(PAGINA 70) Sulla bella lettera da Vasto a Napoli il FB da gr. 2 viene annullato col bollo borbonico originariamente predisposto per “marcare” le lettere. Così pian piano andava scomparendo l’utilizzo del bellissimo annullo tipo “svolazzo” (normalmente usato a Vasto sino nel marzo 1861) e si avviava all’uniformità delle procedure nel novello Regno d’Italia. Dall’1 aprile 1861 venne soppressa la Direzione Generale delle Poste di Napoli.
PAGINA 70.jpg
(PAGINA 71) Il bollo circolare borbonico nominativo aveva la data composta di pezzi mobili: giorno, mese ed anno, ma nel bollo di Campobasso l’indicazione del mese OTTOBRE appare al contrario “TTO.” . Ciò non è imputabile ad un disguido dell’addetto alla posta, ma ad un grossolano errore nella realizzazione e fornitura.
PAGINA 71.jpg
(PAGINA 72) Nel periodo borbonico, il mezzo grano serviva per assolvere all’affrancatura dei giornali, stampe e circolari. Successivamente, in seguito all’avvento garibaldino e le vicende che vedono Francesco II e la sua corte rifugiarsi in Gaeta, dal 5 novembre 1860 venne stabilita una riduzione della tariffa ½ tornese (la metà di mezzo grano) per i soli giornali, così dal successivo giorno 6.11.1860 incominciavo a notare le bellissime “Trinacrie” da ½ tornese, realizzate con una metà della tavola del ½ grano (nella colorazione di azzurro e sostituzione della lettera del valore “G” con l’incisione della “T” di tornese). Venne quindi applicata per i giornali la stessa tariffa prevista per gli Stati sardi (½ tornese = 1 centesimo), ma Napoli riesce sempre a distinguersi, infatti nonostante la riduzione fosse prevista solo per i giornali, generalmente venne applicata anche per le stampe e circolari (originariamente contemplati nella stessa voce tariffaria).
PAGINA 72.jpg
pasfil
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
L' odissea dei soldati borbonici in mano ai piemontesi
Fu subito chiaro che la maggioranza dei soldati borbonici aveva mantenuto sentimenti di fedeltà verso i Borbone. Per questo, finita la guerra ed avendo onorato la loro bandiera, quegli uomini si consideravano sciolti da ogni giuramento e impegno militare, così come era avvenuto al termine di ogni conflitto bellico, in tutte le epoche storiche e per qualsiasi truppa sconfitta. Credevano di essere in diritto di tornare nelle loro case, nella loro Patria. Ma dimenticavano che non avevano più Patria, almeno non quella per cui avevano rischiato la vita. Il loro passato non esisteva più e non avevano diritto al riposo. Si assegnava loro solo il dovere di servire il nuovo re. Ma i caprai, i contadini, i piccoli artigiani delle campagne meridionali non ne comprendevano le ragioni: poco sapevano di Unità d' Italia, per loro esistevano solo le radici e la dinastia cui avevano creduto. Il neonato Governo unitario sperava sempre di poter recuperare alle armi la maggioranza delle migliaia di prigionieri catturati in 5 mesi di guerra e convincere gli «sbandati» a presentarsi al Comando provinciale di Napoli, per concludere la ferma militare sotto le bandiere italiane. I prigionieri di Capua, del Volturno, del Macerone, del Garigliano e di Mola erano gli uomini su cui aveva puntato Cavour dopo il Plebiscito, per un possibile potenziamento numerico dell' esercito nazionale. A pochi giorni dalla caduta di Gaeta, ammontavano a 24 mila soldati e 1700 ufficiali. Erano stati trasferiti al nord, dove furono rinchiusi in centri di accoglienza: Milano, Alessandria, Torino, Genova, Bergamo, Rimini, Brescia, le destinazioni. Sporche, mal vestite, poco nutrite queste colonne di vinti transitavano nelle loro prigioni, senza conoscere il loro destino. Non esisteva ancora la convenzione di Ginevra, ma solo delle prassi di trattamento dei prigionieri di guerra, più o meno rispettate dai vari Paesi. D' altro canto, i napoletani erano stati catturati nel corso di un conflitto mai dichiarato. Il Governo Cavour cercò di capire chi fossero e che idee avessero i soldati tenuti prigionieri al nord. Appena due settimane dopo la caduta di Capua, il primo ministro piemontese inviò il generale Alfonso La Marmora ad ispezionare la Cittadella di Milano, dove erano rinchiusi i militari borbonici, per avere un rapporto sui soldati napoletani e sulla possibilità di arruolarli nell' esercito nazionale. La relazione del generale sardo fu un misto di disprezzo e razzismo. Il 18 novembre 1860, comunicò le sue valutazioni a Cavour: «I prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Di 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prender servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d' occhi e da mali venerei...dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Ieri a taluni che con arroganza pretendevano il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco II, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano di servire, che erano un branco di carogne, che avremmo trovato il modo di metterli alla ragione». Cavour rimase molto impressionato. Tre giorni dopo aver ricevuto il documento di La Marmora, scrisse a Luigi Farini, luogotenente del re a Napoli: «Il trattare tanta parte del popolo come prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell' Esercito nazionale è impossibile e inopportuno». Prigionie di mesi, in condizioni difficilissime e con il continuo ricatto morale dell' arruolamento. Molti tornarono, per raccontarlo. In tanti vi morirono. Ma, fino alla capitolazione di Gaeta, si era di fronte a situazioni non regolate da accordi. Quello che avvenne dopo il 13 febbraio 1861 fu invece un vero e proprio arbitrio. Molti ufficiali furono tenuti nelle carceri del nord parecchi mesi. Alcuni non tornarono più a Napoli, trasferendosi a Roma. Altri si isolarono nella loro vita privata. A porre fine giuridicamente alla persecuzione nei loro confronti, arrivò l' amnistia disposta dal re nel 1863, concessa soprattutto come atto di riconciliazione verso i garibaldini dopo l' Aspromonte. Ma le sofferenze dei soldati napoletani continuavano. Oltre ai centri di raccolta, i piemontesi avevano realizzato due veri e propri campi di prigionia. Il più noto era nell' inaccessibile fortezza di Fenestrelle, vicino Torino. Se la maggior parte dei soldati borbonici prigionieri veniva considerata irrecuperabile, con scarse possibilità di inserimento nell' esercito nazionale, allora bisognava cercare di "rieducare" i più irrequieti, tenendoli lontani dai loro paesi, dove avrebbero potuto alimentare la ribellione armata. Un obiettivo affidato al regime detentivo. Le carceri più dure furono istituite essenzialmente nel forte di San Maurizio Canavese e nella fortezza di Fenestrelle (...). Nel forte di San Maurizio Canavese, fu deciso di inviare tutti i recalcitranti alla leva militare, i cosiddetti soldati «sbandati», smistati anche nella Cittadella di Milano, l' attuale Castello sforzesco. Ma vero campo di repressione fu quello di Fenestrelle, a 1200 metri di altezza nell' imbocco della Val Chisone, fortezza diventata prigione dalla fine del ' 700 (...). Formata da una serie di roccaforti in successione, quasi incastrata tra le montagne, Fenestrelle venne costruita ai primi del ' 700 dai Savoia per difendere i confini del Regno. Scrisse, nel confermare il ruolo di quella fortezza nei confronti dei soldati napoletani, la Civiltà cattolica: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento tra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re!». Il 22 agosto del 1861, pur provati e affamati, i soldati napoletani tenuti a Fenestrelle tentarono una rivolta. Prepararono un piano d' azione, ma vennero scoperti, subendo una dura repressione. Ai rivoltosi venne sequestrata anche una bandiera borbonica. In quel periodo, i napoletani detenuti nella fortezza erano 1.000, mentre altri 6.000 erano ammassati a San Maurizio, sotto la vigilanza di due battaglioni di fanteria. Dopo la rivolta stroncata sul nascere, a Fenestrelle vennero inviati soldati di rinforzo per vigilare i prigionieri. Persisteva in quei prigionieri la volontà di non cedere alla situazione di disagio in cui si trovavano, rifiutandosi di accettare l' arruolamento nel nuovo esercito. Nonostante vivessero in condizioni igieniche precarie ed il cibo venisse loro lesinato. Chi, ridotto allo stremo, accettava di arruolarsi, tornato libero, disertava quasi subito. Liberati dai campi di prigionia, i napoletani si allontanavano, fuggendo nello Stato Pontificio, o dandosi alla macchia e ingrossando le bande di briganti nelle loro terre di origine. A centinaia però non riuscirono a tornare dai campi del nord, dove trovarono la morte. A Fenestrelle, la calce viva distruggeva i cadaveri di chi non ce l' aveva fatta a superare il rigore del freddo ed a sopportare la fame (...). L' ospedale della fortezza era sempre affollato. E, nei registri parrocchiali, vennero annotati i nomi dei soldati meridionali deceduti dopo il ricovero in quella struttura sanitaria (...). Ma i nomi registrati non corrispondevano a tutti i prigionieri morti in quegli anni. Per motivi igienici ed essendoci difficoltà a seppellire i cadaveri, molti corpi vennero gettati nella calce viva in una grande vasca, ancora visibile, dietro la chiesa all' ingresso principale del forte. (dal libro I vinti del Risorgimento, Utet 2004 - capitolo 9: «I destini del soldato napoletano»)
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
Per la bandiera di Franceschiello Fu vera rivolta sociale, ma la propaganda ufficiale la chiamò «brigantaggio» di Ottavio Rossani
Il brigantaggio meridionale, che durò dal 1860 al 1870 come opposizione al nuovo Stato unitario, è un evento ancora controverso nella interpretazione degli storici. Sull' argomento approfondisce «Stato società e briganti nel Risorgimento italiano» di Ottavio Rossani . L' autore evidenzia le ragioni dei vinti e analizza la connessione tra brigantaggio, nascita della Questione meridionale e la concezione delle «due Italie», cioè la contrapposizione tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo. Ecco un brano tratto dal sesto capitolo, dove si parla della prima Commissione parlamentare d' inchiesta sul brigantaggio. Nel nuovo Parlamento italiano, a Torino, cominciarono subito le interpellanze dei deputati, soprattutto meridionali, sulla grave situazione del Sud, sugli abusi dell' esercito, sulle stragi che venivano commesse, sullo stato d' assedio arbitrariamente dichiarato dai comandanti militari, disposto per legge solo nell' agosto 1862. Non passava settimana che nel calendario dei lavori non ci fosse un rappresentante politico con un atto d' accusa verso il Governo Le sollecitazioni miravano a spingere il Governo a intervenire nel Sud in un modo più conciliante e costruttivo per eliminare le storture, le ingiustizie, e per bloccare le stragi. Ma i primi presidenti del Consiglio dell' Italia unita furono sordi a questi richiami, in quanto avevano fretta di «stabilizzare» la situazione davanti al consesso europeo. Cavour, Ricasoli e Rattazzi, benché sapessero benissimo di che cosa si trattava, non vollero mai riconoscere pubblicamente che nel Sud ci fosse una rivolta politica e sociale, che le bande armate clandestine stessero combattendo per il ritorno di Francesco II. La linea politica dei diversi governi unitari, davanti al Paese, ma soprattutto davanti all' Europa, era che nel Sud ci fossero «comitive che scorrevano le campagne» esclusivamente criminali, alcune delle quali fomentate anche da qualche comitato borbonico. I Governi non permettevano che ci si riferisse ai fatti del Sud come a una sommossa generalizzata, anche se disordinata, della popolazione a favore dei Borboni e contro Vittorio Emanuele II. Eppure chi aveva orecchie poteva ben intendere quel che veniva denunciato quasi tutti i giorni sia in Parlamento sia sui giornali, e perfino nel Parlamento di Londra, il cui Governo era stato nel periodo 1859-1860 il primo sostenitore dell' unificazione dell' Italia... Cavour e i suoi successori proseguirono sulla linea di legittimazione dell' operato, che oggi si definirebbe criminale, dell' esercito nel Sud, negando (o comunque coprendo) eccessi e ferocia. Anche la storiografia e la memorialistica furono ricche di voci fortemente critiche verso la politica miope dei governi, mentre accadevano i fatti. Garibaldi lasciò scritto nelle Memorie che «senza la tacita collaborazione» della Marina borbonica lo sbarco in Calabria «non si sarebbe potuto fare». Egli stesso quindi liquida la questione dei comandanti borbonici comprati con i soldi raccolti dai «comitati per Garibaldi» in Inghilterra e anche con i soldi di Cavour. Tutta la campagna di Garibaldi è connotata dall' inganno, che egli del resto non nega. Mentre dichiarava di osteggiarlo, Cavour finanziò Garibaldi Gli agenti di Cavour precedettero e accompagnarono la spedizione garibaldina cercando di preparare dovunque nella Penisola gruppi rivoluzionari. E pur tuttavia lo stesso Luigi Carlo Farini, inviato a Napoli come Luogotenente dopo la partenza di Francesco II, in attesa che arrivassero Garibaldi e Vittorio Emanuele, testimoniò: «Fra sette milioni di abitanti non ve n' erano meno di cento che credessero nell' unità nazionale». Massimo D' Azeglio, sei mesi dopo i plebisciti, dichiarò polemicamente sull' uso dei battaglioni per convincere il Sud all' unità: «Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Nel Nord Italia si processano i criminali prima di mandarli a morte; con che diritto, al di là del Tronto, li si impicca prima di processarli? Bisogna sapere dai Napoletani, un' altra volta per tutte, se ci vogliono o no»... La polemica che portò all' approvazione della «legge Pica» durò più di due anni: i deputati denunciavano le pessime condizioni del Sud, la reazione di contadini, sbandati, ex soldati, e anche briganti, come conseguenza del pessimo governo nelle province meridionali dove il rigore, la ferocia e l' indifferenza dei soldati nemmeno erano compensati da investimenti per miglioramenti sociali Tali critiche venivano fatte non solo da deputati meridionali ma anche da settentrionali democratici, che si erano preoccupati di andare nel Sud per rendersi conto di persona di ciò che stava accadendo, come Giuseppe Ferrari .I Governi vollero nascondere la realtà, perfino non accettando per quasi tre anni un dibattito serio sul brigantaggio. La definizione sprezzante di brigantaggio per un fenomeno di ribellione di massa, sia pure disorganizzata, fu una notevole trovata propagandistica per confondere gli osservatori, soprattutto internazionali. Ma, come scrisse Patrick Keyes O' Clery, «il tentativo di attirare l' odio sugli insorti napoletani del 1860-1864, definendoli briganti e confondendo i loro capi con banditi dediti al saccheggio, era quindi un vecchio espediente e ingannò solo coloro che volevano essere ingannati»... I Governi non accettavano che si parlasse di «occupazione piemontese» del Sud, non accettavano che si potesse addossare alla politica della Destra, miope e ignorante sulle condizioni reali del Meridione , la responsabilità della difficile situazione che si era creata.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
LA CURIOSITA' La prima truffa nel 1858 fu denunciata dai Borboni
La truffa al Lotto non sarebbe una novita' , ma avrebbe un precedente che risale a oltre 140 anni fa e che si intreccerebbe addirittura con lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Nell' archivio di Stato di Palermo si trova infatti notizia di un' operazione, condotta dalla polizia borbonica, che porto' all' arresto di 13 persone. La truffa frutto' agli organizzatori circa 10 mila ducati in tre anni e fu resa possibile da due dipendenti "infedeli", Don Giuseppe Naccari e Antonio Campanella, che una volta scoperti fuggirono a Genova per poi tornare in Sicilia due anni dopo, partecipando alla spedizione dei "mille". A scoprire questo "precedente" e' stato il Movimento Neoborbonico, un' associazione culturale che vagheggia il ritorno al periodo antecedente l' unita' d' Italia.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
La Storia Fatta con i Se: Come sarebbe cambiato il destino d' Italia con l' alleanza fra le due dinastie Se Cavour ci avesse ripensato accordandosi con i Borbone La confederazione fra due Stati gemelli fondata su un patto di fratellanza allo scopo di evitare una guerra di secessione all' americana fra Nord e Sud. L' idea di riportare sul trono il re Francesco II di Sergio Romano
Quando uscì da palazzo Cavour il 5 giugno del 1861, Vittorio Emanuele II borbottò nell' orecchio di un gentiluomo di corte: «Non riuscirà a superare la notte». Affondato tra i cuscini in una stanza troppo calda e semibuia, il conte aveva riconosciuto il re, ma si era rapidamente smarrito in un lungo monologo. Sembrava assillato da due questioni su cui tornava ossessivamente: la guerra di secessione americana, scoppiata in aprile quando i confederati degli Stati meridionali avevano espugnato Fort Sumter, e le condizioni del vecchio Regno delle Due Sicilie. Quando pensava all' America diceva: «Non capisco... non capisco...». Quando il pensiero tornava all' Italia del Sud e ai napoletani, si commuoveva: «Non è colpa loro, poveretti, sono stati così mal governati. E' colpa di quel furfante di Ferdinando... Li governerò con la libertà e mostrerò ciò che dieci anni di libertà possono fare in queste belle regioni. Fra vent' anni saranno le province più ricche d' Italia». Intorno a lui il medico e gli amici lo guardavano disperati. Uscendo dal palazzo il medico bisbigliò al maggiordomo: «Temo una crisi nel mezzo della notte. Chiamatemi appena succede». Ma Cavour sprofondò nel sonno e dormì sino all' alba. Quando si svegliò era debole, ma lucido e quasi completamente sfebbrato. Dopo avere controllato la febbre e i battiti del polso il dottore non credeva ai suoi occhi. Il malato continuò a sonnecchiare. Verso le cinque e mezzo del pomeriggio il maggiordomo gli annunciò padre Giacomo, parroco della Madonna degli Angeli che aveva ricevuto la sua confessione due giorni prima. Quando entrò nella stanza Cavour si mise a sedere sul letto e gli disse sorridendo: «Buon giorno, frate»; e poi, strizzandogli un occhio: «Libera Chiesa in libero Stato!». La convalescenza durò tre settimane. Nel suo ufficio, quando tornò al lavoro, Cavour trovò gli stessi problemi di cui si era occupato sino al giorno (il 29 maggio) in cui era stato improvvisamente colpito da conati di vomito, brividi di freddo e una sete morbosa. Occorreva decidere la sorte dei corpi garibaldini (assorbirli nell' esercito o scioglierli?), definire la forma dello Stato unitario (regime centralizzato e prefettizio o autonomie comunali?), finanziare i lavori del Moncenisio e l' ampliamento della flotta, fare pressioni su Napoleone III perché riconoscesse il regno e mandasse un ambasciatore a Torino. Ma nelle sue conversazioni con i consiglieri più intimi (Isacco Artom e Costantino Nigra) la sua attenzione tornava continuamente ai due temi che avevano occupato la sua mente nei giorni della malattia: la guerra civile americana e le condizioni del Sud. Voleva essere aggiornato, esigeva rapporti quotidiani, chiedeva che gli fossero segnalati gli articoli più interessanti sulla stampa nazionale e internazionale. Quando Artom, verso la metà di luglio, gli disse che l' esercito dell' Unione era stato sconfitto dai confederati qualche giorno prima a Bull Run in Virginia e che gli unionisti si erano ritirati in disordine verso Washington, ascoltò attentamente con espressione accigliata senza dire parola. Quando Nigra gli riferì che alcuni passi di zone montagnose in Basilicata, Calabria, Irpinia e Molise erano stati occupati da bande di briganti e che la bandiera bianca dei Borbone era riapparsa nei villaggi, Cavour volle notizie su un legittimista spagnolo, José Borjes, che era sbarcato in Calabria più di un mese prima e si era unito ai gruppi di Carmine Crocco. Verso il 20 luglio ricevette il generale Enrico Cialdini, da poco nominato luogotenente di quello che era stato sino a un anno prima il Regno delle Due Sicilie. Cialdini gli disse che occorreva rafforzare il dispositivo militare nel Sud, soprattutto in Calabria e in Basilicata, perché i briganti diventavano sempre più aggressivi e meglio organizzati. Cavour gli consigliò bruscamente di mettersi d' accordo con il ministro della Guerra. Nel corridoio Cialdini incrociò Nigra. «Mi è sembrato di cattivo umore» gli disse. «E' sempre così quando si parla del Sud» rispose Nigra. In ottobre Cialdini cedette l' incarico ad Alfonso Lamarmora. Con lui il presidente del Consiglio fu esplicito. «La situazione nel Sud - gli disse - non mi piace e non ho nessuna intenzione di lasciarmi imprigionare in una guerra di tipo americano. Le do tre mesi per capire quello che sta succedendo. In dicembre decideremo». L' 8 dicembre Borjes fu catturato mentre stava cercando di raggiungere a Roma l' ultimo Borbone di Napoli, Francesco II. Lo avevano trovato in una cascina, nei pressi di Tagliacozzo, con un gruppo di briganti, lo avevano stanato con alcune raffiche di fucileria e passato per le armi poche ore dopo dopo. Il ministro della Guerra, trionfante, portò la notizia a Cavour. «E' una vittoria» gli disse. «No - rispose Cavour - è soltanto un episodio». Pochi giorni dopo disse a Nigra che voleva parlare con Massimo d' Azeglio. Tutti sapevano che d' Azeglio era contrario all' annessione del Sud e che lo aveva detto esplicitamente nelle 60 pagine di un opuscolo intitolato Questioni urgenti, pubblicato pochi mesi prima. Ma era la voce isolata di un uomo politico intelligente e stravagante che aveva alternato gli incarichi di governo ai piaceri intellettuali della scrittura e della pittura. La conversazione avvenne verso la metà di gennaio ed ebbe per tema l' opuscolo dei mesi precedenti. D' Azeglio era convinto che tra le regioni dell' italia centrosettentrionale e quelle dell' Italia meridionale le differenze culturali, le diverse tradizioni e gli interessi sconsigliassero l' unità. Spiegò a Cavour che la soluzione migliore sarebbe stata l' unione personale di due regni sotto la corona di Vittorio Emanuele II. I due Stati avrebbero avuto lo stesso re, ma ogni Stato avrebbe conservato le proprie leggi e burocrazie, i propri regimi doganali e sistemi economici. Cavour stette ad ascoltare attentamente fino a quando, all' improvviso, come se parlasse a se stesso, esclamò: «Perché, invece, non richiamiamo sul trono Francesco II?». «Ma in questo caso - replicò d' Azeglio - non sarebbe una unione». Cavour cominciò a immaginare alcune formule istituzionali: un «patto di fratellanza» fra i due Stati, un governo per gli affari comuni, un accordo segreto perché il ministro degli Esteri e quello della Guerra venissero sempre scelti da Torino. L' Operazione fratellanza, come fu chiamata in codice, cominciò nei giorni seguenti. D' Azeglio fu mandato a Roma per un primo abboccamento con Francesco II. Nigra andò a Parigi e a Londra per ottenere l' appoggio francese e inglese. Bettino Ricasoli e Marco Minghetti ebbero l' incarico di prendere contatto con i rappresentanti della Santa Sede. Fu necessario convincere Garibaldi, pagare parecchi mediatori e prendere a carico del governo di Torino, in segno di buona volontà, le spese dei Borbone a Roma. Ma alla fine l' accordo fu raggiunto e Francesco II, come convenuto, indirizzò un proclama in cui chiese ai suoi «bravi» di deporre le armi e tornare a casa. Era il 17 marzo 1862, un anno dal giorno in cui il parlamento di Torino aveva proclamato Vittorio Emanuele II re d' Italia. Cinque anni dopo, nell' ottobre del 1867, l' ambasciatore d' Austria chiese di essere ricevuto da Cavour, ormai installato a Firenze, e gli comunicò che Francesco Giuseppe avrebbe annunciato di lì a poco la nascita di una unione austro-ungarica simile a quella fra l' Italia centro-settentrionale e l' Italia meridionale. «La nostra è una unione personale - disse l' ambasciatore - ma tenevo a dirvi che abbiamo copiato alcune delle vostre soluzioni». Cavour governò per altri due anni. Nel settembre del 1869, dopo una difficile riunione alla Camera, ebbe una crisi molto simile a quella del 1861. Questa, disse a se stesso, è la volta buona. Volle congedarsi dai suoi amici e collaboratori. Erano tutti in piedi intorno al suo letto quando uno di essi, Quintino Sella, gli chiese improvvisamente: «E Roma? Che cosa dobbiamo fare?». Prima di rispondere Cavour lo guardò a lungo. Poi disse con un filo di voce: «Pensateci, pensateci bene». Si scatenò la caccia al ribelle IN REALTÀ... Cavour morì il 6 giugno 1861, dopo soli due mesi dalla proclamazione del Regno d' Italia (17 marzo): lo statista non fece a tempo ad affrontare i problemi dell' unificazione. Il tentativo di restaurazione del regno borbonico di José Borjes, generale catalano, fallì miseramente. Il 7 dicembre 1861 i ribelli furono catturati e fucilati il giorno seguente a Tagliacozzo. Francesco II di Borbone visse in esilio prima a Roma, poi ad Arco di Trento, dove morì nel 1894.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
L' impresa dei Mille entusiasmava Dumas anche perché odiava i Borbone, ritenendoli responsabili della morte di suo padre di Massimo Nava «Quando i due battelli furono vicini, fin quasi a toccarsi, Garibaldi domandò a Bixio quanti fucili avesse a bordo. Mille, rispose Bixio. E quante pistole? Nessuna! Il mare era grosso, il cielo sempre minaccioso...» È un inviato davvero speciale colui che racconta e fa conoscere in tutta Europa la spedizione dei Mille, contribuendo così alla fama di Garibaldi e alla simpatia per la causa italiana. Un inviato che si precipitò a Genova, si unì ai garibaldini e ne descrisse le battaglie e gli eroismi fino al trionfale ingresso a Napoli. Alexandre Dumas s' imbarcò su una goletta di sua proprietà, la «Emma». Era vestito di bianco, con un cappello ornato da piume blu, bianche e rosse. A bordo c' era una giovanissima amante, vestita da marinaio, così che i garibaldini la chiamavano l' «Ammiraglio». Durante il lungo viaggio la pancia dell' Ammiraglio cominciò a ingrossarsi e «venne al mondo una garibaldina»... e Dumas divenne padre a quasi sessant' anni. La folle impresa di Garibaldi entusiasmava Dumas, sia perché gli sembrava di veder tradotte nella realtà le avventure dei suoi romanzi, sia perché odiava i Borbone, ritenendoli responsabili della morte di suo padre. Lo scrittore spese un po' dei suoi risparmi per procurare armi e camicie rosse a colui che considerava «una leggenda vivente, il condottiero della libertà, il soldato dell' indipendenza», come ebbe poi a scrivere in numerosi articoli e libri, fra cui le celebri Mèmoires de Garibaldi. In pratica, gli scritti di Dumas furono un primo grande esempio di evento mediatico e del peso della stampa nelle vicende politiche. Lo scrittore aveva conosciuto a Parigi il fratello maggiore di Nino Bixio, Alexandre, un personaggio rimasto stranamente in ombra nella nostra storiografia, ma decisivo in alcuni passaggi cruciali del Risorgimento. Immigrato giovanissimo, giornalista, medico, deputato, uomo d' affari e amico personale di Dumas - incontrato sulle barricate della Rivoluzione del Trenta - aveva fatto da tramite fra Cavour e Napoleone III. Fu lui, fra l' altro, a combinare il matrimonio fra il cugino dell' imperatore e la figlia del re Vittorio Emanuele. E fu attraverso i fratelli Bixio che Dumas entrò in contatto con Garibaldi e si mise in testa di seguire la spedizione. Dumas arrivò il 9 maggio, quando i Mille avevano già preso il largo, ma non si perse d' animo e recuperò il tempo perduto. Raggiunse i garibaldini a Palermo e cominciò a scrivere la cronaca degli avvenimenti. In verità, al direttore de Le Siécle inviò un primo dispaccio in cui traduceva gli appunti di un «compagnon de Garibaldi», ma la penna e gli occhi traboccanti di passione erano i suoi. Descrisse Garibaldi, avvolto in un mantello scuro, e Bixio, in un' uniforme militare con i risvolti rossi. Il «compagnon» era probabilmente Giuseppe Cesare Abba, il quale, la sera della partenza da Quarto, annotò: «Chi, fra quanti siamo qui, non ripensa che oggi è l' anniversario della morte di Napoleone?». Garibaldi aveva perfettamente capito quanto Dumas potesse contribuire al suo mito e di conseguenza alla causa italiana. Da parte sua, lo scrittore, sensibile ai diritti d' autore e spesso oberato da debiti, trovò nelle vicende garibaldine una straordinaria fonte di successo e pubblicistica. Dal loro sodalizio, oltre che da una sincera amicizia, nacque anche un giornale, l' Indipendente, pubblicato a Napoli grazie a un finanziamento di Garibaldi. Qualche mese dopo, Dumas cominciò a raccontare sulle prime pagine alcuni episodi della spedizione dei Mille, fra i quali l' emozionante momento della partenza e il drammatico dialogo fra Bixio e Garibaldi. La storia d' Italia e dei Borbone veniva anche condensata in dispense per gli abbonati e fu quello un primo esempio di promozione di «collaterali». Una lettera di Garibaldi, pubblicata sull' Indipendente, andrebbe riletta oggi, nel clima di polemiche che attornia le celebrazioni. È l' aprile del 1861. «Molti individui che compongono il Parlamento non corrispondono degnamente alle aspettative della nazione, ma la nazione è compatta, a dispetto di chi non lo vuole, e il mondo sa che cosa può fare l' Italia concorde. Hanno voluto creare un dualismo fra l' esercito regolare e i volontari... ma lasciamo queste immondezze perché al di sopra di tutto c' è l' Italia. La nostra storia non è eguagliata da nessun popolo della terra. Quando saremo tutti uniti ci temeranno. Abbiamo la simpatia delle grandi nazioni. Siamo concordi, e l' Italia sarà». Dumas era scrittore inesauribile, ma si avvaleva - anche per i suoi romanzi - di oscuri collaboratori. Per gli articoli dell' Indipendente, che usciva in lingua italiana, aveva bisogno di un traduttore. Lo trovò fra i garibaldini. Era un ragazzo, con un padre napoletano e una madre francese, Eugenio Torelli-Viollier, il quale, molti anni dopo, fondò a Milano il Corriere della Sera, il giornale della nuova classe dirigente italiana.
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
LE RIVELAZIONI IMPUNITARIE DELLA PENTITA COSTANZA DIOTALLEVI
di ITALO ZANNIER
da "Il Risorgimento in Pellicola" a cura di Davide Del Duca, IRRSAE Cinemazero, Pordenone, 1991
L'affaire Diotallevi é certamente come scrive Piero Becchetti, "il fatto più clamoroso di tutta la storia della fotografia italiana", ma é anche una tra le prime testimonianze della utilizzazione della fotografia per fini politici, facendo ricorso al falso e al fotomontaggio. "Un fatto di inaudita gravità", afferma il De Cesare nella sua monumentale storia di Roma, "accadde nei primi giorni del febbraio 1862, sollevando un grido di indignazione di tutta la gente onesta, né a Roma soltanto, ma a Parigi, a Vienna, a Monaco, a Torino e a Napoli. Furono fatte e distribuite false fotografie ignobili della spodestata regina, né ingiuria più vile fu immaginata contro l'onore di una donna (...) La polizia si mise alla ricerca degli autori di tanta ignominia, e li scopri in persona dei coniugi Antonio e Costanza Diotallevi, giovani fotografi di fama perduta. Furono arrestati...". Era il 6 marzo 1862 quando, con l'arresto dei coniugi Costanza Vaccari e Antonio Diotallevi da parte dei gendarmi pontifici, si concludeva a Roma il primo atto della complessa vicenda di cui intendiamo dare notizia, anche sulla base di un sollecitante volumetto pubblicato clandestinamente nel 1863, che é stato pressoché dimenticato fino a oggi, se si esclude qualche incompleta citazione. I coniugi Diotallevi, che pare esercitassero il mestiere di fotografo a Roma, "al numero 9 di Via del Farinon", vivevano, più probabilmente, "di ripieghi", non essendo rimasta traccia della loro attività fotografica, se si esclude l'implicazione, forse indiretta, nello scandalo delle false fotografie oscene, che avevano per soggetto gli spodestati reali di Napoli, ospiti del Papa, dopo la fuga dal forte di Gaeta il 14 febbraio 1861. Antonio Diotallevi, sottotenente dell'esercito pontificio, "seconda compagnia del primo reggimento Linea Pontificia", era stato destituito e "ridotto a vita del tutto miserabile" a causa del suo matrimonio "senza la debita licenza" con Costanza Vaccari, ventenne e bella, ma povera, (non possedeva la dote richiesta di 3000 scudi), celebrato "per contentar la madre moribonda, alle ore 1 e mezzo della notte del dì 5 gennaio 1859". A causa di questa infrazione ai regolamenti era stato arrestato, ma in seguito liberato, per intercessione della sposa Costanza presso il generale conte De Goyon, comandante del corpo francese di occupazione. Antonio Diotallevi, espulso però dallo Stato Pontificio, si rifugiò temporaneamente in Piemonte, dove entrò in contatto con le organizzazioni patriottiche italiane. Costanza, rimasta sola, nonostante il mestiere di fotografa, pittrice e mosaicista, come in seguito si definì, "studiò di riparare alla miseria non guardando da maritata la sua onestà più gelosamente di quello che avesse fatto mentre era nubile..."; la reputazione dei coniugi Diotallevi non doveva essere comunque delle migliori a quel tempo, anche se non si vuole dare del tutto credito a quanto sul loro conto ebbe a declamare un certo avvocato Dionisi, nel corso di una requisitoria al processo contro i patrioti romani Venanzi e Fausti, dove Costanza, come vedremo, svolgerà il ruolo di "pentita" e quindi di spia, denunciando in modo categorico fatti e personaggi collegati al clandestino Comitato Nazionale Romano, un'organizzazione patriottica pagata dai piemontesi, che dal 1853 stava dando molto filo da torcere alla polizia e alla S. Consulta Pontificia. Durante il processo l'avvocato Dionisi si era, tra l'altro, espresso così; "Mi è forza poi di non discendere a più precisi ragguagli sulla vita e costumi di tali soggetti famosissimi per ogni bruttura e per qualificato lenocinio. E dubbio se i Diotallevi esercitassero il mestiere di fotografo, e neppure la lunga "confessione" di Costanza, pubblicata con note e commenti dal Comitato Nazionale, aiuta a far luce su questa loro condizione professionale; sembra soltanto accertato che Costanza possedeva una "macchina fotografica", il che era comunque per se stessa una colpa, a leggere il comma secondo del famoso "Editto" del Cardinale Vicario Costantino Patrizi, pubblicato il 28 novembre 1861, con lo scopo di controllare usi e abusi nel settore della fotografia, ma soprattutto "perché da questo utile ritrovato delle Scienze niun danno provenga alla onestà dei costumi...". La pena per tale misfatto, "ritenere macchine fotografiche per proprio e privato conto", consisteva nella multa "dagli scudi venti ai cinquanta", mentre per i "Modelli" che si fossero prestati "a essere effigiati in modo, o atto contrario al costume e alla pubblica decenza si riservava "un anno di opera pubblica", qualcosa di simile ai lavori forzati. Infatti, "a pochi mesi dalla pubblicazione dell'Editto, nei primi giorni del febbraio 1862, scoppiò lo scandalo..."; lo scandalo delle false fotografie costruite in studio, e dei fotomontaggi realizzati con forbici e colla, che raffiguravano la bella e giovane regina Maria Sofia, e il marito Francesco II di Borbone, in pose oscene, con lo scopo evidente di porre in discredito sia la Corte napoletana in esilio, sia quella pontificia che ne era l'ospite. Il pericoloso mercato delle fotografie pornografiche, non era però allora a Roma cosi ampio da giustificare la fabbricazione e la diffusione di queste impertinenti e diffamatorie immagini, se non con motivazioni politiche, legittimate invece dalla situazione internazionale assai tesa, dopo la spedizione dei Mille, la proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861, i tentativi garibaldini di conquistare Roma con la forza. I "piemontesi", tramite il Comitato Nazionale Romano, avevano creato a Roma una fitta rete di propagandisti e di agitatori (e anche di "terroristi"), che davano molto fastidio alle autorità pontificie, intenzionate però, anche con l'aiuto degli alleati francesi (il corpo degli zuavi, comandati dal De Goyon, prim'attore in questa vicenda e amante della Diotallevi), alla più rapida repressione. Chi altri, se non gli avversari politici del Borbone e del Papa, poteva aver avuto interesse a diffondere presso le Corti europee le immagini di Sofia così oscenamente allusive? E' improbabile che l'iniziativa sia stata dei poveri, presunti fotografi Diotallevi, come tentarono di dimostrare quelli del Comitato Nazionale Romano, pubblicando il volumetto di ben 204 pagine, nel quale sono riportate e commentate aspramente soprattutto "le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi nella causa Venanzi-Fausti", in un processo che portò all'arresto di innumerevoli patrioti e fiancheggiatori, denunciati da Costanza in cambio della libertà sua e del marito, accusati come s'é detto, di essere gli autori delle famigerate fotografie, che vennero utilizzate come pretesto per un'ampia operazione di polizia politica. "La Diotallevi, avezza a vendere il suo corpo a chi ne avesse voluto, vendette al Processante la sua coscienza", precisa l'anonimo estensore dell'opuscolo clandestino, che in appendice contiene anche una serie di lettere autografe di Costanza, stampate in fac-simile con una tecnica fotografica, scritte durante la detenzione, e che avrebbero dovuto convalidare la tesi dei "piemontesi" circa la falsità di molte sue dichiarazioni, e comunque ribadire obbiettivamente l'ambiguità della spia pentita Costanza. Questa sosteneva di essersi infiltrata nell'organizzazione piemontese, per conto del generale De Goyon, "tipo antipatico personalmente, e subdolo politicamente", precisa il De Cesare, e di essere riuscita a ottenere una tal fiducia presso i patrioti romani, da meritare l'incarico dell'esazione degli "oboli per il Monumento a Cavour... Ma la Diotallevi, scrive De Cesare, "fu spia, ad un tempo, dei comitati liberali, del generale De Goyon, del De Merode, di monsignor Sagretti, del Collemassi (il Processante, n.d.a.); ingannò tutti e spillò denaro da tutti... Nonostante ciò, Costanza Diotallevi, a poco più di vent'anni riuscì ad essere un personaggio di primo piano, durante l'importante processo politico a "Venanzi-Fausti", e anche se la sua cultura, come quella di altre donne "delle quali in ogni tempo si servì la corte pontificia, adoperandole negli incarichi più gelosi della diplomazia, delle cospirazioni e dello spionaggio (...) non superava una discreta conoscenza della lingua francese...", nelle sue dichiarazioni al Processante, il giudice pontificio Collemassi, riportate nel libretto dell'ottobre 1863, rivela una notevole abilità e furbizia nel destreggiarsi con i fatti e con gli innumerevoli personaggi da lei coinvolti e quindi fatti arrestare. Gli incartamenti relativi alla "rivelazione" di Costanza erano stati poi "sequestrati" dal Comitato Piemontese, che aveva subito provveduto alla pubblicazione e a depositare le carte processuali e le lettere originali, "nell'ufficio del giornale fiorentino La Nazione", ove rimasero "per lo spazio di due mesi a datare dal 1 ottobre (1863 n.d.a.), a disposizione di chiunque avesse avuto intenzione di leggerle e di verificarle. Circa le fotografie in questione, che però nel processo ebbero un parte secondaria e pretestuosa, il Comitato Nazionale Romano tentò di attribuire tutta la "ignobile" iniziativa ai Diotallevi, mentre Costanza invece sostenne nella sua deposizione, che gli scopi dei "piemontesi" erano quelli di fare offesa alla coppia reale, anche mediante altre iniziative, tra cui un'aggressione al Re, non riuscita, lungo i viali del Pincio, e una "impertinenza" a Maria Sofia, durante una delle sue abituali uscite da Palazzo in carrozza. Il processo ebbe inizio il 3 febbraio 1863 e in questa occasione Costanza si offrì di "fornire prove sulla reità del Fausti", abbandonandosi inoltre a un racconto ben più ampio, articolato e senza inibizioni, circa le fotografie oscene delle quali era accusata d'essere l'autrice e che forse non erano neppure in possesso del Tribunale, se Costanza dovette descriverle nel dettagli. Per questa oratoria, Costanza si meritò una sfilza di epiteti poco lusinghieri, da chi ha scritto il libretto in questione, che, di volta in volta, così la definisce: Arianna, Sibilla, fatidica, Signora riservata, Madama, Dulcinea, prostituta, ispirata dama, Dea, Minerva, in un alternarsi di rabbia e di ironia Occupandoci noi ora soprattutto degli aspetti che riguardano la fotografia, è opportuno ricordare in questa cronaca che a quel tempo, a Roma, il ritratto della bella Sofia era assai ricercato e in città circolavano molte "carte de visite", che la ritraevano in pose e abbigliamenti vari e anche stravaganti, come scrive Louis Delatre nei suoi "Ricordi di Roma", quando afferma che essa si prestava volentieri a quei capricci e ne nacque una serie interminabile di ritratti... Era vestita da artigliere, da marinaio da zuavo, da amazzone, da monaca, da borghese, da signora; a piedi, a cavallo, in tilburv; col fucile, col crocefisso, col frustino, col ventaglio" (ma dove sono conservate queste fotografie? n.d.a.). Delatre, quasi per giustificare l'esistenza delle fotografie oscene aggiunse che "insomma non mancava più che raffigurarla da Venere o da Eva... "Un fotografo anonimo non si peritò di colmar tal lacuna precisa infatti Delatre, e "fece la regina in Venere del Tiziano circondata da cardinali, da monsignori e da guardie nobili che le presentavano i loro omaggi. Il Papa, in fondo, dava a tutti l'apostolica benedizione". Il "fotografo anonimo", secondo il Comitato Nazionale Romano e, in un primo tempo, anche per convinzione della polizia pontificia, sarebbe stata Costanza Diotallevi, oppure suo marito, che avrebbe utilizzato la moglie come modella, essendoci, si assicurava una notevole somiglianza fisica tra Costanza e Maria Sofia di Borbone. Ma Costanza Diotallevi, nelle sue "rivelazioni", offri altre versioni, per scagionarsi, coinvolgendo nel contempo diversi fotografi romani, sia pure indirettamente, tra cui addirittura don Antonio D'Alessandri (1818-1893) che, assieme al fratello Paolo Francesco, aveva uno studio, prima in Via del Babuino 65 e quindi in Via Condotti, 61-63 ed era "fotografo pontificio"' il nome del D'Alessandri, scrive però Silvio Negro, che si è occupato in varie occasioni dell'affaire Diotallevi, "si trovò senza colpa mescolato nello scandalo fotografico verificatosi ai danni della Regina di Napoli, esule a Roma, la bellissima Maria Sofia...", in quanto i due fratelli D'Alessandri avevano "la privativa dei ritratti di Pio IX e della Corte papale e furono anche i fotografi dei Borboni a Napoli esuli a Roma dopo il '61... Costanza, come si legge più precisamente nel suo racconto, indica quale autore di una parte delle fotografie incriminate (i fotomontaggi), un certo Belisario Gioia "ritoccatore nello studio D'Alessandri in via Condotti, che è quello che ha fatto tutti i ritratti della regina e ne ha privativa", che avrebbe prelevato alcune copie delle immagini di Sofia e da esse tagliato "la testa a quella che sta in volgimento a destra a mezzo profilo e a grandezza normale", provvedendo a "copiarla ed attaccarla poi al corpo pur copiato e decapitato della modella". (La fotografia della modella nuda, sempre secondo Costanza, sarebbe invece stata sottratta dallo studio del fotografo "Mariannecci al Babuino "). Questo Belisario Gioia, dunque, risulterebbe tra i primi autori di fotomontaggi politici, ossia l'Heartfield della Roma papale, ma non vi é purtroppo nessun'altra traccia della sua esistenza, se si esclude questa descrizione di Costanza, che offre comunque altre indicazioni sulla tecnica usata, precisando che "il detto Gioia ritoccò il tutto perché non si conoscesse l'attaccatura". La regina, in uno di questi fotomontaggi, continua Costanza, é raffigurata "in piedi, ignuda totalmente, con le mani, che l'una tiene l'altra al basso ventre, e Goyon alla borghese che la sta guardando", dove evidentemente era stata utilizzata nella composizione a collage, una fotografia di repertorio del generale. Costanza Diotallevi risultò coinvolta anche in questa faccenda, perchè sua sarebbe stata la macchina fotografica che, lei stessa confessò, "si trovava di aver prestata a Catufi, il quale l'ha tuttora; ed appunto non me ne rifiutai perché volevo conoscere minutamente il tutto per il fine che mi ero"; ossia di fare la spia per conto del De Goyon. Quanti fotomontaggi vennero in effetti prodotti e diffusi? Costanza affermò che di quello descritto "ne hanno fatte più produzioni", pur ritenendo "che non siano state pubblicate se non dentro Roma", mentre di "un altro fatto in simile positura sostituendo però al generale De Goyon l'Eminentissimo Antonelli...", non seppe indicare quante copie vennero fatte, perche quando fu arrestata "stavano lavorando". Il fotografo Gioia finì naturalmente in carcere assieme a molti altri, tra cui Domenico Catuffi ("pittore di quadri" in vicolo del Vantaggio 8), Antonio Marianecci e Achille Ansiglioni, fratello di Giuliano, fotografo attivo in Via del Corso 150, che venne però a sua volta compromesso dalle dichiarazioni di Costanza, come si rileva dal suo racconto, che riportiamo più avanti integralmente, dove si fa ampia luce sul contenuto delle immagini in questione, per le quali forse era stata la stessa Costanza, come s'è detto, a far da modello, invece della giovane "scuffiara", sosia di Sofia, che non venne mai rintracciata Nella complessa vicenda fu coinvolto, come fotografo, anche monsignor Filippo Bottoni, che venne arrestato per aver eseguito fotografie pornografiche, a suo dire realizzate come innocenti studi di nudo, per conto di alcuni pittori; "al Cardinale Vicario di Roma", scrisse così allora nella sua deposizione mons. Bottoni, "giustamente inquieto per le fotografie oscene che erano in giro per la città, nelle quali veniva offesa l'onestà della Sacra Persona del Santo Padre e della ex Regina di Napoli, era stato riferito esservi un prete dilettante di tali schifose operazioni...". Comunque, Costanza Diotallevi, nel secondo atto di questa tragicommedia, diede sfogo alla parola, forse anche alla fantasia, durante la "rivelazione impunitaria", e così spiegò al Processante, per filo e per segno, come si erano svolti i fatti di cui era a conoscenza: "Sappia adunque che il partito divisò di fare ingiuria alla corte di Napoli col ritrarre in mosse le più oscene la regina, ed ecco come si principiò a dare esecuzione all'iniquo divisamento. Evvi una giovane scuffiara, romana per quanto credo di nascita, dell'età di circa vent'anni, che nei primi dì del gennaio 1862 lavorava come giovane presso la cuffiara al pozzo delle Cornacchie, e che, dopo aver cercato di prender con essa entratura ordinandole un cappello di scudi 5 che inutilmente ho atteso, non ho potuto più sapere ove sia andata, e non mi si é voluto dire né dalla cuffiara né dalle altre giovani ove sia ed ove dimori. Questa giovane che somiglia quasi alla perfezione, fu chiamata da... (i puntini sono nel testo originale, n.d.a.) Deangelis della Manziana: portata a casa sua, sotto pretesto di far cappelli alla sua amica che tiene, e per la quale ha abbandonata la famiglia, ebbe dallo stesso Deangelis da prima scudi 100, con la qual somma dopo tante renunzie, condiscese a farsi ritrattar nuda con la fotografia quattro volte, ossia si stabilì dovesse stare a quattro pose di diverso atteggiamento sempre perfettamente ignuda. Fu ritratta nella stessa camera del Deangelis dall'ottico Ansiglioni padrone proprio del negozio al Corso (il corsivo è nel testo originale, n.d.a.), uomo grasso, basso, rosso, di circa anni 35, fratello di Achille Ansiglioni su nominato. Domenico Catufi poi fu quello che incollò nei cartoni e ritoccò le negative del ritratto. Ne tirarono circa 60 copie, delle quali 15 ne furono mandate a Torino, 10 a Parigi, a mezzo di spedizione qui fatta a Terni a Pietro Patrizi, mentre esso ha trafile certe di corrispondenza; per Roma ne furono mandate una trentina e ne spedirono, credo, per la posta un esemplare al re di Napoli e forse anche all'Eminentissimo Antonelli, e al General francese. Uno degli atteggiamenti era totalmente ignuda, seduta semisdraiata in una poltrona, con la mano alla natura in atto di far ditali avente in prospettiva di essa i ritratti di Sua Santità, del signor Generale, dell'Eminentissimo Antonelli e dell'ufficiale de' zuavi De-Castro. La seconda posizione rappresentava la regina ignuda al bagno in una bagnarola rotonda sulla quale galleggiavano membri umani di tutte le proporzioni quali essa andava accarezzando. La terza si vedeva ignuda, lunga sopra un sofà, avente sopra in atto di coito uno zuavo in modo da non vedersi il volto, e si divulgò essere quello De-Castro ufficiale dé zuavi; sotto poi a questa esposizione leggevasi in lingua spagnuola "Tomes sit gigar" (prendete questo zigaro). Gli posero questa espressione, perché al dir di essi, stando in un giorno De-Castro dal re dopo il pranzo, nel dare un sigaro alla regina così si esprimesse e che nel riceverlo le stringesse la mano; del che accortasene la regina madrigna facesse chiassi, e che irritata la regina giovane di ciò, prendesse un pizzo della tovaglia e mandasse in guasto la tavola; ciò che ha riferito un giovane da me sconosciuto, ma che la corte chiama sempre in aiuto dei camerieri per servire a tavola, e che vi fu a servire anche all'occasione che fu a pranzo dal re di Napoli Sua Santità. Questo birbante seppe dire perfino che Sua Santità si era ubriacato, appoggiando che questa era la sborgnia del giorno avanti allorché Sua Santità si svenne dicendo o assistendo messa la terza festa di Pasqua 1861. La quarta posizione rappresentava la regina sempre ignuda in un sofà mezza addormentata, e Sua Santità che sta per entrare nella porta che vedesi traschiusa, ed il Generale francese in distanza vestito però alla borghese che segue Sua Santità. Debbo avvertire che dopo tali ritratti, la giovane é svanita da ogni mia ricerca. Hanno voluto far nuove ingiuriose produzioni; ma non essendo reperibile la detta giovane cuffiara, hanno per farle presa una copia di modella che esisteva nello studio da fotografo di Mariannecci al Babuino, e questa copia fu comprata da Achille Ansiglioni ….". Questa é la efficace descrizione dettata da Costanza Diotallevi, circa alcuni tra i più antichi falsi della storia della fotografia, utilizzati allora dai "piemontesi" in un'operazione politica, che mise però a rumore, non tanto il disattento popolino romano, quanto le Corti europee, dove appunto vennero inviate le verosimili immagini, credibili quel tanto che la fotografia lascia intravvedere, comunque sufficiente, anche per i sottintesi, a gettare maliziose ombre di sospetto sul comportamento di Maria Sofia, e certamente valide invece, per la loro formulazione satirica, a ridicolizzare, demitizzare, e "castigare" infine, la perduta regale dignità. "Le rivelazioni della Diotallevi", specialmente quelle relative al programma di attentati alla persona fisica e non soltanto morale degli ex regnanti napoletani, commenta il De Cesare, "portarono radicali mutamenti nelle abitudini dei sovrani di Napoli... La Regina al Pincio andò di rado, né scese più dal legno, ed ai teatri fu meno assidua; e disgustata di tutto quanto era avvenuto, non ebbe che un solo pensiero: lasciare Roma". Maria Sofia, con la sua Corte, partì per la Baviera nel maggio del 1862 e ritornò a Roma soltanto nel 1869, a Palazzo Farnese, "rinunciando al pensiero di chiudersi in un Monastero", il re aveva a quel tempo solo trent'anni e la regina ventisette... Nell'ultimo atto di questa vicenda, il sipario si alza ancora dinanzi ai coniugi Diotallevi che, "dopo pochi mesi, con grande meraviglia di tutti e sdegno della corte di Napoli", vennero messi in libertà e ottennero inoltre un assegno mensile di quindici scudi da Monsignor de Meroe, che acquistò nel contempo i compromettenti biglietti amorosi indirizzati dal generale De Goyon, alla bella e pentita "fotografa" Costanza. Nel 1866 Costanza tornò ad essere presente nelle cronache del Sant'Uffizio, al quale si era decisa nel frattempo "a fare una spontanea" (una dichiarazione sotto il suggello della confessione), riconoscendo di aver asserito il falso, "ma di esservi stata indotta da un fine nobile e onesto, quello di difendere il Papa e la Sede Apostolica dai nemici; di aver errato, ma in buona fede". De Cesare precisa che tale confessione non poteva essere da altri utilizzata essendo stata fatta con procedura del giuramento e del segreto; Costanza Diotallevi infatti, "non ebbe a soffrir nulla e continuò a riscuotere la pensione anche sotto il Governo Italiano" Le "ignobili" fotografie di Maria Sofia (ottenute sul corpo della misteriosa "scuffiara", o su quello della bella Costanza?), scomode in effetti a entrambi le parti politiche, vennero distrutte, oppure occultate nel segreto degli archivi, ad eccezione di qualche analogo esemplare, come le due immagini riportate da Gilardi nella sua "Storia sociale della fotografia", che però sono diverse da quelle descritte da Costanza e risultano disegnate. Non dimenticarono comunque alcuni romani, le innumerevoli denuncie fatte da Costanza durante la sua "rivelazione impunitaria", e il 20 settembre 1870 l'aggredirono in una piazza, dove venne a stento sottratta dalle ire popolari; qualche anno dopo Costanza "tornò in carcere per reati comuni" e venne riconosciuta (la data non é indicata dal De Cesare, ma dovrebbe essere in un anno sul finire del secolo), dal deputato municipale Domenico Ricci, durante una visita alle carceri del Buon Pastore, "né altro si sa di lei"
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
Carmine Crocco, dei briganti il generale. di Massimo Lunardelli
Alle 8.20 di domenica 18 giugno 1905, nel carcere di Portoferraio, sull'isola d'Elba, muore a 75 anni Carmine Crocco, il brigante lucano che durante gli anni dell'unità d'Italia, alla testa di un esercito che arrivò a contare tremila uomini, aveva messo a ferro e fuoco ampie zone del Mezzogiorno combattendo prima per Garibaldi, poi per i Borbone e alla fine soltanto per se stesso. Muore solo, per atonia senile si legge sullo sbrigativo referto medico. Gli unici che non hanno mai smesso di fargli visita, in quella prigione dove è rinchiuso da quasi quarant'anni, sono stati i lombrosiani, che gli trovano un cranio un po' piccolo rispetto alla statura. Lo psichiatra Pasquale Penta dell'università di Napoli, scriverà di lui nel 1901 sulla Rivista mensile di psichiatria forense come di "un uomo alto, robusto, svelto, ancora dritto e resistente dopo una vita agitata, piena di stenti e sofferenze". E Crocco, tra le lacrime, gli confesserà che vorrebbe tornare a morire là dove è nato. Piange l'uomo condannato per 67 omicidi, 20 estorsioni, 15 incendi di case; colui che se ne andava in giro con il cappello piumato e armato fino ai denti, accolto come un liberatore in tutto il melfese; il solo che poteva permettersi di entrare in chiesa a cavallo; lui, che era stato tra i primi ad adottare la tecnica della guerriglia, guadagnandosi sul campo i galloni di generale dei briganti.
La storia di Carmine Crocco comincia a Rionero in Vulture - oggi in provincia di Potenza, ma allora si diceva nel circondario di Melfi - il 5 giugno 1830, quarto di cinque figli di Francesco Crocco Donatelli e Maria Gera di Santo Mauro, contadini. Nell'autobiografia che Crocco scriverà in carcere nel 1889 e che, trascritta dal capitano medico Eugenio Massa, verrà pubblicata per la prima volta dalla tipografia Greco di Melfi nel 1903, si leggono parole che raccontano la miseria quotidiana: casupole annerite dal fumo da dividere con le bestie; il grano custodito come un tesoro da usare per fare il pane bianco solo quando arrivano le malattie; e intorno zoppi, monchi, reduci di antiche guerre, tra cui lo zio Martino, senza una gamba persa per una palla di cannone nell'assedio di Zaragoza in Spagna, che gli insegnerà a leggere e scrivere.
Quando, nel 1860, scoppiano i moti insurrezionali, Crocco ha già avuto i suoi guai con la giustizia: una condanna per furto nel 1855 a diciannove anni di ferri; un'evasione dal carcere di Brindisi; l'uccisione a coltellate di un signorotto del paese che aveva osato importunare la sorella Rosina. E' latitante e si unisce ai rivoltosi con la speranza di vedersi cancellare i vecchi reati. Ma non sarà così. Tornando a casa con la casacca del vincitore, scoprirà che ancora una volta tutto è cambiato per restare uguale. Persino il sindaco è lo stesso, ma prima stava con i Borbone e adesso con i liberali. Per Crocco non c'è speranza, così torna alla macchia e si unisce alla controreazione borbonica. I boschi di Monticchio diventano il suo impero, la Ginestra il suo recondito rifugio. Per qualche mese il suo destino si incrocia con quello di Josè Borges, il legittimista spagnolo arrivato al sud per organizzare la reazione. Ma il generale dei briganti non accetta di essere subalterno a nessuno e un giorno, all'improvviso, abbandona lo spagnolo al suo destino: catturato, verrà fucilato a Tagliacozzo.
La repressione piemontese contro il brigantaggio fu feroce. Se si guardano i numeri, ciò quello che è successo si ha tutta l'aria di una guerra civile. Ai bersaglieri veniva tagliato il pizzetto alla piemontese come fosse uno scalpo mentre i briganti venivano evirati, oppure decapitati, per mostrarne la testa nella pubblica piazza. "In tre anni abbiamo fucilato 7.151 briganti, altro non so e non posso dire", riferisce nel 1864 il generale La Marmora di fronte alla commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio voluta dalle sinistre e presieduta dal deputato Massari. "Più che di un esercito unificatore, si è trattato di un esercito occupatore" commenta Valentino Romano, storico del brigantaggio e della storia contadina, "e a farne le spese sono state soprattutto le classi umili, non certo i galantuomini, cioè i veri fomentatori della rivolta, che se ne uscirono tutti per il rotto della cuffia riuscendo a dimostrare un'innocenza che non avevano".
La vita brigantesca di Carmine Crocco si conclude nell'estate del 1864. Il vecchio sistema di potere si è ormai saldato con il nuovo e le masse contadine devono tornare ad essere solo forza lavoro. Nel 1863 inoltre, è entrata in vigore la legge Pica, la prima legislazione sui pentiti che concedeva forti sconti di pena a chi si sarebbe consegnato. Ci prova anche Crocco, che entra a Rionero con una bandiera tricolore in mano, ma poi rinuncia, non si fida. Però nei suoi boschi è sempre più isolato. Lo tradisce, come spesso accade, uno dei suoi uomini più vicini, Giuseppe Caruso, di Atella, che lo vende per un posto da impiegato regio e guida i bersaglieri nei suoi rifugi più segreti. La sera del 28 luglio del 1864 il generale dei briganti, ormai ferito molte volte, tenta la fuga verso Roma. Partirono in dodici, viaggiando di notte per tratturi nascosti, arrivarono in quattro. Ma una volta giunto nello Stato Pontificio, invece della libertà, come credeva, perché in fondo anche nel nome di Pio IX aveva combattuto, Crocco venne incarcerato e consegnato allo Stato italiano dopo sette anni di cella d'isolamento: "Al momento dell'arresto" si legge nella sua autobiografia "avevo con me 19.800 lire e questa somma non fu restituita a me e non fu data al governo, come di diritto, ma finì nelle tasche di qualche monsignore ladrone".
Il processo venne celebrato a Potenza nel 1872 di fronte a un pubblico numerosissimo che anche allora, come adesso, vuole vedere da vicino il terribile assassino, il generale della reazione e delle orde borboniche. Crocco viene condannato a morte, la pena di morte verrà commutata, per regio decreto, nei lavori forzati a vita. Un ergastolo scontato nello stesso carcere, oggi diventato Museo della Giuntella, dove espiarono le loro colpe Napoleone e Passannante, l'anarchico di Salvia di Lucania che nel 1878 tentò di uccidere Umberto I di Savoia.
Chi era, dunque, Carmine Crocco? Un eroe? Un bandito?
"Avrebbe potuto diventare un eroe positivo della storia, ma Crocco era un pastore che sapeva a malapena leggere e scrivere, un'idea precisa di quello che stava facendo non ce l'aveva" racconta Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, originario di Melfi, un'adolescenza passata a cercare i leggendari tesori dei briganti nascosti nei tronchi cavi degli alberi, "che naturalmente non ho mai trovato", precisa. "Ormai gli storici sono in gran parte concordi nel definire il brigantaggio la rivolta anarcoide del mondo contadino. E' l'atavica questione della terra, quella terra promessa da Garibaldi che i contadini si videro sfilare da sotto i piedi" sostiene Valentino Romano. "Forse l'analisi più precisa sul brigantaggio" afferma Costantino Conte, del Centro Annali per una Storia sociale della Basilicata, "l'ha fatta Vito Di Gianni, un contadino analfabeta di San Fele, che arrestato, disse: "Fummo calpestati, noi ci vendicammo, ecco tutto".
Oggi, a Rionero, una targa ricorda il luogo dove sorgeva la casa natale di Crocco che, ironia della sorte, è stata sostituita da un'armeria. Esiste un vero e proprio turismo del brigantaggio con percorsi tra i boschi del Vulture che conducono alle grotte e non è raro vedere la faccia di Crocco sulle insegne di qualche trattoria o sull'etichetta di birre o vini; o ancora su magliette, accendini, foulard, brocche in terracotta. Tutto un po' kitsch forse, ma sta a dimostrare che da queste parti il generale dei briganti è diventato icona, più di Garibaldi.
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
Questa Sofia è una fonte inesauribile di informazioni.
L’amico Gianni ci ha mostrato immagini sui diversi utilizzi del mezzo grano; di una lettera affrancata da gr. 2 con la quale venivano spediti spartiti musicali, quindi assoggettata alla tariffa prevista dall’art. 13 del D. 4210 del 9.07.1857. Poi lettere affrancate con gr. 2 della seconda tavola e particolari lettere (pag. 80), affrancate per gr. 4 e ½), pari al doppio porto con allegato. Riprendo alcuni particolari di alcuni FB sulle lettere postate. Complimenti a Mario Merone.
MeroneSofia_daPAG75.jpg
pasfil
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Da parte mia non posso che ringraziare il maestro Merone per consentirci la visione di cotanta bellezza, il "Vesevus" Gianni per l'energia che infonde a questo angolo di forum e il grande Pietro per le sapienti note in calce. Simone
Regno di Napoli e Province Napoletane, in particolar modo i bolli degli uffici succursali e del porto di Napoli.
Alla scoperta dell'ottobre 1862.
Adoro il tennis
Un felice anno a Mario e Signora e a tutti gli Amici napoletani che leggono queste "notarelle" storiche che vogliono ricordare un passato assai glorioso attraverso le gesta di uomini spesso dimenticati .....
Il Generale Matteo Negri, un grande eroe borbonico siciliano
(Palermo, 21 giugno 1818 – Garigliano, 29 ottobre 1860) Fonte: L'Alfiere
Il 29 ottobre del 1860, centocinquanta anni or sono, cadeva da eroe, sul ponte del Garigliano, difendendo l’arretramento difensivo dell’armata reale, il generale di Brigata Matteo Negri.
Nato a Palermo il 21 giugno 1818, primo di sei figli, dall’allora capitano Michele Negri, dei baroni di Paternò, e di Maria Antonia Termini dei duchi di Vaticani, entrò nel Real Collegio Militare della Nunziatella a soli 14 anni, il primo di ottobre del 1832. Ne uscì Alfiere dell’arma di Artiglieria il 1° marzo 1839.
Dotato di grande intelligenza, si dedicò allo studio della sua specialità e pubblicò testi di alto valore scientifico sulle nuove bocche da fuoco e sui fucili a canna rigata. Bruciò le tappe di una carriera più unica che rara. L’otto agosto del 1860 è promosso tenente colonnello ed il 7 settembre raggiunge Capua per obbedire al Sovrano. Il nuovo comandante dell’Esercito Napolitano, generale Giosuè Ritucci, lo volle con sé, nominandolo sottocapo di Stato Maggiore. Il 19 settembre i garibaldini attaccarono su tutta la linea la piazza di Capua e Matteo Negri, comandando le artiglierie, diede prova di grande valore. Il 1° ottobre ancora onore e gloria per Matteo Negri. Il capitano Ludovico Quandel così lo definì: “Bravissimo sia per le cognizioni che possiede quanto per la fermezza e coraggio di cui è dotato, sarebbe stato utilissimo all’Esercito se i suoi consigli dati con militare franchezza fossero stati uditi. Egli però aveva trovati oppositori molti e tentennamenti oltremodo nocivi. Aveva ricevuto il comando superiore delle Batterie ed era perciò stato quasi allontanato dai consigli di guerra, sbaglio gravissimo e non solo”.
Il 18 ottobre l’esercito piemontese, forte di oltre quarantamila uomini, in violazione ai vigenti trattati di pace, attraversò la frontiera del regno, dagli Abruzzi, per soccorrere l’Esercito Meridionale di Garibaldi. L’avvenimento pose l’Esercito Napolitano nell’impossibilità di restare, in una stretta difensiva, al di là del Volturno presso la piazza di Capua. Fu perciò necessario farlo ritirare dietro un’altra linea difensiva più adatta alle nuove condizioni di forza.
Matteo Negri intanto è stato promosso colonnello e subito dopo Generale di Brigata. Dal 20 al 28 ottobre organizza l’arretramento difensivo di circa 19.000 uomini combattenti delle tre armi dell’esercito dal Volturno al Garigliano per stabilire la nuova linea di resistenza delle forze Napolitane.
Negli ultimi giorni di ottobre, il generale Cialdini, con una azione a sorpresa, cercò di passare il Garigliano con due reggimenti di lancieri, un reggimento di dragoni, 4 battaglioni di bersaglieri, appoggiati da 8 pezzi di artiglieria. In tutto poco più di 3.000 uomini. Il ponte in ferro sul Garigliano era difeso dal 3° e 4° Cacciatori e da un Battaglione del 3° di Linea, con il 14° Cacciatori di rincalzo, appoggiati da 24 cannoni da campo ed 8 pezzi da montagna. Sulla riva sinistra era in posizione avanzata il 2° Cacciatori con un paio di squadroni di Lancieri ed uno del 1° Ussari. Il Generale Matteo Negri aveva il comando dell’Artiglieria ed il generale Colonna il comando superiore. In questo scenario, il generale Matteo Negri viene mortalmente ferito in più parti del corpo. Noncurante delle gravi ferite continua a dare ordini, garantendo il passaggio dell’armata. Infatti, l’attacco frontale piemontese fu respinto e l’Armata Napolitana potè ripiegare, ordinatamente, verso Gaeta. Poco prima di spirare, mentre il cannone tuona vicino a lui, è attorniato dai primi soccorritori: il capitano Ludovico Quandel, il conte di Caserta Alfonso di Borbone, il capitano Raffaele D’Agostino. Tutto è ormai inutile. Il generale Negri rende l’anima a Dio confortato dai commilitoni.
Il Re Francesco II, appresa la ferale notizia stabilì: "Le sue rare virtù lo rendono degno di essere ricordato alla posterità; però dopo che avrà ricevuto in questa Piazza gli onori funebri, che troppo gli sono dovuti, saranno le spoglie racchiuse in un sepolcrale monumento che sarà eretto in questo Duomo".
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.
Giacinto de' Sivo, scrittore e storico napoletano(1814-1867)
di Francesco Pappalardo
1. Dalla letteratura alla storia attraverso la politica
Giacinto de' Sivo, scrittore e storico napoletano, nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814, da una famiglia di militari devota alla dinastia borbonica. Il nonno, pure di nome Giacinto, aveva armato a proprie spese soldati per la difesa del regno in occasione dell'aggressione giacobina e francese, e lo zio Antonio era stato fra gli ufficiali del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che nel 1799 aveva animato e guidato l'impresa della Santa Fede; anche il padre, Aniello, era stato un valoroso ufficiale dell'esercito napoletano, ma aveva dovuto lasciare il servizio attivo a causa di un infortunio.
Il giovane Giacinto preferisce l'arte della penna a quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1847), maestro di lingua e di elocuzione italiana. Di tale insegnamento si possono riconoscere le tracce in tutti i suoi scritti, in prosa o in versi: la classica armonia delle strutture, la purezza delle voci e le preziosità lessicali, che rendono il suo stile non sempre agevole, ma denso e caustico. Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe un volumetto di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie, alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più volte; quindi pubblica un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei tempi di Manfredi. Nel 1844, sposa Costanza Gaetani dell'Aquila d'Aragona, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale avrà tre figli.
Parallelamente all'attività letteraria, entra a far parte della Commissione per l'Istruzione Pubblica e, nel 1848, è nominato consigliere d'Intendenza della provincia di Terra di Lavoro. L'anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale di Maddaloni, fino allo scioglimento di questa milizia, quindi comanda per alcuni mesi la ricostituita Guardia Urbana. Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849, che recano le prime gravi minacce all'integrità dell'antico Stato napoletano, turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica per comprendere le ragioni dell'immane tragedia che sconvolge l'Europa. Sospende per qualche tempo la composizione tragica e comincia a scrivere una monografia sugli avvenimenti recenti, che non pubblica immediatamente "[...] per non parer di percuotere i vinti e inneggiare a' vincitori", e che rappresenterà il nucleo generatore della Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. I tristi presentimenti diventano presto realtà e, nel 1860, aggredito dalle truppe garibaldine e dall'esercito sardo, il Regno delle Due Sicilie cessa di esistere dopo una storia sette volte secolare.
De' Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d'Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la "vantata libertà della parola" e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il "prepotente amore" alla patria, che non è la "Patria" astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì "idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l'ossa degli avi, la terra de' padri". La Tragicommedia, che nasce anche con l'intento di "[...] ricordar le ricchezze dileguate, l'armi perdute, fra' rimbombi de' cannoni, e i gemiti de' fucilati, e i lagni de' carcerati", viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell'esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell'identità nazionale del paese - appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili - e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di "altissimo pregio" quanto "a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati".
De' Sivo intraprende quindi un nuovo lavoro, una difesa storica del Papato contro le calunnie rivoluzionarie, ma la morte lo raggiunge a cinquantadue anni, il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui - come fu scritto nel necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il settimanale antirisorgimentale la cui prima serie venne pubblicata a Roma dall'agosto del 1862 all'11 settembre 1870, sotto la direzione di monsignor Giuseppe Troysi - "la gloriosa vittoria di Mentana gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d'ingiusto esilio e gli stenti di morbo rincrudito".
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Vi piacciono i cruciverba: diventate fan di Gente Enigmistica in Facebook.