A Sant'Alvise.
I frati francescani della più stretta osservanza, detti comunemente
Riformati, nel 1594 ebbero assegnato da Papa Clemente VIII (1536-1605) il
monastero nell'isola di San Francesco del Deserto.
In sedici erano stati destinati in quel luogo che, a torto o a ragione,
magari esagerando un po', era stato da loro definito insalubre per la
nocività dell'aria: «...benché l'intemperie dell'aria, massimamente
ne' bollori estivi, fosse estremamente nociva, e bene spesso mortale».
La
calle dei Riformati: la calle correttamente si chiama solo dei
Riformati perché il Bersaglio si trova oltre il ponte in
fondo (ponte di San Bonaventura) in corrispondenza della
fondamenta che ha preso i due nomi, "dei Riformati o del
Bersaglio".
Con l'intervento del Patriarca Matteo Zane (patriarca dal 1600 al 1605)
ottennero di trasferirsi a Murano, ma anche lì c'erano delle difficoltà
dovute anche al fatto che quasi tutti i frati erano di età assai
avanzata.
Così si rivolsero al Senato supplicandolo di potersi fabbricare a Venezia
«...un Nido, e Ridotto, ove [...] esercitar li divini Uffizj».
Così il Senato il 21 dicembre 1602 consentì loro di costruire una
piccola chiesa con annesso monastero su un terreno loro assegnato a San Nicolò
dei Mendicoli.
In questo luogo i frati riformati vissero per 12 anni: infatti ebbero
l'opportunità di avere uno spazio con orto «...contiguo al luogo dove
s'esercitano i Bombisti nel maneggio dell'Artiglierie, chiamato Bersaglio...»
che occuparono dal 1° dicembre 1620. Il 26 febbraio del 1621 i frati riformati ottennero dal Patriarca Giovanni
Tiepolo (patriarca dal 1619 al 1631) il permesso di fondare il nuovo convento.
Il terreno, che apparteneva alla famiglia Zen, venne acquistato grazie ad
elemosine e donazioni, prime fra tutte quelle cospicue delle famiglie
Distusi e Stella; poi in breve tempo poterono completare la
costruzione del monastero e della chiesa che venne consacrata il 23
ottobre 1623 dedicandola a San Bonaventura da Bagnoregio.
La
fondamenta dei Riformati o del Bersaglio, a Sant'Alvise.
Oratorio
dell'Ospizio Falier con portale rinascimentale (inizi del XVI
secolo) proveniente dal
demolito palazzo Donà.
La
chiesa, ad una sola navata, era di modeste dimensioni ed anche le opere
che custodiva, con una massiccia presenza di soggetti francescani, non
erano delle più prestigiose: Odoardo Fialetti (1573-1638), Girolamo
Pilotti (XVII secolo), Matteo Ingoli (1586/7-1631), Leandro Bassano
(1557-1622), Pietro Mera (1575 circa-1645 circa); gli autori più rinomati
che lasciarono dei propri lavori qui furono Domenico Tintoretto
(1560-1635) e Giandomenico Tiepolo (1727-1804): il primo dipinse la pala
dell'altare maggiore (una Madonna con Bambino e San Bonaventura) ed un
quadro, posto dietro l'altare maggiore, con una Crocifissione con la Madonna, San
Giovanni e le Marie; il secondo una Santa Margherita da Cortona davanti
alla Croce.
Lungo, come d'abitudine, l'elenco delle reliquie che si conservavano in
questa chiesa: «Di Reliquie v'hanno del Legno della Santa Croce, parte
d'un dito di S. Pasquale Baylon, un Dente mascellare di S. Bernardino da
Siena, porzione d'una Costa di Sant'Antonio di Padova, dell'ossa de' Santi
Apostoli Pietro e Paolo, di San Bonaventura, di Santa Maria Maddalena, di
San Liborio, di Sant'Anna, e di San Pietro d'Alcantara».
Oltre a queste conclamate reliquie, nella chiesa era stato sepolto il Doge
Carlo Contarini (1580-1656), la moglie Paolina Loredan ed altri membri
della famiglia
Alla fine del XVII secolo il monastero ospitava quaranta frati.
Una
mensola ed un mascherone, chiavi di volta cinquecentesche di due porte private
in fondamenta dei Riformati o del Bersaglio: possibili resti
lapidei del demolito palazzo Donà.
A seguito delle soppressioni napoleoniche del 1810 chiesa e convento furono chiusi, sull'area venne costruito un capannone, le opere d'arte
furono disperse, compresi i resti del Doge Carlo
Contarini e dei suoi familiari.
Di alcuni dei quadri conosciamo le destinazioni, ma non di tutti sappiamo se
effettivamente le raggiunsero o si arenarono nelle botteghe di qualche
antiquario senza scrupoli: una Santa Chiara ebbe destinazione L'viv (Leopoli,
oggi in Ucraina), un Sant'Antonio ed un San Pietro «...di autore
incerto...» furono assegnati alla chiesa di Selva del Montello, un
quadro di Leandro Bassano fu dato in deposito alla chiesa dei Santi
Giovanni e Paolo a Venezia, dove però non si trova più, mentre una Madonna con
i Santi fu destinata a Zoppola, oggi in provincia di Pordenone.
La tiepolesca Santa Margherita di Cortona «...che esisteva su un
altarino ai Riformati», il 10 ottobre 1811 fu venduta per 24 lire al
sacerdote Paolo Cerri, vicario della vicina chiesa di Sant'Alvise. Nel
1829, quando i pochi frati minori tornati a Venezia si insediarono
nell'isola di San Michele, don Cerri donò loro la tela.
Nel 1859 la contessa Paolina Giustiniani Recanati, vedova Malipiero,
acquistò quello che restava del complesso per destinarlo a monastero delle
Carmelitane Scalze, monastero che venne fondato nel 1875 e che sussiste
tutt'oggi.
Il
campanello del monastero delle Carmelitane Scalze in
fondamenta dei Riformati o del Bersaglio.
In fondamenta dei Riformati o del Bersaglio, a seguito del testamento
redatto il 30 ottobre 1522 da Marco Falier, venne fondato un ospizio
composto da dieci casette (poi ridotte nel tempo a sei) destinate ad
ospitare famiglie povere ed indigenti.
Le casette erano disposte lungo la fondamenta ed in parte anche
sull'attuale calle del Capitello
Con il testamento, il Falier nominava anche i primi due commissari che
avrebbero dovuto vigilare sul lascito gestendone il patrimonio.
L'ospizio Falier effettivamente era molto ricco ed aveva incrementato le
proprie proprietà acquisendo case in altre zone di Venezia e fondi anche
nella terraferma, a Roncade ed a Gressana di Cologna che nel 1647
garantivano un buon reddito. Poi però queste proprietà vennero vendute e anche alcune
case vennero alienate o demolite. I ricavati furono poi
depositati nella Zecca.
Le casette venivano assegnate amore Dei dai Procuratori di San Marco de
Supra.
Nel 1707 Marco Michiel, che era stato nominato commissario, qualificandosi
come esecutore testamentario del Falier concedeva
direttamente alcune case a delle famiglie ponendo l'obbligo che vi
abitassero direttamente e si occupassero della manutenzione. Queste
famiglie cominciarono a trasmettersi di padre in figlio il diritto di
abitarvi.
E così una casa di proprietà dell'Ospizio che si trovava a Santa Croce,
in Riva de Biasio, veniva gestita direttamente da uno Zen, anch'egli in
realtà solo commissario. Così il popolino pensava che le casette
fossero un'opera caritatevole della famiglia Michiel, ovvero, per quella
di Santa Croce, della
famiglia Zen.
Una
pietra, in origine un architrave di porta (è ancora visibile
la numerazione in cifre romane) usata per consolidare un muro.
La ricchezza della donazione, come spesso accade, fece a gola a molti che
male la gestirono.
Una relazione redatta nel dicembre 1891 che ripercorreva la storia
dell'ospizio, oltre a denunciare questa pessima amministrazione che aveva
avuto nel passato, faceva notare l'incongruenza di pretendere, da parte
dei Procuratori di San Marco, che i beneficiari fossero obbligati di
mantenere le case «in conzo e colmo e di migliorarle». Questa
clausola non appariva nel testamento di Marco Falier e d'altra parte appare un
controsenso obbligare manutenzioni e migliorie per le case a persone che
dovevano essere povere!
Esiste presso l'archivio dell'I.R.E. di Venezia una relazione, stilata in
data 16 marzo 1908, sullo stato dell'ospizio a quella data: le casette, di
limitate dimensioni, erano composte da un piano terra con pavimento in
mattoni e da un primo piano con pavimento in tavole di legno; nel
complesso si trovavano in una situazione critica.
Il giorno di Pasqua del 1641 (31 marzo) un tale Alvise Paruta rapì in fondamenta dei
Riformati o del Bersaglio una certa Lucia Gerardi che stava uscendo dalla
chiesa di San Bonaventura assieme a suo padre.
Il rapitore venne immediatamente condannato il 3 aprile e colpito da
bando. Solo cinque anni più tardi, nel 1646, ottenne la grazia.
Dietro le case che delimitano la fondamenta dei Riformati o del Bersaglio
esistono ancora oggi ampi spazi di verde con orti e giardini che si
spingono fino alla laguna, con alcune costruzioni
(depositi, capannoni, ex area CIGA, eccetera).
Dopo la demolizione di palazzo Donà, avvenuta nel 1823, il suo giardino
venne adattato ai gusti romantici dell'epoca ai quali piaceva, ad esempio,
la costruzione di finti resti archeologici, magari utilizzando anche
qualche elemento architettonico proveniente dal palazzo distrutto.
Alcuni
finti ruderi nell'ex giardino di palazzo Donà rispecchiano il
gusto romantico ottocentesco.
Quell'area è oggi uno spazio pubblico al quale si accede dalla
vicina calle
del Capitello.
Il
luogo del Bersaglio nella pianta di Venezia disegnata nel 1696 da
Giovanni Merlo (notare il vessillo di San Marco).
La
seconda denominazione (del Bersaglio), che spetta solo alla fondamenta e
non alla calle deriva dalla presenza di un luogo adibito al tiro al
bersaglio con le bombarde.
Il luogo del Bersaglio
nella pianta di Venezia disegnata nel 1729 da Lodovico Ughi.
Una cornice cinquecentesca
presso l'ingresso al Bersaglio in fondamenta dei Riformati o del
Bersaglio: in basso, al centro, lo stemma della famiglia Michiel
affiancato dalle iniziali «L M».
Non
era l'unico luogo a Venezia dove ci si poteva allenare nel tiro al
bersaglio: già nel 1229 sono documentati alcuni tiri al bersaglio in vari
luoghi della città, dove la gente poteva esercitarsi. Erano dei veri e
propri antesignani dei poligoni di tiro, forse i primi al mondo di cui si
ha certezza.
Nel 1299, su ordine del Doge Pietro Gradenigo (1250-1311) fu approntato un
bersaglio a San Nicolò del Lido dove si sarebbero dovuti allenare nel
tiro con la balestra tanto i nobili che i cittadini: pena, il pagamento di
una multa in danaro. I nobili erano obbligati a tirare al bersaglio una
volta alla settimana prima del vespro, sotto la pena del pagamento di due
grossi; il popolo, se saltava l'esercitazione settimanale, era soggetto
invece ad una multa dimezzata (un grosso).
Nel 1304 i Provveditori all'Arsenale nominarono tre nobili affinché «...faciant
brisalia in illis locis quibus erant, praeterquam in Sancto Marco».
Gli
stemmi dei tre nobili al bersaglio di Sant'Alvise: da sinistra
a destra, gli stemmi Cappello, Gradenigo e Pisani; sotto
l'anno «M · D · LXXXVI».
Sulla fondamenta dei Riformati o del Bersaglio, dove una volta c'era
l'ingresso al Bersaglio di Sant'Alvise, sono ancora visibili alcuni stemmi
di questi nobili nominati dai Provveditori all'Arsenale per l'anno 1586: i
nomi sono indicati con un'iniziale, ma lo stemma ci aiuta ad individuare
le famiglie di appartenenza.
Sa sinistra a destra sono «L C» (Cappello), «V G»
(Gradenigo) e «Z P» (Pisani).
Accanto c'è una cornice marmorea cinquecentesca (vuota) con, in basso, lo stemma
della famiglia Michiel affiancato dalle iniziali «L M».
Da un documento del 1440 veniamo a sapere che in quell'anno esistevano
pubblici bersagli, oltre a quello citato di San Nicolò del Lido ed a
questo di Sant'Alvise, a San Zanipolo (Santi Giovanni e Paolo), a San
Vidal, a San Polo e San Tomà.
Ed ancora: nel 1314 ci si poteva esercitare al tiro con la balestra, sotto
il
controllo di un capo (oggi potremo pensare ad un istruttore) nei bersagli della Giudecca, di San Vidal, Barbaria
dele Tole, San Geremia, San Giacomo da l'Orio, Santa Margherita, San
Francesco della Vigna, San Maurizio e Sant'Agnese.
Tutti a Venezia, qualunque fosse il loro ceto sociale, dovevano saper
tirare di balestra ed ogni nave mercantile veneziana doveva imbarcare
almeno quattro balestrieri.
Il 9 gennaio 1578 more veneto (quindi corrispondente al nostro
1579) il Senato autorizzò i Savi ed Esecutori alle Acque ad una spesa di
mille ducati (da prelevare dalla cassa delle decime delle miniere) per
costruire tutto attorno al Bersaglio una «...fondamenta di pietra viva»,
cioè una riva.
Si racconta che nel 1609 un frate riformato di San Bonaventura stesse
preparando nel Bersaglio alcuni fuochi artificiali, ma qualcosa non
funzionò e così restò bruciato.
L'episodio è riferito anche nei "Commemoriali" del Gradenigo,
ma sotto la data del 12 novembre 1686, che ci dice anche il nome dello
sventurato frate: fra' Paolo Savojardo.
Nel Bersaglio, in tempo di quaresima, si praticava tra i
giovani patrizi un particolare gioco del calcio: le due squadre erano
schierate su campi opposti dove al centro era stato costruito un portone,
o arco, di legno oltre il quale veniva lanciato un pallone. I giocatori
cercavano di impadronirsi del pallone potendolo toccare con i piedi,
affrontandosi solo col corpo e con le spalle mentre le braccia, che non
potevano essere usate, dovevano essere tenute unite ai fianchi.
Per
l'occasione i giovani indossavano dei camiciotti senza maniche ed in testa
portavano dei berretti piumati.
Ed alla fine della Repubblica, cosa avvenne del Bersaglio di Sant'Alvise?
Venne mantenuto anche dagli austriaci, che lo usarono per esercizi di
artiglieria.
Verso la fine dell'Ottocento lo spazio occupato dal Bersaglio di Sant'Alvise
venne in parte occupato per la realizzazione di un ospedale pediatrico
che, nel 1901, venne dedicato al Re Umberto I, assassinato a Monza l'anno
prima.
Oggi l'ospedale pediatrico non esiste più ed in quegli spazi hanno trovato
sede alcune cooperative e/o associazioni.