Dopo quasi 14 ore di viaggio, verso le 18 arriviamo finalmente a Puno.
L'albergo al quale avevamo provato di telefonare non ci ha prenotato
nulla, ma il proprietario si dà da fare per sistemarci in tre alberghi
diversi, tutti piuttosto vicini l'uno agli altri.
Puno si trova a 3.860 metri sul livello del mare, sulle rive del lago
Titicaca. I suoi abitanti sono discendenti degli Aymara
che un tempo dominarono l'altopiano. Prima dell'espansione dell'impero
incaico, l'area era sotto l'influenza della civiltà che si era sviluppata a
Tiahuanaco. La città di Puno venne fondata il 4 novembre 1688 dal viceré
Conte di Lemos che la chiamò San Carlos de Asturias.
Andiamo subito alla stazione dei treni, per cercare di acquistare i
biglietti per il treno Puno-Cuzco: alla domenica il treno non c'è, quindi
siamo costretti a puntare su lunedì. Ma alla stazione ci dicono che i
biglietti non possono essere acquistati in anticipo, ma sono messi in
vendita la sera prima per la mattina dopo, o il mattino stesso della
partenza. Un agente della polizia turistica ci conferma questo, aggiungendo
che non c'è altro modo per acquistare i biglietti. Più tardi però
scopriremo che le agenzie turistiche, se incaricate in anticipo e pagando
una piccola commissione, possono averli prima.
Intanto passeggiamo per le vie di Puno, quando ad un tratto siamo attirati
dai titoli a tutta pagina dei quotidiani del pomeriggio: "Golpe in
Bolivia".
Una
delle isole "galleggianti" degli Uros.
Cerchiamo di leggere qualcosa dalla prima pagina esposta dagli strilloni:
dopodomani infatti dovremo entrare in Bolivia ed arrivare a La Paz!
Un signore vede il nostro interesse per la notizia e ci chiede come mai. Gli
spieghiamo che dopodomani dobbiamo passare il confine, e con questo colpo di
stato non sappiamo se potremo ancora farlo. Il signore sorride e
flemmaticamente, con aria sorniona, ci replica di non preoccuparci
assolutamente: in 155 anni di storia della Bolivia questo sarà il
duecentesimo "golpe"! Per loro è ordinaria
amministrazione, ci sono abituati!
L'indomani, mentre i nostri autisti si recano al consolato di Bolivia per
ottenere i visti di frontiera per loro e per il bus, noi andiamo al porto
sul lago Titicaca.
Il lago Titicaca con la sua superficie di circa 8.400 Km² (come l'Umbria) a
3.812 metri sul livello del mare è il lago navigabile più alto del mondo.
Situato al confine tra Perù e Bolivia, è diviso in due distinti bacini
dalla penisola di Copacabana che forma lo stretto di Tiquina: il bacino più
piccolo è chiamato anche Laguna de Huinaimarca.
Tra la vegetazione del lago, importante è una canna che cresce verso le
sponde e dove i fondali sono più bassi, la "totora".
Subito vedremo il perché dell'importanza di questa canna.
Ci sono numerose isole: tra le maggiori la Isla de Titicaca e la Isla Coati,
conosciute rispettivamente anche come "isola del Sole" e
"isola della Luna".
Ma il nostro interesse non è dato da queste isole. Noi al porto ci siamo
recati per trovare una barca che ci porti alle isole galleggianti degli Uros
che distano circa un sei chilometri dal porto.
Una
barca in "totora" tra i canneti del lago Titicaca.
La
raccolta della "totora" nel lago Titicaca.
Gli Uros sostengono di essere i padroni del lago e si chiamano "kot-suña",
che significa semplicemente "gente del lago". Si ritengono il più
antico popolo dell'universo, nato addirittura prima del Sole, e non di
origini umane.
Non si conoscono le loro origini, e su queste si fanno varie ipotesi: certo
che gli Uros esistevano prima dell'arrivo degli Inca e non hanno nulla a
che vedere con i gruppi etnici degli Aymara e dei Quechua. Alcuni studiosi
(tra questi Lumbreras) ipotizzano che provengono da una immigrazione
proveniente dalla Polinesia che si sarebbe stanziata qui arrivando dal nord
America.
Secondo alcuni inizialmente si sarebbero fermati sulle sponde del lago Uro
Uro, oggi in Bolivia, poi a seguito dell'avanzamento degli Inca sarebbero
arretrati rifugiandosi in isole galleggianti.
Con il tempo andarono perdendo parte della loro purezza etnica, mescolandosi
agli Aymara ed ai Quechua che vivevano sulle sponde del Titicaca. Gli
attuali Uros tuttavia conservano alcune delle loro originarie tradizioni,
seppure influenzate dalla vicinanza degli Aymara.
Anticamente la loro lingua era la "puquina", completamente
differente dalle altre: tuttavia ai tempi dell'impero incaico era accettata
come terza lingua, dopo il "quechua" e l'"aymara".
Il nome Uros è stato attribuito loro dagli Aymara ed aveva in origine un
significato sprezzante di "selvaggi", "pezzenti"; erano
talmente considerati infimi che l'unico tributo che veniva richiesto loro
dall'Inca era un corno pieno di pidocchi!
Capanne
degli Uros sulle isole galleggianti del lago Titicaca.
Al molo troviamo due barche che ci portano a visitare tre delle isole
galleggianti degli Uros.
Il numero delle isole galleggianti non è costante, ma varia ed in genere è
di una ventina di isole, alle quali può aggiungersene qualche altra:
dipende dalle necessità della crescita delle famiglie che vi abitano, dalla
decisione che può prendere una famiglia di separarsi (e formare una propria
isola) o di integrarsi ad un altro gruppo di famiglie che occupano un'altra
isola.
Di conseguenza è variabile anche il numero di famiglie che occupa un'isola:
in genere oscilla tra le tre e le dieci famiglie.
Le isole galleggianti sono formate prima di tutto da un agglomerato di
radici di canne, la "totora" che abbiamo citato sopra. Si
tratta di un fitto intreccio di radici sul quale si forma una base, chiamata
"khili". Su questa vengono stese in continuazione canne di "totora"
tagliate e seccate a sostituire quelle sottostanti che nel frattempo
marciscono. Per effetto della decomposizione delle radici e delle canne più
vecchie, che stanno sotto, si producono delle bolle di gas che aiutano il
galleggiamento della piattaforma artificiale che forma l'isola.
Le isole sono ancorate al fondo del lago (qui la profondità è modesta) per
mezzo di pali impiantati nel fondo dopo aver attraversato il
"suolo" dell'isola.
Quando sbarchiamo sulla prima isola, abbiamo una sensazione curiosa nel
camminare: ci sembra di camminare sul morbido, come camminare su uno spesso
strato di gommapiuma che lascia l'equilibrio del corpo un po' instabile.
Bisogna fare attenzione a dove si mettono i piedi! Si deve camminare sempre
dove la canna sotto i piedi è più o meno verde; mai mettere i piedi dove
è di color marrone: lì significa che è marcita e non regge il peso del
corpo. Ben lo ha provato chi, tra noi, ci ha inavvertitamente messo i
piedi: si è ritrovato con la gamba impiantata in una melma marcescente fino
ad oltre il ginocchio.
Abitazioni
degli Uros sulle isole galleggianti del lago Titicaca.
Le loro abitazioni sono fatte ugualmente di "totora": sono
capanne molto semplici. Non tutti vi abitano: alcuni infatti vivono sulle
sponde del lago ed arrivano qui alla mattina ad attendere i turisti. Vi
arrivano utilizzando delle caratteristiche imbarcazioni ("balsas")
fatte ugualmente di fasci di canne di "totora" legate assieme.
Con queste barchette si spostano anche da un'isola all'altra e vanno a pescare.
Gli Uros mantengono la tradizione della pesca con le reti e quando la pesca
è abbondante mettono a seccare al sole il pesce per conservarlo; sulle
isole allevano piccoli animali da cortile, ma anche maiali. Inoltre cacciano
gli uccelli selvatici. Le donne tessono stoffe multicolori e confezionano
altri prodotti di artigianato, utilizzando anche la "totora",
che vendono ai turisti.
Dopo la visita delle tre isolette (è molto piacevole la navigazione tra i
canneti che circondano le isole) rientriamo per ora di pranzo a Puno dove
ritroviamo i nostri autisti che ci assicurano di avere i visti necessari,
per loro e per l'autobus, per varcare l'indomani il confine con la Bolivia.
Intanto il soroche continua a mietere vittime nel gruppo costringendo
altri compagni a restare a riposare a letto. Ieri mattina eravamo ai 2.350
metri, ma poi abbiamo attraversato la cordillera superando quota
4.000 e, nonostante si sia scesi di quota, anche ora siamo a oltre 3.800
metri. A tutto questo c'è da aggiungere la stanchezza derivante da queste
giornate intense, anche se emozionanti e piene di cose da vedere.
Il
lago di Umayo con l'omonima isola al centro, illuminata dal sole
radente del tramonto.
Il gruppo dei "sani", sotto un cielo nero dispensatore di pioggia,
si mette in movimento e con l'autobus si dirige verso il sito archeologico
di Sillustani, ad una quarantina di chilometri da Puno, e così risaliamo ai
4.000 metri di altezza.
Qui c'è il lago di Umayo che originariamente faceva parte del lago Titicaca.
Al centro c'è l'omonima isola mentre sul lago si protende la penisola di
Sillustani.
Vi arriviamo in un "momento magico", verso le quattro del pomeriggio.
Dopo tutto quel nero in cielo, dopo tutta quell'acqua che è caduta,
all'orizzonte le nuvole scure si squarciano lasciando un cielo terso ed
un'aria trasparente proprio dove il sole inizia ad abbassarsi per
tramontare.
I raggi del sole illuminano di una luce radente la penisola mentre stiamo
percorrendo a piedi il mezzo chilometro di strada che separa il parcheggio
dei visitatori dal sito archeologico.
Così, illuminate dalla luce calda del sole, vediamo le "chullpas" di
Sillustani che si stagliano sul fondale del
cielo ancora grigio.
"Chullpa"
della penisola di Sillustani.
La tradizione indica che queste "chullpas" siano state sepolture
monumentali destinate ai capi ed ai dignitari della popolazione Colla (Aymara).
Alcune di queste furono costruite durante il periodo di Tiahuanaco, altre
tuttavia sono successive e sono databili all'epoca dell'occupazione incaica
della regione, come quelle che si trovano vicino ad Acara che denotano una
lavorazione delle pareti chiaramente incaica.
Queste torri funerarie, a Sillustani come in altri luoghi dell'altopiano,
possono avere forme quadre o cilindriche, anche se quelle cilindriche sono
le più comuni.
Furono erette utilizzando una struttura di pietre grezze, non lavorate, unite tra
loro con fango che lasciano una cavità all'interno digradante in alto
formando una falsa volta.
Questa struttura centrale cava è ricoperta all'esterno con pietre di
origine vulcanica, di dimensioni abbastanza uniformi, tagliate e levigate
artigianalmente.
In alcuni casi le "chullpas", che possono raggiungere anche
i 12 metri di altezza, sono costruite sopra delle piattaforme. Si può
entrare attraverso una angusta apertura collocata al livello del suolo:
all'interno era collocato il "fardo" funerario.
All'esterno il rivestimento levigato delle "chullpas",
nella sezione superiore, presenta una specie di cornice che gira attorno a
tutta la torre e che sporge da dieci fino anche a quaranta centimetri. Sopra
questa cornice la "chullpa" è chiusa da una copertura
semisferica.
Questi particolari architettonici, assieme alla forma di queste costruzioni,
potrebbero indicare che le "chullpas" abbiano un contenuto simbolico di carattere fallico.
Una
"chullpa" abbandonata durante la sua costruzione: si vede la
pedana inclinata che serviva per trasportare i massi in alto della
costruzione.
Giriamo per le rovine, affascinati dalle dimensioni di questi misteriosi
manufatti. Ne vediamo anche uno abbandonato mentre era in costruzione e
così possiamo comprendere come i costruttori fossero in grado di innalzare
queste pietre fino a 10-12 metri di altezza: costruivano un piano inclinato
di pietre per mezzo del quale potevano trasportare ad una determinata
altezza le pietre lavorate che sarebbero andate a costituire la costruzione.
Quando questa si innalzava ancora di più, su quella pedana inclinata ne
sovrapponevano un'altra che arrivava ad una maggiore altezza per collocare i
pezzi superiori, e così via fino a raggiungere la sommità della "chullpa",
terminata la quale la pedana veniva rimossa.
Qui, per un qualche motivo che a noi profani sfugge, la "chullpa"
non venne completata ed il piano inclinato è restato lì.
Sempre nell'area archeologica (che in realtà è molto più vasta di quello
che visitiamo, comprendendo anche le sponde del lago e l'Isla Umayo) notiamo
anche alcuni perfetti cerchi di pietra: secondo gli archeologi sarebbero
resti di basi di "chullpas" distrutte o tracciamenti di "chullpas"
da costruire.
Ancora
"cullpas" illuminate dagli ultimi raggi di sole sulla
penisola di Sillustani.
Seguendo il consiglio dei nostri autisti, Amerigo ed Edoardo, sulla via del
ritorno facciamo una deviazione per fermarci nella cittadina di Yuliaca.
Sulla piazza si svolge un mercato di maglie, sciarpe, ponchos,
tappeti, tutti prodotti di lana di alpaca o vicuña.
A parte il fatto che tutte le merci sono stese per terra e sono abbastanza
polverose (ma fin qui niente di male, con una bella lavata si rimedia) il
problema è un altro: proviamo ad indossare dei maglioni, quelli con il
classico motivo peruviano, ma non riusciamo ad infilarci neppure la testa! E
quando in certi casi ci riusciamo, la taglia è decisamente stretta e
striminzita. Ringraziamo i venditori e diciamo di no, ma loro pensano
che lo facciamo per tirare sul prezzo e cominciano a trattenerci, abbassando
i prezzi. Noi cerchiamo di far capire loro che i maglioni sono troppo
piccoli, che non riusciamo neppure ad infilarli, e loro in tutta risposta
abbassano ulteriormente il prezzo.
Di fronte a tanta insistenza, qualcuno cede all'acquisto: «Lo regalerò
a mio nipote, spero che a lui vada bene...»
L'indomani alle 5 sveglia per tutti: si parte per la Paz.
Prima di partire prenoto in uno dei tre alberghi (quello che ci sembra il
migliore) per tutto il gruppo, per quando torneremo dalla Bolivia, in modo
da essere tutti assieme.
La
strada verso la Bolivia costeggia a tratti il lago Titicaca.
La
strada che ci porta verso Desaguadero, dove c'è il posto di confine
tra Perù e Bolivia.
La strada corre parallelamente alla sponda del lago Titicaca, un po'
all'interno. Ma a tratti si avvicina al lago che in quelle ore è tutto un
riflesso di luce cristallina, anche per il cielo terso e pulito dovuto alla
trasparenza dell'aria dell'altopiano.
Il posto di frontiera si chiama Desaguadero, dal nome del fiume, emissario
del lago Titicaca, che segna il confine tra Perù e Bolivia. Al di qua del
fiume ci sono gli uffici di frontiera peruviani poi, attraversato un ponte,
sul lato boliviano quelli della Bolivia.
Arriviamo alle 12.10 e troviamo la frontiera chiusa: non sapevamo infatti
che qui la chiudono da mezzogiorno alle 2, forse per rispettare la pausa
pranzo e la siesta.
Gli autisti piazzano il nostro bus in prima fila, in modo che alle due
saremo i primi ad esplicare le pratiche di frontiera.
Chiedo agli autisti di fare una strada differente per quando torneremo,
traghettando per Copacabana: non l'avessi mai chiesto! Mettono subito in
chiaro che non se ne parla nemmeno: la strada sarebbe troppo pericolosa per
il nostro bus, un mese fa un autobus della compagnia di Morales Moralito che
traghettava verso Yunguyo è precipitato nel lago. Inoltre non hanno il
permesso di passare per l'altra frontiera perché a Puno il consolato di
Bolivia ha rilasciato il permesso solo per la frontiera di Desaguadero. Poi
non hanno neppure i soldi per il traghetto, perché a Lima dall'Empresa
Roggero hanno avuto i soldi contati. Veramente il rappresentante della
compagnia a me aveva detto delle cose un po' differenti, ma tanto è inutile
a mettersi a litigare con gli autisti.
Nell'attesa pranziamo in un localino di Desaguadero e poi subiamo l'assalto
di schiere di traffichini che ci propongono di
cambiare i soles in pesos.
Alle 2 tocca a noi: i controlli sono lenti ed esasperanti, non sappiamo se a
causa del "golpe" in Bolivia dell'altro giorno. Ogni
ufficio compie un'unica operazione, controllo del possesso del passaporto e
del visto d'ingresso in Perù, controllo dell'identità del possessore in
base alla foto, trascrizione del nome e numero del passaporto in un
registro, infine apposizione del timbro di uscita.
Percorriamo a piedi il ponte sul rio Desaguadero: nonostante (in teoria)
avremmo dovuto essere i primi ad attraversare la frontiera quel pomeriggio, sul ponte è
tutto uno sciamare di una fiumana continua di gente che attraversa il
confine. File di autobus scaricano i passeggeri, camion che suonano il
clacson senza motivo, macchine scassate, carretti, biciclette... insomma un
caos rumoroso e colorato indescrivibile.
Passato il territorio di nessuno, sull'altra sponda del fiume sono le tre
del pomeriggio: infatti tra Perù e Bolivia c'è un'ora di differenza
trovandosi i due stati in due fusi orari differenti. Troviamo gli
uffici boliviani dell'immigrazione: anche qui controlli lentissimi sui
documenti con richiesta di un dollaro a testa «per i timbri». Non
indaghiamo se la cosa sia legale oppure no, tanto dipendiamo da loro.
Una volta arrivati a La Paz dovremo recarci al Ministero dell'Immigrazione
per regolarizzare il nostro ingresso in Bolivia.
Ma intanto possiamo dire che finalmente siamo in Bolivia.
Lungo la strada che ci deve portare a La Paz non vediamo civili, ma quasi
esclusivamente militari. Noi subiamo numerosi controlli da
parte dei frequenti posti di blocco, segno del colpo di stato appena
accaduto, o forse ancora in corso. Fortunatamente sono controlli assai veloci: al militare che sale
sul bus a volte basta contare le persone e contare i passaporti che io gli
porgo, oppure si accontenta di controllare i documenti degli autisti e del
bus fidandosi del fatto che gli abbiamo detto che siamo turisti italiani.
Passiamo anche a fianco del sito archeologico di Tiahuanaco, dove ci
recheremo per visitarlo dopodomani.
Dopo circa tre ore dalla frontiera con la Bolivia arriviamo a La Paz.