Il
risveglio all'alba dopo aver allestito le tende lungo la panamericana
nei pressi di Pativilca.
Riprendiamo a ripercorrere la
Panamericana verso sud tenendo
questa volta a destra l'oceano, avvicinandoci o allontanandoci alle
montagne della cordigliera sulla sinistra.
Dopo circa 140 chilometri siamo a Chimbote, una città sviluppatasi
attorno al suo porto, uno dei più importanti del Perù, con la sua flotta
di pescherecci.
Ancora poco più di un'ora di strada ed arriviamo a Casma.
Città coloniale, poco distante da qui e vicino alla confluenza del rio
Casma con il rio Sechín, si è sviluppata una importante cultura
precolombiana sul Cerro Sechín, chiamata appunto cultura Sechín.
Le rovine di questa civiltà sono state scoperte da J.C. Tello nel 1937 e
la loro storia può collocarsi nel periodo formativo, anteriormente al
primo millennio avanti Cristo.
Sarebbe interessante fare la deviazione verso gli scavi e poter ammirare
oltre un centinaio di monoliti che rappresentano altrettante figure in una
scenografia di immagini che dovrebbero illustrare una battaglia cruenta
con vincitori e vinti, se non addirittura scene di sacrifici umani.
Tra l'altro questo "mosaico" iconografico, ottenuto posizionando
i monoliti in un certo ordine, ha degli addentellati con alcune pietre che
si ritrovano nella piazza circolare di Chavín de Huantar.
Altri collegamenti potrebbero essere fatti addirittura con Monte Albán,
in Messico.
Purtroppo però il tempo è tiranno e non possiamo fermarci, come non
possiamo effettuare una deviazione che avrebbe potuto portarci in una zona
dove cresce la "Puya Raimondi", considerata la pianta
più bella di tutta la flora andina con una delle inflorescenze più
grandi del regno vegetale.
Sono le undici, è ormai notte da un pezzo, quando ci fermiamo sulla Panamericana prima di Pativilca e qui campeggiamo di fianco alla strada,
vicino alle baracche di operai che stanno lavorando ad un raccordo.
Alla mattina possiamo usufruire dei loro bagni e delle loro docce.
Da qui ci vogliono quattro ore per raggiungere Lima.
Rinunciamo alla visita alla "fortaleza" di Paramonga, un sito
considerato una fortificazione Chimú, anche se più che ad una fortezza
sembrerebbe essere stato un tempio. Conserverebbe alcune somiglianze con
siti incaici, il che non escluderebbe che il sito sia stato edificato in
tempi precedenti come tempio e successivamente adattato a funzioni militari e
difensive. Ci sarebbero anche dei bei muri in "adobe"
da ammirare.
A Lima dobbiamo fermarci, perché è previsto che per il seguito del
viaggio dobbiamo cambiare il bus con uno provvisto dei necessari permessi
di circolazione in Bolivia. Con il nuovo bus avremo anche un nuovo
equipaggio.
Utilizziamo il tempo per controllare e confermare i voli che ci
attenderanno (e facciamo bene, visto che uno è stato anticipato di due
ore rispetto a quanto segnato sul biglietto) e per vedere qualcosa ancora
di Lima (ma della nostra visita alla città abbiamo già condensato tutto
qui).
Un
guasto al mozzo del nostro autobus ci procura un grande ritardo.
Finalmente incontriamo i nostri due nuovi autisti, Amerigo Barrera ed
Edoardo Vargas, che ci accompagneranno per tutto il resto del viaggio.
Abbiamo a disposizione tutto per noi un bus enorme rispetto alle nostre
esigenze: 50 posti: all'interno possiamo comodamente tenere tutti i nostri
bagagli, anche i più superflui!
Si parte alle 17.30 ma subito si rompe qualcosa ad una ruota (un
cuscinetto?). Amerigo, dopo vari tentativi di venire a capo del guasto,
preferisce riportare il bus nella vicina officina, dove aspettiamo due ore
per la riparazione.
Questo contrattempo ci costerà la visita al sito archeologico di
Pachacamac, poco a sud di Lima, nella valle del rio Lurín.
Pachamacac era un importante centro cerimoniale, la cui costruzione
dovrebbe risalire all'epoca Tiahuanaco-Huari, se non essere addirittura
anteriore.
Come centro cerimoniale apparteneva in un certo senso a tutte le
popolazioni della costa che lo rispettavano e vi venivano in
pellegrinaggio. Infatti Pachamacac significa "creatore del
mondo" e si pensa che rappresentasse per i popoli costieri quello che
era Viracocha per le genti della Sierra.
E dire che avevamo rinunciato alla "fortaleza" di Paramonga proprio
per poter visitare Pachamacac! Sono quasi le 8 di sera, il che significa
che è già notte, quando partiamo veramente da Lima.
Ci aspettano 240 chilometri di Panamericana.
Il
promontorio di Paracas.
Ci fermiamo lungo il tragitto per mangiare un pollo alla brace in un
ristorantino lungo la strada. Poi si prosegue diretti fino alla penisola di
Paracas.
Ormai ci stiamo abituando a piantare le tende sotto la luce dei fari del
nostro coche, cosa che facciamo anche questa volta a mezzanotte passata su
di uno spiazzo sabbioso vicino alla costa, qualche chilometro dopo Pisco: un luogo che, scopriamo il giorno
dopo, pullula di cani e di pulci.
Non dormiamo neppure molto: infatti alle 6 di mattina veniamo svegliati dal
ritorno dei pescatori sulla spiaggia con le loro barche da pesca.
Uno di loro si avvicina e ci propone di portarci, per una modica cifra, a
fare un giro attorno alle isole Ballestas e Chincha, alcune delle isole chiamate anche
"isole del guano".
Sulla costa, come sulle isole rocciose prospicienti, abitano milioni di
uccelli: sono fregate, albatros, gabbiani, pellicani, cormorani ed altri uccelli
marini. Le isole sono inoltre abitate anche da colonie di otarie, foche e leoni marini.
La
famosa "bombetta" delle donne peruviane ha origini recenti:
da quando la videro indossare dagli ingegneri ed i tecnici inglesi
impegnati nella costruzione della ferrovia la fecero propria.
Nei millenni questi uccelli hanno depositato enormi quantità di guano, che
raggiungono facilmente spessori di cinquanta e più metri.
Pare che già gli Incas avessero scoperto il valore fertilizzante del guano,
che deve il suo nome alla parola "guanay" che in quechua
significa cormorano.
Nel 1804 il famoso naturalista tedesco Alexander von Humboldt portò il
guano in Europa dove si scoprì che era ricchissimo di azoto e di
potassio, gli stessi elementi del salnitro.
In Inghilterra intanto ci si era resi conto dell'importanza dell'impiego del
guano in agricoltura e nel 1840 si cominciò ad importarlo detenendone
presto il monopolio in Europa ed ottenendo dal Perù la concessione per la
sua estrazione in esclusiva, in cambio di contropartite che prevedevano
anche la costruzione della rete ferroviaria peruviana.
La costruzione inglese della ferrovia lasciò una traccia tangibile nel
costume delle donne peruviane, molte della quali portano ancora oggi un
copricapo molto simile al cappello "a bombetta" anglosassone.
Infatti lo indossavano gli ingegneri ed i tecnici inglesi che
sovrintendevano alla costruzione della ferrovia ed evidentemente piacque
molto alle donne peruviane, che se lo facevano regalare fino a quando non
venne avviata
una produzione locale.
Le
isole del guano.
Le
isole del guano.
Milioni
di uccelli popolano queste isole.
Il giro attorno alle isole del guano si traduce in uno spettacolo
straordinario: uno scenario quasi da girone dantesco dove le anime dei morti
sono costituite da milioni di uccelli che si agitano sugli scogli, che
svolazzano, che costituiscono gruppi compatti della stessa specie, macchie
di colore e che... non stanno zitti. L'accompagnamento sonoro è infatti
impressionante ed alle stridule grida degli uccelli si aggiungono i possenti
ruggiti dei leoni marini che occupano brevi tratti di costa ed anfratti tra
le rocce.
Noi intanto siamo sbattocchiati nella nostra barchetta dalle onde
dell'oceano che non ci sembra poi così tanto... "pacifico".
Il nostro barcaiolo si avvicina ad uno scoglio per poter vedere meglio gli
animali e mai ho avuto l'impressione di essere dentro ad un fragile guscio
in balìa della risacca, tanto da farci temere di finirci addosso.
E' impossibile scendere a terra, perché le coste sono tutte piuttosto alte
e l'oceano è troppo agitato, ma lo spettacolo è stato ugualmente
eccezionale.
Proprio mentre ci apprestiamo a prendere la via del ritorno, il motore della
nostra barchetta decide di fermarsi. Sul primo momento pensiamo di essere
restati senza benzina, ma il nostro "Caronte" lo esclude.
Controlla il serbatoio della benzina, smonta il tubo che lo collega al
motore, cerca di riavviare il motore più volte, ma invano. Comincia allora
a smontare qualcosa, ci sembra la candeletta, per pulirla.
Il
motore si rifiuta di ripartire: in balìa delle onde nell'oceano
Pacifico!
Non è che noi riusciamo ad osservare tanto bene le sue manovre, perché nel
frattempo la barca si è messa di traverso e dondola tra le onde, con noi
dentro, in modo non troppo tranquillizzante.
Passeranno forse cinque minuti, o poco di più, ma a noi sembrano non
terminare mai. Il nostro uomo finalmente, che a furia di agitarsi ha quasi
perso i pantaloni, riesce a rimettere in moto il motore, che forse si era solo
ingolfato, e con qualche scoppiettio iniziale si riprende la rotta verso la
costa.
Ma intanto cominciamo ad avvistare un altro spettacolo che ci lascia a bocca
aperta: il famoso "Candelabro" di Paracas. "Arbor de la Vida", "Tres Cruces", "Tridente",
"El Candelabro", sono i diversi modi con cui è stato
chiamato questo geoglifo gigante tracciato sul pendio di una collina a
precipizio sull'oceano.
Il
"Candelabro" di Paracas, visibile solo dal mare: non sembra,
ma è alto quasi 200 metri.
La figura, che misura circa 200 metri di altezza, è stata tracciata sul
terreno sabbioso di una regione, come questa, dove le precipitazioni di
pioggia sono rarissime, se non assenti. Inoltre il frequente formarsi di
"nebbie" con particelle di sale in sospensione ha favorito un
indurimento superficiale del terreno che mantiene intatto il disegno.
I diversi nomi che sono stati attribuiti al geoglifo sono la conseguenza di
quello che
ognuno ha voluto vedere nel disegno. "Tridente" e "Candelabro" sono due forme
che intuitivamente possono essere associate all'immagine.
Le "Tres Cruces" sarebbero visibili in quella più grande,
centrale, dotata di una base rettangolare di sostegno, una specie di
piedistallo; a quella centrale sono collegate con un braccio trasversale due
croci più piccole ai lati.
Le volute curvilinee che si scorgono in alto dei tre tratti verticali sono
state di volta in volta interpretate come le foglie a pala di un "cactus
cereo", frequente nelle zone andine, come pure la rappresentazione schematica
di un animaletto che si sta arrampicando. Sull'identificazione
dell'animaletto si sono scatenate le fantasie: chi individua una scimmietta,
chi un ramarro del deserto (per via delle zampe posteriori divaricate).
"Candelabro",
"Tridente", "Tres Cruces", "Arbor de la
Vida", sono i diversi nomi con cui è stato chiamato questo
geoglifo che, tuttavia, gli archeologi attribuiscono al XIX secolo.
Da cactus ad albero il passo è stato breve, ed ecco che c'è stato anche
chi ha proposto che il disegno raffiguri un "albero della vita", "Arbor
de la Vida", appunto.
Sul perché sia stato disegnato in quel punto quasi tutti sono concordi: il
disegno sarebbe da collegasi con la navigazione transpacifica delle età
primordiali ed è stato tracciato in alto per essere avvistato da lontano.
Ma c'è di più: sarebbe stato tracciato così in alto per preservarlo da
possibili ondate di dimensioni impressionanti conseguenti a terremoti
sottomarini!
Dopo che sono state formulate queste ipotesi, resterebbero ancora da identificare
gli autori del disegno.
Sull'argomento c'è più prudenza (e nessuna unanimità): si va da epoche
"primordiali", all'epoca coloniale.
Probabilmente invece il famoso "Candelabro" di Paracas ha
origini molto meno remote: Federico Kauffmann Doig, nel suo "Manual
de Arqueologia Peruana" (settima edizione, Lima, maggio 1980, pag.
412) suppone che sia un artefatto del XIX secolo della nostra era!
Ritorniamo dall'escursione veramente entusiasti per le cose che abbiamo
visto e, data l'ora, con un discreto appetito che soddisferemo a San Andres
con un pranzo infinito a base di tartaruga, pesce e frutti di mare a
volontà.
A Paracas visitiamo il museo locale: vista la mancanza di visitatori, una
funzionaria si dedica a noi e ci illustra, accompagnandoci per le sale, la
storia del sito.
Tutto ebbe inizio nel 1925, quando J.C. Tello scoprì l'esistenza di questa
misteriosa cultura, della quale conosciamo molto poco e neppure il nome. In
realtà tutto quello che è stato scoperto sono vaste aree di sepoltura che
l'archeologo distinse in due zone, Paracas-Cavernas, la più antica,
e Paracas-Necropolis.
Paracas-Cavernas deve il suo nome al fatto che le tombe sono collocate
in un terreno roccioso, scavato in varie cavità circolari a forma di "cavernas"
fino a oltre sette metri di profondità. La camera sepolcrale era vasta e
poteva contenere oltre cinquanta mummie. Alla cella si giungeva scendendo
una galleria verticale con gradini. Viste in sezione, queste tombe ricordano
come profilo quello di un fiasco panciuto e si trovano a Cerro Colorado, a 18
chilometri a sud dal porto di Pisco.
Dalle offerte di alimenti rinvenuti all'interno delle celle, deposti su
piatti di ceramica, veniamo a sapere che la gente di Paracas conosceva la
coltivazione del mais, la yuca, la patata dolce ed i fagioli di diversi tipi.
Dai corredi funerari veniamo a sapere che per i loro tessuti usavano lana di
alpaca e conoscevano varie tecniche di tessitura.
I vasi di ceramica ed i piatti hanno figurazioni prevalentemente di
carattere votivo, a parte certe linee e punti di origine geometrica. Gli
stessi motivi iconografici si ritrovano poi spesso nei tessuti.
A parte certe figure biomorfe (con tratti animali ed umani) eseguite con
pochi tratti essenziali, la figura predominante tra le genti di Paracas è
quella del "felino emplumado" (felino con particolari
ornitologici) con alcuni attributi umani. Le braccia sono spesso delle ali
stilizzate e la posizione della figura denota l'intenzione dell'artista di
cercare di rappresentare una figura che sta volando. Nella successiva fase Paracas-Necropolis
viene elaborata una primitiva prospettiva per visualizzare questi esseri
mitologici ibridi (felino-uomo-uccello) in volo.
Senza volerci addentrare troppo nei particolari che ci illustra la gentile
funzionaria del museo, in questa fase sono stati evidenziati alcuni
collegamenti formali e stilistici con le culture Sechín e di Chavín.
Restiamo stupefatti di fronte a certi esempi di trapanazione cranica esposti
al museo. Infatti l'uomo di Paracas-Cavernas eseguiva questa specie di
interventi, servendosi generalmente di strumenti in ossidiana. Secondo J.C.
Tello il 40% dei crani delle mummie era stato sottoposto a trapanazione
quando l'individuo era ancora in vita.
La pratica della trapanazione cranica risale a tempi molto antichi,
addirittura al paleolitico; probabilmente fu usata con fini magici, per
perforare "post mortem" le teste-trofeo per farvi passare
una cordicella e poterle trasportare più facilmente. Fu usata anche per
cercare di curare certe ferite causate in combattimento da frecce o asce: si
cercava di eliminare frammenti di osso, o frammenti della stessa freccia,
limando la perforazione tutto attorno e applicando come copertura sopra la
trapanazione una lamina d'oro o di altro materiale.
In alcuni casi la ricrescita di materiale osseo dimostra che il paziente è
vissuto dopo l'intervento!
Sempre al museo possiamo vedere esempi impressionanti di crani deformati.
Infatti veniva praticata anche la deformazione della testa: quella considerata
tipica tra gli uomini del Paracas-Cavernas è la deformazione
fronte-occipitale che veniva ottenuta con lo schiacciamento del cranio sulla
fronte e sul lato posteriore già nella prima infanzia: il cranio così
costretto si sviluppava in altezza e la fronte risultava appiattita, come
pure la parte dietro la testa.
A Paracas-Necropolis le tombe invece sono scavate in un terreno più
sabbioso e le fosse sepolcrali hanno una forma rettangolare e furono
scoperte due anni dopo, nel 1927, dal principale collaboratore di Tello, T.
Mejía Xesspe, sempre nelle pendici del Cerro Colorado, non lontano dalle
precedenti.
Negli anni successivi furono estratti 429 "fardos funerarios",
ossia mummie avvolte in strati di tessuti con disegni finissimi. Nonostante
si stimi che il periodo "Necropolis" risalga ai primi secoli della
nostra era, alcune date fornite dagli esami al radiocarbonio arrivano fino a due
secoli prima di Cristo.
Nel museo troviamo esposte alcune mummie avvolte dal "fardo
funerario", così come sono state scoperte: hanno un aspetto conico
dovuto al fatto che il corpo è stato messo seduto, accoccolato in posizione
fetale, in genere con le mani posate ai lati del viso ed avvolto da una
serie di tessuti.
La mummificazione avveniva probabilmente con l'affumicatura del cadavere, dopo averne
asportato le viscere ed il processo era favorito dalle condizioni climatiche.
La mummia risulta in genere riccamente vestita con
tessuti di cotone e di lana, poi ricoperta da strati di bende, alcune delle
quali potevano arrivare ad ottanta metri di lunghezza.
Particolare
di una
stoffa proveniente da un "fardo funerario" fotografata al
museo di Paracas.
L'apertura dei "fardos funerarios" ha portato alla scoperta
di particolari che caratterizzavano questa cultura, dal tipo di tessuto
alla tintura impiegata (si arriva su un unico tessuto a contare
almeno 190 sfumature di colore), dalla forma delle stoffe e dalla tecnica di
tessitura ai motivi ornamentali ed alle bordure, dalla forma delle ceramiche votive ai
disegni ed agli ornamenti indossati dal defunto.
Particolarissime e varie sono poi le rappresentazioni iconografiche che trovano
spiegazione nel tentativo di rappresentare le figure in prospettiva: così
una figura vista di fronte è presentata anche di profilo. Ci sono figure che si
ripetono incessantemente sui bordi di certi manti dando origine ad un
effetto grafico stilizzato. La varietà delle immagini è veramente enorme:
quella che forse caratterizza di più questa fase della cultura "Necropolis"
è il "felino volador", che deriva da quello più grezzo e
primitivo di stile "chavinoide" della precedente fase "Cavernas".
La figura della divinità è distorta tanto da farla apparire come un
contorsionista, tanto è vero che nei primi tempi erroneamente queste figure
erano descritte come "danzantes" oppure "contorsionistas":
in realtà era solo un modo per rendere l'immagine della divinità in volo.
Non sappiamo nulla dell'architettura delle genti di Paracas: non abbiamo
traccia di monumenti cerimoniali, come non abbiamo traccia di edifici
civili o di abitazioni: in un luogo come questo dove non piove mai, non si
sviluppò un'architettura della quale restino i segni, tanto è vero che
qualcuno aveva anche ipotizzato che Paracas fosse solo un cimitero di genti
che popolavano la Sierra.
All'interno dei due periodi principali di Paracas, quello "Cavernas"
ed il successivo "Necropolis", gli archeologi hanno
distinto altre fasi in base a certe particolarità dei tessuti, delle
decorazioni, della forma delle ceramiche.
Dall'alto
della costa del promontorio di Paracas ammiriamo le acque dell'oceano
che entrano nella "Lagunilla".
Il
suolo, dall'aspetto "lunare", è ricoperto come da un
sottile velo di sabbia che copre una crosta salina.
Lasciamo il museo veramente soddisfati della visita, non solo per le cose
che abbiamo visto, ma anche per l'accompagnamento e per le spiegazioni della
funzionaria che si è dedicata a noi con tanta passione e ricchezza di
informazioni.
Ci dirigiamo verso la Lagunilla, l'insenatura a sud del promontorio di
Paracas: sono 16 chilometri di pista in buone
condizioni.
Ci troviamo sulla costa: qui è alta, l'oceano a picco sotto di noi ci pare
tempestoso, è un panorama da non perdere.
Il terreno su cui camminiamo sembra un deserto di sabbia, ma sotto un velo
sottilissimo di sabbia si rivela una spessa crosta di sale probabilmente
formatasi per gli spruzzi dell'acqua salina che arrivano fin qui durante le
mareggiate.
Sotto, sulle rocce o su piccole spiaggette, si scaldano all'ultimo sole
pomeridiano migliaia fra foche, otarie e leoni marini che fanno sentire il
loro ruggiti.
Dovrebbero esserci anche dei pinguini, il pinguino di Humboldt alto non più
di 60 centimetri, ma non ne scorgiamo nessuno perché, ci dicono gli
autisti, il suo orario è alla mattina.
Sul cielo terso si staglia anche la figura di un uccello nero: ci sembra un
condor alla ricerca di carogne, ma non ne siamo sicuri.
Ripartiamo verso le cinque e mezza con gli occhi pieni di queste magiche
visioni. Poco dopo aver imboccato la Panamericana troviamo fermo, fuori
strada, un autobus che ha avuto un incidente a seguito dello scoppio di una
gomma: per fortuna nessuno si è fatto male, solo qualche ammaccatura. Ci
stringiamo un po' nel nostro autobus e carichiamo i passeggeri peruviani di
quello sfortunato bus sul nostro per portarli fino ad Ica.
Tutti si prodigano in ringraziamenti nei nostri confronti ed anche i nostri
autisti sono commossi e grati per l'aiuto che abbiamo portato ai peruviani.
Ica è famosa per la sua zona vinicola, ma nonostante i tentativi non
riusciamo a trovare del vino decente, all'altezza della sua fama, e neppure
il "pisco" locale è un gran che.
Proseguiamo lungo la Panamericana alla volta di Nazca, dove arriviamo alle
nove e mezza della sera.