Un
viaggio che ci porta a conoscere le antiche civiltà che hanno abitato il
Perù ed a percorrere un tratto del "camino real", una delle
antiche strade incaiche che collegavano tra loro tutti i maggiori centri
precolombiani. Ma non c'è solo archeologia e storia, ma anche natura,
gente, paesaggi dal livello del mare alle cordigliere per
ridiscendere verso la selva amazzonica.
Viaggio
effettuato nel luglio-agosto 1981
In
ricordo di Luigi Belli.
La partenza nella notte da Madrid del volo
dell'Avianca, con
la complicità dei fusi orari, ci fa arrivare a Bogotà alle sei e mezza
del mattino. Abbiamo così la possibilità di fermarci nella capitale
colombiana per tutto il giorno, avendo il volo AeroPerù per Lima, nostra
destinazione finale, solo alle 21.30.
E' dunque un'occasione da non lasciarci perdere, quella di farci un
piccolo tour per Bogotà, più attraente di starcene per dodici ore
nell'area transiti dell'aeroporto.
Raggiungiamo così il centro della città, situata a 2.650 metri d'altezza
in una grande conca verde ai piedi della Cordigliera orientale. E'
impossibile perdersi: le strade parallele alla montagna si chiamano carreras
e sono numerate progressivamente ad iniziare dalle prime pendici, le vie
perpendicolari che le incrociano invece sono chiamate calles,
ugualmente numerate e divise tra nord e sud a partire dal centro della
città.
A nord ci sono i quartieri residenziali con belle ville nascoste nel verde,
a sud chilometri di piccole case di mattoni; in mezzo, per due o tre
chilometri, c'è il quartiere degli affari, con grattacieli, negozi di
ogni genere, una moltitudine di piccoli caffè dove si trovano panini
caldi al formaggio e saporiti succhi di frutta fresca, pasticcerie con
dolci e torte gigantesche bianche e rosa, venditori ambulanti di biglietti
della lotteria e di sigarette, bancarelle della frutta. Tra questa
umanità, tra la settima e la tredicesima carrera, si
concentrano i più bei tesori di Bogotà.
E la prima visita non può essere altro che per il tesoro più
eccezionale, il Museo del Oro.
La prima importante
acquisizione del Banco de la República avvenne il 22 dicembre 1939:
un vaso Quimbaya. E' con questo acquisto che si fa coincidere la
nascita del Museo del Oro di Bogotà.
Questa foto, riprodotta su un vecchio biglietto da visita, è
probabilmente la foto più antica che possediamo di questo oggetto
colombiano di epoca preispanica.
Una
"orejera" della cultura Zenú (150 a.C.-1600 d.C.)
proveniente dal Rio Sinú, Cordoba. Misura cm. 5,4 x 10,3. Immagine
elaborata da una foto tratta dalle pagine dedicate al Museo del Oro
nel sito del Banco de la República.
Con la conquista di queste terre, accecati dal mito dell'El Dorado,
i conquistadores avevano fatto man bassa di tutto ciò
che luccicava.
Quello che non avevano trovato erano oggetti d'oro nascosti
in sepolture o dispersi nei campi. Ed un altro scempio veniva compiuto: i
poveri contadini che trovavano qualche manufatto d'oro coltivando i campi,
per prendere un po' di danaro lo portavano in banca e ricevevano in cambio
un equivalente per il peso dell'oro.
Apro una parentesi per ricordare che
ancora oggi, in certe aree della
Colombia, nelle banche è presente uno sportello appositamente attrezzato
per ricevere conferimenti in oro che viene subito analizzato al momento
per saggiarne la qualità. Si tratta di zone dove è possibile trovare
pagliuzze d'oro nei fiumi e dove esistono ancora i mitici cercatori d'oro.
Fino agli inizi del Novecento gran parte dei reperti d'oro che venivano
trovati andavano a finire fusi per essere ridotti in lingotti d'oro,
oppure non veniva data loro importanza e venivano accaparrati da mercanti
e trafficanti che li riversavano soprattutto sui mercati europei del
collezionismo e dell'antiquariato.
Mancava una mentalità conservativa, non ci si rendeva ancora
perfettamente conto che si trattava di preservare la memoria storica delle
proprie origini.
La svolta che si considera decisiva per l'istituzione del primo nucleo di
quello che sarebbe diventato il Museo del Oro fu l'acquisto,
avvenuto il 22 dicembre 1939, di un oggetto d'oro del peso di 777,7
grammi, alto 23,5 centimetri, da parte del Banco de la República: si
trattava di un vaso della cultura Quimbaya. Precedentemente,
tra il 1936 ed il 1937, la banca aveva acquistato altri 14 oggetti d'oro
anche se di qualità e dimensioni inferiori.
Intanto a livello governativo venivano promulgate le prime disposizioni in
materia di salvaguardia dei beni culturali ed il Banco de la República,
accogliendo l'invito del Governo, si
assunse il compito di raccogliere, catalogare, inventariare e studiare
questo patrimonio aureo.
Negli anni Quaranta ci furono nuove acquisizioni che ampliarono la
collezione; i pezzi più importanti erano stati collocati in vetrinette
ospitate nella sala delle riunioni del Consiglio di Amministrazione della
Banca, poi in una elegante sala del palazzo Pedro Á. Lopez, sede della
Banca nel centro di Bogotà.
Il Museo del Oro non era ancora un'esposizione pubblica, ma una
specie di collezione privata della Banca: tra il 1944 ed il 1959 vi
accedevano solo personalità, Capi di Stato, membri di missioni
commerciali, diplomatici, studiosi ed invitati speciali.
Nel 1958 il Banco de la República si trasferì in un nuovo
edificio costruito su un terreno dove prima sorgeva il famoso Hotel
Granada, distrutto da un incendio nel 1948. Qui nei sotterranei del Banco
trovò la sua nuova collocazione il Museo del Oro che, inaugurato
nel luglio 1959, per la prima volta divenne aperto a tutto il pubblico.
Il 22 aprile 1968 il Museo passò in una nuova sede permanente
appositamente progettata dagli architetti Esguerra, Sáenz, Suárez e
Samper: una specie di scrigno bianco senza finestre che poggia su un
piedistallo di vetro.
Questa opera di architettura si meritò il primo premio alla IV Bienal
Colombiana de Arquitectura del 1970.
L'opera di valorizzazione del patrimonio culturale del paese, unita a
quella di educazione portata avanti a tutti i livelli, ha fatto sì che,
dopo cinque secoli di saccheggi, quando nel 1969 un gruppo di contadini
trovò un manufatto d'oro, questi lo consegnarono alle autorità: oggi
possiamo ammirare questo manufatto: è la preziosissima balsa muisca
della leggenda dell'El Dorado.
Un grande impulso fu costantemente dato allo sviluppo del Museo dal suo
primo Direttore, Luis Barriga del Destro, che ricoprì la carica
ininterrottamente dalla fondazione (1939) al 1977.
Oggi il Museo possiede 50.000 oggetti, d'oro, di ceramica, litici, di
legno e di tessuto. Solo una parte vi sono permanentemente esposti; gli
altri sono utilizzati per esposizioni temporanee o per una esposizione a
rotazione.
La zattera
muisca che rappresenta la leggenda dell'El Dorado. All'interno del
Museo del Oro è possibile fotografare, tuttavia bisogna disporre di
un cavalletto e tener conto che gli oggetti sono posti all'interno di
vetrine che causano riflessi. Questo capolavoro di oreficeria, che
misura appena cm. 10,2 x 19,5 x 10,1, è posto su una base girevole
in lento movimento. Anche questa foto pertanto non è nostra, ma è
stata tratta dalle pagine dedicate al Museo del Oro
nel sito del Banco de la República.
El salón
dorado del Museo del Oro dove sono esposti circa 8.000 pezzi. Immagine
tratta dal sito di Wienfried Kühn.
Il Museo è organizzato su tre livelli: al piano
terra la presentazione didattica delle antiche civiltà un tempo diffuse sul
territorio dell'odierna Colombia, al primo piano le varie civiltà
presentate una per una con i suoi aurei reperti e le particolari
lavorazioni che erano capaci a fare, mentre al secondo piano sono
presentati gli oggetti più preziosi. Non a caso l'intero secondo piano è
come una grandissima camera blindata con porte spesse trenta centimetri.
In una disposizione museale molto curata, risaltano nelle vetrine maschere
mortuarie, orecchini, anelli da naso (narigueras), collane in oro e quarzo, pettorali,
fermagli, fibbie, lame sacrificali.
Poi, al posto d'onore, in una penombra
con un'illuminazione particolare, su una base di cristallo nero che gira
lentamente, un capolavoro di oreficeria muisca: la
zattera dell'El Dorado. Si tratta di un gruppo, lungo una ventina di
centimetri, che ricorda la cerimonia che si svolgeva nelle lagune delle
pianure. I muiscas si radunavano sulle sponde sotto la guida dei
loro capi e dei sacerdoti per fare offerte agli dei. Il capo muisca,
ricoperto di polvere d'oro, saliva con i sacerdoti su una zattera e si
portava al centro del lago sacro di Guatavita. Qui si tuffava nelle acque mentre i sacerdoti
lanciavano pietre preziose, smeraldi ed oggetti d'oro. Una sventurata
ricchezza che attirò i conquistadores e fu la causa della fine di
tutte le culture indios.
Alla fine ci ritroviamo davanti ad un'altra porta blindata, sorvegliata da
guardie armate che porta a "el salón dorado". Qui si entra in piccoli gruppi
al massimo di venti persone.
Entriamo anche noi, la porta si richiude alle nostre spalle e ci troviamo
al buio, con la sola compagnia di una suggestiva musica elettronica.
Poco alla volta la luce si accende progressivamente, e noi non possiamo
credere ai nostri occhi.
Oggetti d'oro dappertutto, alle pareti dal
pavimento fino al soffitto ed anche sul soffitto: qui è la quantità che
fa spettacolo. Non si tratta di oggetti d'oro di fattura tanto pregevole
da essere esposti singolarmente, ma vederne così tanti e tutti assieme
mozza il fiato.
Ci dicono che gli oggetti e la loro disposizione nel salón dorado
vengono cambiati ogni un po' di tempo: mediamente sono sempre visibili
contemporaneamente circa 8.000 antichi reperti aurei.
Usciamo dall'atmosfera piena di mistero del Museo del Oro e ci
imbattiamo subito nelle tre chiese gemelle di San Francisco, Veracruz e Tercera:
all'esterno ci appaiono come delle chiese
insignificanti, ma appena oltrepassato il portale si resta abbagliati
davanti alle dorature barocche dei legni scolpiti, dei soffitti a
cassettoni, degli altari, delle statue di crudo realismo.
Proseguendo verso sud ci dirigiamo verso la città vecchia: Plaza Bolivar,
circondata da palazzi di tutte le epoche, la Catedral Primada di stili
misti ed incerti, la Capilla del Sagrario e tra le due, in una
stretta casa antica, un ricchissimo negozio d'antiquariato.
Ci fermiamo davanti ad una minuscola hacienda all'angolo dell'isolato
a sinistra della Cattedrale: dal suo balcone, il 20 luglio 1810, riecheggiarono
le prime grida d'indipendenza. Occorsero quasi dieci anni alla Colombia per
rompere la sudditanza dalla Spagna.
Proseguiamo nella vecchia Bogotà: le strade si inerpicano sulla montagna
con una tale pendenza che due hanno ricevuto il nome di "agonia" e
"miseria". Incontriamo dei militari vestiti in modo sgargiante con
elmetti a punta tirati a lucido: fanno parte della guardia presidenziale,
formata dall'esercito cileno a sua volta addestrato dagli ufficiali tedeschi
del Kaiser Guglielmo.
In questo labirinto di casette bianche con i balconi in legno si nascondono
altri importanti edifici storici: il Palacio de Nariño (sede del Presidente), il Teatro
Colón,
la Iglesia de San Ignacio, il Museo de Arte Colonial e la Iglesia de
San Augustín,
davanti alla quale sono schierate fila di scrivani pubblici con antiquate
macchine da scrivere pronti a preparare una istanza al Municipio, una
dichiarazione per le tasse o una lettera d'amore.
Bogotà è dominata dal Cerro Monserrate (3.152 metri), una montagna ricoperta di
verde dalla quale si domina la capitale. Vi si può accedere con una funivia
o a piedi, percorrendo un ripido sentiero. Noi ci andiamo a piedi, non per
scelta consapevole o per risparmiare i soldi del biglietto, ma solo perché
non avevamo cambiato la valuta ed alla teleferica non ci accettano i dollari
americani! Mancandoci ancora l'adattamento all'altezza, non tutti arriviamo
in cima. Questo è un luogo di pellegrinaggio: sulla sommità c'è infatti
un Santuario che è stato terminato nel 1920 e sorge dove prima esisteva un monastero del XVII secolo.
All'interno è ospitata la Virgen Morena de Monserrate (una Madonna
Nera) ma soprattutto dietro l'altare è molto venerata una statua a grandezza naturale che rappresenta
Gesù caduto sotto la croce, el Señor Cadeo.
Non lontano dalla stazione della teleferica riusciamo a compiere una veloce
visita alla casa in cui visse Simón Bolívar, "el Libertador",
trasformata in Museo (la Quinta de Bolívar).
Dopo questa intensa giornata trascorsa a Bogotà (ben più lunga di quanto
può sembrare, per via del gioco dei fusi orari), giornata che non era nel programma
del nostro viaggio, ma che si è resa possibile solo dalla combinazione
dei voli che avevamo sul biglietto aereo, raggiungiamo di corsa l'aeroporto
e ci presentiamo al check-in facendo finta di nulla, sperando di
essere sempre considerati "in transito" (i bagagli sono restati in
aeroporto) e di non
dover pagare i quindici dollari di tassa d'imbarco. Ma una impiegata dell'Avianca,
bella quanto velenosa, non sente le nostre ragioni e nonostante l'aiuto che
riceviamo da due funzionari dell'AeroPerù (con la cui compagnia avremo il
volo successivo) pretende il pagamento dei quindici dollari.
Il Jiron de la
Union in festa per la "Fiestas Patria" che celebra
l'indipendenza del Perù.
E' mezzanotte quando arriviamo a Lima e prima delle due non siamo a letto.
Lima venne fondata da Francisco Pizarro nel 1535 con il nome di Ciudad de
los Reyes (la città dei Re).
Una tradizione infatti vorrebbe che la decisione di fondare la città
sarebbe stata presa il 6 gennaio, festa dell'Epifania o de re Magi (los
Reyes in spagnolo). In realtà la fondazione avvenne il 18 gennaio 1535.
Più tardi venne abbandonato il nome di Ciudad de los Reyes e
prevalse l'attuale, Lima, che deriverebbe dalla parola aymara "lima-limaq"
(fiore giallo) o, secondo altri, dalla parola quechua "rimaq",
che indica il nome del fiume (Rio Rimaq) nella cui vallata si trova
Lima.
Quando arriviamo la città è imbandierata a festa, per la "Fiestas
Patria" che celebra l'indipendenza del Perù.
Nonostante si sia impegnati con la ricerca di un mezzo di trasporto e la
pianificazione dell'itinerario e con la riconferma dei voli, riusciamo ad
avere un assaggio della città (nella quale in realtà passeremo,
fermandoci, per tre volte nel corso del nostro viaggio).
La
"Plaza de Armas" (o "Plaza Major") a Lima con
la Cattedrale sullo sfondo.
Da Plaza San Martin, attraverso il Jiron de la Union,
arriviamo alla Plaza de Armas (o Plaza Mayor): la piazza si presenta a forma quadrata
e fu progettata pare dallo stesso Pizarro su modello di quelle spagnole.
Il nome non deve trarre in inganno: "armas" è inteso in
senso araldico, di "arma", "insegna". Infatti qui sono
rappresentati ed hanno sede i tre poteri: quello religioso con la
Cattedrale, quello del governo centrale con il palazzo degli Uditores
ed infine il potere locale con il Municipio.
La cattedrale di Lima agli inizi, quando venne eretta nel 1540, era una
costruzione modesta. La nuova chiesa verrà progettata nel 1598, subirà
modifiche e ricostruzioni (come quella dopo il terremoto del 1746) che si
succederanno fino al 1940.
Con l'interno scandito da tre navate, la Cattedrale custodisce il corpo di
Francisco Pizarro nella prima cappella a destra, che stona con tutto il
resto della chiesa essendo stata costruita nel 1935, in occasione del IV
centenario della fondazione di Lima.
La sepoltura di Pizarro è costituita in realtà da due bare: una conserva
il corpo del conquistador, l'altra la sua testa: nel 1541 Pizarro
venne infatti ucciso a coltellate dai seguaci di Diego de Almagro che
infierirono sul suo corpo praticamente decapitandolo.
Davanti alla tetra fontana di bronzo al centro della Plaza de Armas
con i quattro punti cardinali, voluta da Pizarro, incontriamo un simpatico
agente della polizia turistica, Nestor Sobero Esparza, che insiste a tutti i
costi nel volerci accompagnare. Non pretende alcuna mancia, è il suo
lavoro, ci dice, ed è molto preparato ed anche un po' ironico nelle sue
spiegazioni.
Uno
dei chiostri del convento di San Domingo.
Una
rappresentazione erotica.
Con lui andiamo alla vicina Iglesia de San Domingo con il convento.
Il complesso è contemporaneo alla fondazione della città: infatti il
terreno venne regalato da Pizarro al frate domenicano Vicente de Valverde
che lo aveva seguito nella sua spedizione. Nella chiesa c'è un bellissimo
coro ligneo, che viene considerato il più antico del Perù, ed una statua
della Madonna del Rosario donata da Carlo V. I chiostri del convento sono
rivestiti di azulejos; dappertutto fiori di tutti i tipi e di tutti i
colori.
Il nostro amico della polizia turistica è molto teatrale nelle descrizioni
e quando ci illustra le vite di San Martín de Porres e di Santa Rosa di
Lima quasi si mette a piangere sopra le loro tombe.
Vicino visitiamo un piccolo museo etnografico dedicato alla regione di
Puerto Maldonado e poi ci rechiamo all'Iglesia de San Francisco,
dalla facciata barocca ed anche qui i chiostri del convento hanno le pareti
rivestite di azulejos importati da Siviglia e successivamente
prodotti sul posto nella prima metà del Seicento.
Non lontano raggiungiamo il ponte sul Rio Rimaq da dove possiamo vedere la
ferrovia che venne costruita dagli europei nell'Ottocento ed una collina
dominata da una grande croce: fu voluta da Pizarro come ringraziamento al
Signore che durante un attacco degli indigeni avrebbe fatto straripare il
fiume trascinandoli con sé e salvando in questo modo l'esercito dei conquistadores.
La visita di Lima continua con il Mercado Central, vivace e
colorato, chiamato anche "il mercato dei ladri" (l'ultimo giorno,
prima del volo di ritorno, andremo invece al Centro Artesanal nell'Avenida
La Marina dove si trovano tutti i prodotti dell'artigianato peruviano a
prezzi a volte anche più bassi di quelli che si riscontrano in giro per il
Perù, ma di qualità migliore).
Non possiamo mancare di visitare a Lima almeno due musei: si tratta del Museo
Nacional de Arquelogía Antropología e Historia del Perú, fondato nel
1945 da Julio C. Tello (1880-1947) che è sepolto proprio qui nei giardini
del "suo" museo, che ospita 85.000 reperti, tra cui la famosissima
Estela Raimondi, una stele fittamente ricoperta di rilievi ed
incisioni della cultura di Chavín. Il Museo ripercorre cronologicamente
l'intera storia del Perù, a cominciare dalle culture precolombiane con i
tessuti di Paracas, i monoliti della cultura Pucará, le ceramiche di Nasca
e Moche, le sale dedicate alle culture di Tihuanaco, Huari, Recuay e Chimù
per giungere a quella dedicata agli Inca. C'è anche un excursus
post-colombiano che giunge fino a reperti degli inizi della Repubblica.
Il secondo museo è il Museo de Arte Precolombino Rafael Larco Hérrera, forse il
più ricco ed interessante di tutto il Perù con prevalenza di culture del
nord del paese, come Vicus, Mochica, Chimú. Conserva oltre 50.000 reperti
ceramici, mummie, mantelli e tessuti, oggetti d'oro: le collezioni, divise per argomenti,
sono conservate in enormi armadi a vetrina che da terra salgono fino
al soffitto.
Il museo conserva anche una collezione particolare, quella delle ceramiche
erotiche. E' ospitata in una sala in basso, verso il giardino, un po'
defilata rispetto alle altre. Queste opere, sui cui dettagli non ci
soffermiamo, accanto ad un significato religioso, dimostrano anche la
raffinatezza artistica che hanno raggiunto le popolazioni dell'antico Perù.
In genere si tratta di lavorazioni su vasi e recipienti che alterano la
forma originaria dell'oggetto stesso trasformandolo in un'ironica raffigurazione
erotica per se stesso.