoli stremarono la sopportazione del popolo”. Proprio a causa di queste sue critiche cadde ancora più in sospetto presso la polizia borbonica che gli impedì di partecipare nel 1839 al famoso congresso degli scienziati italiani a Pisa. Forse fu anche per il risentimento provocato da questo fatto che una decina di anni più tardi in occasione della rivoluzione del '48, aprì le porte dell'Università, di cui era diventato rettore l'anno prima, al Comitato rivoluzionario che vi si insediò. E quando infine i garibaldini giunsero a Catania nel 1860, Carlo Gemmellaro fu naturalmente tra coloro che compresero e approvarono la svolta risorgimentale.
Negli ultimi anni della sua vita fu tormentato da una grave malattia che lo costrinse a restare segregato fra le sue mura domestiche. Non per questo tuttavia cessò di studiare e di scrivere. L'ultima sua opera, “Addio al maggior vulcano d'Europa” oltre che una sintetica autobiografia, è anche un commosso saluto al principale oggetto dei suoi studi scientifici, prima di spegnersi il 21 ottobre del 1866.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Alexandre Dumas, un amante dell'Italia
Dopo le esperienze di Mois (Mese) (1848), subito soprannominato il Moi (Me) dai suoi detrattori, del Moschettiere (1853-1857), del d'Artagnan e del Monte-Cristo (1857-1860) «giornale ebdomadario di romanzi, di Storia, di viaggi e di poesia, di Alessandro Dumas, da solo», comincia nel 1860 una duplice avventura napoletana: quella de L'Indipendente e dell'unità italiana. Avventura sotto il segno di due incontri: quello di Dumas e Garibaldi che inizia a Torino, e il ritrovarsi di Dumas con Napoli. Dumas vagheggia infine l'occasione di indossare gli abiti che preferisce, quelli dell'eroe, magari una delle mille camicie rosse, e quindi di vivere nel fuoco dell'azione tutto quel che è stata sempre materia dei suoi scritti. La rivoluzione del 1830, in cui s'era gettato con la foga della giovinezza, lo ha segnato: il suo entusiasmo e la sua fiamma risuscitano dopo trenta anni, con una passione che nulla ha intaccato. Dumas, nel maggio 1860, parte per un viaggio nel Mediterraneo sul battello Emma, inseguendo un vecchio sogno già abortito nel 1835 per mancanza di fondi.
Da Agrigento, all'inizio di luglio, scrive a suo figlio comunicandogli che pensa di essere ad Atene dopo un mese, ma invece si addentra in Sicilia e vede la popolazione senza armi. «Una vostra parola, fermo posta a Catania, e io rinuncio al mio viaggio in Oriente per seguirvi fino alla fine e non fermarmi se non quando vi fermerete voi», scrive a Garibaldi, proponendogli di partire con lui. È preso in parola, l'Oriente attenderà. Il periplo si conclude a Milazzo da dove egli manda ai suoi lettori francesi un reportage sul combattimento che vede 5500 garibaldini riportare una vittoria decisiva sulle truppe borboniche napoletane: Dumas ha scelto di «assistere al trionfo di un principio che è stato il culto della sua vita: quello della libertà».
È in quel momento che nasce il progetto de L'Indipendente.
Il 29 luglio Dumas lascia Palermo sul battello di linea Posillipo, per raggiungere Marsiglia (dove acquisterà fucili e carabine) dopo un breve scalo napoletano, che così racconta:
«Non ero tornato a Napoli da 25 anni, non avendo alcun motivo di venire a reclamare per i quattro anni di galera ai quali il governo pontificio e napoletano avevano deciso di condannarmi...
Non appena il battello Posillipo ha gettato l'àncora nel porto, un gruppo di popolani invade il ponte e uno fra loro, riconoscendomi, probabilmente per il mio aspetto, come un patriota, mi grida:
"Dov'è Garibaldi?, quando sarà qui? Noi lo attendiamo".
Comprenderete che, conoscendo bene la mia Napoli, dissi a me stesso: «ecco un agente provocatore al quale è perfettamente inutile rispondere», per cui dico un non capisco con il miglior accento...
"Ma non siete voi Monsieur Alexandre Dumas?" mi dice quell'uomo».
Sono trascorsi venticinque anni dal suo ultimo soggiorno a Napoli, città che aveva esplorato, per tre settimane in due riprese, sotto falso nome, munito di un passaporto che gli aveva procurato il pittore Jean-Auguste-Dominique Ingres all'epoca direttore dell'Accademia di Roma. Fiero di esserci da cospiratore, aveva soprattutto raccolto impressioni di viaggio. Vi tornava come trafficante di armi e in piena gloria.
Il 9 agosto riparte da Marsiglia per mettersi sulle tracce dei garibaldini in Sicilia. Si ferma nel golfo di Napoli e attende l'eroe liberatore. Diventa fautore di disordini, mettendo in agitazione i giornali e fabbricando camicie rosse sulla sua goletta ormeggiata sotto le finestre del Palazzo Reale: «Alla vigilia avevo inviato cento di quelle camicie a Salerno, facendone indossare venticinque, l'una sull'altra, a quattro uomini. Il più smilzo era diventato enorme gli altri non avevano più forma umana; per fortuna avvenne di notte».
Suscita tanta agitazione in città da ricevere il 2 settembre l'intimazione di lasciare il porto. Riparte verso la Sicilia ma una tempesta lo respinge nel golfo; il 12 sbarca a Napoli e l'indomani vi incontra Garibaldi che vi aveva fatto un ingresso trionfale (il 7 settembre) acclamato in Palazzo d'Angri in via Toledo.
«La questione più importante al momento è il combattimento, la guerra. Felici coloro che impugnano la sciabola e il fucile! Da compiangere chi ha soltanto una penna. Noi apparteniamo disgraziatamente a questa categoria ma promettiamo di fare tutto quel che è possibile fare con una penna». (L'Indipendente, 11 ottobre 1860).
Nell'allegato Dumas osserva Garibaldi che si riposa
Dopo le esperienze di Mois (Mese) (1848), subito soprannominato il Moi (Me) dai suoi detrattori, del Moschettiere (1853-1857), del d'Artagnan e del Monte-Cristo (1857-1860) «giornale ebdomadario di romanzi, di Storia, di viaggi e di poesia, di Alessandro Dumas, da solo», comincia nel 1860 una duplice avventura napoletana: quella de L'Indipendente e dell'unità italiana. Avventura sotto il segno di due incontri: quello di Dumas e Garibaldi che inizia a Torino, e il ritrovarsi di Dumas con Napoli. Dumas vagheggia infine l'occasione di indossare gli abiti che preferisce, quelli dell'eroe, magari una delle mille camicie rosse, e quindi di vivere nel fuoco dell'azione tutto quel che è stata sempre materia dei suoi scritti. La rivoluzione del 1830, in cui s'era gettato con la foga della giovinezza, lo ha segnato: il suo entusiasmo e la sua fiamma risuscitano dopo trenta anni, con una passione che nulla ha intaccato. Dumas, nel maggio 1860, parte per un viaggio nel Mediterraneo sul battello Emma, inseguendo un vecchio sogno già abortito nel 1835 per mancanza di fondi.
Da Agrigento, all'inizio di luglio, scrive a suo figlio comunicandogli che pensa di essere ad Atene dopo un mese, ma invece si addentra in Sicilia e vede la popolazione senza armi. «Una vostra parola, fermo posta a Catania, e io rinuncio al mio viaggio in Oriente per seguirvi fino alla fine e non fermarmi se non quando vi fermerete voi», scrive a Garibaldi, proponendogli di partire con lui. È preso in parola, l'Oriente attenderà. Il periplo si conclude a Milazzo da dove egli manda ai suoi lettori francesi un reportage sul combattimento che vede 5500 garibaldini riportare una vittoria decisiva sulle truppe borboniche napoletane: Dumas ha scelto di «assistere al trionfo di un principio che è stato il culto della sua vita: quello della libertà».
È in quel momento che nasce il progetto de L'Indipendente.
Il 29 luglio Dumas lascia Palermo sul battello di linea Posillipo, per raggiungere Marsiglia (dove acquisterà fucili e carabine) dopo un breve scalo napoletano, che così racconta:
«Non ero tornato a Napoli da 25 anni, non avendo alcun motivo di venire a reclamare per i quattro anni di galera ai quali il governo pontificio e napoletano avevano deciso di condannarmi...
Non appena il battello Posillipo ha gettato l'àncora nel porto, un gruppo di popolani invade il ponte e uno fra loro, riconoscendomi, probabilmente per il mio aspetto, come un patriota, mi grida:
"Dov'è Garibaldi?, quando sarà qui? Noi lo attendiamo".
Comprenderete che, conoscendo bene la mia Napoli, dissi a me stesso: «ecco un agente provocatore al quale è perfettamente inutile rispondere», per cui dico un non capisco con il miglior accento...
"Ma non siete voi Monsieur Alexandre Dumas?" mi dice quell'uomo».
Sono trascorsi venticinque anni dal suo ultimo soggiorno a Napoli, città che aveva esplorato, per tre settimane in due riprese, sotto falso nome, munito di un passaporto che gli aveva procurato il pittore Jean-Auguste-Dominique Ingres all'epoca direttore dell'Accademia di Roma. Fiero di esserci da cospiratore, aveva soprattutto raccolto impressioni di viaggio. Vi tornava come trafficante di armi e in piena gloria.
Il 9 agosto riparte da Marsiglia per mettersi sulle tracce dei garibaldini in Sicilia. Si ferma nel golfo di Napoli e attende l'eroe liberatore. Diventa fautore di disordini, mettendo in agitazione i giornali e fabbricando camicie rosse sulla sua goletta ormeggiata sotto le finestre del Palazzo Reale: «Alla vigilia avevo inviato cento di quelle camicie a Salerno, facendone indossare venticinque, l'una sull'altra, a quattro uomini. Il più smilzo era diventato enorme gli altri non avevano più forma umana; per fortuna avvenne di notte».
Suscita tanta agitazione in città da ricevere il 2 settembre l'intimazione di lasciare il porto. Riparte verso la Sicilia ma una tempesta lo respinge nel golfo; il 12 sbarca a Napoli e l'indomani vi incontra Garibaldi che vi aveva fatto un ingresso trionfale (il 7 settembre) acclamato in Palazzo d'Angri in via Toledo.
«La questione più importante al momento è il combattimento, la guerra. Felici coloro che impugnano la sciabola e il fucile! Da compiangere chi ha soltanto una penna. Noi apparteniamo disgraziatamente a questa categoria ma promettiamo di fare tutto quel che è possibile fare con una penna». (L'Indipendente, 11 ottobre 1860).
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

STORIA DELLA PASTIERA IN RIMA
A Napule regnava Ferdinando
Ca passava e' jurnate zompettiando;
Mentr' invece a' mugliera, 'Onna Teresa,
Steva sempe arraggiata. A' faccia appesa
O' musso luongo, nun redeva maje,
Comm'avess passate tanta guaje.
Nù bellu juorno Amelia, a' cammeriera
Le dicette: "Maestà, chest'è a' Pastiera.
Piace e' femmene, all'uommene e e'creature:
Uova, ricotta, grano, e acqua re ciure,
'Mpastata insieme o' zucchero e a' farina
A può purtà nnanz o'Rre: e pur' a Rigina".
Maria Teresa facett a' faccia brutta:
Mastecanno, riceva: "E' o'Paraviso!"
E le scappava pure o' pizz'a riso.
Allora o' Rre dicette: "E che marina!
Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?
Moglie mia, vien'accà, damme n'abbraccio!
Chistu dolce te piace? E mò c'o saccio
Ordino al cuoco che, a partir d'adesso,
Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere adda passà n'at' anno!"
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Re: Da Napoli a Sofia..........



pasfil
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
La pasta
Nel Settecento ormai i maccheroni erano diventati un vero e proprio piatto nazionale. Nella stessa
cucina reale borbonica quasi quotidianamente si consumavano ravioli, vermicelli, tagliolini al
burro, lasagne, maccheroni con le salsicce o con i classici pomodori tanto da rendere necessaria
l’installazione di una “maccaroneria” di proprietà reale con macchine per la produzione meccanica
fin dal 1776. L’ultimo Re di , del resto, Francesco II di Borbone, veniva chiamato
affettuosamente “lasa” dal padre Ferdinando II.
Nella prima metà dell'Ottocento si avvertì l'esigenza di un
nuovo cambiamento per migliorare la quantità e la qualità
della produzione e a questa esigenza venne incontro la
politica economica che i Borbone seguivano in quegli anni
proteggendo e stimolando le industrie locali.
Sempre in quegli anni fu favorita così la pubblicazione di una
sorta di manuale per l'organizzazione di un "novello e grande
stabilimento di paste alimentari per togliere l'uso
abominevole di impastare coi piedi" sostituendolo con
"l'uomo di bronzo", una nuova impastatrice con lamine di
bronzo inventata a Napoli e alcune fabbriche hanno
conservato un sistema simile di produzione che rende la
pasta meno liscia e quindi più adatta a trattenere il
condimento .
Nello stesso testo si davano indicazioni sulle macchine
ritenute indispensabili ad un pastificio moderno, sulle
attrezzature e sulle norme necessarie per garantire l'igiene,
la produttività e una proficua commercializzazione .
Comunque, nonostante l'alto numero di fabbriche piccole e
tradizionali, i pastifici della provincia di Napoli raggiunsero
degli ottimi risultati commerciali in Italia e all'estero per la
notevole presenza di mulini adibiti alla produzione per il
mercato, per la tendenza a realizzare impianti a ciclo
completo (dal grano alla pasta) e grazie all'investimento di
buoni capitali .
Nel 1856 proprio la produzione delle paste napoletane fu premiata all'Esposizione Universale di
Parigi anche se con una rocambolesca partecipazione: il legato a Parigi, Luigi Cito, infatti, raccontò
di aver consegnato alla commissione una "cassetta con collezioni di paste" che aveva portato "ad
uso suo", pensando, come realmente avvenne, che avrebbero "ben figurato in mezzo alle paste
d'Italia e di Francia" .
Negli stessi anni la produzione si era diffusa in tutto il Regno: a Napoli e a Gragnano, dove c'erano
81 macchine per manifatture di maccheroni e 28 macchine per molire i cereali 7, a Torre
Annunziata, a Ischia, con una fabbrica per "paste lavorate" che dava lavoro a 20 persone , a
Rapolla, presso Melfi, con 40 operai ; dalle Puglie alle Calabrie, soprattutto nelle zone di Bari,
Molfetta, Barletta, Crotone, Cosenza e Catanzaro .
Circa un centinaio, complessivamente, gli stabilimenti e in molti si erano diffusi ormai gli impianti
azionati a vapore .
I famosi maccheroni venivano esportati praticamente in tutto il mondo, a New York come a Rio de
Janeiro, a Odessa, Algeri, Atene, Algeri, Malta, Pietroburgo o Amburgo e ancora oggi sono il
prodotto italiano più conosciuto in ogni angolo del pianeta, anche se ormai i rari stabilimenti di
Torre Annunziata, di Gragnano o della provincia di Napoli hanno perso tutti i loro primati.
Nel Settecento ormai i maccheroni erano diventati un vero e proprio piatto nazionale. Nella stessa
cucina reale borbonica quasi quotidianamente si consumavano ravioli, vermicelli, tagliolini al
burro, lasagne, maccheroni con le salsicce o con i classici pomodori tanto da rendere necessaria
l’installazione di una “maccaroneria” di proprietà reale con macchine per la produzione meccanica
fin dal 1776. L’ultimo Re di , del resto, Francesco II di Borbone, veniva chiamato
affettuosamente “lasa” dal padre Ferdinando II.
Nella prima metà dell'Ottocento si avvertì l'esigenza di un
nuovo cambiamento per migliorare la quantità e la qualità
della produzione e a questa esigenza venne incontro la
politica economica che i Borbone seguivano in quegli anni
proteggendo e stimolando le industrie locali.
Sempre in quegli anni fu favorita così la pubblicazione di una
sorta di manuale per l'organizzazione di un "novello e grande
stabilimento di paste alimentari per togliere l'uso
abominevole di impastare coi piedi" sostituendolo con
"l'uomo di bronzo", una nuova impastatrice con lamine di
bronzo inventata a Napoli e alcune fabbriche hanno
conservato un sistema simile di produzione che rende la
pasta meno liscia e quindi più adatta a trattenere il
condimento .
Nello stesso testo si davano indicazioni sulle macchine
ritenute indispensabili ad un pastificio moderno, sulle
attrezzature e sulle norme necessarie per garantire l'igiene,
la produttività e una proficua commercializzazione .
Comunque, nonostante l'alto numero di fabbriche piccole e
tradizionali, i pastifici della provincia di Napoli raggiunsero
degli ottimi risultati commerciali in Italia e all'estero per la
notevole presenza di mulini adibiti alla produzione per il
mercato, per la tendenza a realizzare impianti a ciclo
completo (dal grano alla pasta) e grazie all'investimento di
buoni capitali .
Nel 1856 proprio la produzione delle paste napoletane fu premiata all'Esposizione Universale di
Parigi anche se con una rocambolesca partecipazione: il legato a Parigi, Luigi Cito, infatti, raccontò
di aver consegnato alla commissione una "cassetta con collezioni di paste" che aveva portato "ad
uso suo", pensando, come realmente avvenne, che avrebbero "ben figurato in mezzo alle paste
d'Italia e di Francia" .
Negli stessi anni la produzione si era diffusa in tutto il Regno: a Napoli e a Gragnano, dove c'erano
81 macchine per manifatture di maccheroni e 28 macchine per molire i cereali 7, a Torre
Annunziata, a Ischia, con una fabbrica per "paste lavorate" che dava lavoro a 20 persone , a
Rapolla, presso Melfi, con 40 operai ; dalle Puglie alle Calabrie, soprattutto nelle zone di Bari,
Molfetta, Barletta, Crotone, Cosenza e Catanzaro .
Circa un centinaio, complessivamente, gli stabilimenti e in molti si erano diffusi ormai gli impianti
azionati a vapore .
I famosi maccheroni venivano esportati praticamente in tutto il mondo, a New York come a Rio de
Janeiro, a Odessa, Algeri, Atene, Algeri, Malta, Pietroburgo o Amburgo e ancora oggi sono il
prodotto italiano più conosciuto in ogni angolo del pianeta, anche se ormai i rari stabilimenti di
Torre Annunziata, di Gragnano o della provincia di Napoli hanno perso tutti i loro primati.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un saluto a tutti ed in particolare all'amico GianTelescopio (riportandomi alle nostre sorti in tema pensionistico
).
Dai territori continentali del Regno la corrispondenza verso lo Stato Pontificio poteva essere inviata per la via di terra, lungo il cui tragitto vi erano del punti di scambio, oppure via mare (da Napoli a Civitavecchia).
Gran parte della corrispondenza partiva da o transitava da Napoli, quindi per quelle inoltrate da Napoli per la via di terra venivano utilizzati i punti di scambio di Fondi (Regno due Sicilie) e Terracina (Stato Pontificio), ubicati lungo il tragitto.
Indipendentemente se per mare o per terra si poteva spedire con l’assolvimento dell’ affrancatura sino al confine o con affrancatura pagata sino a destino.
Per quelle che dovevano essere inviate per la via di terra, vi era poi una distinzione tra le lettere che venivano imbucate a Napoli e quelle provenienti dalle altre località. Per le prime l’affrancatura sino a confine era pari a grana 5, mentre veniva maggiorata di grana 2 nell’altra ipotesi (grana 7 se da Bari, Foggia, Cosenza, Taranto, Campobasso, ect…), questo perché quei 2 grana di maggiorazione era considerato come tassa per il porto interno.
Infatti, sappiamo che con l’introduzione dei FB borbonici la tassa per la lettera semplice inoltrata verso qualsiasi località dei territori continentali era pari a grana 2.
Ma cosa accadeva alla lettera una volta presa in carico dall’Amministrazione Postale Pontificia?
Era prevista una tassa in arrivo che teneva conto della località di destinazione, quindi doveva essere caricata del porto interno che variava a seconda delle “tre distanze”.
Pertanto, osservando solamente il fronte della lettera, alla pagina 104 della collezione “Sofia”, notiamo che essa è affrancata con un 5 grana borbonico, quindi senza conoscerne il verso, possiamo senz’altro ritenere che essa sia stata imbucata a Napoli. Inoltre la tariffa di gr. 5 ci fa capire che si tratta di una lettera semplice.
Notiamo anche l’annotazione della cifra a penna 8. Essa ci conferma che si trattava di una lettera semplice e che era diretta ad una località della prima distanza, come appunto risulta Roma.
Il 5 grana, presenta le tipiche incisioni multiple presenti su tale valore della prima tavola.
pasfil

Dai territori continentali del Regno la corrispondenza verso lo Stato Pontificio poteva essere inviata per la via di terra, lungo il cui tragitto vi erano del punti di scambio, oppure via mare (da Napoli a Civitavecchia).
Gran parte della corrispondenza partiva da o transitava da Napoli, quindi per quelle inoltrate da Napoli per la via di terra venivano utilizzati i punti di scambio di Fondi (Regno due Sicilie) e Terracina (Stato Pontificio), ubicati lungo il tragitto.
Indipendentemente se per mare o per terra si poteva spedire con l’assolvimento dell’ affrancatura sino al confine o con affrancatura pagata sino a destino.
Per quelle che dovevano essere inviate per la via di terra, vi era poi una distinzione tra le lettere che venivano imbucate a Napoli e quelle provenienti dalle altre località. Per le prime l’affrancatura sino a confine era pari a grana 5, mentre veniva maggiorata di grana 2 nell’altra ipotesi (grana 7 se da Bari, Foggia, Cosenza, Taranto, Campobasso, ect…), questo perché quei 2 grana di maggiorazione era considerato come tassa per il porto interno.
Infatti, sappiamo che con l’introduzione dei FB borbonici la tassa per la lettera semplice inoltrata verso qualsiasi località dei territori continentali era pari a grana 2.
Ma cosa accadeva alla lettera una volta presa in carico dall’Amministrazione Postale Pontificia?
Era prevista una tassa in arrivo che teneva conto della località di destinazione, quindi doveva essere caricata del porto interno che variava a seconda delle “tre distanze”.
Pertanto, osservando solamente il fronte della lettera, alla pagina 104 della collezione “Sofia”, notiamo che essa è affrancata con un 5 grana borbonico, quindi senza conoscerne il verso, possiamo senz’altro ritenere che essa sia stata imbucata a Napoli. Inoltre la tariffa di gr. 5 ci fa capire che si tratta di una lettera semplice.
Notiamo anche l’annotazione della cifra a penna 8. Essa ci conferma che si trattava di una lettera semplice e che era diretta ad una località della prima distanza, come appunto risulta Roma.
Il 5 grana, presenta le tipiche incisioni multiple presenti su tale valore della prima tavola.



pasfil
Ultima modifica di pasfil il 5 dicembre 2011, 15:51, modificato 1 volta in totale.
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........


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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Re: Da Napoli a Sofia..........
GIUSEPPE CANOFARI
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)
di Aldo Cermele
Nacque a L'Aquila nel 1790 dalla famiglia dei baroni di Santa Vittoria. Il padre Francesco era stato un alto magistrato al servizio dei di . Dopo aver compiuto gli studi di diritto il C. intraprese, sulle orme paterne, la carriera nella magistratura napoletana, fino a divenire, tra il 1830 e il 1831, membro della Consulta generale del Regno.
Il Rivera lo giudica in tale attività "non degenere dal padre" e afferma che pervenne alle cariche "più onorifiche e delicate". Il De Cesare lo ricorda come uomo dal carattere angoloso, austero e pieno di sé, dalla mentalità poliziesca, di buona "penetrazione", amante della vita agiata.
L'impegno che mise nel suo ufficio e la sicura competenza ebbero riconoscimento dal re Ferdinando II. Il C., infatti, nel marzo 1836 fu trasferito nei ranghi della diplomazia come aggiunto di legazione. Nel 1840 venne inviato a Londra, al seguito del principe di Castelcicala, per risolvere col governo britannico una controversia sugli zolfi. Nel 1847 fu nominato segretario di seconda classe e inviato, con tale funzione, a Londra nel febbraio dell'anno seguente. Nell'ottobre 1851 fu promosso per breve tempo incaricato d'affari a Madrid. In questi anni ebbe modo di distinguersi per gli assidui rapporti al governo, maturando pure l'esperienza necessaria a compiti più impegnativi. Nel maggio 1852 venne richiamato a e messo a disposizione. Nel luglio dello stesso anno fu inviato come incaricato d'affari alla corte piemontese. Torino resterà la tappa più importante della sua attività diplomatica, ma anche la più difficile, ove si consideri che in quegli anni maturarono i destini diversi del Regno sabaudo e di quello borbonico.
Alla corte di Torino, ossessionato dall'idea fissa dell'insidia piemontese, il C. svolse un assiduo lavoro, inviando a Napoli una gran massa di rapporti, i più di sapore poliziesco, sull'attività dei fuorusciti napoletani, attirandosi così l'odio di quella emigrazione in Piemonte.
Nel seguire la politica estera piemontese di quegli anni, il diplomatico napoletano quasi mai riuscì a penetrarne le motivazioni e i fini.
Indagò, ad esempio, nel luglio 1858, sullo scopo del convegno di Plombières con molta diligenza, ma, nel riferirne al suo governo, finì per minimizzarne l'importanza. Nel novembre dello stesso anno annunciò che il Cavour faceva circolare voci di una guerra all'Austria per la primavera seguente; raccolse notizie sull'imminente discorso d'apertura della Camera subalpina, ma personalmente restò convinto di "una conservazione indubitata della pace"; né dette il giusto peso politico-diplomatico al matrimonio di Clotilde di Savoia con il principe Napoleone Bonaparte, cugino dell'imperatore Napoleone III; sicché, quasi sorpreso dall'inizio delle ostilità fra l'Austria e i Franco-piemontesi, poté soltanto annunciare la neutralità del suo Stato.
Anche con l'avvento al trono di Napoli di Francesco II, che nessun mutamento portò nei quadri della diplomazia borbonica, il C. rimase al suo posto e più chiara gli fu la valutazione degli avvenimenti successivi.
Avvertì la fase decrescente del favore napoleonico per una restaurazione murattiana a Napoli e la posizione inglese contraria ad ogni intervento straniero in Italia; segnalò, già nel settembre 1859, le intenzioni di Garibaldi per una spedizione in Sicilia e fece al riguardo rimostranze al Cavour per le "mene" piemontesi; parve tranquillizzarsi solo quando il Dabormida lo assicurò che non ci sarebbe mai stato un tentativo garibaldino appoggiato dal governo sardo. Registrò con amarezza, nel novembre 1859, il fallimento del tentativo della diplomazia napoletana di impedire le annessioni nell'Italia centrale; riferì sul colloquio avuto a corte con Vittorio Emanuele II, al ricevimento del nuovo anno 1860, in cui il sovrano aveva espresso riserve sull'utilità del congresso auspicato dal Regno di Napoli e per contro aveva giudicato possibile una nuova guerra; suggerì al suo governo di lanciare l'idea di un Regno dell'Italia centrale per contrastare le mire piemontesi su un'eventuale espansione nelle Marche e nell'Umbria; protestò nuovamente col Cavour per la tolleranza mostrata nei confronti dei fuorusciti napoletani.Promosso frattanto, il 17 genn. 1860, inviato straordinario e ministro plenipotenziario, il C., all'atto della partenza dei Mille, denunziò il fatto con energia al Cavour, invitandolo a inviare navi da guerra sulle tracce dei piroscafi garibaldini. Rinnovò la protesta quando Garibaldi proclamò di aver assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II. Mentre la posizione dei diplomatici napoletani a Torino era diventata difficile a tal punto che lo stesso Cavour lo pregò di assentarsi dalle cerimonie ufficiali, il C., ancora fiducioso, si adoperò, agli inizi di luglio, per far accogliere una missione straordinaria inviata da Napoli per compiere un tentativo di alleanza col Piemonte. Il 28 luglio 1860 egli fu trasferito e accreditato presso la corte di Parigi. L'11 ott. 1860 un decreto dittatoriale garibaldino lo destituì dal servizio, ma il C. continuò a prestare fedelmente la sua opera al sovrano borbonico sia nel ministero di Gaeta sia in quello costituito in esilio, reggendo prima il dicastero degli Esteri, poi quello della Giustizia. Operò per la restaurazione: ebbe contatti con agenti borbonici e frequenti colloqui col ministro degli Esteri francese. Quando poi furono chiuse le legazioni all'estero dall'esule Francesco, il C. rimase a Parigi a vita privata, "bene accolto nel mondo legittimista per il suo carattere elevato e sicuro" .
Nella capitale francese morì tragicamente il 19 sett. 1872, buttandosi, nel tentativo di salvarsi, da una carrozza che rovinava a briglia sciolta in piazza della Concordia. Fu commendatore dell'Ordine di Francesco I, di S. Ludovico di Parma, di Carlo III, cavaliere dell'Ordine costantiniano e ufficiale della Legion d'onore.
Sul C. un duro giudizio espresse il De Cesare, il quale lo definì un tipico esemplare di quella diplomazia napoletana, che nascose la propria impotenza "dibattendosi fra uno scetticismo convenzionale e una certa aria di petulanza, studiosa solo di non incorrere nelle disgrazie del re con l'attenuare le difficoltà o giudicandole con inverosimile leggerezza". E aggiunse che il C. non capì quanto maturava in quegli anni, né seppe penetrare il pensiero di Cavour. Il che invero non fu cosa facile neanche per politici di ben altra tempra. Più equanime il giudizio dello Zazo, che ne ha rivalutato l'attività successiva alla seconda guerra d'indipendenza.
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)
di Aldo Cermele
Nacque a L'Aquila nel 1790 dalla famiglia dei baroni di Santa Vittoria. Il padre Francesco era stato un alto magistrato al servizio dei di . Dopo aver compiuto gli studi di diritto il C. intraprese, sulle orme paterne, la carriera nella magistratura napoletana, fino a divenire, tra il 1830 e il 1831, membro della Consulta generale del Regno.
Il Rivera lo giudica in tale attività "non degenere dal padre" e afferma che pervenne alle cariche "più onorifiche e delicate". Il De Cesare lo ricorda come uomo dal carattere angoloso, austero e pieno di sé, dalla mentalità poliziesca, di buona "penetrazione", amante della vita agiata.
L'impegno che mise nel suo ufficio e la sicura competenza ebbero riconoscimento dal re Ferdinando II. Il C., infatti, nel marzo 1836 fu trasferito nei ranghi della diplomazia come aggiunto di legazione. Nel 1840 venne inviato a Londra, al seguito del principe di Castelcicala, per risolvere col governo britannico una controversia sugli zolfi. Nel 1847 fu nominato segretario di seconda classe e inviato, con tale funzione, a Londra nel febbraio dell'anno seguente. Nell'ottobre 1851 fu promosso per breve tempo incaricato d'affari a Madrid. In questi anni ebbe modo di distinguersi per gli assidui rapporti al governo, maturando pure l'esperienza necessaria a compiti più impegnativi. Nel maggio 1852 venne richiamato a e messo a disposizione. Nel luglio dello stesso anno fu inviato come incaricato d'affari alla corte piemontese. Torino resterà la tappa più importante della sua attività diplomatica, ma anche la più difficile, ove si consideri che in quegli anni maturarono i destini diversi del Regno sabaudo e di quello borbonico.
Alla corte di Torino, ossessionato dall'idea fissa dell'insidia piemontese, il C. svolse un assiduo lavoro, inviando a Napoli una gran massa di rapporti, i più di sapore poliziesco, sull'attività dei fuorusciti napoletani, attirandosi così l'odio di quella emigrazione in Piemonte.
Nel seguire la politica estera piemontese di quegli anni, il diplomatico napoletano quasi mai riuscì a penetrarne le motivazioni e i fini.
Indagò, ad esempio, nel luglio 1858, sullo scopo del convegno di Plombières con molta diligenza, ma, nel riferirne al suo governo, finì per minimizzarne l'importanza. Nel novembre dello stesso anno annunciò che il Cavour faceva circolare voci di una guerra all'Austria per la primavera seguente; raccolse notizie sull'imminente discorso d'apertura della Camera subalpina, ma personalmente restò convinto di "una conservazione indubitata della pace"; né dette il giusto peso politico-diplomatico al matrimonio di Clotilde di Savoia con il principe Napoleone Bonaparte, cugino dell'imperatore Napoleone III; sicché, quasi sorpreso dall'inizio delle ostilità fra l'Austria e i Franco-piemontesi, poté soltanto annunciare la neutralità del suo Stato.
Anche con l'avvento al trono di Napoli di Francesco II, che nessun mutamento portò nei quadri della diplomazia borbonica, il C. rimase al suo posto e più chiara gli fu la valutazione degli avvenimenti successivi.
Avvertì la fase decrescente del favore napoleonico per una restaurazione murattiana a Napoli e la posizione inglese contraria ad ogni intervento straniero in Italia; segnalò, già nel settembre 1859, le intenzioni di Garibaldi per una spedizione in Sicilia e fece al riguardo rimostranze al Cavour per le "mene" piemontesi; parve tranquillizzarsi solo quando il Dabormida lo assicurò che non ci sarebbe mai stato un tentativo garibaldino appoggiato dal governo sardo. Registrò con amarezza, nel novembre 1859, il fallimento del tentativo della diplomazia napoletana di impedire le annessioni nell'Italia centrale; riferì sul colloquio avuto a corte con Vittorio Emanuele II, al ricevimento del nuovo anno 1860, in cui il sovrano aveva espresso riserve sull'utilità del congresso auspicato dal Regno di Napoli e per contro aveva giudicato possibile una nuova guerra; suggerì al suo governo di lanciare l'idea di un Regno dell'Italia centrale per contrastare le mire piemontesi su un'eventuale espansione nelle Marche e nell'Umbria; protestò nuovamente col Cavour per la tolleranza mostrata nei confronti dei fuorusciti napoletani.Promosso frattanto, il 17 genn. 1860, inviato straordinario e ministro plenipotenziario, il C., all'atto della partenza dei Mille, denunziò il fatto con energia al Cavour, invitandolo a inviare navi da guerra sulle tracce dei piroscafi garibaldini. Rinnovò la protesta quando Garibaldi proclamò di aver assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II. Mentre la posizione dei diplomatici napoletani a Torino era diventata difficile a tal punto che lo stesso Cavour lo pregò di assentarsi dalle cerimonie ufficiali, il C., ancora fiducioso, si adoperò, agli inizi di luglio, per far accogliere una missione straordinaria inviata da Napoli per compiere un tentativo di alleanza col Piemonte. Il 28 luglio 1860 egli fu trasferito e accreditato presso la corte di Parigi. L'11 ott. 1860 un decreto dittatoriale garibaldino lo destituì dal servizio, ma il C. continuò a prestare fedelmente la sua opera al sovrano borbonico sia nel ministero di Gaeta sia in quello costituito in esilio, reggendo prima il dicastero degli Esteri, poi quello della Giustizia. Operò per la restaurazione: ebbe contatti con agenti borbonici e frequenti colloqui col ministro degli Esteri francese. Quando poi furono chiuse le legazioni all'estero dall'esule Francesco, il C. rimase a Parigi a vita privata, "bene accolto nel mondo legittimista per il suo carattere elevato e sicuro" .
Nella capitale francese morì tragicamente il 19 sett. 1872, buttandosi, nel tentativo di salvarsi, da una carrozza che rovinava a briglia sciolta in piazza della Concordia. Fu commendatore dell'Ordine di Francesco I, di S. Ludovico di Parma, di Carlo III, cavaliere dell'Ordine costantiniano e ufficiale della Legion d'onore.
Sul C. un duro giudizio espresse il De Cesare, il quale lo definì un tipico esemplare di quella diplomazia napoletana, che nascose la propria impotenza "dibattendosi fra uno scetticismo convenzionale e una certa aria di petulanza, studiosa solo di non incorrere nelle disgrazie del re con l'attenuare le difficoltà o giudicandole con inverosimile leggerezza". E aggiunse che il C. non capì quanto maturava in quegli anni, né seppe penetrare il pensiero di Cavour. Il che invero non fu cosa facile neanche per politici di ben altra tempra. Più equanime il giudizio dello Zazo, che ne ha rivalutato l'attività successiva alla seconda guerra d'indipendenza.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Eroi ...in lotta...ops..eroi...col lotto!!!
Il documento è stato rintracciato a Torino nei polverosi archivi di Corso Vittorio Emanuele. Ma si trova pure nell'Archivio di Stato di Palermo.
In una nota, il delegato della Sicilia, nel sottolineare l'"efficienza" della polizia borbonica, segnala la scoperta di una truffa del lotto ben articolata grazie anche alla (le talpe ci sono sempre) complicità di un impiegato regio di Palermo, don Giuseppe Naccari, e del titolare del botteghino lotto di Porta Termini, Antonio Campanella, che avrebbe fruttato agli organizzatori la bella somma di circa 10 mila ducati in tre anni.
Dalla Sicilia sia Naccari che Campanella scoperti evitarono l'arresto fuggendo e rifugiandosi a Genova al quartiere Quarto, ma vi sarebbero rientrati - segnala il delegato - partecipando - e diventando così perfino eroi - alla spedizione dei Mille di Garibaldi.(!!)
I particolari della truffa sono raccontati in una lettera inviata a Torino il 20 settembre 1858 dal Luogotenente Generale della Sicilia, Principe di Castelcicala, al Ministro per gli Affari di Sicilia, Don Giovanni Cassisi. Nella missiva si ricostruisce come gli impiegati infedeli del "Regio Lotto" siano riusciti a frodare l'erario utilizzando due metodi. Il primo consisteva nel consegnare ai loro compari alcune ricevute in bianco, su cui venivano SUCCESSIVAMENTE trascritti i numeri estratti. Furono intensificati i continui controlli che resero estremamente rischiosa la riscossione della vincita. Gli organizzatori della truffa ripiegarono allora su un sistema più artigianale: venivano giocati numeri singoli (ad esempio 2), che dopo le estrazioni diventavano doppi (ad esempio 82, 52, 42 ecc) grazie alla complicità degli impiegati infedeli che modificavano anche le matrici, dividendosi così i guadagni.
Il Naccari morì a Palermo nel 1860, in seguito a ferita riportata combattendo nel convento dei Benedettini.
Il Campanella si suicidò ad Arma di Taggia il 6 dicembre 1868.
Il documento è stato rintracciato a Torino nei polverosi archivi di Corso Vittorio Emanuele. Ma si trova pure nell'Archivio di Stato di Palermo.
In una nota, il delegato della Sicilia, nel sottolineare l'"efficienza" della polizia borbonica, segnala la scoperta di una truffa del lotto ben articolata grazie anche alla (le talpe ci sono sempre) complicità di un impiegato regio di Palermo, don Giuseppe Naccari, e del titolare del botteghino lotto di Porta Termini, Antonio Campanella, che avrebbe fruttato agli organizzatori la bella somma di circa 10 mila ducati in tre anni.
Dalla Sicilia sia Naccari che Campanella scoperti evitarono l'arresto fuggendo e rifugiandosi a Genova al quartiere Quarto, ma vi sarebbero rientrati - segnala il delegato - partecipando - e diventando così perfino eroi - alla spedizione dei Mille di Garibaldi.(!!)
I particolari della truffa sono raccontati in una lettera inviata a Torino il 20 settembre 1858 dal Luogotenente Generale della Sicilia, Principe di Castelcicala, al Ministro per gli Affari di Sicilia, Don Giovanni Cassisi. Nella missiva si ricostruisce come gli impiegati infedeli del "Regio Lotto" siano riusciti a frodare l'erario utilizzando due metodi. Il primo consisteva nel consegnare ai loro compari alcune ricevute in bianco, su cui venivano SUCCESSIVAMENTE trascritti i numeri estratti. Furono intensificati i continui controlli che resero estremamente rischiosa la riscossione della vincita. Gli organizzatori della truffa ripiegarono allora su un sistema più artigianale: venivano giocati numeri singoli (ad esempio 2), che dopo le estrazioni diventavano doppi (ad esempio 82, 52, 42 ecc) grazie alla complicità degli impiegati infedeli che modificavano anche le matrici, dividendosi così i guadagni.
Il Naccari morì a Palermo nel 1860, in seguito a ferita riportata combattendo nel convento dei Benedettini.
Il Campanella si suicidò ad Arma di Taggia il 6 dicembre 1868.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
L'errore dei Borbone fu inimicarsi Londra
L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli
Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un'entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero». Ma l'Inghilterra riteneva che l'aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.
Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell'anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861) , che sarà presto pubblicato da Rubbettino.
Già nelle pagine della premessa a questo volume (che rende omaggio, con un'esplicita dedica, a Giuseppe Galasso e al suo Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, edito da Utet), Di Rienzo si rende conto del fatto che la pietas per il destino del regno borbonico lo espone al rischio di trasformare il suo racconto in quella che Benedetto Croce definì «storia affettuosa», simile alle «biografie che si tessono di persone care e venerate». O anche a quelle che sempre Croce definiva le «storie che piangono le sventure del popolo al quale si appartiene». Un rischio, scrive Di Rienzo, «forse tale da portare acqua al mulino di quell'Anti Risorgimento vecchio e nuovo» che - e qui cita il Giorgio Napolitano di Una e indivisibile (Rizzoli) - «con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell'Italia unita, che rispondeva all'ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese e come ci ha insegnato Rosario Romeo)». Però, prosegue Di Rienzo, a «chi ha scelto la professione di storico», non si può chiedere di «non ricordare che l'unione politica del Sud al resto d'Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali». E non lo si può esortare a «passare sotto silenzio come quell'unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai "unità", sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la Potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande "Piccolo Stato" della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». Parole molto forti: quella dell'Inghilterra nei confronti del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata «una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea».
Da lungo tempo il Regno Unito non aveva nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre (1827) scriveva: «Quest'isola non rappresenta per l'Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari che l'Inghilterra intende intraprendere nell'Italia e nel Mediterraneo».
Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell'estate del 1831, quando fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta, condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono l'isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell'isola Ferdinandea e di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in L'isola che se ne andò di Filippo D'Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data l'assoluta irrilevanza dell'isolotto. Ma che voleva essere un segno inequivocabile nei confronti di un'isola ben più importante, la Sicilia. Sicilia da cui l'Inghilterra importava vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la preparazione della soda artificiale, dell'acido solforico e della polvere da sparo. Zolfo che fu all'origine di un contenzioso dal quale uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne fuori quella che Ernesto Pontieri - nei saggi raccolti in Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento (Esi) - ha definito una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto all'Inghilterra immutata la sua diffidenza».
Ai tempi della rivoluzione del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato «di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò a garantire l'indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia.
Fu Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto, bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo. All'epoca l'Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che «la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla violazione dell'antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva, minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano».
In Inghilterra divenne un caso molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell'Istruzione nel governo costituzionale napoletano del 1848, che nel '49 fu arrestato, processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati 10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato da una certa enfasi e non poche esagerazioni.
È in questo momento storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere - la prima era stata quella di cui all'inizio della «guerra carlista» - che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell'estate di quell'anno, scrive Di Rienzo, «convinto che l'offensiva dei coalizzati si sarebbe infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni sanitarie, giustificate dall'epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio proveniente dall'Impero ottomano».
Palmerston, divenuto primo ministro, nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l'influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale» appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi esplicito.
Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell'ergastolo dell'isolotto di Santo Stefano. L'operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II di rivendicare l'autonomia del suo regno nelle grandi scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un'esemplare punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato, servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie, nell'impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale».
Di qui un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell'Inghilterra (ma anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo' di «spedizione punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun Ieyoshi Tokugawa». Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, termina l'articolo del Times, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l'esistenza di «un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a quell'editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell'opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole: «La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un'apertura delle ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di congedare Mazza.
Trascorre un po' di tempo e si verifica un nuovo incidente. L'ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua, principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve l'importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d'Europa s'intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra».
Qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l'errore di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere, inventate di sana pianta... Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato "re bomba", aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente illegittima».
È un fatto che in quegli anni il Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale. Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti a Palermo, a Cefalù, e, l'8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici avviando trattative per stipulare una convenzione con l'Argentina, al fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici, che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai Comuni che «l'invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borbone».
Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che - per l'ostilità dell'esercito ma anche del popolo - fallì e fu represso con durezza. Dell'equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla gendarmeria napoletana. L'Inghilterra si mosse immediatamente per reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell'«ingiusta detenzione».
Nel gennaio del 1859 Ferdinando II concede l'esilio perpetuo a circa novanta prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri arrestati. Così l'Inghilterra continua a tener viva la tensione con il regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860, l'impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell'intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia napoletana. Da quel momento l'aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.
Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è un'ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica». Eppure c'è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la plausibilità di questa interpretazione». E questo libro ce ne offre un'accurata disamina.
C'è la documentazione dell'aiuto inglese al viaggio e all'impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove della consapevolezza inglese dell'alleanza tra la malavita napoletana e gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella Storia della camorra di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l'ingresso dei volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto dell'attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi «liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in L'inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli edito, anche questo, da Rubbettino.
In seguito alcuni uomini politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il tutto un «dirty affair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa repressione dell'armata sarda che si era macchiata di crimini contro l'umanità ben più efferati di quelli che l'opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio nell'Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo «pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un'impresa illegittima e scellerata che aveva portato all'instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».
Fu per queste vie, conclude Di Rienzo rievocando il successivo sprezzante diniego britannico alla richiesta italiana di istituire una colonia penale in un isolotto prospiciente la baia di Gaya, nel sultanato del Brunei, che l'Italia unita ereditò «quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie». Un destino che si sarebbe riflesso sul nostro Paese fino ai giorni nostri, «nel segno», è la conclusione di Eugenio Di Rienzo, «di un passato destinato a non passare».
Paolo Mieli
L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli
Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un'entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero». Ma l'Inghilterra riteneva che l'aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.
Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell'anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861) , che sarà presto pubblicato da Rubbettino.
Già nelle pagine della premessa a questo volume (che rende omaggio, con un'esplicita dedica, a Giuseppe Galasso e al suo Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, edito da Utet), Di Rienzo si rende conto del fatto che la pietas per il destino del regno borbonico lo espone al rischio di trasformare il suo racconto in quella che Benedetto Croce definì «storia affettuosa», simile alle «biografie che si tessono di persone care e venerate». O anche a quelle che sempre Croce definiva le «storie che piangono le sventure del popolo al quale si appartiene». Un rischio, scrive Di Rienzo, «forse tale da portare acqua al mulino di quell'Anti Risorgimento vecchio e nuovo» che - e qui cita il Giorgio Napolitano di Una e indivisibile (Rizzoli) - «con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l'Unità poco oltre il limite di un Regno dell'Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell'Italia unita, che rispondeva all'ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese e come ci ha insegnato Rosario Romeo)». Però, prosegue Di Rienzo, a «chi ha scelto la professione di storico», non si può chiedere di «non ricordare che l'unione politica del Sud al resto d'Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali». E non lo si può esortare a «passare sotto silenzio come quell'unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai "unità", sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la Potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande "Piccolo Stato" della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». Parole molto forti: quella dell'Inghilterra nei confronti del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata «una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea».
Da lungo tempo il Regno Unito non aveva nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre (1827) scriveva: «Quest'isola non rappresenta per l'Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari che l'Inghilterra intende intraprendere nell'Italia e nel Mediterraneo».
Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell'estate del 1831, quando fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta, condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono l'isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell'isola Ferdinandea e di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in L'isola che se ne andò di Filippo D'Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data l'assoluta irrilevanza dell'isolotto. Ma che voleva essere un segno inequivocabile nei confronti di un'isola ben più importante, la Sicilia. Sicilia da cui l'Inghilterra importava vino, olio d'oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la preparazione della soda artificiale, dell'acido solforico e della polvere da sparo. Zolfo che fu all'origine di un contenzioso dal quale uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne fuori quella che Ernesto Pontieri - nei saggi raccolti in Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento (Esi) - ha definito una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto all'Inghilterra immutata la sua diffidenza».
Ai tempi della rivoluzione del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato «di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò a garantire l'indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia.
Fu Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto, bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo. All'epoca l'Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che «la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla violazione dell'antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva, minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano».
In Inghilterra divenne un caso molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell'Istruzione nel governo costituzionale napoletano del 1848, che nel '49 fu arrestato, processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati 10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato da una certa enfasi e non poche esagerazioni.
È in questo momento storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere - la prima era stata quella di cui all'inizio della «guerra carlista» - che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell'estate di quell'anno, scrive Di Rienzo, «convinto che l'offensiva dei coalizzati si sarebbe infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni sanitarie, giustificate dall'epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio proveniente dall'Impero ottomano».
Palmerston, divenuto primo ministro, nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l'influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale» appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi esplicito.
Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell'ergastolo dell'isolotto di Santo Stefano. L'operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II di rivendicare l'autonomia del suo regno nelle grandi scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un'esemplare punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato, servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie, nell'impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale».
Di qui un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell'Inghilterra (ma anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo' di «spedizione punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun Ieyoshi Tokugawa». Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, termina l'articolo del Times, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l'esistenza di «un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a quell'editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell'opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole: «La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un'apertura delle ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di congedare Mazza.
Trascorre un po' di tempo e si verifica un nuovo incidente. L'ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua, principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve l'importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d'Europa s'intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell'ottima salute nostra».
Qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l'errore di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere, inventate di sana pianta... Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato "re bomba", aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente illegittima».
È un fatto che in quegli anni il Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale. Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti a Palermo, a Cefalù, e, l'8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici avviando trattative per stipulare una convenzione con l'Argentina, al fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici, che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai Comuni che «l'invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borbone».
Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che - per l'ostilità dell'esercito ma anche del popolo - fallì e fu represso con durezza. Dell'equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla gendarmeria napoletana. L'Inghilterra si mosse immediatamente per reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell'«ingiusta detenzione».
Nel gennaio del 1859 Ferdinando II concede l'esilio perpetuo a circa novanta prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri arrestati. Così l'Inghilterra continua a tener viva la tensione con il regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860, l'impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell'intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia napoletana. Da quel momento l'aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.
Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è un'ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica». Eppure c'è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la plausibilità di questa interpretazione». E questo libro ce ne offre un'accurata disamina.
C'è la documentazione dell'aiuto inglese al viaggio e all'impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove della consapevolezza inglese dell'alleanza tra la malavita napoletana e gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella Storia della camorra di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l'ingresso dei volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto dell'attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi «liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in L'inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli edito, anche questo, da Rubbettino.
In seguito alcuni uomini politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il tutto un «dirty affair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa repressione dell'armata sarda che si era macchiata di crimini contro l'umanità ben più efferati di quelli che l'opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio nell'Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo «pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un'impresa illegittima e scellerata che aveva portato all'instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».
Fu per queste vie, conclude Di Rienzo rievocando il successivo sprezzante diniego britannico alla richiesta italiana di istituire una colonia penale in un isolotto prospiciente la baia di Gaya, nel sultanato del Brunei, che l'Italia unita ereditò «quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie». Un destino che si sarebbe riflesso sul nostro Paese fino ai giorni nostri, «nel segno», è la conclusione di Eugenio Di Rienzo, «di un passato destinato a non passare».
Paolo Mieli
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
....Canta...Napoli!!!
gianni
LABLACHE, Luigi
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62
di Antonio Rostagno
LABLACHE, Luigi. - Nacque a Napoli il 6 dic. 1794. Il padre, Nicolas, mercante francese, era fuggito all'inizio del 1794 da Marsiglia a Napoli, dove aveva sposato l'irlandese Francesca Bietach. Morto il padre nel 1799, il L. fu allevato in casa della principessa di Avellino, grazie alla quale ottenne nel 1806 un posto gratuito al conservatorio della Pietà dei Turchini; qui iniziò lo studio del violino e del contrabbasso, più tardi quello del canto con S. Valente.
Con il trasferimento in S. Sebastiano (1808), il conservatorio fu dotato di un teatrino: qui il L. debuttò nel 1809 come basso buffo napoletano nell'opera La contadina bizzarra di Giuseppe Castignace. Assentatosi senza permesso per andare a suonare il contrabbasso a Salerno, fu espulso dal conservatorio; si mantenne cantando nel teatrino dei pupi, allestito provvisoriamente nell'ex refettorio della Pietà dei Turchini, finché l'impresario del teatro S. Carlino lo scritturò per le parti in dialetto. Florimo (1882) situa il debutto del L. al S. Carlino nel 1812 con L'erede senza eredità di Silvestro Palma. Ma Di Giacomo (1967, pp. 267 s.), documenti alla mano, ha rettificato: il L. cantò effettivamente nell'opera di Palma, ma nel 1814 ai Turchini; subito dopo iniziò la prima stagione del S. Carlino (Pasqua 1814), in cui L. cantò Gli sposi in cimento di Luigi Mosca, Nina e Martufo di D. Cimarosa, Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti e, probabilmente, un Pulcinella molinaro (non di Vincenzo Fioravanti e non la Bella molinara, come indicano alcune fonti).
Il L. aveva intanto sposato Teresa Pinotti, proveniente da una famiglia di attori napoletani, che lo convinse ad affrontare ruoli seri in italiano. Negli anni successivi il L. cantò a Messina e al teatro Carolino di Palermo nel Ser Marcantonio di S. Pavesi. Il 15 ag. 1821 debuttò alla Scala di Milano, probabilmente per un'intermediazione di D. Barbaja, come Dandini ne La Cenerentola rossiniana. Sempre alla Scala, dove tornò per tre anni consecutivi, fu il primo interprete di Arnoldo nell'Elisa e Claudio di S. Mercadante (30 ott. 1821), e di Sulemano ne L'esule di Granata di G. Meyerbeer (12 marzo 1822). In quel triennio cantò anche a Roma, Torino e Venezia. Scritturato da Barbaja esordì nel 1823 al Kärntnerthortheater di Vienna con Il barbiere di Siviglia rossiniano (in cui interpretava i ruoli di Figaro, Bartolo o Basilio indifferentemente); in quella stagione cantò poi per la prima volta ne Le nozze di Figaro di W.A. Mozart (Figaro), La gazza ladra e La donna del lago di G. Rossini, Il matrimonio segreto di Cimarosa, trovandosi al fianco di celebrità quali Josephine Fodor, Karoline Unger, Henriette Sontag, D. Donzelli, A. Nozzari e G. David. Vienna gli tributò alti riconoscimenti: F. Grillparzer lo celebrò in versi per le sue interpretazioni del Matrimonio, del Barbiere e della Cenerentola; più tardi, nel 1827, il L. canterà nel Requiem di Mozart per i funerali di L. van Beethoven, e F. Schubert gli dedicherà i Drei Gesängeop. 83, per basso (D. 902) su testi di Metastasio.
Nell'autunno 1823 tornò a Napoli, dapprima al teatro del Fondo (ancora il Barbiere e Costanza e Almeriska di Mercadante), poi al S. Carlo per il Carnevale con la Semiramide di Rossini: la sua interpretazione del ruolo di Assur gli procurò un successo straordinario grazie anche alle sue doti di attore. La stagione si chiuse con l'opera nuova di F. Basily, Il Sansone, poi il L. tornò a Vienna fino alla fine del Carnevale 1825. L'anno seguente, nuovamente a Napoli, creò al S. Carlo il personaggio di Filippo nella prima esecuzione di Bianca e Gernando di V. Bellini (30 maggio). In questi anni al S. Carlo affrontò ancora in prima assoluta opere di G. Donizetti (1826: Elvida; 1828: L'esule di Roma; 1829: Il paria) e di G. Pacini (1825: Amazilia; 1826: L'ultimo giorno di Pompei, Niobe; 1827: Margherita regina d'Inghilterra). Nel Carnevale 1829 partecipò alla prima napoletana del nuovo Mosè di Rossini (23 marzo), quindi alla prima assoluta della Zaira di Bellini per l'apertura del teatro Regio di Parma (16 maggio).
Dopo il ritorno a Napoli per le prime esecuzioni de I pazzi per progetto al teatro del Fondo (Carnevale 1829-30) e Il diluvio universale al S. Carlo (Quaresima 1830), entrambe di Donizetti, L. iniziò la sua maggiore stagione internazionale: alcune fonti segnalano un suo debutto al King's theatre di Londra il 30 marzo 1830 con Il matrimonio segreto, non menzionato da Florimo (1882) né da Fétis. Tutti concordano invece sulla data della prima apparizione a Parigi, al théâtre-Italien il 4 nov. 1830, dove il L. riscosse grande successo nei suoi più celebrati ruoli comici, fra cui Geronimo nel Matrimonio segreto e, per la sua prima volta, Leporello nel Don Giovanni di Mozart.
Scrisse Castil-Blaze in occasione del debutto parigino del L. come Geronimo: "sa voix magnifique met au jour les beautés de la mélodie que les instruments seuls avaient pu nous faire apprécier; elle donne un accent, une vie, un intérêt nouveau, piquant, à la déclamation […]. On admire tour à tour le son plein, vibrant et suave de sa voix […]. Par des nuances imperceptibles, il sait passer du parlante au récitatif, au chant figuré, mesuré, qu'il abandonnera pour parler encore, et ressaisir sa cantilène" (p. 441).
Nel genere serio colse il maggior successo parigino come Enrico VIII nell'Anna Bolena di Donizetti, a fianco di Giuditta Pasta e di G.B. Rubini (théâtre-Italien, 1° sett. 1831); il suo Elmiro nell'Otello rossiniano e ancora l'Assur della Semiramide suscitarono l'ammirazione di Th. Gauthier. Dal 1832 al 1834 fu ancora a Napoli, con la consueta alternanza di ruoli seri (ancora Enrico VIII, quindi protagonista in Guglielmo Tell di Rossini al S. Carlo nella primavera 1833, e in Zampa di F. Hérold, al Fondo) e comici (ancora Leporello, e Dulcamara nell'Elisir d'amore al Fondo, primavera 1834).
Alla fine del 1834 fu richiamato a Parigi per creare il personaggio di Giorgio ne I puritani di Bellini (théâtre-Italien, 24 genn. 1835), forse l'evento più importante della sua carriera. In quest'occasione il compositore scrisse a Florimo: "Lablache ha cantato come un dio" (lettera del 26 genn. 1835). Nella stessa stagione il L. eseguì poi il Marin Faliero di Donizetti (12 marzo 1835) e nella seguente I briganti di S. Mercadante (22 marzo 1836), entrambe in prima assoluta.
Fino al 1852 il L. si divise fra i mesi caldi a Londra (nel 1836-37 ebbe come allieva di canto la futura regina Vittoria), con numerosi concerti nelle grandi città inglesi, che gli procurarono enorme fama e cospicui guadagni, e le stagioni invernali a Parigi, dove aveva comprato una gran casa a Maisons-Laffitte. Nel 1852 lo zar Nicola I lo invitò a San Pietroburgo e, nel 1856, il successore Alessandro II lo nominò cantante della camera imperiale. Intanto, dal 1854, aveva ripreso l'attività al Covent Garden di Londra (Balthazar ne La favorita donizettiana).
Nel 1856, ai primi segni della malattia, decise il definitivo ritorno a Napoli, ove si spense il 23 gennaio 1858.
Nel L. tutti i contemporanei videro un riformatore, se non un vero innovatore dell'esecuzione vocale dell'opera italiana. La cura dei recitativi lo impose all'attenzione anche di attori e uomini di teatro che elogiarono la sua efficace recitazione della scena del delirio di Assur ("Ah, che miro! là in quella soglia!"; atto II, scena 9). Allo stesso obiettivo di immedesimazione realistica contribuiva la cura dei movimenti scenici, delle espressioni, infine la scelta dei costumi e del materiale di scena, a cui il L. si interessò in modo maniacale: per esempio, per l'Anna Bolena si fece riprodurre un vero abito di Enrico VIII conservato a Londra (Castil-Blaze, p. 440). Perciò Fétis lo definì, nell'ordine, "acteur et chanteur" (p. 149).
R. Wagner lo conobbe nel 1839 a Parigi e ammirò la sua interpretazione di Leporello per la capacità di cantare recitando realisticamente, pur senza forzature al dettato mozartiano. Per lui scrisse un'aria con cori aggiuntiva per la Norma belliniana, gentilmente rifiutata dal Lablache.
Verdi gli affidò il ruolo di Massimiliano Moor nella prima de I masnadieri (Londra, Her Majesty's theatre, 22 luglio 1847), in cui secondo E. Muzio, l'allievo-assistente di Verdi, "Lablache fu meraviglioso" (Garibaldi, p. 349). Per molti anni Verdi pensò a lui come ideale re Lear, progetto mai realizzato. Nel 1850 il compositore di Busseto lo rimpiangeva così: "I cantanti che sanno farsi gli esiti per loro stessi […] la Malibran, i Rubini, Lablache etc. etc. non esistono più" (lettera a F.M. Piave, 8 maggio 1850; Abbiati, II, p. 63). Donizetti collaborò per l'ultima volta con il L. per il Don Pasquale (Parigi, théâtre-Italien, 3 genn. 1843) e, pur conoscendone da tempo le doti, disse: "Lablache è il pilastro degli Italiani" (lettera a P. Branca del 14 genn. 1843; Zavadini, p. 649).
Rimane una Méthode de chant attribuita al L. e considerata, da Fétis in avanti, piuttosto trascurabile; inoltre 28 esercizi, e 12 vocalizzi per voce di basso.
Fra i suoi tredici figli, Federico seguì la professione paterna, debuttando nel 1835 al théâtre-Italien di Parigi con La sonnambula, Francesca sposò il pianista S. Thalberg, Nicola sposò la mezzosoprano Emilie Deméric.

LABLACHE, Luigi
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62
di Antonio Rostagno
LABLACHE, Luigi. - Nacque a Napoli il 6 dic. 1794. Il padre, Nicolas, mercante francese, era fuggito all'inizio del 1794 da Marsiglia a Napoli, dove aveva sposato l'irlandese Francesca Bietach. Morto il padre nel 1799, il L. fu allevato in casa della principessa di Avellino, grazie alla quale ottenne nel 1806 un posto gratuito al conservatorio della Pietà dei Turchini; qui iniziò lo studio del violino e del contrabbasso, più tardi quello del canto con S. Valente.
Con il trasferimento in S. Sebastiano (1808), il conservatorio fu dotato di un teatrino: qui il L. debuttò nel 1809 come basso buffo napoletano nell'opera La contadina bizzarra di Giuseppe Castignace. Assentatosi senza permesso per andare a suonare il contrabbasso a Salerno, fu espulso dal conservatorio; si mantenne cantando nel teatrino dei pupi, allestito provvisoriamente nell'ex refettorio della Pietà dei Turchini, finché l'impresario del teatro S. Carlino lo scritturò per le parti in dialetto. Florimo (1882) situa il debutto del L. al S. Carlino nel 1812 con L'erede senza eredità di Silvestro Palma. Ma Di Giacomo (1967, pp. 267 s.), documenti alla mano, ha rettificato: il L. cantò effettivamente nell'opera di Palma, ma nel 1814 ai Turchini; subito dopo iniziò la prima stagione del S. Carlino (Pasqua 1814), in cui L. cantò Gli sposi in cimento di Luigi Mosca, Nina e Martufo di D. Cimarosa, Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti e, probabilmente, un Pulcinella molinaro (non di Vincenzo Fioravanti e non la Bella molinara, come indicano alcune fonti).
Il L. aveva intanto sposato Teresa Pinotti, proveniente da una famiglia di attori napoletani, che lo convinse ad affrontare ruoli seri in italiano. Negli anni successivi il L. cantò a Messina e al teatro Carolino di Palermo nel Ser Marcantonio di S. Pavesi. Il 15 ag. 1821 debuttò alla Scala di Milano, probabilmente per un'intermediazione di D. Barbaja, come Dandini ne La Cenerentola rossiniana. Sempre alla Scala, dove tornò per tre anni consecutivi, fu il primo interprete di Arnoldo nell'Elisa e Claudio di S. Mercadante (30 ott. 1821), e di Sulemano ne L'esule di Granata di G. Meyerbeer (12 marzo 1822). In quel triennio cantò anche a Roma, Torino e Venezia. Scritturato da Barbaja esordì nel 1823 al Kärntnerthortheater di Vienna con Il barbiere di Siviglia rossiniano (in cui interpretava i ruoli di Figaro, Bartolo o Basilio indifferentemente); in quella stagione cantò poi per la prima volta ne Le nozze di Figaro di W.A. Mozart (Figaro), La gazza ladra e La donna del lago di G. Rossini, Il matrimonio segreto di Cimarosa, trovandosi al fianco di celebrità quali Josephine Fodor, Karoline Unger, Henriette Sontag, D. Donzelli, A. Nozzari e G. David. Vienna gli tributò alti riconoscimenti: F. Grillparzer lo celebrò in versi per le sue interpretazioni del Matrimonio, del Barbiere e della Cenerentola; più tardi, nel 1827, il L. canterà nel Requiem di Mozart per i funerali di L. van Beethoven, e F. Schubert gli dedicherà i Drei Gesängeop. 83, per basso (D. 902) su testi di Metastasio.
Nell'autunno 1823 tornò a Napoli, dapprima al teatro del Fondo (ancora il Barbiere e Costanza e Almeriska di Mercadante), poi al S. Carlo per il Carnevale con la Semiramide di Rossini: la sua interpretazione del ruolo di Assur gli procurò un successo straordinario grazie anche alle sue doti di attore. La stagione si chiuse con l'opera nuova di F. Basily, Il Sansone, poi il L. tornò a Vienna fino alla fine del Carnevale 1825. L'anno seguente, nuovamente a Napoli, creò al S. Carlo il personaggio di Filippo nella prima esecuzione di Bianca e Gernando di V. Bellini (30 maggio). In questi anni al S. Carlo affrontò ancora in prima assoluta opere di G. Donizetti (1826: Elvida; 1828: L'esule di Roma; 1829: Il paria) e di G. Pacini (1825: Amazilia; 1826: L'ultimo giorno di Pompei, Niobe; 1827: Margherita regina d'Inghilterra). Nel Carnevale 1829 partecipò alla prima napoletana del nuovo Mosè di Rossini (23 marzo), quindi alla prima assoluta della Zaira di Bellini per l'apertura del teatro Regio di Parma (16 maggio).
Dopo il ritorno a Napoli per le prime esecuzioni de I pazzi per progetto al teatro del Fondo (Carnevale 1829-30) e Il diluvio universale al S. Carlo (Quaresima 1830), entrambe di Donizetti, L. iniziò la sua maggiore stagione internazionale: alcune fonti segnalano un suo debutto al King's theatre di Londra il 30 marzo 1830 con Il matrimonio segreto, non menzionato da Florimo (1882) né da Fétis. Tutti concordano invece sulla data della prima apparizione a Parigi, al théâtre-Italien il 4 nov. 1830, dove il L. riscosse grande successo nei suoi più celebrati ruoli comici, fra cui Geronimo nel Matrimonio segreto e, per la sua prima volta, Leporello nel Don Giovanni di Mozart.
Scrisse Castil-Blaze in occasione del debutto parigino del L. come Geronimo: "sa voix magnifique met au jour les beautés de la mélodie que les instruments seuls avaient pu nous faire apprécier; elle donne un accent, une vie, un intérêt nouveau, piquant, à la déclamation […]. On admire tour à tour le son plein, vibrant et suave de sa voix […]. Par des nuances imperceptibles, il sait passer du parlante au récitatif, au chant figuré, mesuré, qu'il abandonnera pour parler encore, et ressaisir sa cantilène" (p. 441).
Nel genere serio colse il maggior successo parigino come Enrico VIII nell'Anna Bolena di Donizetti, a fianco di Giuditta Pasta e di G.B. Rubini (théâtre-Italien, 1° sett. 1831); il suo Elmiro nell'Otello rossiniano e ancora l'Assur della Semiramide suscitarono l'ammirazione di Th. Gauthier. Dal 1832 al 1834 fu ancora a Napoli, con la consueta alternanza di ruoli seri (ancora Enrico VIII, quindi protagonista in Guglielmo Tell di Rossini al S. Carlo nella primavera 1833, e in Zampa di F. Hérold, al Fondo) e comici (ancora Leporello, e Dulcamara nell'Elisir d'amore al Fondo, primavera 1834).
Alla fine del 1834 fu richiamato a Parigi per creare il personaggio di Giorgio ne I puritani di Bellini (théâtre-Italien, 24 genn. 1835), forse l'evento più importante della sua carriera. In quest'occasione il compositore scrisse a Florimo: "Lablache ha cantato come un dio" (lettera del 26 genn. 1835). Nella stessa stagione il L. eseguì poi il Marin Faliero di Donizetti (12 marzo 1835) e nella seguente I briganti di S. Mercadante (22 marzo 1836), entrambe in prima assoluta.
Fino al 1852 il L. si divise fra i mesi caldi a Londra (nel 1836-37 ebbe come allieva di canto la futura regina Vittoria), con numerosi concerti nelle grandi città inglesi, che gli procurarono enorme fama e cospicui guadagni, e le stagioni invernali a Parigi, dove aveva comprato una gran casa a Maisons-Laffitte. Nel 1852 lo zar Nicola I lo invitò a San Pietroburgo e, nel 1856, il successore Alessandro II lo nominò cantante della camera imperiale. Intanto, dal 1854, aveva ripreso l'attività al Covent Garden di Londra (Balthazar ne La favorita donizettiana).
Nel 1856, ai primi segni della malattia, decise il definitivo ritorno a Napoli, ove si spense il 23 gennaio 1858.
Nel L. tutti i contemporanei videro un riformatore, se non un vero innovatore dell'esecuzione vocale dell'opera italiana. La cura dei recitativi lo impose all'attenzione anche di attori e uomini di teatro che elogiarono la sua efficace recitazione della scena del delirio di Assur ("Ah, che miro! là in quella soglia!"; atto II, scena 9). Allo stesso obiettivo di immedesimazione realistica contribuiva la cura dei movimenti scenici, delle espressioni, infine la scelta dei costumi e del materiale di scena, a cui il L. si interessò in modo maniacale: per esempio, per l'Anna Bolena si fece riprodurre un vero abito di Enrico VIII conservato a Londra (Castil-Blaze, p. 440). Perciò Fétis lo definì, nell'ordine, "acteur et chanteur" (p. 149).
R. Wagner lo conobbe nel 1839 a Parigi e ammirò la sua interpretazione di Leporello per la capacità di cantare recitando realisticamente, pur senza forzature al dettato mozartiano. Per lui scrisse un'aria con cori aggiuntiva per la Norma belliniana, gentilmente rifiutata dal Lablache.
Verdi gli affidò il ruolo di Massimiliano Moor nella prima de I masnadieri (Londra, Her Majesty's theatre, 22 luglio 1847), in cui secondo E. Muzio, l'allievo-assistente di Verdi, "Lablache fu meraviglioso" (Garibaldi, p. 349). Per molti anni Verdi pensò a lui come ideale re Lear, progetto mai realizzato. Nel 1850 il compositore di Busseto lo rimpiangeva così: "I cantanti che sanno farsi gli esiti per loro stessi […] la Malibran, i Rubini, Lablache etc. etc. non esistono più" (lettera a F.M. Piave, 8 maggio 1850; Abbiati, II, p. 63). Donizetti collaborò per l'ultima volta con il L. per il Don Pasquale (Parigi, théâtre-Italien, 3 genn. 1843) e, pur conoscendone da tempo le doti, disse: "Lablache è il pilastro degli Italiani" (lettera a P. Branca del 14 genn. 1843; Zavadini, p. 649).
Rimane una Méthode de chant attribuita al L. e considerata, da Fétis in avanti, piuttosto trascurabile; inoltre 28 esercizi, e 12 vocalizzi per voce di basso.
Fra i suoi tredici figli, Federico seguì la professione paterna, debuttando nel 1835 al théâtre-Italien di Parigi con La sonnambula, Francesca sposò il pianista S. Thalberg, Nicola sposò la mezzosoprano Emilie Deméric.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

ottimo...avanti così






Re: Da Napoli a Sofia..........
Bravo Gianni. Mario