Ca'
Anche se noi siamo ormai abituati a chiamarli palazzi, per i veneziani di un
tempo erano solo case, abbreviato in ca'.
Il termine non riguardava solo gli edifici civili, ma anche quelli
religiosi: ad esempio, il grande complesso di Santa Maria dei Frari, con la basilica,
i conventi, i chiostri, era chiamato semplicemente Ca' Granda dei Frari.
Calle
E' la tradizionale via veneziana, più o meno stretta, più o meno lunga.
La parola deriva dal latino callis (sentiero stretto, tortuoso e
fangoso).
Il nome è documentato sin dal 1038.
Giuseppe Boerio (1754-1832) nel suo "Dizionario del dialetto
veneziano" (seconda edizione del 1856) la
chiama cale: «cioè Via, strada, cammino».
Secondo Francesco Berlan (1821-1876) sarebbe «...voce italiana, usata
(...) anche nel genere femminino, come usasi nel dialetto veneziano: e
appo noi si dà a quelle strade interne che sono più lunghe che larghe».
Giuseppe Tassini (1827-1899) ricorda che «Ove in uno stesso punto vi sono
due Calli del medesimo nome troviamo "Calle Prima", "Calle
Seconda", ecc. Troviamo pure "Calle a fianco", "Calle
dietro", ecc.»
Secondo la tipologia della calle, possiamo avere una "calle
larga" o una "calle stretta".
Le calli veneziane appaiono strette, tortuose, ingarbugliate, costruite
senza alcun piano urbanistico. In effetti sono degli spazi spontanei che
si creavano tra edificio ed edificio in una città dove lo spazio per
costruire era vitale mentre le vie di comunicazione erano costituite dai
canali.
Essendo normale, in epoca antica, spostarsi nella città attraverso
l'acqua (anche i ponti che congiungono insula ad insula
erano rari), i proprietari delle case non gradivano vedere estranei che
passeggiassero per le calli attorno alle loro dimore; per questo a volte
ostacolavano l'accesso alle calli ponendo barriere in legno o addirittura
massi di pietra: pratica che venne vietata dal Senato veneziano una prima
volta nel 1294 e
poi nel 1312.
Qualcuno ha provato a contare le calli di Venezia: sarebbero più di tremila.
Campazzo
Il termine campazzo (documentato già nel XII secolo) indica un campo
brullo, disadorno, senza alcun merito architettonico.
Francesco Berlan (1821-1876) precisa: «La parola campazzo non è, come
di leggieri si può vedere, che corruzione dell'italiana campaccio, usata
a significare, più che l'ampiezza d'un terreno la sua spiacevole
disadornezza».
Campiello
Scrive Giuseppe Tassini (1827-1899): «E' corruzione di "campicello"
cioè piccolo campo».
La parola campiello è documentata dal XII secolo.
Campo
Non deve stupire che una città come Venezia, con tutte le proprie
attività e la vita sociale che si svolgevano per le vie d'acqua, avesse
degli spazi che chiamava con un termine appartenente piuttosto alla vita
rurale e contadina: "campo".
Ma, soprattutto agli inizi, proprio campi erano quegli spazi aperti dietro
le case, davanti alle chiese, ai margini di un rio. Campi dove cresceva
l'erba, dove potevano pascolare cavalli, piccoli armenti, dove erano
piantati alberi, vigne o alberi da frutto. Un "brolo" (orto,
campo) esisteva al Palazzo Ducale.
Quando si cominciarono a lastricare le strade, non ci si preoccupava di
lastricare un intero campo: restava tutto in terra battuta, tranne quelle
due o tre liste di suolo che erano abitualmente percorse per attraversarlo.
Il campo davanti alla chiesa di San Pietro di Castello mostra ancora il
primitivo assetto dei campi veneziani.
Troviamo per la prima volta il termine campo nel XII secolo.
Corte
Per corte a Venezia si intende un piccolo campo, o campiello, chiuso fra le
case al quale generalmente si accede per lo stesso passaggio attraverso il
quale si esce.
Crosera
Si potrebbe tradurre come incrocio: luogo dove si incrociano due o più
calli.
Spesso la calle maggiore prende il nome di crosera.
Fondamenta
Hanno poco da vedere con le fondazioni di un edificio: a Venezia si
chiamano fondamente le strade che fiancheggiano i canali e i rii.
Giuseppe Tassini (1827-1899) scrive che sono così chiamate «...perché
servono di base, o di fondamento agli edifici».
In origine il terreno battuto era consolidato con graticci e sterpaglia,
poi con legname e pali.
Erano chiamate anche junctorium. Solo successivamente vennero
rinforzate con pietre.
In sostanza a Venezia le fondamente sono quelle che in altre città
si chiamano "rive". La prima volta che troviamo usato questo
termine (nel senso di striscia di terra tra case ed un rio) è nel 1078.
Tuttavia ci sono alcune fondamente a
Venezia che si chiamano "rive": sul Canal Grande, ad esempio,
troviamo la Riva de Biasio mentre in spazi lagunari più aperti troviamo,
sempre per fare un esempio, la Riva degli Schiavoni.
A parte queste eccezioni, a Venezia le rive si chiamano fondamente;
la parola "riva"
ha un altro significato.
Lista
Secondo Giuseppe Tassini (1827-1899) con lista si intendevano «...le
adiacenze del palazzo d'un ambasciatore straniero, le quali godevano, come
gli antichi asili, d'alcune immunità per delinquenti».
Giuseppe Boerio (1754-1832) nel suo "Dizionario del dialetto
veneziano" (seconda edizione del 1856) ammette questo significato:
«Listedei
Ambassadori, Così
chiamavansi al tempo della Repubblica, le adiacenze della casa d'un
Ambasciatore estero residente in Venezia, che godevano di certe immunità.
Franchigia di Quartieri.»
Tuttavia come prima definizione pone: «Lista o Listón de
Piazza, chiamasi
in Venezia lo Stradone, attiguo alle Procuratie nella Piazza di S. Marco,
per cui, specialmente si passeggia.»: per il termine listòn si
rimanda alla voce successiva.
Listón
Gli ampi spazi aperti non urbanizzati, all'interno delle insulae
veneziane, erano chiamati campi proprio perché, in
origine, avevano la caratteristica di essere aree coltivate, magari con
piante da frutto, dove potevano circolare liberamente animali da cortile e
da pascolo.
Diventando luoghi di passaggio per la viabilità pedonale, cominciarono ad
essere lastricati (salizadi), all'inizio
semplicemente con delle tavole di legno, poi con mattoni e pietre.
Questa copertura era limitata ad una striscia (lista) che, unendo due lati
opposti del campo, ne favorivano l'attraversamento.
Questa lista, chiamata anche listòn, divenne così un passaggio
obbligato, ma inevitabilmente anche un luogo di incrocio e di incontro per
i passanti.
Qui la gente prese l'abitudine di camminare avanti e indietro, di
incontrarsi, di scambiarsi le notizie della giornata, di mostrarsi fino a
tarda ora e, a volte, arrivando a fare le ore piccole.
Nel Cinquecento il listòn più famoso era probabilmente quello di
campo Santo Stefano: non solo si chiacchierava ma anche si esibivano dame
e cavalieri nei giorni del Carnevale e di festa.
Listoni, intesi come luoghi di passeggio, di aggregazione e di
incontri, si diffusero nella città: a Rialto, alle Zattere, alle
Fondamente Nove, in Riva degli Schiavoni.
Vale la pena ricordare che listoni esistevano, ed in parte esistono ancora
almeno nel nome, a Belluno, Bergamo, Brescia, Padova, Rovigo, Treviso,
Verona, eccetera... e fuori
del Veneto a Ferrara, Udine, Trieste ed a Scutari (Albania), Zara e Pola
(in Croazia) e nell'isola greca di Corfù dove la via principale continua
a conservare il nome di listòn.
Il listòn più importante fu però quello di piazza San Marco, tra
le Procuratie.
Fu anche quello che durò più a lungo nel tempo, fino alla seconda metà
del Novecento: non c'erano più le dama agghindate che si mettevano in
mostra, lanciando sguardi provocanti a gentiluomini e cicisbei, ma
studenti e studentesse liceali ed universitari.
Non più crinoline, ma minigonne; e gli sguardi rimanevano gli stessi.
Si terminavano i compiti e gli studi scolastici verso le cinque o le sei
del pomeriggio ed il punto di ritrovo era generalmente in campo San
Bortolomio. Ci si raggruppava tra amici e, quando il numero del gruppetto
era adeguato, si cominciava a percorrere le Mercerie e, passando sotto la
Torre dell'Orologio, si continuava fino alle colonne di Marco e Todaro, in
piazzetta; da qui si tornava indietro, e poi di nuovo una vasca
ancora.
Durante le vasche si incontravano e si reincontravano altri amici,
si faceva capannello, il gruppetto s'ingrossava oppure si divideva, ci si
scambiavano chiacchiere, sguardi, ammiccamenti con le ragazze, ci si
metteva d'accordo per cosa fare alla domenica, in casa di uno o
dell'altro.
Era un modo per lanciare messaggi, proposte, parlare, socializzare al di
fuori dei rigidi schemi che imponevano le istituzioni scolastiche.
Nel 1967, per l'ultimo giorno di Carnevale, quando questa festa non era
diventata un "evento" (anzi, stava quasi per scomparire dalla
tradizione popolare veneziana) un gruppo di studenti si presentò al listòn
in maschera: mascheramenti artigianali, chi raffazzonando assieme vecchi
vestiti, chi costruendo modesti, ma originali, travestimenti.
L'uscita provocò reazioni diverse: ci fu chi ironizzò come una bizzarria
studentesca e chi la vide con un divertito interesse. Nessuno, all'epoca,
avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe diventato il Carnevale a Venezia
nel giro di pochi anni.
Tuttavia la necessità, soprattutto per i giovani, di incontrarsi e di
aggregarsi dopo una giornata di studio, non venne mai meno: cambiarono
solo le modalità ed i luoghi, diventando più stanziali tra i tavolini
dei bar o di qualche locale.
Se invece cercavi "lista" vedi la voce precedente.
More veneto
Anticamente l'anno a Venezia non iniziava il 1° gennaio, bensì il 25
marzo: il 25 marzo 421, giorno dell'Annunciazione, era infatti la data
leggendaria della fondazione della città.
In realtà ben presto, per motivi di comodità, il primo giorno dell'anno
veneziano (more veneto, ovvero "secondo il costume
veneto") venne stabilito il 1° marzo.
Non si tratta di una stranezza veneziana, dal momento che fissare il 1°
marzo come data d'inizio del nuovo anno era diffuso tra molti popoli
indoeuropei. Ne abbiamo traccia anche nei nomi di alcuni mesi, come ad
esempio dicembre che è il decimo mese dall'inizio dell'anno a partire da
marzo.
Questo fatto è da tenere presente quando leggiamo dei documenti
veneziani: nelle date comprese dal 1° gennaio a tutto febbraio, bisogna
aggiungere "uno" all'anno indicato per datarli secondo il nostro
calendario.
Spesso, proprio per evitare equivoci, nei documenti troviamo, dopo l'anno,
l'indicazione «m. v.», abbreviazione di «more veneto».
Numeri civici
I visitatori della città spesso rimangono colpiti dai numeri civici sulle
porte delle case: il più delle volte sono numeri a quattro cifre, e non
se ne spiegano la ragione.
Sicuramente anche questa è una unicità di Venezia, ma una volta non era
così.
Questo tipo di numerazione civica venne usata per la prima volta in
epoca napoleonica, quando nel 1811 i francesi effettuarono il primo censimento
catastale inteso in senso moderno.
Ma fu nel 1841 ad essere introdotta sistematicamente dagli austriaci.
Naturalmente non fu fatta solo per Venezia. Le grandi città vennero divise in
zone, in genere quartieri o contrade, ed all'interno di ogni zona tutte le
case vennero numerate cominciando dal numero «1» fino a quando finivano le
case da censire.
A Venezia come macro-area furono scelti i sestieri già esistenti: all'interno di
questi la prima casa ebbe il numero «1» e via via progressivamente fino
al termine delle case di quel sestiere.
Lettere
dell'Ottocento che dimostrano come la numerazione per
quartieri o contrade fosse in vigore in
differenti città: nell'esempio qui sopra Padova (Salizzada del Santo Civico Numero
4030) e Milano (Contrada San Maurilio N° 3417 A).
L'unicità della numerazione
veneziana sta nel fatto che, dopo che nelle altre città la numerazione
civica si adeguò a criteri più moderni, in uso nel resto dell'Europa,
con i numeri ripetuti nelle varie vie iniziando dal numero «1»,
con quelli dispari a sinistra ed i pari a destra (rispetto all'inizio
della strada che convenzionalmente viene stabilito rispetto al centro
cittadino), a Venezia si mantenne la vecchia numerazione di origine
franco-asburgica.
Questo poteva dare luogo a qualche inconveniente: il confine tra due
sestieri è generalmente fissato nei canali e quindi può succedere che
oltrepassando un ponte si possa passare da un sestiere all'altro senza
accorgersene. Per conoscere in quale sestiere ci si trova, esiste un trucco poco
conosciuto: guardare l'illuminazione stradale. Tutti i punti luce pubblici
sono
identificati da una targhetta con una sigla alfanumerica identificativa: i
primi due caratteri, impressi in rosso, identificano il sestiere.
Le sigle sono estremamente semplici: «CN» Cannaregio, «SM»
San Marco, «CS» Castello, «SC» Santa Croce, «SP»
San Polo e «DD» Dorsoduro.
Questo
lampione ci indica che siamo nel sestiere di San Polo.
Numeri
non più utilizzati.
Un
indicatore stradale anomalo (smaltato).
Altri inconvenienti del sistema
della numerazione civica civica veneziana possono essere dati dalla
chiusura di una porta o da qualche nuova costruzione che esige l'apertura
di nuove porte.
Viene sempre mantenuta la numerazione preesistente. Nel primo caso, non è
raro vedere numeri civici dipinti su un muro senza alcuna porta vicina,
oppure sull'architrave di una finestra; significa che quelle porte non
esistono più (demolizioni, ristrutturazioni) oppure che sono state chiuse
e trasformate in finestre.
Nel secondo caso, come accade dappertutto, si aggiunge al numero una
lettera dell'alfabeto (A, B, C, eccetera).
Il sestiere con il maggior numero di indicatori civici è Castello (6828);
seguono Cannaregio (6426), San Marco (5562), Dorsoduro (3964), San Polo
(3144) e Santa Croce (2359). Le isole hanno una numerazione a parte e
Sant'Elena, sviluppatasi come quartiere residenziale a partire dal 1925, ha
una numerazione tradizionale, suddivisa per vie.
Indico, per curiosità, dove si trovano i numeri «1» nei vari
sestieri:
I
numeri «1» nei vari sestieri
Cannaregio
1-17
non più esistenti (n. 18 in Fondamenta S. Lucia)
San
Marco
Palazzo
Ducale
Castello
Fondamenta
Quintavalle
Santa
Croce
Ponte
di San Pantalon
San
Polo
Ruga
degli Oresi (palazzo dei Camerlenghi)
Dorsoduro
Campo
della Salute (Seminario patriarcale)
Piazza
A Venezia un unico campo si chiama "piazza": Piazza
San Marco. (per la precisione, una vecchia scritta stradale ottocentesca
posta sulle Procuratie Nuove, poco leggibile a causa dei depositi di
polvere e sporco che si sono sovrapposti, indica «PIAZZA DI SAN
MARCO»).
A Venezia quando si dice "piazza", si intende San Marco e basta.
Piscina
Prima che la città trovasse una propria configurazione urbanistica
sviluppata, era
formata solo da isolotti separati da canali e spazi acquei su cui andavano
sorgendo le prime costruzioni.
Man mano che veniva consolidata, potevano formarsi delle sacche di acqua
paludosa, le quali non costituivano inizialmente un problema, sia perché
la vita ed i traffici si svolgevano prevalentemente sull'acqua, sia
perché queste pozze potevano servire per la pesca e per esercitare i
fanciulli al nuoto.
Venivano chiamate piscine, lacus, piscariae, fosse.
Con lo sviluppo edilizio e la necessità di nuovi spazi su cui
edificare, questi bacini d'acqua vennero bonificati ed interrati a cura
dei Capi dei Sestieri, anche per evitare cattivi odori e la prolificazione
di zanzare ed insalubrità.
Per evitare abusi, nel 1288 il Maggior Consiglio decretò che le piscine
interrate rimanessero ad uso pubblico. Trasformate così in campi, o altri
spazi aperti, mantennero tuttavia il nome originario di piscina.
Di alcune rimane ancora il nome: piscina di San Samuele (interrata nel
1289), piscina di San Moisè (interrata nel 1148); di altre solo la
memoria storica, come la piscina di San Cassiano (interrata nel 1185), la
piscina di Sant'Agostin (interrata nel 1204), il lacus badoarius
(interrato nella prima metà del XIII secolo per far erigere la chiesa di
Santa Maria Gloriosa dei Frari) e molte altre.
Un ponte diritto senza
spallette alla Ca' di Dio.
Un
ponte arcuato ed un ponticello diritto (privato), entrambi senza spallette,
ai Gesuati.
Un ponte in pietra con
spallette: il Ponte della Paglia sul Rio di Palazzo (Riva degli
Schiavoni).
Ponte e ponti storti
In origine, in una città dove la vita si svolgeva sull'acqua, e d'acqua
erano anche le vie di comunicazione, non si dovette sentire l'esigenza di
gettare ponti da una sponda all'altra di un canale o di un rio. Bastava
una barchetta.
Con l'aumento della popolazione e con il conseguente incremento del
traffico pedonale, sembrò comodo accostare delle tavole da una riva
all'altra: nascevano così i primi ponti.
In genere non erano arcuati e sui rii principali erano anche amovibili,
per permettere il passaggio di barche con l'alberatura.
Lo stesso ponte di Rialto, prima che venisse edificato in pietra negli
anni 1588-91, era levatoio ed in legno ed agli inizi era addirittura
galleggiante, formato da barche o chiatte su cui erano posate delle tavole
di legno (e si pagava un pedaggio per tale comodità di attraversamento
del Canal Grande).
Il gran numero di ponti storti (ovvero ponti messi diagonalmente
rispetto al rio che oltrepassano) dimostra che la costruzione di questi
ponti fu tarda, posteriore al definitivo assetto urbanistico delle tante insulae
che formavano la città: da una viabilità pedonale di un'insula,
dovendo passare all'altra, si usava la barca. Ma quando si decise di
costruire un ponte per congiungere le due rive, non era detto che la
viabilità (calle) di un'insula corrispondesse a quella dell'insula
opposta da raggiungere. In questi casi il ponte veniva costruito di
traverso (storto), per unire una calle all'altra sulla riva opposta che
però era spostata anche di diversi metri.
Ponte
diritto senza spallette: le due campate si incontrano sul Rio
de le Becarie a Sant'Aponal formando un angolo ottuso: per
questo è detto (anche oggi che è in pietra) "Ponte
Storto".
Nella rappresentazione di Venezia fatta a volo d'uccello da Jacopo de'
Barbari, che mostra la città nell'anno 1500, sono distinguibili 253
ponti. Ovviamente non sono tutti i ponti di Venezia, perché per motivi di
prospettiva molti non sono visibili.
Nel 1581 Francesco Sansovino (1521-1586) scrive che i ponti di Venezia, alla metà del secolo precedente,
erano 450.
Nella pianta iconografica di Vincenzo Coronelli, edita nel 1697, si
contano 462 ponti.
Tiziano Rizzo ("I ponti di Venezia", Newton Compton, Roma 1983)
ne contava esistenti 409.
Non volendo mettere in dubbio la precisione di questi numeri, osserviamo
solo che la diminuzione dei ponti può essere addebitata all'interramento
di numerosi rii che, evidentemente, ha comportato l'abbattimento di ponti
divenuti inutili.
I ponti mostrati nelle immagini sono tratti dalla veduta di Venezia a volo
d'uccello di Jacopo de' Barbari riferibile all'anno 1500.
Ramo
Francesco Berlan (1821-1876) lo definisce come una piccola calle che si
dirama da una maggiore e si espande come rami d'albero.
Spesso un ramo è una calle senza sbocco.
Rio
Dal latino rivus, è il canale veneziano che percorre, intersecandola,
Venezia. Troviamo documentato questo termine a partire dall'XI secolo.
In origine, e per molti secoli, i rii sono stati le strade della città: ci
si muoveva in barca per questi canali, si costruivano le case il più possibile
vicine ad essi e l'ingresso principale degli edifici era volto all'acqua. Gli spazi
liberi dietro le case, quelli che oggi sono i campi e le calli,
costituivano delle specie di parti comuni dove si stendeva la biancheria,
si mettevano ad asciugare le reti, si facevano lavori all'aperto, si
coltivavano orti.
Con la crescita d'importanza della viabilità pedonale, ma anche per
motivi di igiene pubblica, molti rii sono
stati modificati ed addirittura interrati (vedi rio terà)
Oggi si contano circa 150 rii a Venezia. L'ultimo ad essere stato aperto
è stato il Rio de la Crea, a Cannaregio, nel 1998, per agevolare il defluire con la marea
delle acque dei rii più interni.
Rio terà (anche rio terrà)
Scriveva Giuseppe Tassini (1827-1899): «Specialmente in questi ultimi
tempi (e forse con troppa frequenza) s'interrarono molti rivi, e le strade
che ne risultarono presero il nome di "Rio Terrà"».
Che significa, appunto, rio interrato.
L'ultimo rio ad essere stato interrato è stato il Rio dell'Isola, a San
Giacomo dell'Orio, nel 1968.
Riva
A parte un certo limitato numero di casi in cui con questa parola a
Venezia si indicano alcune fondamenta,
in genere per "riva" si intende un manufatto progettato e
costruito sull'acqua per favorire l'imbarco o lo sbarco di persone e cose.
E' caratterizzato dalla presenza di alcuni gradini che scendono verso
l'acqua: lo possiamo trovare lungo una fondamenta,
davanti al portone di
un palazzo, alla fine di una calle o a fianco di un ponte dove spesso è chiamato anche rivetta
Rivetta
Diminutivo di riva ed indica spesso
solo uno o più scalini che scendono verso l'acqua in uno spazio limitato,
come quello che può esserci tra un ponte ed una casa, oppure al termine
di una calle stretta che sfocia in un rio.
Ruga
Non possiamo concordare con quanto scrive Giuseppe Tassini (1827-1899) che
farebbe derivare il termine "ruga" dal francese rue,
definendola come una strada fiancheggiata da case e botteghe.
Il Tassini ritiene che «...allorquando Venezia era soltanto in parte
abitata, acquistassero tale denominazione quei siti in cui (...) si fecero
file di case, e righe per ogni parte».
Basta osservare la complessa realtà delle strade veneziane per ritenere
fantasiosa l'idea del Tassini della costruzione di case in file e righe!
Siamo convinti che, lasciando il francese ai francesi, sia più corretto
ritenere che la parola ruga indichi proprio una ruga: non della pelle, ma
una ruga, un rilievo, un solco compatto del terreno di qualcuno di quegli
isolotti sui quali stava sorgendo la città. Un solco lungo il quale si
preferiva camminare perché il suolo era più solido, compatto e meno esposto
all'azione delle maree.
Sacca
Per sacca si intende il luogo dove l'acqua della laguna si insinua
largamente nel tessuto urbanistico della città formando quasi una rada,
un "golfo".
Anticamente erano piuttosto numerose, poi, per la necessità di rubare
spazio all'acqua per costruire nuovi insediamenti, vennero interrate.
Esiste un decreto del Senato veneziano del 3 dicembre 1460 che permise
questa operazione, che poi continuò nei secoli successivi.
Nel 1675 risulta che vennero interrate 12 sacche.
Oggi ne rimangono poche, come la Sacca della Misericordia, che è stata
adibita a darsena con la capacità di circa 250 posti barca e che qui
vediamo in una immagine catturata da Google e nella pianta a volo d'uccello di Jacopo de Barbari
(1500).
Salizzada
Oggi designa una strada principale, in genere più larga delle altre, ma
in origine indicava semplicemente la strada lastricata.
Inizialmente le strade veneziane erano in terra battuta e potevano essere
percorse anche a cavallo. Le donne veneziane, per evitare di affondare nel
fango, indossavano degli alti zoccoli che, in seguito, ma solo per farsi
notare, divennero altissimi (anche 50 centimetri!); questi furono proibiti
nel 1409.
Solo successivamente (ne abbiamo notizia nel 1264) si cominciò a
lastricare le vie: dapprima usando mattoni in piano o di taglio, a corsi
diversi o a spina di pesce (qui a sinistra un antico esempio di mattoni in
piano disposti "a canestro" a Rialto, sotto invece mattoni di
taglio disposti "a spina di pesce" a San Giovanni Evangelista), poi nel 1676 per opera del Proveditor de Comun
Antonio Grimani con lastre o masegni che venivano chiamati salizoni.
Ovviamente si cominciò dai percorsi principali e di maggior utilizzo. A
questi soprattutto restò l'appellativo di salizzada.
Giuseppe Boerio (1754-1832) nel suo "Dizionario del dialetto
veneziano" (seconda edizione del 1856) definisce il salizo
come «Seliciato o Selciato, Pavimento di strada» e sulla salizada
scrive: «La voce nostra vernacola vale per istrada lastricata, ed ebbe
origine da qualche prima strada interna di Venezia che fu lastricata, e
che da Salizo fu detta Salizada».
Scuola
Le antiche Scuole a Venezia, alcune delle quali sopravvivono ancora, altre
hanno comunque lasciato tracce importanti nell'edilizia e nella
toponomastica cittadina, non hanno nulla a che vedere con le scuole
d'istruzione del nostro ordinamento scolastico.
Le Scuole erano delle libere associazioni (possiamo paragonarle a delle
Confraternite) che radunavano borghesi uniti da un interesse comune.
Questo interesse, con il quale possiamo distinguere a grandi linee tre
gruppi di Scuole, poteva essere di tipo professionale, di tipo caritativo
e di tipo confessionale o religioso. Abbiamo quindi Scuole che radunavano tutti coloro che
esercitavano una specifica arte o mestiere (sul
genere delle corporazioni) con scopi di mutua assistenza, quelle con fini caritatevoli, quelle
con fini prevalentemente di preghiera e di adorazione.
Pur non aderendovi la classe del patriziato, erano ben viste e sostenute
dalle autorità veneziane perché, di fatto, su di esse si fondava il welfare
della Repubblica: Francesco Sansovino (1521-1586) poteva scrivere che non
vi fosse veneziano che non fosse in contatto con almeno una Scuola
(all'inizio del Cinquecento ve ne erano almeno duecento).
Le Scuole operavano sotto il controllo della Repubblica che ne approvava
la mariegola (la regola madre, ovvero statuto), avevano una sede
(che poteva essere semplicemente l'altare in una chiesa oppure una sede
prestigiosa per le più ricche, come la Scuola Grande di San Rocco o la
Scuola Grande di San Marco), erano governate da un Gastaldo (o Guardiano)
eletto da un'assemblea alla quale era sempre presente un funzionario del
Governo per verificarne la regolarità di svolgimento.
Sechèra (anchesecchèra)
Giuseppe Tassini (1827-1899) dice che così si chiamano «...quei luoghi
che, venendo coperti dall'acqua al momento del flusso marino, ne restano
asciutti al momento del riflusso».
Analogamente Giuseppe Boerio (1754-1832): «Luogo scoperto dall'acqua
di mare o con poca acqua. Col nostro vocabolo vernacolo noi intendiamo
certi siti paludosi che rade volte sono ricoperti dall'acqua...».
Sestieri "de citra": Cannaregio,
San
Marco, Castello.
Sestieri "de ultra":
Santa Croce, San Polo,
Dorsoduro.
Sestiere
La suddivisione interna di una città in genere viene chiamata quartiere.
Il termine ha origini romane, allorquando questi fondavano le loro città
divise dal cardo e dal decumano che si incrociavano in quattro settori
(quartieri).
Venezia è invece divisa in sei zone (sestieri), delimitate dalla
configurazione delle insulae e quindi dei canali.
Non è certo quando avvenne questa suddivisione: Giuseppe Tassini
(1827-1899) riporta senza commentare: «...L'istituzione dei sestieri
è dovuta, secondo alcuni, al doge Partecipazio [(810-827) - N.d.R.],
appena trasportata la sede ducale in Rialto; secondo altri, al doge
Domenico Morosini [(1148-1156) - N.d.R.], oppure Vitale Michiel II
[(1156-1172) - N.d.R.], quando per la prima volta s'imposero gl'imprestadi
[prestiti obbligatori - N.d.R.].»
Oggi si è propensi ad indicare nell'anno 1171 la divisione della città
in sestieri, ad opera del Doge Vitale Michiel II. E la divisione fu fatta
per motivi di tasse! Infatti per allestire la flotta per una spedizione
punitiva contro l'Imperatore di Bisanzio Emanuele Conmero (1143-1180) fu
necessario allestire una flotta di centocinquanta navi. Per contribuire
alle spese, venne imposta ai cittadini veneziani una tassa straordinaria.
La magistratura designata a riscuotere le tasse (gli Imprestidi) divise la
città in sei zone per poter meglio e più agevolmente verificare le
disponibilità economiche di ciascun abitante.
Per altri l'istituzione dei sestieri sarebbe avvenuta sotto il Doge
successivo, Sebastiano Ziani (1172-1178).
I sei sestieri sono separati dal Canal Grande, tre per lato. Quelli al di
qua del Canal Grande (dalla sessa parte dove c'è il palazzo del Doge), detti "de
qua de l'acqua", o de citra, sono Cannaregio, San Marco e
Castello; quelli al di là del Canal Grande (rispetto al
palazzo del Doge), detti "de là de l'acqua", o de ultra,
sono Cannaregio, San Marco e Castello.
Tra loro i sestieri sono separati generalmente da un rio e
pertanto è facile, senza accorgersi, solo percorrendo un ponte, trovarsi
in un sestiere diverso. Qui suggeriamo un trucco per
sapere sempre in quale sestiere ci si trovi.
Da ciascun sestiere proveniva uno dei sei consiglieri che facevano parte
della Serenissima Signoria.
Sottoportico
In veneziano sotopòrtego.
Si tratta per lo più di passaggio pubblico della via sotto un edificio.
Spesso i sottoportici sono nati dall'esproprio di uno o più locali del
piano terra di una casa per permettere il transito da una calle all'altra.
In altri casi possono nascere dalla necessità di allargare una calle
stretta in un luogo di forte passaggio pedonale, come nel caso del sotopòrtego della Madoneta, a San Polo, che venne ottenuto nel 1927
mediante l'esproprio da parte del Comune di Venezia di piani terra per
allargare il passaggio verso Rialto della stretta Calle della Madoneta.
Altri sotopòrteghi invece in origine costituivano l'ingresso ad un
palazzo o al suo cortile: non di rado si vedono ancora sugli stipiti di
questi sottoportici i segni dei gangheri sui quali si agganciavano i
cardini del portone o del cancello.
A fianco due immagini di un sotopòrtego a Rialto ottenuto per esproprio
di un locale al piano terra di una casa: da lontano appare come l'ingresso ad una abitazione (ha ancora il numero civico sull'architrave),
ma quando vi si è di fronte si vede il passaggio nell'altra calle: «a
comodo del popolo» si diceva una volta, oggi si direbbe per pubblica
utilità.
Strada
Solo una calle a Venezia si chiama strada: la Strada Nova (che poi in
origine, nel 1867, venne intitolata "via Vittorio Emanuele",
dopo l'8 settembre 1943 per il "tradimento" del Re fu dedicata
al gerarca fascista Ettore Muti, morto il 23 agosto di quell'anno, nel
dopoguerra venne chiamata "Via XXV Aprile", giorno della
liberazione per poi prendere ufficialmente il nome popolare con cui tutti
la chiamavano, semplicemente "Strada Nova", strada nuova).
Via
Sono due le calli di Venezia che si chiamano via.
La prima è via Garibaldi. In
origine, nel 1807, si chiamava via Eugenia, in onore di Eugène
Beauharnais, Viceré d'Italia, poi venne chiamata anche Strada dei
Giardini, quindi Strada Garibaldi prima di divenire definitivamente via Garibaldi
La seconda è via XXII Marzo. Progettata, di massima,
in epoca napoleonica ma realizzata solo nel 1881 fu intitolata alla data
dell'insurrezione di Venezia contro gli austriaci del 1848.