"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Canta Napoli...anche a New York!!!!
Pasquale Brignoli, più noto come Pasquilino Brignoli , (Napoli, 1824 – New York, 30 ottobre 1884), è stato un tenore italiano naturalizzato statunitense.
Figlio di un guantaio, ricevette una buona educazione musicale e divenne un pianista di discreto valore. Si dice che all'età di quindici anni compose un'opera, e, disgustato per il modo in cui venne eseguita una sua aria, irruppe sul palcoscenico e la cantò egli stesso, ottenendo un grande applauso. Egli, comunque, non si curò dello studio sistematico del canto fino all'età di ventuno anni.
Molto poco si conosce dei primi anni della sua vita per la sua ritrosia a parlare di quel periodo. Durante un'udienza di una causa civile a New York nel 1864 (Godfrey contro Brignoli), rifiutò di rispondere alla corte relativamente alla sua attività precedente a quella di cantante. Disse solo che aveva iniziato a cantare per professione nel 1850. Quando Clara Louise Kellogg riferì che Brignoli aveva i lobi delle orecchie forati, avanzò l'ipotesi che egli potesse essere stato prima un marinaio, ma egli non volle mai parlare dell'argomento.
Si dice che la sua carriera ebbe inizio quando Marietta Alboni lo udì cantare ad una festa privata e gli consigliò di intraprendere la carriera di cantante. Dopo i successi ottenuti nelle sale da concerto, ebbe l'opportunità di cantare a Parigi e Londra. Il suo debutto nel teatro d'opera avvenne a Parigi in Mosè in Egitto di Rossini ma la sua voce aveva necessità di essere educata ed egli entrò al Conservatorio di Parigi. Dopo un periodo di studio, cantò in L'elisir d'amore, nel ruolo di Nemorino, al Theatre des Italiens. Cantò anche all'Opera di Parigi nel 1854.
Su invito di Ole Bull, si recò negli Stati Uniti con Maurice Strakosch nel 1855, ed ottenne subito una popolarità che durò fino alla fine della vita. Il suo debutto negli Stati Uniti fu nel ruolo di Edgardo in Lucia di Lammermoor (12 marzo 1855) e subito dopo interpretò Manrico nella prima produzione statunitense de Il Trovatore (2 maggio 1855). Altre prime statunitensi nelle quali cantò furono La Traviata (1856), I vespri siciliani (1859) e Un ballo in maschera (1861), diretto dall'amico Emanuele Muzio alla New York Academy of Music, oltre che La Spia di Luigi Arditi (1855) e Betly di Donizetti (1861) alla Philadelphia Academy of Music. La sua prima apparizione a Boston avvenne il 25 marzo 1855, nel ruolo di Gennaro in Lucrezia Borgia.
La sua voce, nei tempi migliori, era quella di un tenore di grande volume e dolcezza, ed anche all'età di sessant'anni si esibì in concerto e nell'opera. Fu ineguagliabile in grazia di esecuzione e nel fraseggio ma fu severamente criticato per le sue carenze sceniche e nell'interpretazione dei ruoli drammatici. Supportò Adelina Patti nel suo debutto del 1859 negli Stati Uniti e successivamente cantò con Anna de la Grange, Parepa, Nilsson, Tietjens e molte altre celebri cantanti. Brignoli fece tre tournée in Europa ma gli Stati Uniti divennero la sua patria adottiva.
Negli anni 1870, Brignoli sposò la soprano, Sallie Isabella McCullough, e fondò una compagnia d'opera con la quale girò i teatri d'opera degli Stati Uniti ottenendo grande successo. Brignoli decise allora di fare una tournée in Europa ma non incontrò lo stesso successo. La sua voce andava perdendo attrattiva e non poté più chiedere i grandi compensi ai quali era abituato. Cominciò quindi a trascurare la moglia, sia finanziariamente che sentimentalmente, ed essa ritornò a New York e chiese il divorzio. Brignoli ritornò per la causa ma sua moglie ottenne il divorzio. Subito dopo, Brignoli partì per Liverpool, essendo stato scritturato per cantare alla Royal Opera House di Londra e in teatri di altre città inglesi.
Dopo la prima opera della sua adolescenza, Brignoli compose altri pezzi. Uno dei suoi pezzi orchestrali, The Sailor's Dream, venne eseguito a Boston nel 1868. Compose anche alcune canzoni ed un pezzo intitolato The Crossing of the Danube che conteneva nella partitura un colpo di cannone come in Ouverture 1812 di Tchaikovsky.
Nonostante le grandi somme di denaro che guadagnò durante la sua carriera, morì in povertà. In ogni caso, i suoi amici e colleghi intervennero in massa ai suoi funerali nella chiesa cattolica di St. Agnes, che risultò gremita al massimo della sua capacità. Una marcia funebre venne composta appositamente per l'occasione e venne eseguita dalla banda del Seventh Regiment a Everett House, luogo della sua morte. La bara era circondata da rose bianche ed altri fiori, colombe bianche, parte di una colonna e un crocifisso. Gli sopravvissero un fratello ed una sorella che vivevano a Parigi. Da allora, è stato largamente dimenticato e di lui non vi è alcun cenno nel Grove Dictionary of Music and Musicians o sull'Oxford Music Online.
Pasquale Brignoli, più noto come Pasquilino Brignoli , (Napoli, 1824 – New York, 30 ottobre 1884), è stato un tenore italiano naturalizzato statunitense.
Figlio di un guantaio, ricevette una buona educazione musicale e divenne un pianista di discreto valore. Si dice che all'età di quindici anni compose un'opera, e, disgustato per il modo in cui venne eseguita una sua aria, irruppe sul palcoscenico e la cantò egli stesso, ottenendo un grande applauso. Egli, comunque, non si curò dello studio sistematico del canto fino all'età di ventuno anni.
Molto poco si conosce dei primi anni della sua vita per la sua ritrosia a parlare di quel periodo. Durante un'udienza di una causa civile a New York nel 1864 (Godfrey contro Brignoli), rifiutò di rispondere alla corte relativamente alla sua attività precedente a quella di cantante. Disse solo che aveva iniziato a cantare per professione nel 1850. Quando Clara Louise Kellogg riferì che Brignoli aveva i lobi delle orecchie forati, avanzò l'ipotesi che egli potesse essere stato prima un marinaio, ma egli non volle mai parlare dell'argomento.
Si dice che la sua carriera ebbe inizio quando Marietta Alboni lo udì cantare ad una festa privata e gli consigliò di intraprendere la carriera di cantante. Dopo i successi ottenuti nelle sale da concerto, ebbe l'opportunità di cantare a Parigi e Londra. Il suo debutto nel teatro d'opera avvenne a Parigi in Mosè in Egitto di Rossini ma la sua voce aveva necessità di essere educata ed egli entrò al Conservatorio di Parigi. Dopo un periodo di studio, cantò in L'elisir d'amore, nel ruolo di Nemorino, al Theatre des Italiens. Cantò anche all'Opera di Parigi nel 1854.
Su invito di Ole Bull, si recò negli Stati Uniti con Maurice Strakosch nel 1855, ed ottenne subito una popolarità che durò fino alla fine della vita. Il suo debutto negli Stati Uniti fu nel ruolo di Edgardo in Lucia di Lammermoor (12 marzo 1855) e subito dopo interpretò Manrico nella prima produzione statunitense de Il Trovatore (2 maggio 1855). Altre prime statunitensi nelle quali cantò furono La Traviata (1856), I vespri siciliani (1859) e Un ballo in maschera (1861), diretto dall'amico Emanuele Muzio alla New York Academy of Music, oltre che La Spia di Luigi Arditi (1855) e Betly di Donizetti (1861) alla Philadelphia Academy of Music. La sua prima apparizione a Boston avvenne il 25 marzo 1855, nel ruolo di Gennaro in Lucrezia Borgia.
La sua voce, nei tempi migliori, era quella di un tenore di grande volume e dolcezza, ed anche all'età di sessant'anni si esibì in concerto e nell'opera. Fu ineguagliabile in grazia di esecuzione e nel fraseggio ma fu severamente criticato per le sue carenze sceniche e nell'interpretazione dei ruoli drammatici. Supportò Adelina Patti nel suo debutto del 1859 negli Stati Uniti e successivamente cantò con Anna de la Grange, Parepa, Nilsson, Tietjens e molte altre celebri cantanti. Brignoli fece tre tournée in Europa ma gli Stati Uniti divennero la sua patria adottiva.
Negli anni 1870, Brignoli sposò la soprano, Sallie Isabella McCullough, e fondò una compagnia d'opera con la quale girò i teatri d'opera degli Stati Uniti ottenendo grande successo. Brignoli decise allora di fare una tournée in Europa ma non incontrò lo stesso successo. La sua voce andava perdendo attrattiva e non poté più chiedere i grandi compensi ai quali era abituato. Cominciò quindi a trascurare la moglia, sia finanziariamente che sentimentalmente, ed essa ritornò a New York e chiese il divorzio. Brignoli ritornò per la causa ma sua moglie ottenne il divorzio. Subito dopo, Brignoli partì per Liverpool, essendo stato scritturato per cantare alla Royal Opera House di Londra e in teatri di altre città inglesi.
Dopo la prima opera della sua adolescenza, Brignoli compose altri pezzi. Uno dei suoi pezzi orchestrali, The Sailor's Dream, venne eseguito a Boston nel 1868. Compose anche alcune canzoni ed un pezzo intitolato The Crossing of the Danube che conteneva nella partitura un colpo di cannone come in Ouverture 1812 di Tchaikovsky.
Nonostante le grandi somme di denaro che guadagnò durante la sua carriera, morì in povertà. In ogni caso, i suoi amici e colleghi intervennero in massa ai suoi funerali nella chiesa cattolica di St. Agnes, che risultò gremita al massimo della sua capacità. Una marcia funebre venne composta appositamente per l'occasione e venne eseguita dalla banda del Seventh Regiment a Everett House, luogo della sua morte. La bara era circondata da rose bianche ed altri fiori, colombe bianche, parte di una colonna e un crocifisso. Gli sopravvissero un fratello ed una sorella che vivevano a Parigi. Da allora, è stato largamente dimenticato e di lui non vi è alcun cenno nel Grove Dictionary of Music and Musicians o sull'Oxford Music Online.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Canta ...Napoli... è il momento della Rosina !
dal bellissimo blog
Il cavaliere della rosa
Opera e piccole manie di un improvvisato collezionista
Rosina Penco (1823-94), grande soprano napoletano che oggi definiremmo drammatico di agilità e che dopo una carriera dagli enigmatici inizi (nel senso che non se ne sa nulla a parte il debutto a Copenhagen e apparizioni in Svezia, Germania e a Costantinopoli prima della definitiva affermazione in patria) diventa un personaggio di primo piano nei principali teatri italiani. La Penco, che il 19 gennaio 1853 era stata all’Apollo di Roma la prima Leonora del Trovatore, nel 1860 aveva ottenuto scritture a Londra e da lì si era spostata a Parigi, dove nel 1861 al Théâtre-Italien cantò il ruolo di Amelia nella prima rappresentazione francese del Ballo in maschera. Verdi, di cui la Penco ebbe anche in repertorio Traviata, Luisa Miller, I Lombardi, Giovanna d’Arco e I Vespri siciliani, la stimava molto ma come spesso succede quello che è restato nella storia è la frase, lapidaria e spesso usata a sproposito, con la quale il compositore ne descrive alcuni vezzi interpretativi che, pare, segnarono la seconda fase della sua carriera:
La Penco ha delle qualità, ed è bella, ma non è più la donna di cinque anni fa all’epoca del Trovatore. Allora vi era sentimento, fuoco abbandono, ora vorrebbe cantare come si cantava 30 anni indietro, ed io vorrei che Ella potesse cantare come si canterà da qui a 30 anni…
Niente di più di una boutade sapientemente costruita da parte di un genio furbo di tre cotte. Poco interessata alla fantascienza del canto, Rosina Penco fu una grande cantante di vecchia scuola, una grande Norma, Imogene, Lucia, Linda, Semiramide .
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Il cavaliere della rosa
Opera e piccole manie di un improvvisato collezionista
Rosina Penco (1823-94), grande soprano napoletano che oggi definiremmo drammatico di agilità e che dopo una carriera dagli enigmatici inizi (nel senso che non se ne sa nulla a parte il debutto a Copenhagen e apparizioni in Svezia, Germania e a Costantinopoli prima della definitiva affermazione in patria) diventa un personaggio di primo piano nei principali teatri italiani. La Penco, che il 19 gennaio 1853 era stata all’Apollo di Roma la prima Leonora del Trovatore, nel 1860 aveva ottenuto scritture a Londra e da lì si era spostata a Parigi, dove nel 1861 al Théâtre-Italien cantò il ruolo di Amelia nella prima rappresentazione francese del Ballo in maschera. Verdi, di cui la Penco ebbe anche in repertorio Traviata, Luisa Miller, I Lombardi, Giovanna d’Arco e I Vespri siciliani, la stimava molto ma come spesso succede quello che è restato nella storia è la frase, lapidaria e spesso usata a sproposito, con la quale il compositore ne descrive alcuni vezzi interpretativi che, pare, segnarono la seconda fase della sua carriera:
La Penco ha delle qualità, ed è bella, ma non è più la donna di cinque anni fa all’epoca del Trovatore. Allora vi era sentimento, fuoco abbandono, ora vorrebbe cantare come si cantava 30 anni indietro, ed io vorrei che Ella potesse cantare come si canterà da qui a 30 anni…
Niente di più di una boutade sapientemente costruita da parte di un genio furbo di tre cotte. Poco interessata alla fantascienza del canto, Rosina Penco fu una grande cantante di vecchia scuola, una grande Norma, Imogene, Lucia, Linda, Semiramide .
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
‘A risa: la prima canzone italiana incisa su un disco
Canta ...Napoli e Cantalamessa!!!!!!!!!!!!!!!!!
Se volete ascoltare la canzone http://www.youtube.com/watch?v=qkoVY33igUk
Ebbene si: il primissimo disco in assoluto inciso in Italia contiene una canzone napoletana ! E non poteva essere altrimenti, in quanto a quell’epoca, siamo nel lontano 1895, la canzone italiana, praticamente, non era ancora nata.
Ma facciamo prima un piccolissimo passo indietro. L’invenzione del disco sonoro risale al 1888, ad opera del tedesco Emile Berliner. Era costituito da una lamina di metallo ricoperta di gommalacca. Per funzionare necessitava di una velocità di rotazione di 78 giri al minuto, da cui prese il nome di 78 giri, ed aveva una una durata massima di 4 minuti; da quì la durata media delle canzoni (storica) di tre/quattro minuti. Si diffuse rapidamente il disco, soppiantando il più vecchio e ingombrante rullo (fonografo a rullo) del famoso T. Edison.
Fu il cantautore napoletano Berardo Cantalamessa (o Bernardo), famoso macchiettista dell’epoca, ad avere per primo in Italia l’idea di incidere una canzone su un disco. Gli venne ascoltando per caso una incisione, su rullo, di un cantante nero proveniente dagli Stati Uniti. E l’esperimetno riusci' alla grande, perché la canzone che incise, ‘A risa (cioè, la risata), divenne il suo più grande successo.
Cantalamessa era famoso oltre per la tecnica vocale anche per quella del fischio! Ma ancor di più lo era per la sua particolare risata. E nella canzone ‘A risa di risate del tipo “ha ha ha ha ha ha …” ce ne sono davvero a bizzeffe!
Che si tratti di una canzone allegra lo si capisce già dal titolo. Proprio non può fare a meno di ridere il personaggio della storia: “Io rido si uno chiagne, si stóngo disperato, si nun aggio magnato, rido senza penzá… ” (rido se vedo piangere qualcuno, se sono senza soldi, se non ho mangiato, rido senza pensare ..). E perché ride ? Perché: “Mme pare che redenno, ogne turmiento passa… nce se recréa e spassa… cchiù allero se pò stá…” (mi sembra che ridendo ogni tormento passi, ci si diverte e si sta più allegri).
‘A Risa resta una pietra miliare nella storia della canzone napoletana ed italiana. E’ stata interpretata da tanti artisti napoletani, tra cui il grande Aurelio Fierro.
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Biografia
Berardo Cantalamessa nasce a Napoli il 26 settembre 1858 e per la sua abilità nelle tecniche vocali, dal fischio ai giochi di parole, viene spesso scritturato dalla nascente industria fonografica, come una sorta di speaker a tutto campo. Ma Cantalamessa è anche un apprezzato "macchiettista" specializzato nel genere comico ed esecutore di duetti con le regine del varietà di allora, da Amelia Faraone a Olimpia d'Avigny, per anni sua compagna.
Passa alla storia per la sua risata. Il suo più grande successo è infatti 'A risa (La risata), composta nel 1895, riadattamento di una canzonetta in inglese allora di moda, eseguita da un artista nero del Nord America. Ne nasce una canzone originale, firmata dallo stesso Cantalamessa, che diventa anche il suo primo disco pubblicato. Nel 1907 la popolarità acquisita lo induce a partire in tournée con la D'Avigny per l'America e lì ottiene successo tanto da stabilirvisi con la sua compagna. Abita per diversi anni a Buenos Aires, dove muore il 17 marzo 1917.
Canta ...Napoli e Cantalamessa!!!!!!!!!!!!!!!!!
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Ebbene si: il primissimo disco in assoluto inciso in Italia contiene una canzone napoletana ! E non poteva essere altrimenti, in quanto a quell’epoca, siamo nel lontano 1895, la canzone italiana, praticamente, non era ancora nata.
Ma facciamo prima un piccolissimo passo indietro. L’invenzione del disco sonoro risale al 1888, ad opera del tedesco Emile Berliner. Era costituito da una lamina di metallo ricoperta di gommalacca. Per funzionare necessitava di una velocità di rotazione di 78 giri al minuto, da cui prese il nome di 78 giri, ed aveva una una durata massima di 4 minuti; da quì la durata media delle canzoni (storica) di tre/quattro minuti. Si diffuse rapidamente il disco, soppiantando il più vecchio e ingombrante rullo (fonografo a rullo) del famoso T. Edison.
Fu il cantautore napoletano Berardo Cantalamessa (o Bernardo), famoso macchiettista dell’epoca, ad avere per primo in Italia l’idea di incidere una canzone su un disco. Gli venne ascoltando per caso una incisione, su rullo, di un cantante nero proveniente dagli Stati Uniti. E l’esperimetno riusci' alla grande, perché la canzone che incise, ‘A risa (cioè, la risata), divenne il suo più grande successo.
Cantalamessa era famoso oltre per la tecnica vocale anche per quella del fischio! Ma ancor di più lo era per la sua particolare risata. E nella canzone ‘A risa di risate del tipo “ha ha ha ha ha ha …” ce ne sono davvero a bizzeffe!
Che si tratti di una canzone allegra lo si capisce già dal titolo. Proprio non può fare a meno di ridere il personaggio della storia: “Io rido si uno chiagne, si stóngo disperato, si nun aggio magnato, rido senza penzá… ” (rido se vedo piangere qualcuno, se sono senza soldi, se non ho mangiato, rido senza pensare ..). E perché ride ? Perché: “Mme pare che redenno, ogne turmiento passa… nce se recréa e spassa… cchiù allero se pò stá…” (mi sembra che ridendo ogni tormento passi, ci si diverte e si sta più allegri).
‘A Risa resta una pietra miliare nella storia della canzone napoletana ed italiana. E’ stata interpretata da tanti artisti napoletani, tra cui il grande Aurelio Fierro.
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Biografia
Berardo Cantalamessa nasce a Napoli il 26 settembre 1858 e per la sua abilità nelle tecniche vocali, dal fischio ai giochi di parole, viene spesso scritturato dalla nascente industria fonografica, come una sorta di speaker a tutto campo. Ma Cantalamessa è anche un apprezzato "macchiettista" specializzato nel genere comico ed esecutore di duetti con le regine del varietà di allora, da Amelia Faraone a Olimpia d'Avigny, per anni sua compagna.
Passa alla storia per la sua risata. Il suo più grande successo è infatti 'A risa (La risata), composta nel 1895, riadattamento di una canzonetta in inglese allora di moda, eseguita da un artista nero del Nord America. Ne nasce una canzone originale, firmata dallo stesso Cantalamessa, che diventa anche il suo primo disco pubblicato. Nel 1907 la popolarità acquisita lo induce a partire in tournée con la D'Avigny per l'America e lì ottiene successo tanto da stabilirvisi con la sua compagna. Abita per diversi anni a Buenos Aires, dove muore il 17 marzo 1917.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Il tunnel borbonico
Il mondo capovolto di Napoli, l’altra anima della città che vive sottoterra. E’ ritornato alla “luce” il Tunnel Borbonico, per lunghissimi anni abbandonato, grazie all’impegno del dr. Gianluca Minin e del dr. Enzo De Luzio: un altro gioiello sotterraneo che contribuisce a rendere ancor più preziosa la città. Fu realizzato per volere di Ferdinando II di Borbone con decreto 19 febbraio 1853, che incaricava l’architetto Errico Alvino di progettare un viadotto sotto il suolo. Il percorso doveva congiungere il Palazzo Reale con piazza Vittoria, passando per Monte Echia al fine di creare una strada rapida per l’esercito borbonico in difesa della Reggia. Lo scavo partì dalla montagna in via Pace, oggi via Domenico Morelli, l’attuale accesso al tunnel, diramandosi in due gallerie parallele per circa 84 m, fino a giungere alle Cave Carafe. Da qui si continuò con un’unica galleria. Gli scavi interrotti nel 1855 prima di realizzare la seconda uscita, per motivi politici, furono terminati solo nel 1939, quando la cava fu riutilizzata come ricovero bellico. Di quel periodo si conservano scritte sui muri, statue fasciste, macchine d’epoca e documenti relativi al Deposito Giudiziale Comunale che arrivano fino agli anni 70. Un luogo celato fino a poco tempo fa, ora patrimonio di tutti.
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
ERRICO ALVINO
di Emilio Lavagnino
Architetto, nato a Milano il 29 marzo 1809; studiò prima a Napoli, ove fu poi attivo per tutta la vita, nell'Istituto di belle arti con Francesco Saponieri, uno dei principali esponenti dell'accademismo architettonico napoletano. Nel 1830 si recò a Roma, vincitore di un pensionato per l'architettura. Partecipò alle mostre partenopee con progetti di chiese e palazzi e rilievi di antichi monumenti.
Presto nominato edile ed architetto municipale a Napoli, nel 1835 appare fra i professori onorari dell'Istituto di belle arti; tuttavia divenne professore ordinario di architettura civile solo nel 1859, quando, ormai architetto di fama, col Saponieri ed altri aveva già in gran parte condotto a termine quella che può considerarsi una delle più importanti imprese urbanistiche italiane dell'Ottocento: il tracciato dell'attuale corso Vittorio Emanuele (1852-1860). Altre sue opere sono: il palazzo Bennucci a Castellammare di Stabia (1843), il prospetto di S. Maria di Piedigrotta (1853),il palazzo Nunziante a Napoli e la cappella bizantineggiante annessa a quell'edificio, la trasformazione dell'ex convento di S. Giovanni delle Monache in sede dell'Accademia di belle arti (1861), la colonna onoraria di piazza dei Martiri (1866-1868) e il nucleo iniziale della stazione centrale (1876), poi sviluppato da Nicola Breglia. Accanto a queste opere di carattere più o meno neorinascimentale va anche ricordato il duomo di Cerignola (iniziato nel 1868), che pretende riecheggiare la fiorentina Santa Maria del Fiore (a quest'opera lavorò anche G. Pisanti che apportò qualche modifica al progetto dell'A.). Presentò un suo infelice progetto al concorso per la facciata del duomo fiorentino e pubblicò in proposito una Memoria illustrativa del progetto per la facciata della cattedrale di Firenze (Firenze 1864).
Si deve all'A. il progetto per la facciata del duomo di Napoli, eseguito con qualche modifica (1877-1905) dal Breglia, dal Pisanti e dal Curri: esso denota, nelle sue forme neogotiche, una sostanziale incomprensione dell'organismo architettonico preesistente e un troppo evidente contrasto con i tre portali quattrocenteschi di A. Baboccio. Appare migliore, per certo gusto scenografico e pittoresco, il rifacimento della facciata del duomo di Amalfi (da lui condotto in collaborazione con L. Dalla Corte e G. Raimondi dopo il crollo del 1861).
Tecnico di notevoli possibilità, architetto di preparazione accademica, l'A. è l'esponente più caratteristico, nell'ambiente meridionale, della generazione che segue quella propriamente romantica e precede l'altra che, negli ultimi anni del secolo, sentì urgente il bisogno di rinnovare gli stessi elementi dell'antico linguaggio architettonico ormai inadatto alle nuove esigenze del gusto e all'impiego di nuovi materiali da costruzione.
Morì a Roma il 7 giugno 1872.
È ritratto ,come allegato, in un busto, opera di G. B. Amendola (1882), sulla Riviera di Chiaia a Napoli.
Il mondo capovolto di Napoli, l’altra anima della città che vive sottoterra. E’ ritornato alla “luce” il Tunnel Borbonico, per lunghissimi anni abbandonato, grazie all’impegno del dr. Gianluca Minin e del dr. Enzo De Luzio: un altro gioiello sotterraneo che contribuisce a rendere ancor più preziosa la città. Fu realizzato per volere di Ferdinando II di Borbone con decreto 19 febbraio 1853, che incaricava l’architetto Errico Alvino di progettare un viadotto sotto il suolo. Il percorso doveva congiungere il Palazzo Reale con piazza Vittoria, passando per Monte Echia al fine di creare una strada rapida per l’esercito borbonico in difesa della Reggia. Lo scavo partì dalla montagna in via Pace, oggi via Domenico Morelli, l’attuale accesso al tunnel, diramandosi in due gallerie parallele per circa 84 m, fino a giungere alle Cave Carafe. Da qui si continuò con un’unica galleria. Gli scavi interrotti nel 1855 prima di realizzare la seconda uscita, per motivi politici, furono terminati solo nel 1939, quando la cava fu riutilizzata come ricovero bellico. Di quel periodo si conservano scritte sui muri, statue fasciste, macchine d’epoca e documenti relativi al Deposito Giudiziale Comunale che arrivano fino agli anni 70. Un luogo celato fino a poco tempo fa, ora patrimonio di tutti.
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ERRICO ALVINO
di Emilio Lavagnino
Architetto, nato a Milano il 29 marzo 1809; studiò prima a Napoli, ove fu poi attivo per tutta la vita, nell'Istituto di belle arti con Francesco Saponieri, uno dei principali esponenti dell'accademismo architettonico napoletano. Nel 1830 si recò a Roma, vincitore di un pensionato per l'architettura. Partecipò alle mostre partenopee con progetti di chiese e palazzi e rilievi di antichi monumenti.
Presto nominato edile ed architetto municipale a Napoli, nel 1835 appare fra i professori onorari dell'Istituto di belle arti; tuttavia divenne professore ordinario di architettura civile solo nel 1859, quando, ormai architetto di fama, col Saponieri ed altri aveva già in gran parte condotto a termine quella che può considerarsi una delle più importanti imprese urbanistiche italiane dell'Ottocento: il tracciato dell'attuale corso Vittorio Emanuele (1852-1860). Altre sue opere sono: il palazzo Bennucci a Castellammare di Stabia (1843), il prospetto di S. Maria di Piedigrotta (1853),il palazzo Nunziante a Napoli e la cappella bizantineggiante annessa a quell'edificio, la trasformazione dell'ex convento di S. Giovanni delle Monache in sede dell'Accademia di belle arti (1861), la colonna onoraria di piazza dei Martiri (1866-1868) e il nucleo iniziale della stazione centrale (1876), poi sviluppato da Nicola Breglia. Accanto a queste opere di carattere più o meno neorinascimentale va anche ricordato il duomo di Cerignola (iniziato nel 1868), che pretende riecheggiare la fiorentina Santa Maria del Fiore (a quest'opera lavorò anche G. Pisanti che apportò qualche modifica al progetto dell'A.). Presentò un suo infelice progetto al concorso per la facciata del duomo fiorentino e pubblicò in proposito una Memoria illustrativa del progetto per la facciata della cattedrale di Firenze (Firenze 1864).
Si deve all'A. il progetto per la facciata del duomo di Napoli, eseguito con qualche modifica (1877-1905) dal Breglia, dal Pisanti e dal Curri: esso denota, nelle sue forme neogotiche, una sostanziale incomprensione dell'organismo architettonico preesistente e un troppo evidente contrasto con i tre portali quattrocenteschi di A. Baboccio. Appare migliore, per certo gusto scenografico e pittoresco, il rifacimento della facciata del duomo di Amalfi (da lui condotto in collaborazione con L. Dalla Corte e G. Raimondi dopo il crollo del 1861).
Tecnico di notevoli possibilità, architetto di preparazione accademica, l'A. è l'esponente più caratteristico, nell'ambiente meridionale, della generazione che segue quella propriamente romantica e precede l'altra che, negli ultimi anni del secolo, sentì urgente il bisogno di rinnovare gli stessi elementi dell'antico linguaggio architettonico ormai inadatto alle nuove esigenze del gusto e all'impiego di nuovi materiali da costruzione.
Morì a Roma il 7 giugno 1872.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Canta ...Napoli e canta a Castellammare di Stabia !
Luigi Denza nacque il 23 febbraio 1846 a Castellammare di Stabia, da Giuseppe, un albergatore, e Giuseppa Savoca di Palermo. Avviato agli studi musicali nel celebre Conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella, che frequentò per sei anni, ebbe per maestri Paolo Serrao e Francesco Saverio Mercadante per composizione, Valente e Russo per pianoforte, e Scafati e Guerci per canto.
Risalgono al 1870 le sue prime canzoni: “T’allicuorde!”, su parole dello stabiese Enrico Bonadia, e "Giulia", su testo di Edoardo Randegger. Nello stesso anno é incaricato dal municipio di Castellammare di Stabia di allietare la festa data nella villa del Principe di Moliterno in onore dei principi reali Umberto e Margherita di Savoia, futuri sovrani d’Italia.
Il 13 maggio del 1876 mise in scena a Napoli la sua unica commedia, Wallenstein, tratta dal poema di Friedrich von Schiller, su libretto di A. Bruner. Risalgono a quegli anni la “chanson d’amour” Ricordo di Quisisana, la melodia Si tu m’amais!, dedicata a Caruso, cui seguirono negli anni “Guè non durmì”, “Se” e “Il bacio più dolce”.
Nel 1877 dirige un celebre concerto, in Palazzo Farnese a Roma, sede dell’ambasciata di Francia, alla presenza dei reali d’Italia, conquistando l’amicizia della regina Margherita.
Ma la celebrità di Luigi Denza é indissolubilmente legata alla canzone “Funiculì funiculà”, nata dalla collaborazione con un giornalista napoletano, Peppino Turco. Questi, alloggiato al Grand Hotel Quisisana, nel ritorno dall’inaugurazione della funicolare del Vesuvio, 6 giugno 1880, propose a Denza il testo che, si dice, il maestro stabiese musicò all’istante.Negli stessi giorni, fu organizzata nei locali dello chalet “Stabia Hall”, in Castellammare, dal multiforme principe di Moliterno, una festa notturna a mare, allietata dalle note di Funiculì funiculà. Fu tale il successo che in pochi giorni venne cantata da tutta la città e, a furor di popolo, presentata alla Piedigrotta del 1880 in Napoli. Divenuto, nel frattempo, professore di canto nello stesso Conservatorio napoletano, nel 1883 si trasferì a Londra, dove fu condirettore della London Academy of Music sino al 1898, indi professore di canto alla Royal Academy, cattedra che tenne sino alla morte.
Autore di ben ottocento composizioni musicali è celebre anche per aver composto melodiose romanze, quali “Il bacio più dolce” (1879), “Amami” (1880), “Non so scordarti” (1881), “Addio!” (1883) e soprattutto “Occhi di fata” (1884), cantata dai maggiori tenori mondiali, da Beniamino Gigli a Caruso, da Placido Domingo a José Carreras, da Andrea Bocelli a Luciano Pavarotti. Una melodia senza tempo. Denza si spense a Londra il 27 gennaio 1922.
La città di Castellammare di Stabia gli ha intitolato una strada ed eretto un busto in villa comunale, mentre un comitato privato ha innalzato una lapide sulla casa natale, in via Mazzini n. 32, il 9 giugno 2001.
Biografia tratta da A. Acampora - G. D'Angelo, Luigi Denza. Il Genio di Funiculì funiculà, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia, 2001
Luigi Denza nacque il 23 febbraio 1846 a Castellammare di Stabia, da Giuseppe, un albergatore, e Giuseppa Savoca di Palermo. Avviato agli studi musicali nel celebre Conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella, che frequentò per sei anni, ebbe per maestri Paolo Serrao e Francesco Saverio Mercadante per composizione, Valente e Russo per pianoforte, e Scafati e Guerci per canto.
Risalgono al 1870 le sue prime canzoni: “T’allicuorde!”, su parole dello stabiese Enrico Bonadia, e "Giulia", su testo di Edoardo Randegger. Nello stesso anno é incaricato dal municipio di Castellammare di Stabia di allietare la festa data nella villa del Principe di Moliterno in onore dei principi reali Umberto e Margherita di Savoia, futuri sovrani d’Italia.
Il 13 maggio del 1876 mise in scena a Napoli la sua unica commedia, Wallenstein, tratta dal poema di Friedrich von Schiller, su libretto di A. Bruner. Risalgono a quegli anni la “chanson d’amour” Ricordo di Quisisana, la melodia Si tu m’amais!, dedicata a Caruso, cui seguirono negli anni “Guè non durmì”, “Se” e “Il bacio più dolce”.
Nel 1877 dirige un celebre concerto, in Palazzo Farnese a Roma, sede dell’ambasciata di Francia, alla presenza dei reali d’Italia, conquistando l’amicizia della regina Margherita.
Ma la celebrità di Luigi Denza é indissolubilmente legata alla canzone “Funiculì funiculà”, nata dalla collaborazione con un giornalista napoletano, Peppino Turco. Questi, alloggiato al Grand Hotel Quisisana, nel ritorno dall’inaugurazione della funicolare del Vesuvio, 6 giugno 1880, propose a Denza il testo che, si dice, il maestro stabiese musicò all’istante.Negli stessi giorni, fu organizzata nei locali dello chalet “Stabia Hall”, in Castellammare, dal multiforme principe di Moliterno, una festa notturna a mare, allietata dalle note di Funiculì funiculà. Fu tale il successo che in pochi giorni venne cantata da tutta la città e, a furor di popolo, presentata alla Piedigrotta del 1880 in Napoli. Divenuto, nel frattempo, professore di canto nello stesso Conservatorio napoletano, nel 1883 si trasferì a Londra, dove fu condirettore della London Academy of Music sino al 1898, indi professore di canto alla Royal Academy, cattedra che tenne sino alla morte.
Autore di ben ottocento composizioni musicali è celebre anche per aver composto melodiose romanze, quali “Il bacio più dolce” (1879), “Amami” (1880), “Non so scordarti” (1881), “Addio!” (1883) e soprattutto “Occhi di fata” (1884), cantata dai maggiori tenori mondiali, da Beniamino Gigli a Caruso, da Placido Domingo a José Carreras, da Andrea Bocelli a Luciano Pavarotti. Una melodia senza tempo. Denza si spense a Londra il 27 gennaio 1922.
La città di Castellammare di Stabia gli ha intitolato una strada ed eretto un busto in villa comunale, mentre un comitato privato ha innalzato una lapide sulla casa natale, in via Mazzini n. 32, il 9 giugno 2001.
Biografia tratta da A. Acampora - G. D'Angelo, Luigi Denza. Il Genio di Funiculì funiculà, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia, 2001
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
I PRIMATI DI NAPOLI
52 primati del Regno delle Due Sicilie
Fonte: " Le Industrie del Regno di Napoli" di Gennaro De Crescenzo "
1735 Prima Cattedra di Astronomia, in Italia, affidata a Napoli a Pietro De Martino
1754 Prima Cattedra di Economia, nel mondo, affidata a Napoli ad Antonio Genovesi
1762 Accademia di Architettura, una delle prime e più prestigiose in Europa
1763 Primo cimitero italiano per poveri (il "Cimitero delle 366 fosse", nei pressi di Poggioreale a Napoli, su disegno di Ferdinando Fuga)
1781 Primo Codice Marittimo, nel mondo, opera di Michele Jorio
1782 Primo intervento, in Italia, di profilassi anti-tubercolare
1783 Primo cimitero, in Europa, ad uso di tutte le classi sociali (Palermo)
1789 Prima assegnazione di "Case Popolari", in Italia: San Leucio (presso Caserta)
1789 Prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)
1792 Primo Atlante Marittimo nel mondo (G Antonio Rizzi Zannoni, "Atlante Marittimo delle Due Sicilie") elaborato dalla prestigiosa Scuola di Cartografia napoletana
1801 Primo Museo Mineralogico del mondo
1807 Primo Orto Botanico in Italia (a Napoli)
1812 Prima Scuola di Ballo in Italia, annessa al San Carlo
1813 Primo Ospedale Psichiatrico italiano: il "Reale Morotrofio" di Aversa
1818 Prima nave a vapore nel Mediterraneo, la "Ferdinando I"
1819 Primo Osservatorio Astronomico, in Italia (a Capodimonte)
1832 Primo ponte sospeso, in ferro, in Europa continentale (sul Garigliano)
1833 Prima nave da crociera, in Europa: la "Francesco I"
1835 Primo istituto italiano per sordomuti
1836 Prima Compagnia di navigazione a vapore nel Mediterraneo
1839 Prima ferrovia italiana: tratto Napoli-Portici
1839 Prima illuminazione a gas di una città italiana (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade
1840 Prima fabbrica metalmeccanica d'Italia per numero di operai (1050): Pietrarsa, presso Napoli
1841 Primo Centro Sismologico, in Italia, presso il Vesuvio
1841 Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843 Prima nave da guerra a vapore d'Italia (pirofregata "Ercole"), varata a Castellammare
1843 Primo periodico psichiatrico italiano pubblicato presso il Reale Morotrofio di Aversa da Biagio Miraglia
1845 Prima locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa
1845 Primo Osservatorio Meteorologico italiano (alle falde del Vesuvio)
1852 Primo telegrafo elettrico in Italia (inaugurato il 31 luglio)
1852 Primo bacino di carenaggio in muratura in Italia (nel porto di Napoli)
1852 Primo esperimento di illuminazione elettrica in Italia (a Capodimonte)
1853 Primo viaggio di piroscafo dal Mediterraneo per l'America (il "Sicilia" della Società Sicula Transatlantica del palermitano Salvatore De Pace: 26 i giorni impiegati)
1853 Prima applicazione dei principi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi
1856 Primo Premio Internazionale per la produzione di pasta (Mostra Industriale di Parigi)
1856 Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli (Mostra Industriale di Parigi)
1856 Primo Sismografo Elettromagnetico nel mondo costruito da Luigi Palmieri
1859 Primo Stato in Europa per produzione di guanti (700.000 dozzine di paia ogni anno)
1860 Prima flotta mercantile e prima flotta militare d'Italia (seconda nel mondo)
1860 Prima nave ad elica (la "Monarca"), in Italia, varata a Castellammare
1860 La più grande industria navale d'Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia, 2000 operai)
1860 Primo tra gli Stati italiani per numero di Orfanotrofi, Ospizi, Collegi, Conservatori e strutture di Assistenza e Formazione
1860 La più bassa percentuale di mortalità infantile d'Italia
1860 La più alta percentuale di medici per abitanti in Italia
1860 Prima città d'Italia per numero di Teatri (Napoli)
1860 Prima città d'Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)
1860 Primo "Piano Regolatore", in Italia, per la città di Napoli
1860 Prima città d'Italia per numero di Tipografie (113, in Napoli)
1860 Prima città d'Italia per numero di pubblicazioni di giornali e riviste (Napoli)
1860 La più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato (120% alla Borsa di Parigi)
1860 Il minore carico tributario erariale in Europa
1860 Maggior quantità di Lire-oro conservata nei Banchi Nazionali (dei 668 milioni di Lire-oro, patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme, 443 milioni erano del regno delle Due Sicilie)
52 primati del Regno delle Due Sicilie
Fonte: " Le Industrie del Regno di Napoli" di Gennaro De Crescenzo "
1735 Prima Cattedra di Astronomia, in Italia, affidata a Napoli a Pietro De Martino
1754 Prima Cattedra di Economia, nel mondo, affidata a Napoli ad Antonio Genovesi
1762 Accademia di Architettura, una delle prime e più prestigiose in Europa
1763 Primo cimitero italiano per poveri (il "Cimitero delle 366 fosse", nei pressi di Poggioreale a Napoli, su disegno di Ferdinando Fuga)
1781 Primo Codice Marittimo, nel mondo, opera di Michele Jorio
1782 Primo intervento, in Italia, di profilassi anti-tubercolare
1783 Primo cimitero, in Europa, ad uso di tutte le classi sociali (Palermo)
1789 Prima assegnazione di "Case Popolari", in Italia: San Leucio (presso Caserta)
1789 Prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)
1792 Primo Atlante Marittimo nel mondo (G Antonio Rizzi Zannoni, "Atlante Marittimo delle Due Sicilie") elaborato dalla prestigiosa Scuola di Cartografia napoletana
1801 Primo Museo Mineralogico del mondo
1807 Primo Orto Botanico in Italia (a Napoli)
1812 Prima Scuola di Ballo in Italia, annessa al San Carlo
1813 Primo Ospedale Psichiatrico italiano: il "Reale Morotrofio" di Aversa
1818 Prima nave a vapore nel Mediterraneo, la "Ferdinando I"
1819 Primo Osservatorio Astronomico, in Italia (a Capodimonte)
1832 Primo ponte sospeso, in ferro, in Europa continentale (sul Garigliano)
1833 Prima nave da crociera, in Europa: la "Francesco I"
1835 Primo istituto italiano per sordomuti
1836 Prima Compagnia di navigazione a vapore nel Mediterraneo
1839 Prima ferrovia italiana: tratto Napoli-Portici
1839 Prima illuminazione a gas di una città italiana (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade
1840 Prima fabbrica metalmeccanica d'Italia per numero di operai (1050): Pietrarsa, presso Napoli
1841 Primo Centro Sismologico, in Italia, presso il Vesuvio
1841 Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843 Prima nave da guerra a vapore d'Italia (pirofregata "Ercole"), varata a Castellammare
1843 Primo periodico psichiatrico italiano pubblicato presso il Reale Morotrofio di Aversa da Biagio Miraglia
1845 Prima locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa
1845 Primo Osservatorio Meteorologico italiano (alle falde del Vesuvio)
1852 Primo telegrafo elettrico in Italia (inaugurato il 31 luglio)
1852 Primo bacino di carenaggio in muratura in Italia (nel porto di Napoli)
1852 Primo esperimento di illuminazione elettrica in Italia (a Capodimonte)
1853 Primo viaggio di piroscafo dal Mediterraneo per l'America (il "Sicilia" della Società Sicula Transatlantica del palermitano Salvatore De Pace: 26 i giorni impiegati)
1853 Prima applicazione dei principi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi
1856 Primo Premio Internazionale per la produzione di pasta (Mostra Industriale di Parigi)
1856 Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli (Mostra Industriale di Parigi)
1856 Primo Sismografo Elettromagnetico nel mondo costruito da Luigi Palmieri
1859 Primo Stato in Europa per produzione di guanti (700.000 dozzine di paia ogni anno)
1860 Prima flotta mercantile e prima flotta militare d'Italia (seconda nel mondo)
1860 Prima nave ad elica (la "Monarca"), in Italia, varata a Castellammare
1860 La più grande industria navale d'Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia, 2000 operai)
1860 Primo tra gli Stati italiani per numero di Orfanotrofi, Ospizi, Collegi, Conservatori e strutture di Assistenza e Formazione
1860 La più bassa percentuale di mortalità infantile d'Italia
1860 La più alta percentuale di medici per abitanti in Italia
1860 Prima città d'Italia per numero di Teatri (Napoli)
1860 Prima città d'Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)
1860 Primo "Piano Regolatore", in Italia, per la città di Napoli
1860 Prima città d'Italia per numero di Tipografie (113, in Napoli)
1860 Prima città d'Italia per numero di pubblicazioni di giornali e riviste (Napoli)
1860 La più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato (120% alla Borsa di Parigi)
1860 Il minore carico tributario erariale in Europa
1860 Maggior quantità di Lire-oro conservata nei Banchi Nazionali (dei 668 milioni di Lire-oro, patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme, 443 milioni erano del regno delle Due Sicilie)
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Grazie Gianni
gipos



gipos
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Re: Da Napoli a Sofia..........
"Le Industrie del Regno di Napoli" di Gennaro De Crescenzo
Grimaldi & C. Editori, Napoli 2002
http://www.neoborbonici.it/portal/index ... &Itemid=60
Il Regno di Napoli prima dell'unità d'Italia aveva delle fabbriche? Perchè oggi non guidiamo automobili costruite a Pietrarsa? Perchè non usiamo saponi Bevilacqua oppure orologi Marantonio? Perchè non indossiamo maglioni Sava? Quali erano i prodotti più in uso nell'Italia meridionale poco più di un secolo fa? Quali erano i produttori più famosi, e perchè sono scomparsi?
Queste sono alcune delle domande cui tenta di rispondere Gennaro De Crescenzo nel volume "Le Industrie del Regno di Napoli". Si tratta di interrogativi davvero stimolanti per le ricerche condotte dall'autore, che non si è proposto di risolvere una questione così complessa come quella dell'industrializzazione meridionale preunitaria, ma solo di recare un contributo utile all'approfondimento di un tema ancora molto attuale.
De Crescenzo, infatti, ricostruisce parzialmente, nelle pagine del suo libro, la storia delle industrie della parte continentale del Regno delle Due Sicilie (i "Reali Domini al di qua del Faro"), in attesa di nuove ricerche relative alla Sicilia ("Reali Domini al di là del Faro"). Il periodo verso il quale concentra la sua attenzione è quello successivo alla rivoluzione industriale, che dall'Inghilterra introdusse la forma-fabbrica a noi più nota e cambiò per sempre il rapporto tra lavoro e vita in senso generale. Proprio negli anni che precedettero l'unificazione italiana la società meridionale, insieme con il resto della penisola, fu messa per la prima volta di fronte al problema dell'industrializzazione e della progressiva affermazione di nuove potenze industriali nelle zone più settentrionali dell'Europa.
Le scelte fatte dalla dinastia borbonica intorno alla metà dell'Ottocento, con le tracce delle industrie che in quell'epoca nacquero o si consolidarono, costituiscono una base necessaria per ulteriori ricerche ed eventuali confronti sui problemi ancora irrisolti del Mezzogiorno d'Italia.
Dalla consultazione di dati e documenti archivistici e dalla lettura di testi specialistici e settoriali dell'epoca, De Crescenzo trae fuori un quadro sintetico complessivo del tessuto produttivo meridionale della prima metà dell'Ottocento, dalla pasta alla ceramica e alla carta, dalle sete ai fucili, dalle lavatrici ai profumi. L'indagine dello scrittore napoletano permette anche di ritrovare e analizzare spunti interessanti di vita quotidiana, riferimenti a temi di grande attualità come la continuità tra passato e presente di alcune produzioni tradizionali, la modernità di scelte rispettose delle vocazioni del territorio o l'interesse architettonico-archeologico-industriale di strutture e siti superstiti.
Il libro si chiude con un elenco di cinquanta primati del Regno di Napoli, dal 1735 al 1860, inseriti da De Crescenzo nel suo volume non senza una punta di sorniona polemica contro i sopracciò della storiografia e della cultura ufficiale, i quali sono soliti irridere quanti ricordano loro le glorie passate di un Mezzogiorno attivo e orgoglioso della propria forza, tanto diverso da quello attuale, improduttivo e depresso, che quegli stessi intellettuali hanno alacremente contribuito a forgiare.
Grimaldi & C. Editori, Napoli 2002
http://www.neoborbonici.it/portal/index ... &Itemid=60
Il Regno di Napoli prima dell'unità d'Italia aveva delle fabbriche? Perchè oggi non guidiamo automobili costruite a Pietrarsa? Perchè non usiamo saponi Bevilacqua oppure orologi Marantonio? Perchè non indossiamo maglioni Sava? Quali erano i prodotti più in uso nell'Italia meridionale poco più di un secolo fa? Quali erano i produttori più famosi, e perchè sono scomparsi?
Queste sono alcune delle domande cui tenta di rispondere Gennaro De Crescenzo nel volume "Le Industrie del Regno di Napoli". Si tratta di interrogativi davvero stimolanti per le ricerche condotte dall'autore, che non si è proposto di risolvere una questione così complessa come quella dell'industrializzazione meridionale preunitaria, ma solo di recare un contributo utile all'approfondimento di un tema ancora molto attuale.
De Crescenzo, infatti, ricostruisce parzialmente, nelle pagine del suo libro, la storia delle industrie della parte continentale del Regno delle Due Sicilie (i "Reali Domini al di qua del Faro"), in attesa di nuove ricerche relative alla Sicilia ("Reali Domini al di là del Faro"). Il periodo verso il quale concentra la sua attenzione è quello successivo alla rivoluzione industriale, che dall'Inghilterra introdusse la forma-fabbrica a noi più nota e cambiò per sempre il rapporto tra lavoro e vita in senso generale. Proprio negli anni che precedettero l'unificazione italiana la società meridionale, insieme con il resto della penisola, fu messa per la prima volta di fronte al problema dell'industrializzazione e della progressiva affermazione di nuove potenze industriali nelle zone più settentrionali dell'Europa.
Le scelte fatte dalla dinastia borbonica intorno alla metà dell'Ottocento, con le tracce delle industrie che in quell'epoca nacquero o si consolidarono, costituiscono una base necessaria per ulteriori ricerche ed eventuali confronti sui problemi ancora irrisolti del Mezzogiorno d'Italia.
Dalla consultazione di dati e documenti archivistici e dalla lettura di testi specialistici e settoriali dell'epoca, De Crescenzo trae fuori un quadro sintetico complessivo del tessuto produttivo meridionale della prima metà dell'Ottocento, dalla pasta alla ceramica e alla carta, dalle sete ai fucili, dalle lavatrici ai profumi. L'indagine dello scrittore napoletano permette anche di ritrovare e analizzare spunti interessanti di vita quotidiana, riferimenti a temi di grande attualità come la continuità tra passato e presente di alcune produzioni tradizionali, la modernità di scelte rispettose delle vocazioni del territorio o l'interesse architettonico-archeologico-industriale di strutture e siti superstiti.
Il libro si chiude con un elenco di cinquanta primati del Regno di Napoli, dal 1735 al 1860, inseriti da De Crescenzo nel suo volume non senza una punta di sorniona polemica contro i sopracciò della storiografia e della cultura ufficiale, i quali sono soliti irridere quanti ricordano loro le glorie passate di un Mezzogiorno attivo e orgoglioso della propria forza, tanto diverso da quello attuale, improduttivo e depresso, che quegli stessi intellettuali hanno alacremente contribuito a forgiare.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
CAFFE' GAMBRINUS
Via Chiaia, 1/2
Napoli
Il Caffè Gambrinus di Napoli aprì i battenti nel 1860, nei mesi in cui i fermenti risorgimentali stavano dando vita all'unità nazionale. Era l'anno in cui Garibaldi entrò a Napoli. Il popolo napoletano, quando vuole recriminare contro il potere centrale, impreca ancora: “Mannaggia Garibaldi”.
L'imprenditore Vincenzo Apuzzo aprì il locale denominandolo Gran Caffè, anche se i napoletani lo chiamarono sempre Caffè dalle Sette Porte. Il Caffè si mise subito in competizione col vicino Caffè d’Europa di Mariano Vacca, situato all’inizio di via Chiaia. Nella competizione Vincenzo Apuzzo fu costretto a chiudere i battenti per l’eccessivo sfarzo.Nell’aprile del 1890 Mariano Vacca prese in fitto le sale del vecchio Gran Caffè ed affidò il compito di ripristinare i locali ad Antonio Curri, lo stesso architetto della vicina Galleria Umberto. Curri eseguì il restauro in un eccellente Liberty napoletano che ancora oggi si può ammirare.
Il nuovo proprietario all'insegna del Gran Caffè aggiunse Gambrinus, il nome del fantomatico re germanico Gambrinus, inventore della birra. L’impronta mitteleuropea si coniugò con il profilo del caffè letterario italiano. ll Caffè Gambrinus, per fama e per fasto, attirò le simpatie dei reali di Savoia. I suoi locali divennero presto luogo di cultura della Napoli liberale ed anticonformista, fu terreno fertile di un processo evolutivo inarrestabile.
Frequentatore del Gambrinus fu Ferdinando Russo, poeta e giornalista napoletano. Non andò mai d'accordo con Salvatore Di Giacomo del quale fu anzi rivale. Fu criticato sovente da Benedetto Croce, ma ammirato da Giosuè Carducci che volle incontrarlo nel 1891 a Napoli.
Scrisse il poemetto “O surdate ‘e Gaeta”, in cui si fa l’elegia di Francesco II, ultimo re borbonico, e di sua moglie.
In occasione dei suoi 150 anni il Gambrinus, per una mattinata, ha riportato in auge la tradizione del caffè sospeso. Questa consuetudine nacque con l'invenzione della macchina espresso per il caffè.
fonte http://2night.it
Via Chiaia, 1/2
Napoli
Il Caffè Gambrinus di Napoli aprì i battenti nel 1860, nei mesi in cui i fermenti risorgimentali stavano dando vita all'unità nazionale. Era l'anno in cui Garibaldi entrò a Napoli. Il popolo napoletano, quando vuole recriminare contro il potere centrale, impreca ancora: “Mannaggia Garibaldi”.
L'imprenditore Vincenzo Apuzzo aprì il locale denominandolo Gran Caffè, anche se i napoletani lo chiamarono sempre Caffè dalle Sette Porte. Il Caffè si mise subito in competizione col vicino Caffè d’Europa di Mariano Vacca, situato all’inizio di via Chiaia. Nella competizione Vincenzo Apuzzo fu costretto a chiudere i battenti per l’eccessivo sfarzo.Nell’aprile del 1890 Mariano Vacca prese in fitto le sale del vecchio Gran Caffè ed affidò il compito di ripristinare i locali ad Antonio Curri, lo stesso architetto della vicina Galleria Umberto. Curri eseguì il restauro in un eccellente Liberty napoletano che ancora oggi si può ammirare.
Il nuovo proprietario all'insegna del Gran Caffè aggiunse Gambrinus, il nome del fantomatico re germanico Gambrinus, inventore della birra. L’impronta mitteleuropea si coniugò con il profilo del caffè letterario italiano. ll Caffè Gambrinus, per fama e per fasto, attirò le simpatie dei reali di Savoia. I suoi locali divennero presto luogo di cultura della Napoli liberale ed anticonformista, fu terreno fertile di un processo evolutivo inarrestabile.
Frequentatore del Gambrinus fu Ferdinando Russo, poeta e giornalista napoletano. Non andò mai d'accordo con Salvatore Di Giacomo del quale fu anzi rivale. Fu criticato sovente da Benedetto Croce, ma ammirato da Giosuè Carducci che volle incontrarlo nel 1891 a Napoli.
Scrisse il poemetto “O surdate ‘e Gaeta”, in cui si fa l’elegia di Francesco II, ultimo re borbonico, e di sua moglie.
In occasione dei suoi 150 anni il Gambrinus, per una mattinata, ha riportato in auge la tradizione del caffè sospeso. Questa consuetudine nacque con l'invenzione della macchina espresso per il caffè.
fonte http://2night.it
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Quest’opera non s’ha da fare.....ovvero ...quel ballo che Napoli non ebbe!
Un ballo in maschera
Storia:
Sotto forti pressioni del teatro San Carlo di Napoli che reclama da Verdi una nuova fatica teatrale, il Maestro decide di cimentarsi con un’opera che già da tempo interessava anche altri musicisti. Il libretto di Antonio Somma, che dapprima chiede di rimanere anonimo, prende ispirazione da quello di Eugène Scribe per l’opera di Daniel Auber, narra la vicenda di un regicidio avvenuto in Svezia alla metà del XVIII secolo. L’opera va in scena per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1833 ed è ancora rappresentata nel 1857, quando Verdi decide di elaborarne il libretto. La censura borbonica dà inizio alla travagliata storia della composizione dell’opera; si chiede a Verdi di modificare molte, forse troppe cose (il Re deve diventare duca, il tempo in cui è ambientata la vicenda deve essere anticipato a quello in cui si credeva ancora nella magia, i cospiratori devono agire per motivazioni squisitamente personali). Dopo che il Maestro giunge a Napoli nel gennaio del 1858, Napoleone III subisce un attentato e la censura diventa ancora più pesante nelle sue pretese. Verdi non è disposto a stravolgere completamente la sua opera, come invece gli viene richiesto dal San Carlo, non rispetta i termini contrattuali, il Teatro gli fa causa e Verdi risponde all’affronto con una querela per danni. La schermaglia legale si chiude con un ritiro delle accuse da parte del Teatro e con un impegno da parte del compositore di approntare un altro lavoro entro l’autunno. Nasce così Una vendetta in domino. Ricordi la vuole per La Scala di Milano, ma Verdi la concede al Teatro Apollo di Roma. Nemmeno qui però il libretto può rimanere come originariamente concepito: la scena si sposta da Stoccolma a Boston e Re Gustavo diventa il Conte di Warwick, governatore del Massachussets. Per dirla alla Shakespeare... molto rumore per nulla. L’opera va finalmente in scena col titolo di Un ballo in maschera la sera del 17 febbraio 1859.
Caratteristiche:
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, ispirato al romanzo di Eugène Scribe Gustave III ou Le bal masqué
Prima: Roma, Teatro Apollo, 17 febbraio 1859
Trama:
Atto I. Riccardo, conte di Warwick, governatore inglese del Massachusetts, apre le udienze. Fra i presenti vi sono i nemici di Samuel e Tom che, insieme con i loro seguaci, meditano di ucciderlo. Il paggio Oscar porta a Riccardo la lista degli invitati a un ballo; questi, scorto tra gli altri il nome di Amelia di cui è segretamente innamorato, trasalisce. Entra il creolo Renato, segretario e confidente di Riccardo, nonché il marito di Amelia, che lo mette in guardia da una congiura che si sta tramando nei suoi confronti, ma egli si mostra insensibile all`avvertimento. Ad un giudice che gli sottopone l`atto di condanna di un`indovina negra, Ulrica si mostra magnanimo e, convocati i presenti, dà appuntamento nell`abituro dell`indovina. Qui la maga, che sta invocando " re degli abissi", viene interpellata dal marinaio Silvano a cui predice un futuro fortunato. Per l`esultanza di tutti, la profezia si avvera, poiché Riccardo aveva precedentemente messo nella tasca del marinaio denaro e un foglio di nomina ad ufficiale. Quindi si fa avanti un servo di Amelia a chiedere un colloquio privato per la sua padrona. Fatti allontanare tutti, Ulrica consiglia ad Amelia, che le chiede come liberarsi da una passione peccaminosa, di recarsi nel sinistro campo delle esecuzioni, ove potrà trovare l`erba che dà l`oblio; Riccardo, nascosto per udire il colloquio, gioisce al sapere che Amelia è innamorata di lui. Quindi travestito da pescatore, si presenta alla maga che riconosce nella sua la mano di un nobile condottiero, ma rifiuta di proclamare il vaticinio. Infine per l`insistenza di Riccardo e dei presenti, predice al conte la morte per mano di un amico, colui che per primo gli stringerà la mano. Tra lo stupore generale, Riccardo minimizza l`accaduto, mentre il popolo lo acclama.
Atto II. Amelia si reca alla ricerca dell`erba magica ed è raggiunta da Riccardo che le dichiara il suo amore; Amelia è scossa: anch`ella lo ama, ma non vuole tradire il marito. Questi preoccupato per l`incolumità di Riccardo, raggiunge i due ed intima a Riccardo di fuggire da quel luogo solitario. Prima di andare, il conte gli affida la donna (che copertasi con un velo, non è stata riconosciuta dal marito) dietro giuramento che egli non avrebbe tentato di scoprire chi fosse. Irrompono i congiurati stupiti al trovare Renato, che invano tenta di difendere la donna dalla loro curiosità di sapere chi sia. Nella concitazione della scena, ad Amelia cade il velo, fatto che suscita la rabbia e la desolazione del marito e la terribile ironia di Samuel, Tom e dei congiurati tutti. Sconvolto Renato dà appuntamento all`indomani a Samuel e Tom.
Atto III. Renato è fermo nel proposito di vendicare con il sangue la presunta infedeltà della moglie. La donna gli chiede di rivedere per l`ultima volta il figlio. Quindi, mosso da pietà, Renato decide di trarre soddisfazione con la morte dell`amico risparmiando la moglie. I sopraggiunti Samuel e Tom restano increduli quando vengono messi a conoscenza degli intendimenti di Renato e questi offre la vita di suo figlio come garanzia di sincerità. I tre deliberano che sia la sorte ad indicare chi di loro sarà l`esecutore dell`omicidio di Riccardo ed obbligano Amelia ad estrarre dall`urna il nome del prescelto: Renato. Giunge Oscar a portare gli inviti per il ballo in maschera. I tre convengono di sfruttare l`occasione per lo scopo prefissato, mentre Amelia pensa a come salvare il conte. Riccardo ha deciso di rinunciare all`amore per Amelia e prescrivere per lei e Renato il rimpatrio in Inghilterra. Oscar gli porge una lettera anonima che lo invita ad astenersi per sicurezza dal ballo, ma il conte, che vuole rivedere la donna almeno una volta ancora, si mostra incurante dell`avvertimento. Nel corso della festa, Renato riesce con l`astuzia a farsi dire da Oscar dietro quale travestimento si sia nascosto Riccardo. Nel frattempo Amelia, che ha raggiunto Riccardo per scongiurarlo di fuggire, da lui riconosciuta, riceve l`estremo addio. Egli fa appena a tempo a concludere il dialogo con la donna, che viene raggiunto dal pugnale di Renato. Questi viene arrestato ma Riccardo, morente, ordina che sia liberato. Dopo avergli mostrato il decreto di espatrio per lui e per Amelia, gli rivela che mai Amelia lo aveva tradito, quindi perdona tutti i congiurati. I presenti benedicono la magnanimità del conte. Renato resta solo con il rimorso.
fonte http://www.giuseppeverdi.it
Un ballo in maschera
Storia:
Sotto forti pressioni del teatro San Carlo di Napoli che reclama da Verdi una nuova fatica teatrale, il Maestro decide di cimentarsi con un’opera che già da tempo interessava anche altri musicisti. Il libretto di Antonio Somma, che dapprima chiede di rimanere anonimo, prende ispirazione da quello di Eugène Scribe per l’opera di Daniel Auber, narra la vicenda di un regicidio avvenuto in Svezia alla metà del XVIII secolo. L’opera va in scena per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1833 ed è ancora rappresentata nel 1857, quando Verdi decide di elaborarne il libretto. La censura borbonica dà inizio alla travagliata storia della composizione dell’opera; si chiede a Verdi di modificare molte, forse troppe cose (il Re deve diventare duca, il tempo in cui è ambientata la vicenda deve essere anticipato a quello in cui si credeva ancora nella magia, i cospiratori devono agire per motivazioni squisitamente personali). Dopo che il Maestro giunge a Napoli nel gennaio del 1858, Napoleone III subisce un attentato e la censura diventa ancora più pesante nelle sue pretese. Verdi non è disposto a stravolgere completamente la sua opera, come invece gli viene richiesto dal San Carlo, non rispetta i termini contrattuali, il Teatro gli fa causa e Verdi risponde all’affronto con una querela per danni. La schermaglia legale si chiude con un ritiro delle accuse da parte del Teatro e con un impegno da parte del compositore di approntare un altro lavoro entro l’autunno. Nasce così Una vendetta in domino. Ricordi la vuole per La Scala di Milano, ma Verdi la concede al Teatro Apollo di Roma. Nemmeno qui però il libretto può rimanere come originariamente concepito: la scena si sposta da Stoccolma a Boston e Re Gustavo diventa il Conte di Warwick, governatore del Massachussets. Per dirla alla Shakespeare... molto rumore per nulla. L’opera va finalmente in scena col titolo di Un ballo in maschera la sera del 17 febbraio 1859.
Caratteristiche:
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, ispirato al romanzo di Eugène Scribe Gustave III ou Le bal masqué
Prima: Roma, Teatro Apollo, 17 febbraio 1859
Trama:
Atto I. Riccardo, conte di Warwick, governatore inglese del Massachusetts, apre le udienze. Fra i presenti vi sono i nemici di Samuel e Tom che, insieme con i loro seguaci, meditano di ucciderlo. Il paggio Oscar porta a Riccardo la lista degli invitati a un ballo; questi, scorto tra gli altri il nome di Amelia di cui è segretamente innamorato, trasalisce. Entra il creolo Renato, segretario e confidente di Riccardo, nonché il marito di Amelia, che lo mette in guardia da una congiura che si sta tramando nei suoi confronti, ma egli si mostra insensibile all`avvertimento. Ad un giudice che gli sottopone l`atto di condanna di un`indovina negra, Ulrica si mostra magnanimo e, convocati i presenti, dà appuntamento nell`abituro dell`indovina. Qui la maga, che sta invocando " re degli abissi", viene interpellata dal marinaio Silvano a cui predice un futuro fortunato. Per l`esultanza di tutti, la profezia si avvera, poiché Riccardo aveva precedentemente messo nella tasca del marinaio denaro e un foglio di nomina ad ufficiale. Quindi si fa avanti un servo di Amelia a chiedere un colloquio privato per la sua padrona. Fatti allontanare tutti, Ulrica consiglia ad Amelia, che le chiede come liberarsi da una passione peccaminosa, di recarsi nel sinistro campo delle esecuzioni, ove potrà trovare l`erba che dà l`oblio; Riccardo, nascosto per udire il colloquio, gioisce al sapere che Amelia è innamorata di lui. Quindi travestito da pescatore, si presenta alla maga che riconosce nella sua la mano di un nobile condottiero, ma rifiuta di proclamare il vaticinio. Infine per l`insistenza di Riccardo e dei presenti, predice al conte la morte per mano di un amico, colui che per primo gli stringerà la mano. Tra lo stupore generale, Riccardo minimizza l`accaduto, mentre il popolo lo acclama.
Atto II. Amelia si reca alla ricerca dell`erba magica ed è raggiunta da Riccardo che le dichiara il suo amore; Amelia è scossa: anch`ella lo ama, ma non vuole tradire il marito. Questi preoccupato per l`incolumità di Riccardo, raggiunge i due ed intima a Riccardo di fuggire da quel luogo solitario. Prima di andare, il conte gli affida la donna (che copertasi con un velo, non è stata riconosciuta dal marito) dietro giuramento che egli non avrebbe tentato di scoprire chi fosse. Irrompono i congiurati stupiti al trovare Renato, che invano tenta di difendere la donna dalla loro curiosità di sapere chi sia. Nella concitazione della scena, ad Amelia cade il velo, fatto che suscita la rabbia e la desolazione del marito e la terribile ironia di Samuel, Tom e dei congiurati tutti. Sconvolto Renato dà appuntamento all`indomani a Samuel e Tom.
Atto III. Renato è fermo nel proposito di vendicare con il sangue la presunta infedeltà della moglie. La donna gli chiede di rivedere per l`ultima volta il figlio. Quindi, mosso da pietà, Renato decide di trarre soddisfazione con la morte dell`amico risparmiando la moglie. I sopraggiunti Samuel e Tom restano increduli quando vengono messi a conoscenza degli intendimenti di Renato e questi offre la vita di suo figlio come garanzia di sincerità. I tre deliberano che sia la sorte ad indicare chi di loro sarà l`esecutore dell`omicidio di Riccardo ed obbligano Amelia ad estrarre dall`urna il nome del prescelto: Renato. Giunge Oscar a portare gli inviti per il ballo in maschera. I tre convengono di sfruttare l`occasione per lo scopo prefissato, mentre Amelia pensa a come salvare il conte. Riccardo ha deciso di rinunciare all`amore per Amelia e prescrivere per lei e Renato il rimpatrio in Inghilterra. Oscar gli porge una lettera anonima che lo invita ad astenersi per sicurezza dal ballo, ma il conte, che vuole rivedere la donna almeno una volta ancora, si mostra incurante dell`avvertimento. Nel corso della festa, Renato riesce con l`astuzia a farsi dire da Oscar dietro quale travestimento si sia nascosto Riccardo. Nel frattempo Amelia, che ha raggiunto Riccardo per scongiurarlo di fuggire, da lui riconosciuta, riceve l`estremo addio. Egli fa appena a tempo a concludere il dialogo con la donna, che viene raggiunto dal pugnale di Renato. Questi viene arrestato ma Riccardo, morente, ordina che sia liberato. Dopo avergli mostrato il decreto di espatrio per lui e per Amelia, gli rivela che mai Amelia lo aveva tradito, quindi perdona tutti i congiurati. I presenti benedicono la magnanimità del conte. Renato resta solo con il rimorso.
fonte http://www.giuseppeverdi.it
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Un saluto a tutti,
un piccolo contributo per l’amico Gianni.
Folli spese domenicali. Stamani ho acquistato per € 5,00 questo periodico “LA BUONA NOVELLA DELLA CRISTIANITA’ CATTOLICA”, nr. 95 e 96, anno 1872, 30 Novembre. Con due bolli C.mi 1 Periodici Franchi (il secondo su pagina interna).
Contiene un interessante articolo sulla “Sciagurata fine d’un cospiratore”: Cesare Filibeck, attentatore del Papa e con intenzioni di rapire il re di Napoli.
pasfil
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Folli spese domenicali. Stamani ho acquistato per € 5,00 questo periodico “LA BUONA NOVELLA DELLA CRISTIANITA’ CATTOLICA”, nr. 95 e 96, anno 1872, 30 Novembre. Con due bolli C.mi 1 Periodici Franchi (il secondo su pagina interna).
Contiene un interessante articolo sulla “Sciagurata fine d’un cospiratore”: Cesare Filibeck, attentatore del Papa e con intenzioni di rapire il re di Napoli.



pasfil
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- gianni tramaglino
- Messaggi: 968
- Iscritto il: 1 novembre 2007, 16:28
Re: Da Napoli a Sofia..........
Da soldato Borbonico in Sicilia alla battaglia di Custoza: Pittore e decoratore Salernitano
A cura del suo pronipote Ariberto Salati
Vincenzo Adamo, padre di mia nonna paterna Adelia, nacque a Salerno il 2 gennaio 1837 alle ore 15 nella casa di abitazione sita in Strada S. Domenico. Fu battezzato il 3 gennaio nella chiesa di S. Maria della Porta (S. Domenico). Il padre Antonio esercitava l’arte del barbiere, mentre la madre Gaetana Guercio era casalinga. Esercitò, fin da giovane, l’arte di pittore e decoratore. A 23 anni compiti, il 3 gennaio 1860, fu ammesso alla leva militare e il 6 gennaio fu inviato “quale soldato di leva al 15° Reggimento di linea (Fanteria) al servizio delle Due Sicilie al numero 1900 di matricola per anni cinque in attivo servizio e cinque di riserva”. Il 15° Rgt. Fr. di linea “ Messapia” nel 1860 era di stanza nella Sicilia Orientale e prese parte alla battaglia di Catania contro l’esercito invasore garibaldino.
Questo Reggimento era di nuova composizione, nel novembre del 1859 il comando e l’organizzazione sono affidati al colonnello Raffaele Ferrari, poi passato al ruolo sedentaneo il 20 marzo 1860; il comando è affidato provvisoriamente al maggiore Marquez, ex allievo della Nunziatella. Maggio 1860: il Rgt. combatte per le strade di Catania, il 31, spiccano le alte figure del Magg. Marquez e del Ten. De Martino. Giugno 1860: al comando del corpo fu assegnato il Col. Ruiz.
Le quattro compagnie scelte erano di guarnigione ad Augusta al comando del Magg. Aldanese. Nell’agosto 1860, le otto compagnie del Rgt. furono inviate in Calabria.
Nel settembre 1860, il Rgt. si sciolse a Saveria Manelli per il tradimento del gen.le Ghio che fece arrendere a Garibaldi circa 15.000 soldati napoletani. Ma, gruppi di soldati isolati del 15° con il Magg. Marquez raggiunsero il Volturno.
Una compagnia combatterà valorosamente il 19 a Roccaromana ove furono decorati per il coraggio mostrato sul campo il Cap. Follo e il Ten. Mirabito; novembre 1860, le frazioni rimanenti capitoleranno nella battaglia di Capua.
E’ probabile che Vincenzo Adamo, raggiunta Salerno proveniente dalla Calabria, facesse ritorno in famiglia. So per certo, perché me lo raccontava mia nonna, che non volle aderire al R.D. 24 aprile 1861, che ordinava agli ex soldati Borbonici di consegnarsi alle autorità militari d’occupazione.
Questo decreto andò incontro ad un grande insuccesso: il termine perentorio di presentazione stabilito dovette essere prorogato al 1° giugno, ma a questa data si presentarono solo 20.000 uomini su 72.000 previsti.
Dovunque esso trovò opposizione, le reclute fuggirono a migliaia, si diedero alla macchia in montagna e per catturarle ricorsero a crudeli ritorsioni e rappresaglie; si costrinsero, in alcuni casi, le famiglie dei ricercati ad acquartieramenti forzati. Infatti, dopo tre anni di latitanza, il nostro, il 1 novembre 1863 fu denunciato di diserzione.
A questo, certamente, contribuì il proclama d’addio del 14 febbraio 1861 che S.M. Francesco II emanò da Gaeta, suscitando negli animi della popolazione e in particolare in quella dei giovani, che gli avevano giurato fedeltà, nuovi entusiasmi di restaurazione; infatti, il Re nel suo proclama conclusivo diceva: ”non vi dico addio ma arrivederci; serbatemi tutta la lealtà come eternamente vi serberò gratitudine e amore. Il vostro Re Francesco.” Il 19 novembre 1863, “fu arrestato a Salerno e tradotto in quelle carceri in attesa di giudizio.”
Il dicembre 1863, fu preso in forza dal 1° Deposito per compiere il servizio d’ordinanza con la ferma di anni otto “ai termini della circolare N° 9 del 27 febbraio 1861 (Gabinetto) e non giunto per trovarsi nelle carceri.”Il processo fu celebrato il 19 dicembre 1863, fu condannato “ad un anno di reclusione con sentenza del tribunale militare di Salerno”.
Le condizioni carcerarie in quel periodo erano, è dir poco disumane: le carceri, eccessivamente affollate, mancavano di ogni forma d’igiene e la promiscuità di soldati e di intellettuali con delinquenti comuni era la regola, senza alcuna forma di privacy erano guardati a vista dalle guardie.
Il deputato Macchi, relatore della commissione incaricata di esaminare lo schema di legge per il riordino delle carceri giudiziarie del nuovo regno, così si espresse:”Lo stato delle prigioni, massime in alcune province, è tale che fa veramente raccapriccio. E’ un continuo oltraggio alla moralità; è un’onta alla civiltà del secolo.”
Anche il parlamento inglese si occupò dell’argomento, dove lord Henry Lennox riferì, nella seduta dell’8 maggio 1863, del suo viaggio nelle antiche province napoletane.
Il suo lungo resoconto che è una interminabile sequela di denunzia sullo stato di degrado delle strutture e degli arbitrii dei poteri costituzionali. Riferisce di aver visitato le prigioni di Napoli: S. Maria Apparente, la Concordia, S. Maria Agnone, la Vicaria, quest’ultima sufficiente per 600 persone, è stipata di 1200 detenuti distribuiti in cinque stanze senza porte ma divise da cancelli di ferro.
A Salerno, il direttore delle carceri confessa che una struttura capace di ospitare 650 prigionieri è costretto a tenerne 1.359 e che in conseguenza di ciò poco tempo prima è scoppiata una virulenta infezione tifoidea per la quale sono morti un medico e una guardia.
Alla luce di quanto descritto, al povero Vincenzo non restava che pregare Iddio che gli offrisse l’opportunità di uscire vivo dalla situazione in cui si trovava.
L’occasione si presentò quando fu promulgato il R.D. 7 settembre 1863 con cui il re, il “Padre della Patria”, concesse ampia amnistia ai soldati dell’ex esercito Borbonico che si trovavano nelle patrie galere; però dovevano riscattare la parte restante della pena con un’ammenda pecuniaria (debito di massa).
Leggiamo quanto è riportato sul foglio matricolare: Condonata la restante pena cui nella sentenza in data del 19 dicembre 1863 sopra indicata in seguito al Regio Decreto 7 settembre 1863. Uscito dalla reclusione militare il 14 settembre 1864 e giunto al corpo il 15 settembre 1864.
Il 1 ottobre 1864 fu assegnato al 14° Deposito; ove fossero ubicati questi depositi sul foglio matricolare non è riportato.
Trascorse, quindi, in carcere circa 11 mesi, dal 19 novembre 1863 al 14 settembre 1864; furono mesi di sofferenza e di umiliazioni che dovette sopportare con grande stoicismo.
Il 5 gennaio 1865 fu posto in congedo illimitato “a mente della circolare N° 31 del 6 dicembre 1864 divisione bassa forza Sez. 3 ed assegnato alla classe 1836 con cui aver comune la sorte”.Ma, il 26 maggio 1866 fu richiamato alle armi con la sua classe e inviato al corpo (40° Rgt. Fr. Bologna). Apprendiamo che “ha fatto la Campagna di guerra dell’anno 1866 contro gli Austriaci per l’Indipendenza d’Italia.”. Nel 1866 si presentò per gli italiani la grande occasione di togliere Venezia all’Austria.Da tempo esisteva una profonda rivalità fra Austria e Prussica, che si contendevano il predominio su tutti i popoli tedeschi.
Il ministro prussiano Ottone di Bismarck propose all’Italia un’alleanza, le due nazioni avrebbero combattuto insieme, impegnandosi a non sottoscrivere una pace separata; all’Italia sarebbe toccato in compenso il Veneto.
L’ Austria, informata, corse ai ripari offrendo all’Italia subito e gratis il Veneto, perché questa reclinasse l’alleanza.
Ma l’Italia, in quel momento, voleva una guerra vittoriosa e gloriosa che suggellasse e giustificasse la rivoluzione nazionale. Era un punto dolente che la Lombardia era stata un dono di Luigi Napoleone, Napoli e la Sicilia di Garibaldi, la Toscana e la Romagna di quelli italiani del Centro che avevano insistito per essere annessi.
L’alleanza fu firmata l’8 aprile 1866, ma gli italiani rifiutarono di coordinare la manovra con l’esercito prussiano, pensando a una diminuzione di prestigio.
Lamarmora e Cialdini si erano diviso il comando; in giugno scoppiava la guerra.
Gli italiani erano forti di numero ma male armati ed equipaggiati. Il re si riteneva uno stratega nato, i due comandanti erano molto gelosi l’uno dell’altro ed agirono senza alcuna coordinazione.
Bastò un attacco austriaco sferrato inaspettatamente sul lato sinistro del lungo schieramento italiano, che in tre giorni, una piccola sconfitta a Custoza fece barcollare indietro di più di trenta miglia lo schieramento italiano.
I comandanti persero la testa, e ottantamila italiani indietreggiarono davanti a quarantamila austriaci, scoprendo l’intera Lombardia, lasciando sul terreno, durante la fuga armi e materiali.
L’unico a riportare vittoria fu Garibaldi, che con i suoi volontari, mal armati e mal equipaggiati, spinsero indietro gli austriaci, giungendo a dominare le due valli che dal Garda conducono a Trento.Ma proprio allora giunse l’ordine di Lamarmora di fermarsi perché la Prussia vittoriosa a Sadowa stava firmando un armistizio con l’Austria. Costretto a fermarsi Garibaldi pronunciò un amaro “Obbedisco” e depose le armi per far ritorno a Caprera. Non felice fu la campagna per mare; Persano, sebbene avesse una flotta più potente e numerosa, subì una colossale sconfitta sul mare di Lissa, ma questa gli costò i gradi, le decorazioni e lo stipendio. Ultimata questa campagna, smaltiti i bollori dei capi alle conquiste, l’esercito fu smobilitato e Vincenzo Adamo, per la seconda volta, in un esercito in ritirata, il 20 ottobre 1866 fu posto in congedo illimitato colla sua classe, fece, per Grazia di Dio, ritorno definitivo in famiglia. Il 15 dicembre 1868, fu “ rimesso in congedo assoluto al Comandante Militare della Provincia di Salerno avendo ultimato la sua ferma e non essendo in grado di pagare il debito di Massa in lire diecisette e millesimi seicento cinquantasette”. Fu….” Autorizzato a fregiarsi della medaglia istituita con R.D. 4 marzo 1865 per le guerre combattute per l’indipendenza e l’unità d’Italia colla fascetta della campagna 1866”
Così finì l’avventura militare del nostro bisnonno Vincenzo; Si sposò con Giuseppa Di Giuseppe da cui ebbe tre figlie femmine e forse due maschi; (bisognerebbe fare una ricerca approfondita negli atti dello stato civile presso l’Archivio di Stato di Salerno).Comunque, so per certo che riprese a svolgere il suo lavoro di pittore decoratore.
Nella chiesa di S.Pietro in Vinculis a Salerno mentre eseguiva, con il figlio Tonino di 13 anni, dei lavori di restauro all’interno della cappella, questi cadde dall’impalcatura e morì per il trauma riportato alla testa.
Nel 1871, fu chiamato da Gaetano D’Agostino a lavorare alle decorazioni del teatro Comunale G. Verdi. Questo gli valse, in seguito, il privilegio di assistere gratuitamente alle rappresentazioni teatrali, alle quali si recava in compagnia di mia nonna Adelia. Il 31 Dicembre 1871: “Cancellato dai ruoli a termine della circolare N° 2 (giornale) Militare 1872 sebbene non abbia ritirato il foglio di congedo assoluto avendo lasciato il suddetto debito di massa”.Non ho altre notizie di Vincenzo Adamo se non quelle che ho ritrovato in alcune lettere indirizzate a mio padre:Il 24 luglio 1934, mio nonno Ariberto genero di Vincenzo, presso il quale dimorava, scrisse una cartolina a mio padre informandolo, tra le altre cose, che: “ ….Il Nonno sta grave. Abbiti i saluti di tutti. Ariberto “Il 30 luglio 1934, mio padre scriveva a mia madre, allora fidanzati, una lunga lettera in cui fra le tante cose di cui potevano dirsi due fidanzati, che:…. I miei stanno bene, ho ricevuto un’altra cartolina di papà…….Mi dispiace per il nonno che sta male, ma cosa ci si può fare, del resto è molto vecchio e il suo stato non è malattia ma troppa vecchiaia. Io ricordo sempre le sue parole e mi auguro che non siano questi i suoi ultimi giorni della sua lunga vita.”….
Infatti, aveva 97 anni e 7 mesi. (La data della morte non la conosco, sarebbe utile richiedere al Comune di Salerno un atto di morte).
Fonte:
http://www.dentrosalerno.it/
Pubblicato da Associazione legittimista Trono e Altare a 08:54
Nell'allegato : Da Zezon – 3° Reggimento di linea 1853
VINCENZO ADAMO
A cura del suo pronipote Ariberto Salati
Vincenzo Adamo, padre di mia nonna paterna Adelia, nacque a Salerno il 2 gennaio 1837 alle ore 15 nella casa di abitazione sita in Strada S. Domenico. Fu battezzato il 3 gennaio nella chiesa di S. Maria della Porta (S. Domenico). Il padre Antonio esercitava l’arte del barbiere, mentre la madre Gaetana Guercio era casalinga. Esercitò, fin da giovane, l’arte di pittore e decoratore. A 23 anni compiti, il 3 gennaio 1860, fu ammesso alla leva militare e il 6 gennaio fu inviato “quale soldato di leva al 15° Reggimento di linea (Fanteria) al servizio delle Due Sicilie al numero 1900 di matricola per anni cinque in attivo servizio e cinque di riserva”. Il 15° Rgt. Fr. di linea “ Messapia” nel 1860 era di stanza nella Sicilia Orientale e prese parte alla battaglia di Catania contro l’esercito invasore garibaldino.
Questo Reggimento era di nuova composizione, nel novembre del 1859 il comando e l’organizzazione sono affidati al colonnello Raffaele Ferrari, poi passato al ruolo sedentaneo il 20 marzo 1860; il comando è affidato provvisoriamente al maggiore Marquez, ex allievo della Nunziatella. Maggio 1860: il Rgt. combatte per le strade di Catania, il 31, spiccano le alte figure del Magg. Marquez e del Ten. De Martino. Giugno 1860: al comando del corpo fu assegnato il Col. Ruiz.
Le quattro compagnie scelte erano di guarnigione ad Augusta al comando del Magg. Aldanese. Nell’agosto 1860, le otto compagnie del Rgt. furono inviate in Calabria.
Nel settembre 1860, il Rgt. si sciolse a Saveria Manelli per il tradimento del gen.le Ghio che fece arrendere a Garibaldi circa 15.000 soldati napoletani. Ma, gruppi di soldati isolati del 15° con il Magg. Marquez raggiunsero il Volturno.
Una compagnia combatterà valorosamente il 19 a Roccaromana ove furono decorati per il coraggio mostrato sul campo il Cap. Follo e il Ten. Mirabito; novembre 1860, le frazioni rimanenti capitoleranno nella battaglia di Capua.
E’ probabile che Vincenzo Adamo, raggiunta Salerno proveniente dalla Calabria, facesse ritorno in famiglia. So per certo, perché me lo raccontava mia nonna, che non volle aderire al R.D. 24 aprile 1861, che ordinava agli ex soldati Borbonici di consegnarsi alle autorità militari d’occupazione.
Questo decreto andò incontro ad un grande insuccesso: il termine perentorio di presentazione stabilito dovette essere prorogato al 1° giugno, ma a questa data si presentarono solo 20.000 uomini su 72.000 previsti.
Dovunque esso trovò opposizione, le reclute fuggirono a migliaia, si diedero alla macchia in montagna e per catturarle ricorsero a crudeli ritorsioni e rappresaglie; si costrinsero, in alcuni casi, le famiglie dei ricercati ad acquartieramenti forzati. Infatti, dopo tre anni di latitanza, il nostro, il 1 novembre 1863 fu denunciato di diserzione.
A questo, certamente, contribuì il proclama d’addio del 14 febbraio 1861 che S.M. Francesco II emanò da Gaeta, suscitando negli animi della popolazione e in particolare in quella dei giovani, che gli avevano giurato fedeltà, nuovi entusiasmi di restaurazione; infatti, il Re nel suo proclama conclusivo diceva: ”non vi dico addio ma arrivederci; serbatemi tutta la lealtà come eternamente vi serberò gratitudine e amore. Il vostro Re Francesco.” Il 19 novembre 1863, “fu arrestato a Salerno e tradotto in quelle carceri in attesa di giudizio.”
Il dicembre 1863, fu preso in forza dal 1° Deposito per compiere il servizio d’ordinanza con la ferma di anni otto “ai termini della circolare N° 9 del 27 febbraio 1861 (Gabinetto) e non giunto per trovarsi nelle carceri.”Il processo fu celebrato il 19 dicembre 1863, fu condannato “ad un anno di reclusione con sentenza del tribunale militare di Salerno”.
Le condizioni carcerarie in quel periodo erano, è dir poco disumane: le carceri, eccessivamente affollate, mancavano di ogni forma d’igiene e la promiscuità di soldati e di intellettuali con delinquenti comuni era la regola, senza alcuna forma di privacy erano guardati a vista dalle guardie.
Il deputato Macchi, relatore della commissione incaricata di esaminare lo schema di legge per il riordino delle carceri giudiziarie del nuovo regno, così si espresse:”Lo stato delle prigioni, massime in alcune province, è tale che fa veramente raccapriccio. E’ un continuo oltraggio alla moralità; è un’onta alla civiltà del secolo.”
Anche il parlamento inglese si occupò dell’argomento, dove lord Henry Lennox riferì, nella seduta dell’8 maggio 1863, del suo viaggio nelle antiche province napoletane.
Il suo lungo resoconto che è una interminabile sequela di denunzia sullo stato di degrado delle strutture e degli arbitrii dei poteri costituzionali. Riferisce di aver visitato le prigioni di Napoli: S. Maria Apparente, la Concordia, S. Maria Agnone, la Vicaria, quest’ultima sufficiente per 600 persone, è stipata di 1200 detenuti distribuiti in cinque stanze senza porte ma divise da cancelli di ferro.
A Salerno, il direttore delle carceri confessa che una struttura capace di ospitare 650 prigionieri è costretto a tenerne 1.359 e che in conseguenza di ciò poco tempo prima è scoppiata una virulenta infezione tifoidea per la quale sono morti un medico e una guardia.
Alla luce di quanto descritto, al povero Vincenzo non restava che pregare Iddio che gli offrisse l’opportunità di uscire vivo dalla situazione in cui si trovava.
L’occasione si presentò quando fu promulgato il R.D. 7 settembre 1863 con cui il re, il “Padre della Patria”, concesse ampia amnistia ai soldati dell’ex esercito Borbonico che si trovavano nelle patrie galere; però dovevano riscattare la parte restante della pena con un’ammenda pecuniaria (debito di massa).
Leggiamo quanto è riportato sul foglio matricolare: Condonata la restante pena cui nella sentenza in data del 19 dicembre 1863 sopra indicata in seguito al Regio Decreto 7 settembre 1863. Uscito dalla reclusione militare il 14 settembre 1864 e giunto al corpo il 15 settembre 1864.
Il 1 ottobre 1864 fu assegnato al 14° Deposito; ove fossero ubicati questi depositi sul foglio matricolare non è riportato.
Trascorse, quindi, in carcere circa 11 mesi, dal 19 novembre 1863 al 14 settembre 1864; furono mesi di sofferenza e di umiliazioni che dovette sopportare con grande stoicismo.
Il 5 gennaio 1865 fu posto in congedo illimitato “a mente della circolare N° 31 del 6 dicembre 1864 divisione bassa forza Sez. 3 ed assegnato alla classe 1836 con cui aver comune la sorte”.Ma, il 26 maggio 1866 fu richiamato alle armi con la sua classe e inviato al corpo (40° Rgt. Fr. Bologna). Apprendiamo che “ha fatto la Campagna di guerra dell’anno 1866 contro gli Austriaci per l’Indipendenza d’Italia.”. Nel 1866 si presentò per gli italiani la grande occasione di togliere Venezia all’Austria.Da tempo esisteva una profonda rivalità fra Austria e Prussica, che si contendevano il predominio su tutti i popoli tedeschi.
Il ministro prussiano Ottone di Bismarck propose all’Italia un’alleanza, le due nazioni avrebbero combattuto insieme, impegnandosi a non sottoscrivere una pace separata; all’Italia sarebbe toccato in compenso il Veneto.
L’ Austria, informata, corse ai ripari offrendo all’Italia subito e gratis il Veneto, perché questa reclinasse l’alleanza.
Ma l’Italia, in quel momento, voleva una guerra vittoriosa e gloriosa che suggellasse e giustificasse la rivoluzione nazionale. Era un punto dolente che la Lombardia era stata un dono di Luigi Napoleone, Napoli e la Sicilia di Garibaldi, la Toscana e la Romagna di quelli italiani del Centro che avevano insistito per essere annessi.
L’alleanza fu firmata l’8 aprile 1866, ma gli italiani rifiutarono di coordinare la manovra con l’esercito prussiano, pensando a una diminuzione di prestigio.
Lamarmora e Cialdini si erano diviso il comando; in giugno scoppiava la guerra.
Gli italiani erano forti di numero ma male armati ed equipaggiati. Il re si riteneva uno stratega nato, i due comandanti erano molto gelosi l’uno dell’altro ed agirono senza alcuna coordinazione.
Bastò un attacco austriaco sferrato inaspettatamente sul lato sinistro del lungo schieramento italiano, che in tre giorni, una piccola sconfitta a Custoza fece barcollare indietro di più di trenta miglia lo schieramento italiano.
I comandanti persero la testa, e ottantamila italiani indietreggiarono davanti a quarantamila austriaci, scoprendo l’intera Lombardia, lasciando sul terreno, durante la fuga armi e materiali.
L’unico a riportare vittoria fu Garibaldi, che con i suoi volontari, mal armati e mal equipaggiati, spinsero indietro gli austriaci, giungendo a dominare le due valli che dal Garda conducono a Trento.Ma proprio allora giunse l’ordine di Lamarmora di fermarsi perché la Prussia vittoriosa a Sadowa stava firmando un armistizio con l’Austria. Costretto a fermarsi Garibaldi pronunciò un amaro “Obbedisco” e depose le armi per far ritorno a Caprera. Non felice fu la campagna per mare; Persano, sebbene avesse una flotta più potente e numerosa, subì una colossale sconfitta sul mare di Lissa, ma questa gli costò i gradi, le decorazioni e lo stipendio. Ultimata questa campagna, smaltiti i bollori dei capi alle conquiste, l’esercito fu smobilitato e Vincenzo Adamo, per la seconda volta, in un esercito in ritirata, il 20 ottobre 1866 fu posto in congedo illimitato colla sua classe, fece, per Grazia di Dio, ritorno definitivo in famiglia. Il 15 dicembre 1868, fu “ rimesso in congedo assoluto al Comandante Militare della Provincia di Salerno avendo ultimato la sua ferma e non essendo in grado di pagare il debito di Massa in lire diecisette e millesimi seicento cinquantasette”. Fu….” Autorizzato a fregiarsi della medaglia istituita con R.D. 4 marzo 1865 per le guerre combattute per l’indipendenza e l’unità d’Italia colla fascetta della campagna 1866”
Così finì l’avventura militare del nostro bisnonno Vincenzo; Si sposò con Giuseppa Di Giuseppe da cui ebbe tre figlie femmine e forse due maschi; (bisognerebbe fare una ricerca approfondita negli atti dello stato civile presso l’Archivio di Stato di Salerno).Comunque, so per certo che riprese a svolgere il suo lavoro di pittore decoratore.
Nella chiesa di S.Pietro in Vinculis a Salerno mentre eseguiva, con il figlio Tonino di 13 anni, dei lavori di restauro all’interno della cappella, questi cadde dall’impalcatura e morì per il trauma riportato alla testa.
Nel 1871, fu chiamato da Gaetano D’Agostino a lavorare alle decorazioni del teatro Comunale G. Verdi. Questo gli valse, in seguito, il privilegio di assistere gratuitamente alle rappresentazioni teatrali, alle quali si recava in compagnia di mia nonna Adelia. Il 31 Dicembre 1871: “Cancellato dai ruoli a termine della circolare N° 2 (giornale) Militare 1872 sebbene non abbia ritirato il foglio di congedo assoluto avendo lasciato il suddetto debito di massa”.Non ho altre notizie di Vincenzo Adamo se non quelle che ho ritrovato in alcune lettere indirizzate a mio padre:Il 24 luglio 1934, mio nonno Ariberto genero di Vincenzo, presso il quale dimorava, scrisse una cartolina a mio padre informandolo, tra le altre cose, che: “ ….Il Nonno sta grave. Abbiti i saluti di tutti. Ariberto “Il 30 luglio 1934, mio padre scriveva a mia madre, allora fidanzati, una lunga lettera in cui fra le tante cose di cui potevano dirsi due fidanzati, che:…. I miei stanno bene, ho ricevuto un’altra cartolina di papà…….Mi dispiace per il nonno che sta male, ma cosa ci si può fare, del resto è molto vecchio e il suo stato non è malattia ma troppa vecchiaia. Io ricordo sempre le sue parole e mi auguro che non siano questi i suoi ultimi giorni della sua lunga vita.”….
Infatti, aveva 97 anni e 7 mesi. (La data della morte non la conosco, sarebbe utile richiedere al Comune di Salerno un atto di morte).
Fonte:
http://www.dentrosalerno.it/
Pubblicato da Associazione legittimista Trono e Altare a 08:54
Nell'allegato : Da Zezon – 3° Reggimento di linea 1853
VINCENZO ADAMO
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Di proverbi e altro ancora...
Il popolo voleva i Borboni
Professoressa Nevia Buommino, insegnante di Lettere
«Senza piloto ’a varca nun cammina» è l’antico proverbio napoletano che all’indomani dell’unità d’Italia sarebbe riecheggiato fra le strade dell’ex capitale borbonica, intendendo che quando manca una buona amministrazione una nazione non prospera.
Fu nel settembre 1860 che l’esercito piemontese passando attraverso lo Stato pontificio entrò nel Regno di Napoli, sconfiggendo sul Volturno l’ultimo presidio delle truppe borboniche, già duramente messe alla prova dai garibaldini. Quindi, con i plebisciti convocati da Cavour, si decideva l’annessione del Regno di Napoli al resto dell’Italia in via di unificazione, la quale poteva finalmente superare l’antica frammentazione, mentre il Sud perdeva la sua secolare anacronistica autonomia.
Eppure, la tanto agognata unità si rivelò ben presto per il neonato governo una questione difficile da affrontare, non solo per i problemi che il processo d’unificazione inevitabilmente comportava, ma per l’emergere di profonde differenze sociali, economiche e culturali fra le regioni del nuovo stato.
L’urgenza di dare un assetto politico all’Italietta, che doveva affacciarsi timidamente tra i colossi della piazza europea, fece prevalere la più facile soluzione del piemontismo, con il quale si estendevano gli ordinamenti piemontesi su tutta Italia, mettendo a tacere con la forza le diverse esigenze locali.
Non stupisce, perciò, se agli occhi del popolo meridionale l’intera faccenda risorgimentale si era conclusa con una “conquista piemontese”, che aveva ignorato altre proposte come il federalismo o il decentramento moderato suggerito da Cavour.
Il Regno borbonico perse per sempre la sua fisionomia di stato, trasformandosi in un insieme di province che da quel momento in poi divennero il Sud povero e arretrato di un’Italia già stanca e distratta al suo nascere.
Le industrie del Mezzogiorno furono presto colpite dalla concorrenza esterna con l’abolizione delle vecchie tariffe protezionistiche imposta dal nuovo governo.
Napoli, l’antica capitale, si vedeva privare delle sue importanti funzioni amministrative ed economiche, con la chiusura di uffici e ministeri, la soppressione della corte e dell’esercito borbonico, con la conseguente partecipazione marginale alla politica e alla cura dei propri problemi.
Restava irrisolta la vecchia questione agraria, che anzi s’aggravò per il forte peso fiscale e la coscrizione obbligatoria per la leva che privava per cinque anni le campagne delle sue forze più giovani.
L’incapacità della classe di governo a cogliere le aspettative del Sud e l’avvio di processi di industrializzazione solo al Nord segnarono subito negativamente il rapporto tra le due realtà italiane.
Lo scontento e la delusione si tradussero dopo pochi anni nel fenomeno del brigantaggio, strumentalizzato dagli stessi Borboni nella speranza di riconquistare il trono, aiutati dalla Chiesa.
Nel 1863 il governo, che temeva per l’unità, emanò la Legge Pica con la quale si autorizzava l’esercito a combattere contro i briganti. I paesi meridionali scenario delle eversioni, furono cinti d’assedio e repressi duramente con migliaia di morti e ventimila condanne ai lavori forzati. La vicenda ebbe fine nel 1865, ma servì a sensibilizzare la società italiana sulla questione, trasformando il problema meridionale in problema nazionale, e alimentando una torrenziale produzione letteraria e giornalistica, tesa ad indagarne le cause, nella quale emersero gli scritti acuti di studiosi quali Fortunato, Franchetti, Sonnino.
Il vessillifero della “questione meridionale” fu Pasquale Villari, con le sue Lettere Meridionali del 1875, prima denuncia del degrado civile e dello sfruttamento del Sud. Lo storico napoletano analizzava l’intero processo risorgimentale, asserendo che quest’ultimo aveva portato «solo una rivoluzione politica» non sociale. Il profondo malcontento scaturiva come reazione di una popolazione che non era stata preparata all’evento e che aveva visto quel nuovo potere estraneo e nemico, in quanto aveva deposto con la forza l’antica legittima dinastia: i Borboni del Regno delle due Sicilie.
Del resto, già subito dopo l’unità, lo Stato si era rivelato assente verso quella parte dell’Italia, al punto che in occasione di alcuni terremoti devastanti le regioni del Sud, si deliberò di non intervenire nell’opera di ricostruzione, lasciando l’iniziativa ai privati. Bisognerà attendere un settantennio prima dell’adozione di una incisiva e idonea politica d’intervento sul territorio, mentre il Meridionalismo se da un lato attirava l’attenzione sul problema, d’altra parte alimentava, non meno d’oggi, una visione parziale del Sud, legata ai suoi limiti di miseria e arretratezza.
Si finì così per l’offuscare un passato pur ricco di slanci economici e culturali, malgrado gli evidenti errori della precedente amministrazione borbonica.
Infatti, un forte incentivo all’ammodernamento di istituzioni quasi immobili era avvenuto già durante il dispotismo illuminato dei regni di Carlo Borbone e Ferdinando IV, in cui operò una figura di grande rilievo, esperto di diritto: il toscano Bernardo Tanucci. Egli si impegnò in un’opera di riorganizzazione della giustizia e si scagliò contro i privilegi baronali ed ecclesiastici, arrivando nel 1767 a far espellere i Gesuiti dal Regno di Napoli. Sul piano economico invece i Borboni si avvalsero dei validi contributi tecnici dei migliori esponenti del ceto intellettuale napoletano, quali Genovesi, Palmieri, Galanti, Pagano, Cuoco, mentre Filangieri e Caracciolo condussero una battaglia contro l’inadeguatezza dei vecchi istituti giuridici. Fu nel 1788 che Domenico Caracciolo, come ministro di re Ferdinando IV, abolì il feudale tributo della chinea al soglio papale, cooperando a frantumare un sistema secolare di anacronistiche consuetudini medievali. Queste ultime furono poi spazzate via del tutto allorquando il Regno di Napoli fu travolto dai fermenti francesi e conobbe prima, nel 1799, una breve stagione repubblicana e poi, nel 1806, il benefico governo napoleonico di Giuseppe Bonaparte, nel quale si scomposero le grandi proprietà fondiarie del baronaggio.
Con l’aumento demografico, eredità del fertile settecento europeo, il restaurato governo borbonico si assunse la responsabilità di strappare terre alle paludi malariche, realizzando una “Amministrazione generale delle bonificazioni” che impegnò valenti uomini, come Bartolomeo Grasso e Afan de Rivera, in una considerevole opera di riequilibrio ambientale. Si veniva a creare così una “cultura del territorio”, fatta di conoscenze ed esperienze di generazioni che si sarebbe perduta nel 1860, quando il governo italiano lasciò anche l’attività bonificatrice all’iniziativa privata.
La produzione ortofrutticola e quella dei gelsi, delle viti e degli olivi, avevano sempre contraddistinto l’immagine solare del rigoglioso giardino mediterraneo, favorito dal clima mite, ma dopo l’unificazione prevalse una visione di un Sud rurale e arido, senza grandi risorse né slanci rinnovativi. Tuttavia va ricordato che il regno borbonico con efficaci misure protezionistiche aveva alimentato non solo diverse imprese industriali, ma il lavoro casalingo di varie manifatture. Si pensi all’antica tradizione della sericoltura, vanto della Calabria nel cinquecento, alle imprese laniere di Arpino, Isola Liri e Sora, alle lavorazioni del vetro e delle maioliche napoletane, alle famose porcellane della Real Fabbrica di Napoli – città tra l’altro nota, insieme con Solofra, per le sue concerie di pelle (molto richiesti erano i guanti bianchi) – e alle rinomate filande specializzate in velluti, che si affiancarono all’antica fabbrica di San Leucio, creata proprio dai Borboni.
Inoltre il Regno vantava del cantiere-arsenale di Castellammare e della fonderia di Pietrarsa. Fruttuose erano poi le industrie alimentari di Torre Annunziata e Gragnano, e grazie anche al capitale straniero, quelle della carta, tra cui la Lefebvre, che esportava nei maggiori mercati europei. Ed è grazie all’intraprendenza estera di un meccanico francese e alla collaborazione di un ingegnere calabrese che nel 1833-34 a Capodimonte nasceva la Macry & Henry, industria metalmeccanica.
Dunque i benefici della rivoluzione industriale avevano sedotto persino la dinastia borbonica, che, per consolidare la propria immagine in Europa, nel 1818 fece partire da Marsiglia il primo battello a vapore: il Ferdinando I, di produzione francese.
E non si dimentichi che nel 1839 s’inaugurava, per di più, la prima linea ferroviaria d’Italia: la Napoli-Portici.
Tuttavia, il mutamento istituzionale, la politica liberistica e filonordista del nuovo governo e il consolidarsi in parte del Sud di una mentalità antagonista con lo Stato centrale – che portò a infeconde forme occulte di potere illegale, per il procacciamento e la gestione di risorse locali – produssero gli storici danni dell’economia meridionale, e alimentarono ben presto lo stereotipo impopolare contro cui il Mezzogiorno tutt’oggi lotta, malgrado gli evidenti segni di una ripresa.
Alla tenacia degli eredi dell’ex Regno di Napoli, con le infauste vicende storiche di cui fu scenario, sia d’augurio l’antico proverbio napoletano:
«chi sémmena ’mmiez’a ’e lacreme, arrecoglie ’mmiezo a’ priézza», intendendo che chi pur nella sofferenza ha seminato, poi raccoglie nella gioia.
Da http://www.portanapoli.com/Ita/Storia/st_borboni.html
Il popolo voleva i Borboni
Professoressa Nevia Buommino, insegnante di Lettere
«Senza piloto ’a varca nun cammina» è l’antico proverbio napoletano che all’indomani dell’unità d’Italia sarebbe riecheggiato fra le strade dell’ex capitale borbonica, intendendo che quando manca una buona amministrazione una nazione non prospera.
Fu nel settembre 1860 che l’esercito piemontese passando attraverso lo Stato pontificio entrò nel Regno di Napoli, sconfiggendo sul Volturno l’ultimo presidio delle truppe borboniche, già duramente messe alla prova dai garibaldini. Quindi, con i plebisciti convocati da Cavour, si decideva l’annessione del Regno di Napoli al resto dell’Italia in via di unificazione, la quale poteva finalmente superare l’antica frammentazione, mentre il Sud perdeva la sua secolare anacronistica autonomia.
Eppure, la tanto agognata unità si rivelò ben presto per il neonato governo una questione difficile da affrontare, non solo per i problemi che il processo d’unificazione inevitabilmente comportava, ma per l’emergere di profonde differenze sociali, economiche e culturali fra le regioni del nuovo stato.
L’urgenza di dare un assetto politico all’Italietta, che doveva affacciarsi timidamente tra i colossi della piazza europea, fece prevalere la più facile soluzione del piemontismo, con il quale si estendevano gli ordinamenti piemontesi su tutta Italia, mettendo a tacere con la forza le diverse esigenze locali.
Non stupisce, perciò, se agli occhi del popolo meridionale l’intera faccenda risorgimentale si era conclusa con una “conquista piemontese”, che aveva ignorato altre proposte come il federalismo o il decentramento moderato suggerito da Cavour.
Il Regno borbonico perse per sempre la sua fisionomia di stato, trasformandosi in un insieme di province che da quel momento in poi divennero il Sud povero e arretrato di un’Italia già stanca e distratta al suo nascere.
Le industrie del Mezzogiorno furono presto colpite dalla concorrenza esterna con l’abolizione delle vecchie tariffe protezionistiche imposta dal nuovo governo.
Napoli, l’antica capitale, si vedeva privare delle sue importanti funzioni amministrative ed economiche, con la chiusura di uffici e ministeri, la soppressione della corte e dell’esercito borbonico, con la conseguente partecipazione marginale alla politica e alla cura dei propri problemi.
Restava irrisolta la vecchia questione agraria, che anzi s’aggravò per il forte peso fiscale e la coscrizione obbligatoria per la leva che privava per cinque anni le campagne delle sue forze più giovani.
L’incapacità della classe di governo a cogliere le aspettative del Sud e l’avvio di processi di industrializzazione solo al Nord segnarono subito negativamente il rapporto tra le due realtà italiane.
Lo scontento e la delusione si tradussero dopo pochi anni nel fenomeno del brigantaggio, strumentalizzato dagli stessi Borboni nella speranza di riconquistare il trono, aiutati dalla Chiesa.
Nel 1863 il governo, che temeva per l’unità, emanò la Legge Pica con la quale si autorizzava l’esercito a combattere contro i briganti. I paesi meridionali scenario delle eversioni, furono cinti d’assedio e repressi duramente con migliaia di morti e ventimila condanne ai lavori forzati. La vicenda ebbe fine nel 1865, ma servì a sensibilizzare la società italiana sulla questione, trasformando il problema meridionale in problema nazionale, e alimentando una torrenziale produzione letteraria e giornalistica, tesa ad indagarne le cause, nella quale emersero gli scritti acuti di studiosi quali Fortunato, Franchetti, Sonnino.
Il vessillifero della “questione meridionale” fu Pasquale Villari, con le sue Lettere Meridionali del 1875, prima denuncia del degrado civile e dello sfruttamento del Sud. Lo storico napoletano analizzava l’intero processo risorgimentale, asserendo che quest’ultimo aveva portato «solo una rivoluzione politica» non sociale. Il profondo malcontento scaturiva come reazione di una popolazione che non era stata preparata all’evento e che aveva visto quel nuovo potere estraneo e nemico, in quanto aveva deposto con la forza l’antica legittima dinastia: i Borboni del Regno delle due Sicilie.
Del resto, già subito dopo l’unità, lo Stato si era rivelato assente verso quella parte dell’Italia, al punto che in occasione di alcuni terremoti devastanti le regioni del Sud, si deliberò di non intervenire nell’opera di ricostruzione, lasciando l’iniziativa ai privati. Bisognerà attendere un settantennio prima dell’adozione di una incisiva e idonea politica d’intervento sul territorio, mentre il Meridionalismo se da un lato attirava l’attenzione sul problema, d’altra parte alimentava, non meno d’oggi, una visione parziale del Sud, legata ai suoi limiti di miseria e arretratezza.
Si finì così per l’offuscare un passato pur ricco di slanci economici e culturali, malgrado gli evidenti errori della precedente amministrazione borbonica.
Infatti, un forte incentivo all’ammodernamento di istituzioni quasi immobili era avvenuto già durante il dispotismo illuminato dei regni di Carlo Borbone e Ferdinando IV, in cui operò una figura di grande rilievo, esperto di diritto: il toscano Bernardo Tanucci. Egli si impegnò in un’opera di riorganizzazione della giustizia e si scagliò contro i privilegi baronali ed ecclesiastici, arrivando nel 1767 a far espellere i Gesuiti dal Regno di Napoli. Sul piano economico invece i Borboni si avvalsero dei validi contributi tecnici dei migliori esponenti del ceto intellettuale napoletano, quali Genovesi, Palmieri, Galanti, Pagano, Cuoco, mentre Filangieri e Caracciolo condussero una battaglia contro l’inadeguatezza dei vecchi istituti giuridici. Fu nel 1788 che Domenico Caracciolo, come ministro di re Ferdinando IV, abolì il feudale tributo della chinea al soglio papale, cooperando a frantumare un sistema secolare di anacronistiche consuetudini medievali. Queste ultime furono poi spazzate via del tutto allorquando il Regno di Napoli fu travolto dai fermenti francesi e conobbe prima, nel 1799, una breve stagione repubblicana e poi, nel 1806, il benefico governo napoleonico di Giuseppe Bonaparte, nel quale si scomposero le grandi proprietà fondiarie del baronaggio.
Con l’aumento demografico, eredità del fertile settecento europeo, il restaurato governo borbonico si assunse la responsabilità di strappare terre alle paludi malariche, realizzando una “Amministrazione generale delle bonificazioni” che impegnò valenti uomini, come Bartolomeo Grasso e Afan de Rivera, in una considerevole opera di riequilibrio ambientale. Si veniva a creare così una “cultura del territorio”, fatta di conoscenze ed esperienze di generazioni che si sarebbe perduta nel 1860, quando il governo italiano lasciò anche l’attività bonificatrice all’iniziativa privata.
La produzione ortofrutticola e quella dei gelsi, delle viti e degli olivi, avevano sempre contraddistinto l’immagine solare del rigoglioso giardino mediterraneo, favorito dal clima mite, ma dopo l’unificazione prevalse una visione di un Sud rurale e arido, senza grandi risorse né slanci rinnovativi. Tuttavia va ricordato che il regno borbonico con efficaci misure protezionistiche aveva alimentato non solo diverse imprese industriali, ma il lavoro casalingo di varie manifatture. Si pensi all’antica tradizione della sericoltura, vanto della Calabria nel cinquecento, alle imprese laniere di Arpino, Isola Liri e Sora, alle lavorazioni del vetro e delle maioliche napoletane, alle famose porcellane della Real Fabbrica di Napoli – città tra l’altro nota, insieme con Solofra, per le sue concerie di pelle (molto richiesti erano i guanti bianchi) – e alle rinomate filande specializzate in velluti, che si affiancarono all’antica fabbrica di San Leucio, creata proprio dai Borboni.
Inoltre il Regno vantava del cantiere-arsenale di Castellammare e della fonderia di Pietrarsa. Fruttuose erano poi le industrie alimentari di Torre Annunziata e Gragnano, e grazie anche al capitale straniero, quelle della carta, tra cui la Lefebvre, che esportava nei maggiori mercati europei. Ed è grazie all’intraprendenza estera di un meccanico francese e alla collaborazione di un ingegnere calabrese che nel 1833-34 a Capodimonte nasceva la Macry & Henry, industria metalmeccanica.
Dunque i benefici della rivoluzione industriale avevano sedotto persino la dinastia borbonica, che, per consolidare la propria immagine in Europa, nel 1818 fece partire da Marsiglia il primo battello a vapore: il Ferdinando I, di produzione francese.
E non si dimentichi che nel 1839 s’inaugurava, per di più, la prima linea ferroviaria d’Italia: la Napoli-Portici.
Tuttavia, il mutamento istituzionale, la politica liberistica e filonordista del nuovo governo e il consolidarsi in parte del Sud di una mentalità antagonista con lo Stato centrale – che portò a infeconde forme occulte di potere illegale, per il procacciamento e la gestione di risorse locali – produssero gli storici danni dell’economia meridionale, e alimentarono ben presto lo stereotipo impopolare contro cui il Mezzogiorno tutt’oggi lotta, malgrado gli evidenti segni di una ripresa.
Alla tenacia degli eredi dell’ex Regno di Napoli, con le infauste vicende storiche di cui fu scenario, sia d’augurio l’antico proverbio napoletano:
«chi sémmena ’mmiez’a ’e lacreme, arrecoglie ’mmiezo a’ priézza», intendendo che chi pur nella sofferenza ha seminato, poi raccoglie nella gioia.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
L'ultimo Re
Francesco II di Borbone
a cura di Alfonso Grasso
Proclama reale dell’8 dicembre 1860
Popoli delle Due Sicilie!
Da questa Piazza, dove difendo più che la mia corona l'indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici.
Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; che mai ha durato lungamente l'opera della inequità, ne sono eterne le usurpazioni.
Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome che portiamo.
Ma quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portanti il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode Armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia.
Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.
Erede di un'antica dinastia, che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni, ricostituendone la indipendenza e l'autonomia, non vengo, dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa, ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d'Italia.
Sono un Principe vostro, che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra' suoi sudditi. Il mondo intero l'ha veduto: per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona.
I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio; ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi doleva aprire dopo tante nostre sventure un'era di persecuzione; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutato la invasione Piemontese, pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua Armata regolare, paralizzando la fedeltà de' miei Popoli, il valore dei miei soldati.
In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue; ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l'amore più tenero pei miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nell'onestà degli altri, se l'orrore istintivo al sangue meritano questo nome, io sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina dei miei nemici, ho fermato il braccio dei miei Generali per non consumare la distruzione di Palermo; ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esperia agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona.
Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio Governo un'alleanza intima pei veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazione di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari.
Io avea dato un'amnistia, avea aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto ai miei popoli una Costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a guarentire alla Sicilia istituzioni libere, che consecrassero con un Parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica, rimuovendo a un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento.
Avea chiamato ai miei consigli quegli uomini, che mi sembravano più accettabili alla opinione pubblica in quelle circostanze; ed in quanto me lo ha permesso l'incessante aggressione della quale sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, ai progressi, ai vantaggi del paese.
Non sono i miei sudditi, che han combattuto contro me; non mi strappano il Regno le discordie intestine; ma mi vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero.
Le due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani dei Piemontesi. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia?
Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l'Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son piene di sospetti: in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province, ed un Generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi, che non s'inchinino alla bandiera di Sardegna.
L'assassinio è ricompensato; il regicidio merita un'apoteosi; il rispetto al culto santo dei nostri Padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto per saziare l'avidità o le passioni dei loro compagni. Uomini che non han mai veduto questa parte d'Italia o che ne hanno in lunga assenza dimenticati i bisogni, formano il vostro Governo. Invece delle libere istituzioni che io vi avea date, e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la Costituzione.
Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo son governati da prefetti venuti da Torino.
Vi è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri Padri. Che l'oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei Popoli e alle istituzioni che ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica per le due Sicilie con Parlamenti separati, amnistia completa per tutti i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori di queste basi non vi sarà pel paese che dispotismo o anarchia.
Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, sarà per tutelare tutti i diritti, rispettare tutte le proprietà, guarentire le persone e le sostanze dei miei sudditi contro ogni sorta di oppressione e di saccheggio. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero l'ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile tede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l'ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi Popoli, che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.
Francesco
http://www.ilportaledelsud.org
Francesco II di Borbone
a cura di Alfonso Grasso
Proclama reale dell’8 dicembre 1860
Popoli delle Due Sicilie!
Da questa Piazza, dove difendo più che la mia corona l'indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici.
Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; che mai ha durato lungamente l'opera della inequità, ne sono eterne le usurpazioni.
Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome che portiamo.
Ma quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portanti il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode Armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia.
Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.
Erede di un'antica dinastia, che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni, ricostituendone la indipendenza e l'autonomia, non vengo, dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa, ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d'Italia.
Sono un Principe vostro, che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra' suoi sudditi. Il mondo intero l'ha veduto: per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona.
I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio; ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi doleva aprire dopo tante nostre sventure un'era di persecuzione; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutato la invasione Piemontese, pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua Armata regolare, paralizzando la fedeltà de' miei Popoli, il valore dei miei soldati.
In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue; ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l'amore più tenero pei miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nell'onestà degli altri, se l'orrore istintivo al sangue meritano questo nome, io sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina dei miei nemici, ho fermato il braccio dei miei Generali per non consumare la distruzione di Palermo; ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esperia agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona.
Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio Governo un'alleanza intima pei veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazione di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari.
Io avea dato un'amnistia, avea aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto ai miei popoli una Costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a guarentire alla Sicilia istituzioni libere, che consecrassero con un Parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica, rimuovendo a un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento.
Avea chiamato ai miei consigli quegli uomini, che mi sembravano più accettabili alla opinione pubblica in quelle circostanze; ed in quanto me lo ha permesso l'incessante aggressione della quale sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, ai progressi, ai vantaggi del paese.
Non sono i miei sudditi, che han combattuto contro me; non mi strappano il Regno le discordie intestine; ma mi vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero.
Le due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani dei Piemontesi. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia?
Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l'Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son piene di sospetti: in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province, ed un Generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi, che non s'inchinino alla bandiera di Sardegna.
L'assassinio è ricompensato; il regicidio merita un'apoteosi; il rispetto al culto santo dei nostri Padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto per saziare l'avidità o le passioni dei loro compagni. Uomini che non han mai veduto questa parte d'Italia o che ne hanno in lunga assenza dimenticati i bisogni, formano il vostro Governo. Invece delle libere istituzioni che io vi avea date, e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la Costituzione.
Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo son governati da prefetti venuti da Torino.
Vi è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri Padri. Che l'oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei Popoli e alle istituzioni che ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica per le due Sicilie con Parlamenti separati, amnistia completa per tutti i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori di queste basi non vi sarà pel paese che dispotismo o anarchia.
Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, sarà per tutelare tutti i diritti, rispettare tutte le proprietà, guarentire le persone e le sostanze dei miei sudditi contro ogni sorta di oppressione e di saccheggio. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero l'ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile tede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l'ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi Popoli, che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
CARIELLO, Andrea
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)
di Mario Rotili
http://www.treccani.it/
CARIELLO, Andrea. - Nato a Padula (Salerno) il 1º dic. 1807, da un modesto artigiano, manifestò presto spiccate tendenze artistiche, tanto che a quindici anni fu inviato a Napoli a studiare presso un non identificato scultore in legno. Passò poi alla scuola di glittica di F. Rega nell'istituto di belle arti, e si distinse subito come incisore di pietre dure e medaglista. La stessa medaglia che, al compimento degli studi, dedicò al re Francesco I, ritratto di profilo nel recto, lo rivela efficace e misurato. Sta di fatto che, poco dopo, divenuto re delle Due Sicilie Ferdinando II, a seguito del successo ottenuto da un ritratto in avorio del nuovo sovrano, il C., probabilmente nel 1831, fu chiamato come incisore alla zecca.
Di questo primo periodo si ricordano medaglie come quella per il ritorno del re dal viaggio in Austria e in Francia del 1836 e, dello stesso anno, quella per il completamento della basilica di S. Francesco di Paola a Napoli, che reca nel recto i profili di Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II, l'altra per la nascita del futuro re Francesco II, con la raffigurazione della Ninfa Partenope che incorona il neonato, e ancora le medaglie di benemerenza del 1846 e del 1847, caratterizzate tutte da classica compostezza. Questa distingue anche l'opera di scultore che il C. contemporaneamente compì e che, se trova la sua espressione più felice nel busto in marmo di Ferdinando II per la reggia di Caserta, scade talvolta in un freddo accademismo, come nel caso del Ritratto della regina madre presentato alla Mostra di belle arti di Napoli del 1839. Ma in scultura il C. fu essenzialmente un ornatista, e per questa sua qualità venne impegnato nel 1837, insieme con C. De Rosa, C. Beccalli, G. Aveta e G. De Crescenzo, nella decorazione a stucco delle volte delle sale del palazzo reale di Napoli, rinnovate dall'architetto G. Genovese dopo l'incendio del 1837.
Questi stucchi furono in parte manomessi dall'intervento effettuato dopo il 1860 da I. Perricci e R. Casanova, ma di essi restano integri quelli particolarmente eleganti della volta della sala del trono, là dove sembra che spetti al C. e al De Rosa la larga fascia che corre sulla linea d'imposta: in essa le slanciate figure simboliche delle Quattordici province del Regno sono intervallate da festoni e fregi di sapore classico che incorniciano imprese araldiche e che agli spigoli si arricchiscono di sfingi e di altri motivi del repertorio egizio.
Con lo stesso De Rosa e con gli altri artisti che attesero ai lavori di rinnovamento della reggia napoletana, il C. passò nel 1843 a Caserta, dove il Genovese venne allora incaricato di sistemare la grandiosa sala del trono del palazzo reale, rimasta disadorna, come tutte le altre dell'ala occidentale del primo piano, alla interruzione dei lavori nel 1798. Il C. ebbe parte nell'esecuzione degli stucchi dorati che decorano la volta e le pareti e, più che negli ornati e nei trofei, la sua mano è da riconoscere in parte dei medaglioni con i Ritratti dei re di Napoli che si susseguono nel fregio della trabeazione sulle quattro pareti.
Nel 1847, bandito finalmente il concorso per la cattedra di glittica nell'istituto di belle arti, rimasto a lungo vacante dopo la morte di F. Rega, il C. vi partecipò insieme con L. Arnaud e con G. Carelli, che con lui erano stati i migliori allievi del maestro, e venne classificato al secondo posto dopo l'Arnaud. Né maggiore fortuna ebbe in occasione della scelta del professore della scuola di intaglio in acciaio e in legno, allora istituita accanto a quella dell'incisione in rame, in quanto per l'insegnamento di quell'arte, non propriamente sua, gli fu preferito Tommaso Aloysio Juvara, peraltro provetto incisore in rame. Tuttavia egli rifiutò l'incarico di direttore della zecca di Londra offertogli da C. Moore, per rimanere a Napoli, e lì continuò un'intensa attività di medaglista e di incisore di pietre dure, cui affiancò sempre quella di scultore.
Mentre per quest'ultima, oltre al Monumento a mons. Rosini in marmo, nella cattedrale di Pozzuoli, andato perduto per il recente incendio della chiesa (se ne conserva il bozzetto in gesso), si possono menzionare piccoli bronzi, quali Due amori che litigano per un cuore, Pastore che suona la piva, Piccolo satiro, e terrecotte, come Bacco che scherza con un fanciullo, per la sua attività principale di medaglista e di incisore in pietre dure sono da citare diverse opere di notevole interesse. A parte alcune monete del Regno delle Due Sicilie in bronzo, in argento e in oro (cfr. Pannuti, 1963), bisogna ricordare la medaglia per la venuta del pontefice Pio IX a Napoli, realizzata in collaborazione con l'Arnaud nell'anno 1849, quelle numerose di benemerenza del decennio successivo, e quindi le medaglie coniate dopo l'Unità d'Italia, tra le quali quella di Carlo Felice di Savoia, presentata alla Esposizione di Parigi del 1867 e la medaglia del Consorzio agrario di Caserta. A queste si affiancano le pietre dure incise, nelle quali il C. diede il meglio di sé, per l'eleganza delle figurazioni sempre di sapore classico e per la finezza dell'esecuzione. Grande successo ebbe il cammeo con i ritratti di Ferdinando II e di Maria Teresa, e non meno ammirati furono quelli con il ritratto del Principe di Belmonte, la piccola corniola con il Ritratto della moglie e le pietre sulle quali raffigurò personaggi della storia antica o della mitologia, come il cammeo con Alcibiade, acquistato da Costantino Nigra, l'altro con Venere e Amore e l'ametista con La Baccante, dei quali, come del resto degli altri, si ignora l'ubicazione attuale.
Non si sa, inoltre, dove si conservi il capolavoro del C., Il Redentore che spezza il pane eucaristico, inciso su un grosso topazio montato in oro, del quale tuttavia è riprodotta la fotografia nell'Illustrazioneitaliana del 16 nov. 1902 (p. 422). La gemma, che pesava kg 1,591 e misurava cm 18,2 di altezza, 14,4 di larghezza e 7,2 di spessore, fu ricavata da una pietra di straordinaria grandezza, che alcuni vogliono portata a Napoli da re Carlo di Borbone, altri più verosimilmente inviata in dono dal Brasile da un suddito fedelissimo a Francesco I. Sta di fatto che questi la fece dividere in due. Su uno dei due pezzi G. Gnaccarino abbozzò la figura del Redentorebenedicente (Napoli, Museo di S. Martino), l'altro fu assegnato al C., il quale, in otto anni di intensa fatica, realizzò l'opera, riscuotendo il plauso incondizionato di una commissione di esperti appositamente nominata.
Nell'anno 1870 il governo italiano decise di assegnare la gemma all'artista, in luogo del compenso non ricevuto. Essa poi passò agli eredi, che ne curarono la presentazione in importanti mostre d'arte, tra le quali quelle tenute a Milano e a Chicago all'inizio del secolo. Quindi nel 1902 fu annunziato a stampa che la grande gemma sarebbe stata offerta da un comitato napoletano a Leone XIII per il venticinquennale del pontificato. Ma la cosa non dovette aver seguito. Poco dopo il 1914, infatti, fu pubblicato da R. La Tagliata un opuscolo con la storia della gemma (Notizie del gran topazio inciso dal prof. A. C., …, senza data ma certamente di quel momento), che egli, divenutone intanto proprietario, metteva in vendita. Da allora si perdono le notizie della gemma.
Ma quando avvenivano i fatti ricordati il C. era scomparso da tempo: sera spento a Napoli nel 1870, poco dopo la conclusione della controversia per il compenso dell'opera compiuta.
Alla caduta del regime borbonico, che nonostante le prestazioni per la corte dovette, e a ragione a quanto sembra, sospettarlo di sentimenti liberali, l'artista aveva ottenuto finalmente un giusto riconoscimento. Con decreto di Garibaldi era stato nominato direttore del gabinetto di incisione della zecca e professore di incisione nell'istituto tecnico, attività che svolse con impegno fino alla fine.
Nell'allegato una medaglia di Andrea Cariello col ritratto di Ferdinando II di Borbone .
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)
di Mario Rotili
http://www.treccani.it/
CARIELLO, Andrea. - Nato a Padula (Salerno) il 1º dic. 1807, da un modesto artigiano, manifestò presto spiccate tendenze artistiche, tanto che a quindici anni fu inviato a Napoli a studiare presso un non identificato scultore in legno. Passò poi alla scuola di glittica di F. Rega nell'istituto di belle arti, e si distinse subito come incisore di pietre dure e medaglista. La stessa medaglia che, al compimento degli studi, dedicò al re Francesco I, ritratto di profilo nel recto, lo rivela efficace e misurato. Sta di fatto che, poco dopo, divenuto re delle Due Sicilie Ferdinando II, a seguito del successo ottenuto da un ritratto in avorio del nuovo sovrano, il C., probabilmente nel 1831, fu chiamato come incisore alla zecca.
Di questo primo periodo si ricordano medaglie come quella per il ritorno del re dal viaggio in Austria e in Francia del 1836 e, dello stesso anno, quella per il completamento della basilica di S. Francesco di Paola a Napoli, che reca nel recto i profili di Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II, l'altra per la nascita del futuro re Francesco II, con la raffigurazione della Ninfa Partenope che incorona il neonato, e ancora le medaglie di benemerenza del 1846 e del 1847, caratterizzate tutte da classica compostezza. Questa distingue anche l'opera di scultore che il C. contemporaneamente compì e che, se trova la sua espressione più felice nel busto in marmo di Ferdinando II per la reggia di Caserta, scade talvolta in un freddo accademismo, come nel caso del Ritratto della regina madre presentato alla Mostra di belle arti di Napoli del 1839. Ma in scultura il C. fu essenzialmente un ornatista, e per questa sua qualità venne impegnato nel 1837, insieme con C. De Rosa, C. Beccalli, G. Aveta e G. De Crescenzo, nella decorazione a stucco delle volte delle sale del palazzo reale di Napoli, rinnovate dall'architetto G. Genovese dopo l'incendio del 1837.
Questi stucchi furono in parte manomessi dall'intervento effettuato dopo il 1860 da I. Perricci e R. Casanova, ma di essi restano integri quelli particolarmente eleganti della volta della sala del trono, là dove sembra che spetti al C. e al De Rosa la larga fascia che corre sulla linea d'imposta: in essa le slanciate figure simboliche delle Quattordici province del Regno sono intervallate da festoni e fregi di sapore classico che incorniciano imprese araldiche e che agli spigoli si arricchiscono di sfingi e di altri motivi del repertorio egizio.
Con lo stesso De Rosa e con gli altri artisti che attesero ai lavori di rinnovamento della reggia napoletana, il C. passò nel 1843 a Caserta, dove il Genovese venne allora incaricato di sistemare la grandiosa sala del trono del palazzo reale, rimasta disadorna, come tutte le altre dell'ala occidentale del primo piano, alla interruzione dei lavori nel 1798. Il C. ebbe parte nell'esecuzione degli stucchi dorati che decorano la volta e le pareti e, più che negli ornati e nei trofei, la sua mano è da riconoscere in parte dei medaglioni con i Ritratti dei re di Napoli che si susseguono nel fregio della trabeazione sulle quattro pareti.
Nel 1847, bandito finalmente il concorso per la cattedra di glittica nell'istituto di belle arti, rimasto a lungo vacante dopo la morte di F. Rega, il C. vi partecipò insieme con L. Arnaud e con G. Carelli, che con lui erano stati i migliori allievi del maestro, e venne classificato al secondo posto dopo l'Arnaud. Né maggiore fortuna ebbe in occasione della scelta del professore della scuola di intaglio in acciaio e in legno, allora istituita accanto a quella dell'incisione in rame, in quanto per l'insegnamento di quell'arte, non propriamente sua, gli fu preferito Tommaso Aloysio Juvara, peraltro provetto incisore in rame. Tuttavia egli rifiutò l'incarico di direttore della zecca di Londra offertogli da C. Moore, per rimanere a Napoli, e lì continuò un'intensa attività di medaglista e di incisore di pietre dure, cui affiancò sempre quella di scultore.
Mentre per quest'ultima, oltre al Monumento a mons. Rosini in marmo, nella cattedrale di Pozzuoli, andato perduto per il recente incendio della chiesa (se ne conserva il bozzetto in gesso), si possono menzionare piccoli bronzi, quali Due amori che litigano per un cuore, Pastore che suona la piva, Piccolo satiro, e terrecotte, come Bacco che scherza con un fanciullo, per la sua attività principale di medaglista e di incisore in pietre dure sono da citare diverse opere di notevole interesse. A parte alcune monete del Regno delle Due Sicilie in bronzo, in argento e in oro (cfr. Pannuti, 1963), bisogna ricordare la medaglia per la venuta del pontefice Pio IX a Napoli, realizzata in collaborazione con l'Arnaud nell'anno 1849, quelle numerose di benemerenza del decennio successivo, e quindi le medaglie coniate dopo l'Unità d'Italia, tra le quali quella di Carlo Felice di Savoia, presentata alla Esposizione di Parigi del 1867 e la medaglia del Consorzio agrario di Caserta. A queste si affiancano le pietre dure incise, nelle quali il C. diede il meglio di sé, per l'eleganza delle figurazioni sempre di sapore classico e per la finezza dell'esecuzione. Grande successo ebbe il cammeo con i ritratti di Ferdinando II e di Maria Teresa, e non meno ammirati furono quelli con il ritratto del Principe di Belmonte, la piccola corniola con il Ritratto della moglie e le pietre sulle quali raffigurò personaggi della storia antica o della mitologia, come il cammeo con Alcibiade, acquistato da Costantino Nigra, l'altro con Venere e Amore e l'ametista con La Baccante, dei quali, come del resto degli altri, si ignora l'ubicazione attuale.
Non si sa, inoltre, dove si conservi il capolavoro del C., Il Redentore che spezza il pane eucaristico, inciso su un grosso topazio montato in oro, del quale tuttavia è riprodotta la fotografia nell'Illustrazioneitaliana del 16 nov. 1902 (p. 422). La gemma, che pesava kg 1,591 e misurava cm 18,2 di altezza, 14,4 di larghezza e 7,2 di spessore, fu ricavata da una pietra di straordinaria grandezza, che alcuni vogliono portata a Napoli da re Carlo di Borbone, altri più verosimilmente inviata in dono dal Brasile da un suddito fedelissimo a Francesco I. Sta di fatto che questi la fece dividere in due. Su uno dei due pezzi G. Gnaccarino abbozzò la figura del Redentorebenedicente (Napoli, Museo di S. Martino), l'altro fu assegnato al C., il quale, in otto anni di intensa fatica, realizzò l'opera, riscuotendo il plauso incondizionato di una commissione di esperti appositamente nominata.
Nell'anno 1870 il governo italiano decise di assegnare la gemma all'artista, in luogo del compenso non ricevuto. Essa poi passò agli eredi, che ne curarono la presentazione in importanti mostre d'arte, tra le quali quelle tenute a Milano e a Chicago all'inizio del secolo. Quindi nel 1902 fu annunziato a stampa che la grande gemma sarebbe stata offerta da un comitato napoletano a Leone XIII per il venticinquennale del pontificato. Ma la cosa non dovette aver seguito. Poco dopo il 1914, infatti, fu pubblicato da R. La Tagliata un opuscolo con la storia della gemma (Notizie del gran topazio inciso dal prof. A. C., …, senza data ma certamente di quel momento), che egli, divenutone intanto proprietario, metteva in vendita. Da allora si perdono le notizie della gemma.
Ma quando avvenivano i fatti ricordati il C. era scomparso da tempo: sera spento a Napoli nel 1870, poco dopo la conclusione della controversia per il compenso dell'opera compiuta.
Alla caduta del regime borbonico, che nonostante le prestazioni per la corte dovette, e a ragione a quanto sembra, sospettarlo di sentimenti liberali, l'artista aveva ottenuto finalmente un giusto riconoscimento. Con decreto di Garibaldi era stato nominato direttore del gabinetto di incisione della zecca e professore di incisione nell'istituto tecnico, attività che svolse con impegno fino alla fine.
Nell'allegato una medaglia di Andrea Cariello col ritratto di Ferdinando II di Borbone .
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
1859: i primi atti di Francesco II di Borbone-Due Sicilie in una cronaca dell'epoca
1. Nuovo Ministero 2. Squadra inglese a Napoli 3. Grazie ai condannati politici.
1. II Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie nel suo numero dei 9 Giugno [1859] pubblica i seguenti decreti del Rè Francesco II dati lo stesso giorno:
«Nominiamo nostro consigliere di Stato il Ministro Segretario di Stato cav. D. Ferdinando Troia, che lasciando il portafoglio della Real Segreteria di Stato e ministero della presidenza del consiglio dei Ministri, riterrà il soldo e gli averi della carica medesima. Il nostro consigliere di Stato D. Carlo Filangieri, duca di Taormina, principe di Satriano, è nominato ministro segretario di Stato presidente del consiglio de’ ministri, e ministro segretario di Stato della guerra. Egli percepirà gli averi annessi alla carica di ministro segretario di Stato presidente del consiglio dei ministri. Viste le deteriorate condizioni di salute del cav. D. Giovanni Cassisi, nostro ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli, e prendendo in considerazione i lunghi suoi servigi, gli accordiamo il ritiro con gli onori, grado e soldo della carica da lui finora esercitata. Il cav. D. Salvatore Murena nostro ministro di Stato delle finanze è nominato presidente della suprema corte di giustizia in luogo del cav. Jannaccone, messo al ritiro con gli onori della carica e pensione di giustizia a termini di legge. Il cav. Murena conserverà gli onori, grado e soldo della carica che lascia. Il cav. D. Ludovico Bianchim, lasciando la direzione della nostra real segreteria di Stato e ministero dell’interno, è nominato consultore presso la Consulta de’ nostri reali domini di qua del Faro, conservando il grado e il soldo di direttore. Nominiamo Intendente generale dell’esercito col soldo personale di ducati 3,600 annui il brigadiere D. Carlo Piccenna, e gli accordiamo in attestato della nostra sovrana soddisfazione pe’ suoi servigi la onorificenza di maresciallo di campo. L’Intendente della provincia di Bari cav. D. Salvatore Mandarini, lasciando l‘incarico provvisoriamente affidategli con nostro real decreto del 3 dell’andante mese, è promosso dalla terza alla seconda classe, e destinato in Salerno. Il cav. D. Paolo Cumbo, presidente della Consulta de’ nostri reali domini al di là del Faro, è nominato nostro ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli. Sono nominati direttori con referenda e firma delle nostre reali segreterie di Stato e ministeri qui appresso rispettivamente indicati: il consultore D. Raimondo de Liguoro, per le finanze; l’intendente D. Luigi Ajossa, pe’ lavori pubblici; il consigliere graduato della suprema corte di giustizia D. Achille Rosica [1a] per l’interno. Ciascuno di essi percepirà l’annuo soldo di ducati 3.600».
Lo stesso giornale annunziò l’arrivo nelle acque del golfo di Napoli della squadra inglese composta di 6 vascelli, e sotto gli ordini dell’ammiraglio Fonscheuve. E in quello del 10 si legge:
«Ieri verso le 7 p.m. S.A.R. il conte di Aquila, vice ammiraglio della nostra R. Marina, si condusse a bordo della fregata inglese Eurgolus a nome di S.M. il Rè N.S. a visitarvi S.A.R. il principe Alfredo, secondogenito di S.M. la Regina d’Inghilterra, ed esternargli la massima compiacenza che la Maestà sua risente di aver potuto accoglierlo nel suo reame, ed a profferirgli quanto può la più cordiale e larga cortesia. A questi squisiti sentimenti la R.A.S. Britannica corrispose con le più affettuose manifestazioni di viva riconoscenza, limitandosi a ringraziare la Maestà del Rè di tante gentili profferte sol perché si trova in istretta educazione».
3. Il numero poi del 16 Giugno, oltre a molti altri decreti di grazie e beneficenze, contiene il decreto seguente:
«Francesco II ecc.: volendo contrassegnare con atti di clemenza il nostro avvenimento al trono, che la Divina Provvidenza ha affidato alle nostre cure, ci siamo determinati di fare sperimentare gli effetti della nostra sovrana indulgenza ai rimanenti condannati ai ferri, alla reclusione, alla relegazione ed alla prigionia per reati di Stato commessi negli anni 1848 e 1849 che, non vennero contemplati ne’ decreti di grazia de’ 27 dicembre 1858 e 18 marzo ultimo. Quindi seguendo gli impulsi del nostro reale animo, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art. 1. E’ condonata la pena residuale a’ condannati ai ferri, alla reclusione, alla relegazione ed alla prigionia per reati politici commessi negli anni 1848 e 1849 non contemplati ne’ menzionati decreti del 27 dicembre 1858 e 18 marzo 1859, secondo i notamenti esistenti nel Ministero di Grazia e Giustizia».
Regno delle Due Sicilie. 1. Nomine di Ministri e Consiglieri di Stato 2. Ordine del Rè all’esercito di terra e di mare
1. Nel Giornale del Regno delle Due Sicilie leggiamo i decreti seguenti:
«Francesco II ecc. volendo che gli affari delle nostre reali segreterie e ministeri di Stato si abbiano lo spedito corso, tanto necessario alla prosperità della cosa pubblica ed al benessere de’ nostri amatissimi sudditi: abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art.1. Discarichiamo il cav. D. Salvatore Murena, il cav. D. Francesco Scorza, ed il cav. D. Ludovico Bianchini, dai portafogli delle reali segreterie di Stato che provvisoriamente dirigono, de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia e della Polizia generale».
«… vista la legge del 6 gennaio 1817, e l’atto sovrano del 16 agosto 1841: abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art.1. Nominiamo nostri consiglieri di Stato: il Duca di Taormina D. Carlo Filangieri, principe di Satriano; il principe di Cassare D. Antonio Statella; il duca di Serracapriola D. Nicola Maresca, che riterrà l’attuale sua carica di vice presidente della Consulta de’ nostri reali dominii di qua del Faro. Ci riserbiamo di avvalerci, sempre che lo stimeremo opportuno, de’ loro lumi e della loro esperienza. La presente nomina non porterà innovazione agli attuali loro averi. Nominiamo nostro Ministro segretario di Stato degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione, il cav. D. Francesco Scorza, attuale direttore con referenda e firma della stessa real segreteria di Stato».
«… volendo che le nostre reali segreterie e ministeri di Stato de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia, e della Polizia generale, non rimangano prive di capi, e finché non provvederemo a’ ministeri in modo definitivo, abbiamo risoluto di decretare, e decretiamo quanto segue: art. 1. L’Intendente D. Salvatore Mandarini; l’avvocato generale della corte suprema di giustizia D. Cesare Galletti: ed il procuratore generale sostituto della gran corte criminale di Napoli D. Francescantonio Casella sono destinati a prendere provvisoriamente, e nel rispettivo ordine sopraindicato, la firma e referenda delle reali segreterie di Stato e ministeri de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia, e della Polizia generale».
Tutti questi decreti sono dati da Capodimonte, dove ora risiede la reale famiglia.
2. Lo stesso giornale reca il seguente:
«Ordine di sua Maestà allarmata di terra e di mare. Interprete fedele della volontà espressa dall’augusto nostro amatissimo genitore dal suo letto di dure sofferenze, adempiamo al sacro dovere di trasmettere i suoi ultimi addio, e i suoi ringraziamenti all’Armata di terra, e di mare, manifestando la piena soddisfazione sotto ogni rapporto onde era colmo il suo real animo; a questa fedele armata, che seppe, in ogni tempo e in ogni occasione, e per tutte le vie corrispondere degnissimamente, con la sua disciplina e col suo valore, alla predilezione pel grande Rè che ne fu il fondatore ed il compagno; a quest’Armata, cui noi stessi andiam superbi di appartenere e di averne fatto parte sin dai nostri primissimi anni; il che ci ha dato l’agio di conoscerla e di valutarla dappresso. Cercheremo pertanto, con l’aiuto del Dio degli eserciti, con tutte le nostre forze, a continuare in tutto ciò che possa intendere al maggior incremento, vantaggio e lustro della nostra Armata di terra e di mare, sicuri che essa continuerà sempre a serbare fedeltà inconcussa al real trono, e ritener così il nome che si è acquistato, e che voglia insieme con noi innalzare all’onnipotente Iddio preghiere per la grande anima di quel santo monarca che, sino negli ultimi istanti di sua vita, sen sovveniva, e Iddio pregava pel Paese e per l’Armata tutta».
da associazione-legittimista-italica.blogspot.i
1. Nuovo Ministero 2. Squadra inglese a Napoli 3. Grazie ai condannati politici.
1. II Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie nel suo numero dei 9 Giugno [1859] pubblica i seguenti decreti del Rè Francesco II dati lo stesso giorno:
«Nominiamo nostro consigliere di Stato il Ministro Segretario di Stato cav. D. Ferdinando Troia, che lasciando il portafoglio della Real Segreteria di Stato e ministero della presidenza del consiglio dei Ministri, riterrà il soldo e gli averi della carica medesima. Il nostro consigliere di Stato D. Carlo Filangieri, duca di Taormina, principe di Satriano, è nominato ministro segretario di Stato presidente del consiglio de’ ministri, e ministro segretario di Stato della guerra. Egli percepirà gli averi annessi alla carica di ministro segretario di Stato presidente del consiglio dei ministri. Viste le deteriorate condizioni di salute del cav. D. Giovanni Cassisi, nostro ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli, e prendendo in considerazione i lunghi suoi servigi, gli accordiamo il ritiro con gli onori, grado e soldo della carica da lui finora esercitata. Il cav. D. Salvatore Murena nostro ministro di Stato delle finanze è nominato presidente della suprema corte di giustizia in luogo del cav. Jannaccone, messo al ritiro con gli onori della carica e pensione di giustizia a termini di legge. Il cav. Murena conserverà gli onori, grado e soldo della carica che lascia. Il cav. D. Ludovico Bianchim, lasciando la direzione della nostra real segreteria di Stato e ministero dell’interno, è nominato consultore presso la Consulta de’ nostri reali domini di qua del Faro, conservando il grado e il soldo di direttore. Nominiamo Intendente generale dell’esercito col soldo personale di ducati 3,600 annui il brigadiere D. Carlo Piccenna, e gli accordiamo in attestato della nostra sovrana soddisfazione pe’ suoi servigi la onorificenza di maresciallo di campo. L’Intendente della provincia di Bari cav. D. Salvatore Mandarini, lasciando l‘incarico provvisoriamente affidategli con nostro real decreto del 3 dell’andante mese, è promosso dalla terza alla seconda classe, e destinato in Salerno. Il cav. D. Paolo Cumbo, presidente della Consulta de’ nostri reali domini al di là del Faro, è nominato nostro ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli. Sono nominati direttori con referenda e firma delle nostre reali segreterie di Stato e ministeri qui appresso rispettivamente indicati: il consultore D. Raimondo de Liguoro, per le finanze; l’intendente D. Luigi Ajossa, pe’ lavori pubblici; il consigliere graduato della suprema corte di giustizia D. Achille Rosica [1a] per l’interno. Ciascuno di essi percepirà l’annuo soldo di ducati 3.600».
Lo stesso giornale annunziò l’arrivo nelle acque del golfo di Napoli della squadra inglese composta di 6 vascelli, e sotto gli ordini dell’ammiraglio Fonscheuve. E in quello del 10 si legge:
«Ieri verso le 7 p.m. S.A.R. il conte di Aquila, vice ammiraglio della nostra R. Marina, si condusse a bordo della fregata inglese Eurgolus a nome di S.M. il Rè N.S. a visitarvi S.A.R. il principe Alfredo, secondogenito di S.M. la Regina d’Inghilterra, ed esternargli la massima compiacenza che la Maestà sua risente di aver potuto accoglierlo nel suo reame, ed a profferirgli quanto può la più cordiale e larga cortesia. A questi squisiti sentimenti la R.A.S. Britannica corrispose con le più affettuose manifestazioni di viva riconoscenza, limitandosi a ringraziare la Maestà del Rè di tante gentili profferte sol perché si trova in istretta educazione».
3. Il numero poi del 16 Giugno, oltre a molti altri decreti di grazie e beneficenze, contiene il decreto seguente:
«Francesco II ecc.: volendo contrassegnare con atti di clemenza il nostro avvenimento al trono, che la Divina Provvidenza ha affidato alle nostre cure, ci siamo determinati di fare sperimentare gli effetti della nostra sovrana indulgenza ai rimanenti condannati ai ferri, alla reclusione, alla relegazione ed alla prigionia per reati di Stato commessi negli anni 1848 e 1849 che, non vennero contemplati ne’ decreti di grazia de’ 27 dicembre 1858 e 18 marzo ultimo. Quindi seguendo gli impulsi del nostro reale animo, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art. 1. E’ condonata la pena residuale a’ condannati ai ferri, alla reclusione, alla relegazione ed alla prigionia per reati politici commessi negli anni 1848 e 1849 non contemplati ne’ menzionati decreti del 27 dicembre 1858 e 18 marzo 1859, secondo i notamenti esistenti nel Ministero di Grazia e Giustizia».
Regno delle Due Sicilie. 1. Nomine di Ministri e Consiglieri di Stato 2. Ordine del Rè all’esercito di terra e di mare
1. Nel Giornale del Regno delle Due Sicilie leggiamo i decreti seguenti:
«Francesco II ecc. volendo che gli affari delle nostre reali segreterie e ministeri di Stato si abbiano lo spedito corso, tanto necessario alla prosperità della cosa pubblica ed al benessere de’ nostri amatissimi sudditi: abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art.1. Discarichiamo il cav. D. Salvatore Murena, il cav. D. Francesco Scorza, ed il cav. D. Ludovico Bianchini, dai portafogli delle reali segreterie di Stato che provvisoriamente dirigono, de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia e della Polizia generale».
«… vista la legge del 6 gennaio 1817, e l’atto sovrano del 16 agosto 1841: abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: art.1. Nominiamo nostri consiglieri di Stato: il Duca di Taormina D. Carlo Filangieri, principe di Satriano; il principe di Cassare D. Antonio Statella; il duca di Serracapriola D. Nicola Maresca, che riterrà l’attuale sua carica di vice presidente della Consulta de’ nostri reali dominii di qua del Faro. Ci riserbiamo di avvalerci, sempre che lo stimeremo opportuno, de’ loro lumi e della loro esperienza. La presente nomina non porterà innovazione agli attuali loro averi. Nominiamo nostro Ministro segretario di Stato degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione, il cav. D. Francesco Scorza, attuale direttore con referenda e firma della stessa real segreteria di Stato».
«… volendo che le nostre reali segreterie e ministeri di Stato de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia, e della Polizia generale, non rimangano prive di capi, e finché non provvederemo a’ ministeri in modo definitivo, abbiamo risoluto di decretare, e decretiamo quanto segue: art. 1. L’Intendente D. Salvatore Mandarini; l’avvocato generale della corte suprema di giustizia D. Cesare Galletti: ed il procuratore generale sostituto della gran corte criminale di Napoli D. Francescantonio Casella sono destinati a prendere provvisoriamente, e nel rispettivo ordine sopraindicato, la firma e referenda delle reali segreterie di Stato e ministeri de’ Lavori Pubblici, di Grazia e Giustizia, e della Polizia generale».
Tutti questi decreti sono dati da Capodimonte, dove ora risiede la reale famiglia.
2. Lo stesso giornale reca il seguente:
«Ordine di sua Maestà allarmata di terra e di mare. Interprete fedele della volontà espressa dall’augusto nostro amatissimo genitore dal suo letto di dure sofferenze, adempiamo al sacro dovere di trasmettere i suoi ultimi addio, e i suoi ringraziamenti all’Armata di terra, e di mare, manifestando la piena soddisfazione sotto ogni rapporto onde era colmo il suo real animo; a questa fedele armata, che seppe, in ogni tempo e in ogni occasione, e per tutte le vie corrispondere degnissimamente, con la sua disciplina e col suo valore, alla predilezione pel grande Rè che ne fu il fondatore ed il compagno; a quest’Armata, cui noi stessi andiam superbi di appartenere e di averne fatto parte sin dai nostri primissimi anni; il che ci ha dato l’agio di conoscerla e di valutarla dappresso. Cercheremo pertanto, con l’aiuto del Dio degli eserciti, con tutte le nostre forze, a continuare in tutto ciò che possa intendere al maggior incremento, vantaggio e lustro della nostra Armata di terra e di mare, sicuri che essa continuerà sempre a serbare fedeltà inconcussa al real trono, e ritener così il nome che si è acquistato, e che voglia insieme con noi innalzare all’onnipotente Iddio preghiere per la grande anima di quel santo monarca che, sino negli ultimi istanti di sua vita, sen sovveniva, e Iddio pregava pel Paese e per l’Armata tutta».
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........


Il pranzo di Natale dei Borboni del 1827 e un semifreddo all'arancio alla reggia di Caserta da Francesco I
Tra i menu di Natale questa settimana segnaliamo quello consumato dalla famiglia reale Borbonica in forma privata il 25 dicembre del 1827, nella Reggia di Caserta. Il menu preparato dai cuochi di palazzo Reale lo riportiamo nella versione originale conservata nell'archivio della Reggia di Caserta. Due anni prima era morto (nel gennaio del 1825) il padre di Francesco I di Borbone e quindi non ci furono grandi ricevimenti per quelle festività. Il pranzo di Natale fu di tutto rispetto.
Tre zuppe: una di purè d'erbe; una di polpette all'Allemanda; una di barrone con maccheroni.
«Due rilievi»: uno di culardos (voce popolare per coscia ndr), con capponi e lingua in allesso con aspò (aspic) e uno composto di un arrosto di piccioni e grigliata con beccacce, beccaccine, tordi e salsicce. Sei entrate: una di pasticcetti di Sarno alla tedesca, uno di papigliotte (filetti ndr) di beccaccine alla Pericord, uno di granatine di petti di gallote con ragù di piselli; uno di lattarole (animelle ndr) alla macedonia con ragù alla Tolosa; uno di gelatina di portogalli (aranci); una canestrina di pasticcerie ed amarenghe secche alla crema.
Solo per Sua Maestà; una di tinche bollite; una di cardi con salsa gialla (maionese); uno de gamberi di Sarno alla finisserbe (fines-herbes); una di carciofi alla Lionese; una di capitoni arrostiti.
Impossibile fornire tutte le ricette del menu, visto che si tratta di un pasto regale. A Napoli e in gran parte della campania la crema di verdure viene sostituita con la minestra maritata (la ricetta la trovate in archivio) o in alternativa si serve il brodo con le polpettine. Spento dal tempo l'uso di cacciagione si sono rimasti cappone, salsicce, petti di pollo. Per i dolci, oltre ai mutacciuoli. roccocò e struffoli , più che una gelatina di arance, si può proporre un semifreddo di arance, mentre per il canestrino ci si può adeguare con della pasta frolla, crema pasticciera e amarene, oppure con le meringhe. Ed ecco un'idea per la fine del pranzo natalizio.
Semifreddo all'aranci. Ingredienti (per otto persone) 3 uova più due tuorli; 200 grammi di zucchero, il succo di due arance, la buccia grattugiata di arancia (rigorosamente solo la superficie) quattro fogli di gelatina (oppure di colla di pesce); 400 grammi di panna montata; 20 grammi di Grand Marnier o di un liquore all'arancia.
Preparazione: montare i tuorli con lo zucchero fino a quando non si crea una spuma gaillo chiarissimo. A questo punto unite il succo di arancia e la buccia grattugiat. Se usate i fogli di colla di pesce fateli rinvenire in acqua fredda , strizzateli e metteteli nel composto assieme al Grand Marnier o al liquire all'arancia. Montate a neve gli albumi e la panna e uniteli al composto mescolando, con un cucchiaio di legno, dal basso verso l'alto in maniera da mantenere soffice il composto. Mettete in uno stampo da semifreddo e sistematelo nel freezer.
Per servirlo: tagliate una o due arance a fette e sistematele tutte intorno a un piatto di portata dove avrete sformato il semifreddo. Attorno al preparato mettete altre fette di arance e servite
Vito Faenza
Da : http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Francesco II Borbone re lasagna
Testo di Federico Valicenti
Il Re che “ consegnò” il regno Due Sicilie all’Unità d’Italia fu sovrano per un breve periodo, dal 22 maggio 1859 al 13 febbraio 1861. Francesco II Borbone chiamato affettuosamente anche "Re lasagna" appellativo coniato per lui dal padre a causa della passione nutrita per le lasagne, pasta molto in uso tra i cultori del cibo del Sud Italia. Ricetta che ritroviamo nel ”Gattò di lasagnette alla Buonvicino", scritto nel 1843 da Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, dove ci racconta con dovizia tutti gli ingredienti che compongono la preparazione. Ancora prima Goethe nel suo diario“ Viaggi in Italia” del 1787, racconta della "pasta delicata, fatta con fine semolino, lavorata duramente, bollita e lavorata in varie forme" e descrive la vita napoletana, dando un’idea del lavoro dei “maccheronari” presenti agli angoli di quasi ogni strada "attivamente fanno i maccheroni grazie alle loro vaschette riempite di olio caldo, particolarmente nei giorni quando bisogna rinunciare a mangiare la carne. Vendono così bene il loro prodotto che molta gente trasporta il loro pasto via in fogli di carta ". Lo Street food diventa una costante nella logica gastronomica del Sud Italia anche perché è da sempre presente nell’alimentazione quotidiana una buona tradizione di rustici, torte salate, stuzzichini che si trovano tranquillamente dal panettiere, o per strada nei chioschetti e che si possono mangiare anche solo con l’ausilio di un tovagliolo. Rustici e torte salate che ritroviamo ancora oggi nelle festività dei paesi e nelle ricorrenze religiose chiamati “casatielli, ingornata, pastizz”, ma che arrivano sulle tavole con l’avvento dei Borbone. Torte e pasticci che si rincorrono, durante le festività si rifanno alla grande cucina pre Unità d’Italia donata dalla cucina della borghesia alla cucina popolana. Infatti, fu Ferdinando I, che tornando a Napoli per reggere il Regno delle due Sicilie dopo Murat, diede una grande spinta alla cucina popolare. Fu tutto un fiorire di trattorie dove si gustavano maccheroni, pizzelle, baccalà in umido, minestra maritata, pastiere, babà e ragù a dimostrazione che la cucina dell’epoca è tutt’uno con quella dei nostri nonni, è la cucina tradizionale ancora oggi. Molte, tante testimonianze riconducono la cucina tradizionale alla cucina nobile e ricca, prediligono la narrazione che si estende nei riti agresti, popolani, dove madri, nonne, figlie, sorelle, amanti trasformano in cucina buona, quella fatta di territorio e passione. Anche se a volte l’arte nobile si esprimeva solo nel cucinare e non nel mangiare. Emblematica era la golosità di Ferdinando I che spinse a introdurre i maccheroni con il ragù anche nei menu ufficiali dove amava intingere le dita nella salsa alla presenza di notabili stranieri. Ci pensò l’arguzia inventiva del ciambellano di corte don Gennaro Spadaccini a risolvere la questione, che per il proprio Re, allungò con altri due denti la forchetta che da due rebbi , bidenti, portò a quattro. Rebbi un po’ più larghi del normale quindi adatti per infilzare o avvolgere in maniera decorosa i maccheroni. Per ricostruire le ricette, l'alimentazione e la vita di corte del Sud borbonico, sì è fatto riferimento ai tanti diari dei viaggiatori stranieri che hanno soggiornato a Napoli e nel Regno delle Due Sicilie ed ai libri di cucina dei cuochi, dei gastronomi e dei "monzù" attivi nelle cucine delle dimore nobiliari tra il 1700 ed il 1800. Tra i primi a scrivere sulla cucina mediterranea, il primo a valorizzare la grande cucina regionale italiana, fu sicuramente un frate benedettino a San Pietro a Maiella il grande Vincenzo Corrado gastronomo e cuoco che scrisse “Il cuoco galante" definito all’epoca un libro di alta cucina, scritto e ristampato 6 volte per ordini del principe, andato a ruba e fortemente richiesto in tutto il mondo, da altissime autorità e nobili dell'epoca. Preparava elegantissimi banchetti alla corte dei nobili ,cucinava e amava scrivere anche per chi nobile non era, cosi da stampare il libro “Il cibo pitagorico” dove si rifà alla dieta vegetariana del filosofo Pitagora e presenta un’interessante descrizione dell'alimentazione a base di verdure da essere considerata una prima anticipazione dell’odierna dieta mediterranea. Questi due trattati sono le colonne portanti dell’attuale alimentazione del Sud Italia che ha osato e saputo fondere le due grandi cucine, quella di corte e quella popolare. La prima ebbe, almeno all'inizio, massicce influenze francesi e spagnole, la seconda invece mantenne salda la tradizione contadina, pur accogliendo alcune commistioni tipiche del gusto di corte.
Lasagna napoletana borbonica
Ingredienti per 8 porzioni. Ragù e polpettine si possono preparare il giorno prima
Pasta
g. 300 farina 00 - 3 uova medie - 1 cucchiaio olio di oliva E.V per la lavorazione - semola di grano duro q.b
Impastare gli ingredienti nel mixer o a mano e far riposare l’impasto per 30’ avvolto da pellicola per alimenti ; dividerlo in 4 parti e lavorare ciascuna (il resto deve restare coperto da pellicola) più volte nello spazio più largo con l’apposita macchinetta e poi 1 volta in ogni spazio successivo fino all’ultimo della macchinetta .Tagliare ogni striscia di pasta in rettangoli di “lasagna” più o meno lunghi quanto la teglia rettangolare , lasciarli seccare 30’ su canovaccio infarinato di semola e immergerli fino al ritorno del bollore (1-2 per volta) nell’acqua bollente salata nella teglia rettangolare, disporli ad asciugare (non sovrapponendoli) su un canovaccio pulito inumidito e strizzato
Ripieno
provola vaccina g. 300 - fiordilatte g. 200 (entrambi da tagliare a dadini) - ricotta di pecora 1 Kg. al lordo , da far colare bene in frigo e setacciare al passaverdura (diventa circa g. 800) , che poi andrà diluita con 1-2 mestoli di ragù – parmigiano reggiano grattugiato 3 cucchiai e pecorino grattugiato 3 cucchiai , da mescolare insieme – polpettine 50-60 – 4 salsicce di maiale (g. 400) cotte nel ragù, raffreddate e affettate sottilmente
Polpettine piccole
vitellone tritato 2 volte g. 300, mollica di pane spruzzata di latte e ben strizzata g. 100 , un uovo piccolo, un cucchiaio di parmigiano reggiano grattugiato)
Friggerle velocemente in olio di arachidi bollente fino a leggera doratura (non farle scurire); prima di comporre la lasagna , farle ammorbidire in una ciotola con un po’ di ragù caldo
Ragù per lasagne
Strutto un cucchiaio – olio 7 cucchiai - un pezzo di carne di maiale di g. 100- un pezzo di vitellone magro di g. 100 – salsicce 4 (circa g. 400) - una cipolla rosa tritata con i gambi di un bel ciuffo di prezzemolo - vino bianco “dealcolato” ½ bicchiere (si ottiene “vino senza l’alcol” che lo renderebbe amaro , facendone bollire per 6’-7’ il doppio della quantità che serve , in questo caso circa un bicchiere : l’alcol evapora , ma restano gli aromi del vino) - passata di pomodoro g. 1000-1500 - basilico (facoltativo), sale e pepe q.b.
In un tegame capiente sciogliere lo strutto nell’olio , unirvi 2 cucchiai di acqua e rosolare per circa 25-30’ a fuoco lento tutti gli ingredienti insieme (tranne il vino , la passata , il basilico , sale e pepe) - aggiungere il vino poco per volta , solo dopo che il precedente è evaporato , impiegando circa 10-12’ -aggiungere gradualmente la passata , coprire non totalmente il tegame (lasciando un mestolo di legno al disotto del coperchio) e cuocere su retina “spargifiamma” a fuoco molto basso per circa 1 e ½ ora , rimestando di tanto in tanto. Alla fine aromatizzare con il basilico spezzettato con le dita. Prelevare le salsicce, farle raffreddare ed affettarle sottilmente o sbriciolarle. I pezzi interi di carne del ragù possono essere utilizzati per altre preparazioni, ad esempio per crocchette.
Assemblaggio
Mettere sul tavolo dell’assemblaggio tutti gli ingredienti del ripieno (i cubetti di provola e fiordilatte , la ricotta setacciata e diluita con il ragù , le salsicce affettate o sbriciolate, le polpettine ammorbidite in un po’ di sugo , il misto di formaggi grattugiati (pecorino e parmigiano), il ragù, il pepe (facoltativo) e la pasta cotta distesa sul panno ad asciugare - nelle stessa teglia rettangolare di cm. 30-32 per 22-24 in cui è stata cotta la pasta, leggermente cosparsa di salsa , disporre : uno strato di pasta , un po’ di ricotta , qualche mestolino di ragù, un po’ di polpettine, un po’di salsiccia, un po’ di provola e fiordilatte e un po’ di formaggi grattugiati mescolati, pepe q.b.(facoltativo) ; coprire con un altro strato di pasta e ripetere l’ aggiunta degli ingredienti ; in ultimo solo pasta da cospargere di ragù -cuocere, in forno preriscaldato (preferibilmente ventilato), nella parte centrale, a 180° per circa 20-25’ fino alla formazione di una leggera crosticina superficiale. Sfornare e far riposare almeno 2 ore affinché si compatti. Prima di portarla in tavola, riscaldarla per 10’circa in forno preriscaldato a 200°, coperta da un foglio di alluminio
(P.S. si può preparare e cuocere il tutto anche il giorno prima)
http://www.taccuinistorici.it/ita/news/ ... sagna.html
Testo di Federico Valicenti
Il Re che “ consegnò” il regno Due Sicilie all’Unità d’Italia fu sovrano per un breve periodo, dal 22 maggio 1859 al 13 febbraio 1861. Francesco II Borbone chiamato affettuosamente anche "Re lasagna" appellativo coniato per lui dal padre a causa della passione nutrita per le lasagne, pasta molto in uso tra i cultori del cibo del Sud Italia. Ricetta che ritroviamo nel ”Gattò di lasagnette alla Buonvicino", scritto nel 1843 da Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, dove ci racconta con dovizia tutti gli ingredienti che compongono la preparazione. Ancora prima Goethe nel suo diario“ Viaggi in Italia” del 1787, racconta della "pasta delicata, fatta con fine semolino, lavorata duramente, bollita e lavorata in varie forme" e descrive la vita napoletana, dando un’idea del lavoro dei “maccheronari” presenti agli angoli di quasi ogni strada "attivamente fanno i maccheroni grazie alle loro vaschette riempite di olio caldo, particolarmente nei giorni quando bisogna rinunciare a mangiare la carne. Vendono così bene il loro prodotto che molta gente trasporta il loro pasto via in fogli di carta ". Lo Street food diventa una costante nella logica gastronomica del Sud Italia anche perché è da sempre presente nell’alimentazione quotidiana una buona tradizione di rustici, torte salate, stuzzichini che si trovano tranquillamente dal panettiere, o per strada nei chioschetti e che si possono mangiare anche solo con l’ausilio di un tovagliolo. Rustici e torte salate che ritroviamo ancora oggi nelle festività dei paesi e nelle ricorrenze religiose chiamati “casatielli, ingornata, pastizz”, ma che arrivano sulle tavole con l’avvento dei Borbone. Torte e pasticci che si rincorrono, durante le festività si rifanno alla grande cucina pre Unità d’Italia donata dalla cucina della borghesia alla cucina popolana. Infatti, fu Ferdinando I, che tornando a Napoli per reggere il Regno delle due Sicilie dopo Murat, diede una grande spinta alla cucina popolare. Fu tutto un fiorire di trattorie dove si gustavano maccheroni, pizzelle, baccalà in umido, minestra maritata, pastiere, babà e ragù a dimostrazione che la cucina dell’epoca è tutt’uno con quella dei nostri nonni, è la cucina tradizionale ancora oggi. Molte, tante testimonianze riconducono la cucina tradizionale alla cucina nobile e ricca, prediligono la narrazione che si estende nei riti agresti, popolani, dove madri, nonne, figlie, sorelle, amanti trasformano in cucina buona, quella fatta di territorio e passione. Anche se a volte l’arte nobile si esprimeva solo nel cucinare e non nel mangiare. Emblematica era la golosità di Ferdinando I che spinse a introdurre i maccheroni con il ragù anche nei menu ufficiali dove amava intingere le dita nella salsa alla presenza di notabili stranieri. Ci pensò l’arguzia inventiva del ciambellano di corte don Gennaro Spadaccini a risolvere la questione, che per il proprio Re, allungò con altri due denti la forchetta che da due rebbi , bidenti, portò a quattro. Rebbi un po’ più larghi del normale quindi adatti per infilzare o avvolgere in maniera decorosa i maccheroni. Per ricostruire le ricette, l'alimentazione e la vita di corte del Sud borbonico, sì è fatto riferimento ai tanti diari dei viaggiatori stranieri che hanno soggiornato a Napoli e nel Regno delle Due Sicilie ed ai libri di cucina dei cuochi, dei gastronomi e dei "monzù" attivi nelle cucine delle dimore nobiliari tra il 1700 ed il 1800. Tra i primi a scrivere sulla cucina mediterranea, il primo a valorizzare la grande cucina regionale italiana, fu sicuramente un frate benedettino a San Pietro a Maiella il grande Vincenzo Corrado gastronomo e cuoco che scrisse “Il cuoco galante" definito all’epoca un libro di alta cucina, scritto e ristampato 6 volte per ordini del principe, andato a ruba e fortemente richiesto in tutto il mondo, da altissime autorità e nobili dell'epoca. Preparava elegantissimi banchetti alla corte dei nobili ,cucinava e amava scrivere anche per chi nobile non era, cosi da stampare il libro “Il cibo pitagorico” dove si rifà alla dieta vegetariana del filosofo Pitagora e presenta un’interessante descrizione dell'alimentazione a base di verdure da essere considerata una prima anticipazione dell’odierna dieta mediterranea. Questi due trattati sono le colonne portanti dell’attuale alimentazione del Sud Italia che ha osato e saputo fondere le due grandi cucine, quella di corte e quella popolare. La prima ebbe, almeno all'inizio, massicce influenze francesi e spagnole, la seconda invece mantenne salda la tradizione contadina, pur accogliendo alcune commistioni tipiche del gusto di corte.
Lasagna napoletana borbonica
Ingredienti per 8 porzioni. Ragù e polpettine si possono preparare il giorno prima
Pasta
g. 300 farina 00 - 3 uova medie - 1 cucchiaio olio di oliva E.V per la lavorazione - semola di grano duro q.b
Impastare gli ingredienti nel mixer o a mano e far riposare l’impasto per 30’ avvolto da pellicola per alimenti ; dividerlo in 4 parti e lavorare ciascuna (il resto deve restare coperto da pellicola) più volte nello spazio più largo con l’apposita macchinetta e poi 1 volta in ogni spazio successivo fino all’ultimo della macchinetta .Tagliare ogni striscia di pasta in rettangoli di “lasagna” più o meno lunghi quanto la teglia rettangolare , lasciarli seccare 30’ su canovaccio infarinato di semola e immergerli fino al ritorno del bollore (1-2 per volta) nell’acqua bollente salata nella teglia rettangolare, disporli ad asciugare (non sovrapponendoli) su un canovaccio pulito inumidito e strizzato
Ripieno
provola vaccina g. 300 - fiordilatte g. 200 (entrambi da tagliare a dadini) - ricotta di pecora 1 Kg. al lordo , da far colare bene in frigo e setacciare al passaverdura (diventa circa g. 800) , che poi andrà diluita con 1-2 mestoli di ragù – parmigiano reggiano grattugiato 3 cucchiai e pecorino grattugiato 3 cucchiai , da mescolare insieme – polpettine 50-60 – 4 salsicce di maiale (g. 400) cotte nel ragù, raffreddate e affettate sottilmente
Polpettine piccole
vitellone tritato 2 volte g. 300, mollica di pane spruzzata di latte e ben strizzata g. 100 , un uovo piccolo, un cucchiaio di parmigiano reggiano grattugiato)
Friggerle velocemente in olio di arachidi bollente fino a leggera doratura (non farle scurire); prima di comporre la lasagna , farle ammorbidire in una ciotola con un po’ di ragù caldo
Ragù per lasagne
Strutto un cucchiaio – olio 7 cucchiai - un pezzo di carne di maiale di g. 100- un pezzo di vitellone magro di g. 100 – salsicce 4 (circa g. 400) - una cipolla rosa tritata con i gambi di un bel ciuffo di prezzemolo - vino bianco “dealcolato” ½ bicchiere (si ottiene “vino senza l’alcol” che lo renderebbe amaro , facendone bollire per 6’-7’ il doppio della quantità che serve , in questo caso circa un bicchiere : l’alcol evapora , ma restano gli aromi del vino) - passata di pomodoro g. 1000-1500 - basilico (facoltativo), sale e pepe q.b.
In un tegame capiente sciogliere lo strutto nell’olio , unirvi 2 cucchiai di acqua e rosolare per circa 25-30’ a fuoco lento tutti gli ingredienti insieme (tranne il vino , la passata , il basilico , sale e pepe) - aggiungere il vino poco per volta , solo dopo che il precedente è evaporato , impiegando circa 10-12’ -aggiungere gradualmente la passata , coprire non totalmente il tegame (lasciando un mestolo di legno al disotto del coperchio) e cuocere su retina “spargifiamma” a fuoco molto basso per circa 1 e ½ ora , rimestando di tanto in tanto. Alla fine aromatizzare con il basilico spezzettato con le dita. Prelevare le salsicce, farle raffreddare ed affettarle sottilmente o sbriciolarle. I pezzi interi di carne del ragù possono essere utilizzati per altre preparazioni, ad esempio per crocchette.
Assemblaggio
Mettere sul tavolo dell’assemblaggio tutti gli ingredienti del ripieno (i cubetti di provola e fiordilatte , la ricotta setacciata e diluita con il ragù , le salsicce affettate o sbriciolate, le polpettine ammorbidite in un po’ di sugo , il misto di formaggi grattugiati (pecorino e parmigiano), il ragù, il pepe (facoltativo) e la pasta cotta distesa sul panno ad asciugare - nelle stessa teglia rettangolare di cm. 30-32 per 22-24 in cui è stata cotta la pasta, leggermente cosparsa di salsa , disporre : uno strato di pasta , un po’ di ricotta , qualche mestolino di ragù, un po’ di polpettine, un po’di salsiccia, un po’ di provola e fiordilatte e un po’ di formaggi grattugiati mescolati, pepe q.b.(facoltativo) ; coprire con un altro strato di pasta e ripetere l’ aggiunta degli ingredienti ; in ultimo solo pasta da cospargere di ragù -cuocere, in forno preriscaldato (preferibilmente ventilato), nella parte centrale, a 180° per circa 20-25’ fino alla formazione di una leggera crosticina superficiale. Sfornare e far riposare almeno 2 ore affinché si compatti. Prima di portarla in tavola, riscaldarla per 10’circa in forno preriscaldato a 200°, coperta da un foglio di alluminio
(P.S. si può preparare e cuocere il tutto anche il giorno prima)
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........



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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Correva il giorno 6 settembre 1860
Bibliografia
Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, l'ultimo re di Napoli, 1982, Mondadori
Il 6 settembre 1860, alle 17.30 il re la regina con una modesta scorta si imbarcano sul Messaggero, comandato da Vincenzo Criscuolo. Lasciava a Napoli tutto, anche i suoi averi personali che saranno incamerati dal vorace Savoia.
Durante la traversata, non vi furono a bordo refezioni, né conversazioni liete. Nessuno osava rompere quel triste silenzio. Verso le dieci la regina si ritirò in un camerino di coperta, e accennò ad assopirsi, vestita com’era.
Il comandante non ebbe il coraggio di invitarla a ritirarsi in luogo più adatto, né andò molto ch'ella fu vinta dal sonno. Il re passeggiava con la testa china, solo: e il Criscuolo, per non disturbarlo, salì sul ponte di comando a fumare. Il mare era tranquillo. Verso mezzanotte, non sentendo più camminare il re, Criscuolo chiese al cameriere Mirante: «Agostino, il re dorme?» «Sì» egli rispose; ma, dopo pochi minuti, ecco che riapparve, ed accostatesi al Criscuolo, gli disse: «Vincenzino io credo che l’armata navale mi abbia interamente tradito, e quindi nessuna delle navi da noi chiamate, ci seguirà a Gaeta».
Criscuolo, per confortarlo, gli disse di non condividere tale opinione, mentre sapeva bene che neppure tutto l'equipaggio del Messaggero era interamente fedele, tanto che egli aveva dovuto ricorrere a qualche minaccia, perché il fuochista e gli altri marinai facessero il loro dovere. Il re aggiunse: «I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di aver fatto sempre il mio dovere, ma però ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere».
E ad alcune parole confortanti ripostegli da Criscuolo, soggiunse: «Io non so come il rimorso non uccida tutti quelli che mi hanno tradito; solo Dio, caro Vincenzino, potrà compensare la tua fedeltà, io però, dal canto mio, mai ti dimenticherò». Poi gli disse «Dov'è la signora?» e saputolo, si meravigliò che la moglie dormisse in quel camerino, dove a quell'ora doveva sentir freddo. «Andiamo» riprese «e persuadiamola a ritirarsi» Entrarono infatti nel camerino ma visto che la moglie dormiva, Francesco II non volle svegliarla; e solo per difenderla dalla brezza notturna, si tolse un piccolo mantello, che aveva sulle spalle, e glielo stese sopra. Erano le due dopo mezzanotte.
Il corpo diplomatico seguì il Re a Gaeta, mentre il rappresentante inglese Elliot, invece, attese Garibaldi che arrivò a Napoli in treno il 7 settembre 1860, accompagnato da Liborio Romano, ex ministro di Francesco II.
Formò un suo governo dittatoriale e, come primo atto, cedette le navi da guerra della grande marina borbonica al Piemonte. Gli ufficiali napoletani aderirono (erano nella maggioranza già passati al nemico, per l'azione svolta dallo stesso Comandante della Marina, Luigi di Borbone, conte dell'Aquila, fratello di Ferdinando II, che aveva ceduto alle lusinghe di Cavour e della massoneria). Ma i marinai ed i piloti restarono fedeli al Re: alcuni riuscirono a raggiungerlo a Gaeta con la vecchia fregata a vela Partenope, dopo essere fuggiti dalle navi i cui comandanti si erano rifiutati di seguire Francesco II.
Bibliografia
Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, l'ultimo re di Napoli, 1982, Mondadori
Il 6 settembre 1860, alle 17.30 il re la regina con una modesta scorta si imbarcano sul Messaggero, comandato da Vincenzo Criscuolo. Lasciava a Napoli tutto, anche i suoi averi personali che saranno incamerati dal vorace Savoia.
Durante la traversata, non vi furono a bordo refezioni, né conversazioni liete. Nessuno osava rompere quel triste silenzio. Verso le dieci la regina si ritirò in un camerino di coperta, e accennò ad assopirsi, vestita com’era.
Il comandante non ebbe il coraggio di invitarla a ritirarsi in luogo più adatto, né andò molto ch'ella fu vinta dal sonno. Il re passeggiava con la testa china, solo: e il Criscuolo, per non disturbarlo, salì sul ponte di comando a fumare. Il mare era tranquillo. Verso mezzanotte, non sentendo più camminare il re, Criscuolo chiese al cameriere Mirante: «Agostino, il re dorme?» «Sì» egli rispose; ma, dopo pochi minuti, ecco che riapparve, ed accostatesi al Criscuolo, gli disse: «Vincenzino io credo che l’armata navale mi abbia interamente tradito, e quindi nessuna delle navi da noi chiamate, ci seguirà a Gaeta».
Criscuolo, per confortarlo, gli disse di non condividere tale opinione, mentre sapeva bene che neppure tutto l'equipaggio del Messaggero era interamente fedele, tanto che egli aveva dovuto ricorrere a qualche minaccia, perché il fuochista e gli altri marinai facessero il loro dovere. Il re aggiunse: «I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di aver fatto sempre il mio dovere, ma però ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere».
E ad alcune parole confortanti ripostegli da Criscuolo, soggiunse: «Io non so come il rimorso non uccida tutti quelli che mi hanno tradito; solo Dio, caro Vincenzino, potrà compensare la tua fedeltà, io però, dal canto mio, mai ti dimenticherò». Poi gli disse «Dov'è la signora?» e saputolo, si meravigliò che la moglie dormisse in quel camerino, dove a quell'ora doveva sentir freddo. «Andiamo» riprese «e persuadiamola a ritirarsi» Entrarono infatti nel camerino ma visto che la moglie dormiva, Francesco II non volle svegliarla; e solo per difenderla dalla brezza notturna, si tolse un piccolo mantello, che aveva sulle spalle, e glielo stese sopra. Erano le due dopo mezzanotte.
Il corpo diplomatico seguì il Re a Gaeta, mentre il rappresentante inglese Elliot, invece, attese Garibaldi che arrivò a Napoli in treno il 7 settembre 1860, accompagnato da Liborio Romano, ex ministro di Francesco II.
Formò un suo governo dittatoriale e, come primo atto, cedette le navi da guerra della grande marina borbonica al Piemonte. Gli ufficiali napoletani aderirono (erano nella maggioranza già passati al nemico, per l'azione svolta dallo stesso Comandante della Marina, Luigi di Borbone, conte dell'Aquila, fratello di Ferdinando II, che aveva ceduto alle lusinghe di Cavour e della massoneria). Ma i marinai ed i piloti restarono fedeli al Re: alcuni riuscirono a raggiungerlo a Gaeta con la vecchia fregata a vela Partenope, dopo essere fuggiti dalle navi i cui comandanti si erano rifiutati di seguire Francesco II.
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