Camminando
per Venezia, alzando gli occhi, osservando le pareti degli edifici, si
possono scoprire tanti piccoli particolari sui quali spesso non si fa caso.
Ad esempio, nella corte del teatro, presso San Luca, c'è, su una mensola
sulla facciata di una casa, una strana scultura.
Che cosa rappresenta?
Che cosa ci fa lì?
Nel cercare di saperlo ci si imbatte in storie, fatti, episodi a volte
storici, a volte solo leggendari.
Le indicazioni stradali a
Venezia sono del tutto particolari: sono chiamate "ninzioleti"
(pronuncia "ninsioleti"), cioè "piccole
lenzuola" (il lenzuolo infatti in veneziano si dice "ninziolo").
Sono dei riquadri rettangolari in malta, tinteggiati di bianco
(originariamente in calcina) con una cornice dipinta in nero, con
pennello a mano libera con l'aiuto di un asse di legno.
I caratteri sono dipinti con l'aiuto di forme di latta in cui sono
sagomati (dime) e l'abile dipintore sa disporli "ad
occhio" in modo da centrare le scritte e riempire
simmetricamente il "ninzioleto".
Venezia
è stata per secoli una città di tradizione teatrale.
Solo per ricordare alcuni teatri presenti, senza pretendere di esaurire
l'elenco, ricordiamo quelli di San Samuele, di Sant'Angelo, di San Luca, di
San
Beneto, di San Moisè, dei Santi Giovanni e Paolo, di San Giovanni Grisostomo,
di San Fantin, di San Cassiano, di San Tomà, di San Giobbe e tanti altri
ancora sarebbero da elencare.
La maggior parte di questi teatri, ormai sparita, ha lasciato traccia solo
nei toponimi stradali: sono così numerosi i campi, campielli, corti,
ponti, calli e rami "del teatro" a ricordare la vicinanza di
questi luoghi ad un teatro che sorgeva nei pressi.
La "corte del teatro" di cui si parla si trova nel cuore della
città, a due passi dal centralissimo "campo San Luca".
La "corte del teatro" fa parte di uno dei tanti itinerari viari
alternativi che consentono al veneziano che conosce le strade di spostarsi
per la propria città evitando di doversi accodare ai flussi turistici che
la invadono: è quel «caminar par le fodre» (camminare per le
fodere, cioè attraverso luoghi nascosti) che permette di stare alla larga
dalle vie troppo praticate. Alla fine si tratta di scorciatoie, non sempre
in termini di distanza, ma sicuramente in termini di tempo.
Questa corte deve il suo nome a, ovviamente, un teatro che sorgeva di
fianco: era il Teatro di San Salvador (San Salvatore) che più tardi fu
chiamato anche di San Luca, per la vicinanza all'omonima chiesa.
Particolare
della veduta prospettica "a volo d'uccello" di
Venezia come appariva nel 1500 incisa su legno da Jacopo
de' Barbari. Nonostante le modificazioni urbanistiche del
secolo successivo si scorge l'area dove attualmente si trova
la "corte del teatro" (al tempo non esisteva ancora
il Teatro di San Salvador).
Uno
scorcio della tranquilla corte del Teatro, vicino a San Luca. La
vista sul lato settentrionale è alterata dalla presenza dei tendoni
del plateatico. A destra si intravede il fianco del moderno Teatro
Goldoni con la scala metallica che conduce alla zona del
palcoscenico che stride con la bella scala esterna della palazzina
gotica già appartenente alla famiglia Dandolo.
Il teatro venne fondato dalla famiglia Vendramin (e per questo era
chiamato anche Teatro Vendramin) su un'area su cui sorgevano delle case di
sua proprietà che erano andate distrutte a seguito di un incendio.
Venne inaugurato nel 1622 con lo spettacolo di una compagnia di comici
diretta da un certo Antonio Chioffo.
Dopo trent'anni, nel 1652, venne distrutto da un incendio, ma la famiglia
Vendramin lo volle ricostruire più bello di prima.
Ad iniziare dal 1661 si cominciò a rappresentarvi drammi musicali: il
primo fu «Pasifae» ovvero «l'Impossibile fatto Possibile»,
testo poetico di Giacomo Ortale e musica del frate conventuale fra'
Daniele da Castrovillari.
Durante la festa dell'Ascensione del 1727 furono rappresentate altre due
opere, entrambe con parole e musiche di Giuseppe Bonina: l'«Albumazar» e
le «Frenesie d'amore» ossia il «Savio delirante».
Nel 1740 il teatro subì un altro incendio, ma venne nuovamente
ricostruito nel giro di un anno su disegno di Pietro Chieza.
Nel 1752 Francesco Vendramin riuscì ad ingaggiare Carlo Goldoni che per
questo teatro scrisse famose commedie quali «La trilogia della
villeggiatura», «Sior Todero brontolon», «Le baruffe
chiozzotte», «Una
delle ultime sere di carnovale», «I rusteghi».
Così il teatro si avviò verso rappresentazioni di commedie comiche e
tragiche.
Tra il 1808 ed il 1815 rimase chiuso anche per le precarie condizioni in
cui si era venuto a trovare. Venne quindi sottoposto ad una serie di
restauri ed ammodernamenti: nel 1818 su progetto di Giuseppe Borsato
(1771-1849) e nel 1833 le sale interne furono decorate da Francesco
Bagnara (1784-1866), allievo dello stesso Borsato.
Prese quindi il nome di Teatro Apollo che mantenne fino al 1875, quando,
anche con l'appoggio di Angelo Moro-Lin e Regina De Marchi, vedova
Vendramin, venne intitolato al grande commediografo veneziano Carlo
Goldoni (1707-1793).
Altri
contrasti in corte del Teatro: la palazzina gotica con a lato la
moderna architettura della fiancata del Teatro Goldoni.
Negli
anni successivi il teatro venne ereditato dall'avvocato Antonio Marigonda
che lo portò ad accogliere attori di prosa del calibro di Ermete Zacconi
(1857-1948), delle sorelle Grammatica, Irma (1867-1962) ed Emma
(1874-1965), Ruggero Ruggeri (1871-1953). In quegli anni vi recitò anche
la grande Eleonora Duse (1858-1924) portando in scena nel 1902 «Francesca
da Rimini» di Gabriele D'Annunzio (1863-1938) e nel 1922 «La
donna del mare» di Henrik Ibsen (1828-1906).
Nel 1937 il Teatro Goldoni venne venduto all'I.C.S.A. (Istituto
Cinematografico Spettacoli e Affini).
Restò in stato di abbandono per decenni nel dopoguerra fino a quando
subì un'ulteriore radicale, quanto discutibile, riedificazione a seguito
della quale la "corte del teatro", nel suo lato
nord-orientale, risultò totalmente alterata: a questo si deve aggiungere
l'invasiva presenza dei plateatici legati alla ristorazione che deformano,
in maniera evidente, la prospettiva originaria della corte nascondendone
l'architettura.
L'edificio
del XIV secolo sul lato meridionale della corte del Teatro
mantiene ancora la sua atmosfera originaria.
Elementi
lapidei sull'antico edificio che chiude il lato meridionale della
corte del teatro.
Sulla facciata di un antico edificio che chiude il lato meridionale
della corte sono distinguibili alcuni elementi lapidei: si tratta di una
mensola sulla quale è collocata una testa femminile con una lastra di
pietra sporgente collocata sopra che fa da riparo; sul muro, dietro il
busto, è distinguibile una patera, probabilmente bizantina, con una croce
ed un motivo floreale che l'avvolge; più in alto, appena spostati sulla
sinistra, ci sono due stemmi: il primo è in realtà la patera con il
monogramma della Scuola Grande di San Rocco con il quale
l'arciconfraternita identificava le case di sua proprietà. L'altro invece
è uno stemma composito che congiunge le armi dei Bembo con quelle dei
Moro.
Non ci è dato sapere chi rappresenti quel busto di donna, che viene
definito "di vecchia" anche se il passare del tempo ha alterato
le sue fattezze rendendo il volto di un'età indefinibile. Certamente è
molto antico e possiamo affermare che si trova in quel luogo certamente
dal XIV secolo. In
quegli anni la famiglia Querini possedeva alcune case confinanti con
questa che, l'8 novembre 1387, venne data in possesso a donna Chiara di «ser
Dionisio de Rebusatis», merciaio a San Salvador (San Salvatore).
Potrebbe essere stato qualcuno dei Querini ad aver collocato questo busto.
Infatti nell'atto notarile redatto dal notaio Bartolammeo dei Ricovrati è
testualmente scritto che sopra il muro della casa c'è « ...una testa d.
pietra a d.na que debet removeri q.m placuerit d.no Bertucio Querino... ».
Lo
stemma composito che congiunge le armi dei Bembo con quelle dei
Moro.
Le
prime notizie sulla testa di vecchia della corte del teatro risalgono
al 1387.
La rimozione della testa di pietra è inserita con una formula simile
anche in un altro atto notarile di un anno dopo, quello del 23 giugno 1388
con il quale una certa Cattaruzza, moglie di Nicolò Paruta di Santa
Croce, col consenso del marito, vendette « ...a Lucia da Lago relit.
del nob. Nicolò Dandolo... » la casa in questione.
Alla luce di questi documenti è confermato che quel busto di pietra si
trovava nello stesso luogo di oggi almeno dal 1387. Nel XVI secolo lo stabile apparteneva alla famiglia Bembo.
Scopriamo infatti che il N.H. Domenico Bembo "quondam"
Tommaso il 4 dicembre 1537 fece una denuncia di proprietà ai Savi sopra
le Decime per la determinazione della "gravezza", una
tassa che colpiva le rendite immobiliari. Con questa denuncia il Bembo
dichiarava di possedere in « ... S. Lucha una casa et botega habita al
presente ser Lodovico Spizier tien la Vecchia per insegna, paga per fitto
all'anno ducati 44.» Questa
denuncia, oltre ad attestare la proprietà dei Bembo sull'immobile, ci
informa che vi era una farmacia della quale si dirà fra poco.
Nel 1545 Domenico Bembo lasciò lo stabile alla sorella Lucia, vedova di
Antonio Moro. Alla morte di Lucia la casa venne ereditata dai sui tre
figli: Giacomo, Tommaso e Nicolò Moro.
Questo ci giustifica anche la
presenza dello stemma composito con le armi dei Bembo e dei Moro.
La
farmacia all'insegna della Vecchia e del Cedro Imperiale.
Nicolò
Moro, l'ultimo sopravvissuto dei tre fratelli comproprietari
dell'immobile, con testamento del 9 marzo 1552 e successiva postilla del
17 maggio (atti del notaio Antonio Marsilio) lasciava l'immobile
all'Arciconfraternita di San Rocco; e con questo viene spiegata anche la
presenza della patera rotonda della Scuola Grande di San Rocco.
La
patera dell'Arciconfraternita di San Rocco che fu posta dopo
che questa ereditò l'edificio a seguito del testamento di Nicolò
Moro.
Interessante è la
citazione che abbiamo riportato sopra che attesta la presenza di una
bottega di "spizier" (cioè di una farmacia) in
quell'edificio già nel 1537.
Infatti la farmacia esiste tutt'ora, anche se non proprio nell'identico
preciso luogo.
Fino a quasi tutto l'Ottocento la farmacia «all'insegna della Vecchia»
si trovava in quel caseggiato ed è testimoniato che aveva una porta del
retrobottega proprio sotto la testa di pietra della vecchia.
Con le demolizioni e le modificazioni urbanistiche e stradali che furono
effettuate all'inizio del XX secolo attorno al Teatro Goldoni, la farmacia
fu spostata di una cinquantina di metri: a seguito della chiusura di
un'altra storica farmacia veneziana con la quale si riunì, assunse il
nuovo nome che le ricorda entrambe «Farmacia all'insegna delle vecchia e
del cedro imperiale».
Ma
la citazione dei documenti che abbiamo commentato sopra ci fa giungere ad
un'altra conclusione: non conosciamo il significato di quella testa, ma è
possibile, anche se non provato, che da quella abbia preso il nome la successiva farmacia.
L'attuale
indicazione della "Farmacia all'insegna della Vecchia e del Cedro
Imperiale".
La
trascrizione dai "Commemoriali" di Pietro Gradenigo fatta
da Giuseppe Tassini (1827-1899) «Una Veccia Donna, della parrocchia di S. Paterniano, di avaro
temperamento, tutto ciò che ricavava dal suo lavoro, o altra
industria, nascondeva e cuciva fra le fodere di un vecchio ed
inutile tabarro, il quale fra le straccie teneva nella parte più
dimenticata della soffitta della propria casa, così celando al suo
discolo, quanto pietoso figliuolo, tanto danaro. Un giorno nella
più rigida stagione d'inverno, mosso egli da fervida compassione
d'un ignoto e nudo povero interricito sulla strada dal freddo, si
risolse di donare a lui il tabarro stesso, credendo non aver bisogno
d'implorarne permissione alla madre per mantello sì stracciato. La
settimana seguente, occorrendo alla genitrice d'aumentare il suo
deposito, e non ritrovatolo per diligenza usata, interrogò
finalmente il figlio se ne sapeva dar nuova, che da essa sentita
fatale per la difficoltà di ricuperarlo, gli palesò per ultimo
quanto oro vi era cucito onde lasciarlo in tempo di sua morte in di
lui eredità. Penetrato il Giovine da tale impensata informazione,
si diede tutto all'impegno di rintracciare il Mendico, ma non
sortiva nell'intento. Si risolse allora di vestirsi a modo d'uno
stolto inginocchiato ai scalini del Ponte di Rialto, cioè dove ogni
momento concorre l'affluenza degli uomini, che girano per la città,
e rivolgendo un naspo adagio, adagio, secondando anche la mano con
il flebile canto, che replicava a modo d'invitare li passeggeri a
compatire qualche suo sfortunato destino, mai tralasciò la mentita
comparsa se non diede l'occhio sopra il Povero, che cercava, quale
appena veduto con lieto animo lo chiamò a sè, dimostrando
compassione che in stagione sì aspra se ne stesse tanto malamente
riparato. Poi gli disse: Fratello! io rimango per te sì penetrato
che penso di cambiar teco il mio tabarro, tanto più che saprò con
questo mezzo come meglio provvedere a me stesso.
Non fu difficile ad acconsentire il bisognoso forastiero, sorpreso
dalla umanità del pio Veneziano, e ringraziatolo con mille
benedizioni, prese il dono, e se ne andò con la buona ventura.
Allora, senza perder tempo, lasciato il naspo, di buon passo il
figlio ritornò alla madre, e con promiscuo piacere repristinarono a
lor prò l'opulenta borsa. Così continua il misterioso simbolo a
rammentare il fatto, stante che, col mezzo soldo, si fondò florido
negozio di accreditata farmacia, contraddistinta da un significante
intaglio che rappresenta la Vecchia sedente con la Rocca ed il Fuso,
a cui piedi sta il fanciullo, contorcendo il filo col mezzo d'un
naspo.
Il Fanciullo stesso si chiamava Vincenzo Quadrio, e fu primo specier
all'insegna della Vecchia.»
Tuttavia
esiste una storia fantasiosa attorno all'origine della farmacia: per
quanto inverosimile e priva di fondamento, va raccontata per completezza e
perché fa parte di
quelle leggende veneziane che aleggiano tra le calli ed i campielli della
città.
La troviamo raccontata nel IV volume dei "Commemoriali"
manoscritti di Pietro Gradenigo (1695-1776), di quei Gradenigo del ramo di
Santa Giustina.
Di non facile lettura (è scritta con una grafia tremenda, non sempre semplice da
decifrare) si cerca di trascriverla in italiano corrente, consapevoli che
così facendo si perde il fascino della prosa originale a beneficio
tuttavia di una lettura più agevole.
Non sappiamo se sia la più antica versione di questo racconto: certamente
è precedente ad altre che presentano aggiunte, manipolazioni e varianti.
Si tratta quindi, da quello che sappiamo, della versione più vicina
all'originale.
Scrive dunque il Gradenigo che nella parrocchia di San Paterniano, quindi
nelle immediate vicinanze dei luoghi di cui abbiamo appena parlato, viveva
un'anziana donna.
Questa viene descritta come un'avara: tutto quello che riusciva a
guadagnare dalla sua attività -ma non sappiamo quale lavoro facesse-
veniva accuratamente nascosto.
Come nascondiglio utilizzava un vecchio e consunto tabarro: scuciva una
parte della fodera, la sollevava, vi nascondeva le monete e ricuciva il
tutto. Il tabarro veniva poi riposto in soffitta, in mezzo a tanti altri
stracci vecchi.
L'anziana donna aveva un figlio che ignorava questo
"salvadanaio" della mamma; quando in una fredda giornata
d'inverno vide un poveretto per strada tutto intirizzito perché non aveva
abiti pesanti con cui coprirsi, preso da compassione e ricordandosi di
quel vecchio tabarro abbandonato in soffitta, andò a prenderlo per
donarglielo, in modo che avesse qualcosa con cui ripararsi meglio dalla
rigidità del tempo.
Dopo qualche giorno la madre si ritrovò con dei danari che volle
nascondere nel solito tabarro: ma una volta salita in soffitta non lo
trovò più.
Chiese quindi al figlio se sapesse qualcosa del tabarro e questi, con
disarmante candore, le disse che lo aveva regalato ad un poveretto perché
potesse coprirsi.
A queste parole la madre rivelò al figlio il segreto del tabarro: da anni
vi nascondeva dentro monete ed ormai c'era un buon gruzzolo che un giorno
avrebbe lasciato a lui in eredità.
Saputa la cosa, il giovane si mise a cercare di rintracciare il viandante,
ma inutilmente.
Allora pensò che un luogo che tutti frequentano era il ponte
di Rialto: si recò lì nella speranza, prima o poi, di vedere il
poveretto al quale aveva donato il tabarro.
Si vestì da povero scemo (nel testo «a modo d'uno stolto»)
sedendosi sugli scalini del ponte con un naspo che girava e rigirava per
avvolgervi del filo per farne matasse, mentre ripeteva una lamentosa
cantilena.
In questo modo, senza dare nell'occhio, cercava con lo sguardo quel
poveretto al quale aveva regalato il prezioso tabarro.
Non mancò la fortuna: un giorno lo vide passare con il vecchio mantello
pieno di toppe e cuciture e si offrì di donargli il proprio: per se
stesso avrebbe trovato da vestire.
Il povero viandante acconsentì al cambio e, senza stancarsi di
ringraziare il generoso veneziano, si allontanò per la sua strada.
Subito il nostro giovane si precipitò a casa e mostrò alla madre il
tabarro recuperato che custodiva all'interno il tesoro in monete ancora
intatto.
Con quel tesoro, messo assieme negli anni risparmiando ed accantonando
tante monetine, venne avviata una famosa farmacia che ebbe per insegna una
vecchia seduta con la connocchia ed il fuso ed ai suoi piedi un fanciullo
con il naspo.
Quel fanciullo -scrive il Gradenigo- si chiamava Vincenzo Quadrio e fu il
primo speziale alla farmacia all'insegna della Vecchia.
Come
detto, la storia appare abbastanza fantasiosa: vorrebbe spiegare l'origine
del nome della farmacia ma non di quella testa di vecchia in pietra che,
ricordiamolo, è documentata in quel luogo almeno dal 1387. Chi o cosa
rappresenti quella testa e perché fu collocata in quel posto continuiamo
ad ignorarlo. Qualcuno aggiunge che il giovane volle intitolare la bottega
alla madre e le fece fare un busto, ma nella storia scritta dal Gradenigo
non leggiamo questo che sarebbe impossibile perché incongruente con gli
anni.
Resta comunque il fatto che noi abbiamo testimonianza di un Vincenzo
Quadrio: in un testamento redatto il 16 luglio 1564 da un certo Ambrogio
quondam Antonio Frigerio (o Frizier) presso il notaio Antonio Maria di
Vincenti, nella parrocchia di San Luca, viene citato un «...Vincenzo
Quadrio spicier all'insegna della Vecchia...».
La storia, seppure in gran parte leggendaria (oggi forse si direbbe una
leggenda metropolitana) sembra dunque avere qualche pur minimo riferimento storico.
La
magnifica targa moderna che ricorda le antiche insegne della
farmacia "della Vecchia e del Cedro Imperiale".
Da ultimo facciamo notare che secondo il racconto del Gradenigo l'insegna doveva mostrare una
vecchia che filava con il fuso e la rocca (o connocchia) ed un fanciullo
ai piedi che avvolgeva il filo al naspo. Ma a metà Ottocento l'insegna
della farmacia mostrava solo la vecchia che filava.