"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Il Museo di Pietrarsa
Il Museo di Pietrarsa ospita le locomotive storiche esposte nei monumentali padiglioni delle Antiche Officine Borboni, realizzate su iniziativa di Ferdinando II di Borbone nel 1840. E' composto da 5 padiglioni dove sono conservati materiale rotabile e attrezzature che raccontano oltre 160 anni di storia ferroviaria e per una superficie di 36.000 mq., di cui 14.000 coperti, e confina a nord con la linea ferroviaria Napoli - Salerno, ad ovest con la "passeggiata a mare" di Napoli ed a sud con il mare. Finito di restaurare e inaugurato nel 1989, in occasione del 150° anniversario della inaugurazione della Napoli - Portici, è oggi uno dei più importanti esempi di "archeologia industriale" del nostro Paese. Oggi Napoli Pietrarsa è un museo che ricorda la storia di un secolo e mezzo di ferrovie italiane e rappresenta una chiave di lettura del nostro Paese attraverso i riconoscimenti internazionali ottenuti fino alla seconda guerra mondiale e attraverso il fascino delle locomotive storiche. Grandiosi archi a sesto acuto costituiscono l'ossatura del nucleo più antico delle officine, il padiglione G detto "la Cattedrale". In questa ampia sala sono esposti numerosi modelli di rotabili e interessanti plastici dei treni. Vi trovano posto anche le antiche rotaie a doppio fungo, poggiate su dadi di pietra lavica impiegate come traversine sulle linee delle antiche ferrovie.
Le Officine di Napoli-Pietrarsa costituiscono il primo nucleo industriale della Penisola, avendo preceduto di numerosi anni colossi industriali quali Breda, Fiat, Ansaldo.Nella prima metà dell'800 il regno delle Due Sicilie, nonostante fosse lo stato più esteso della penisola, dipendeva dal predominio industriale e tecnico straniero. Per rendere autonomo il suo Regno dalle industrie inglesi all'avanguardia nella costruzione delle macchine a vapore, Ferdinando II di Borbone, appena salito al trono, avviò un processo di industrializzazione di cui lo sviluppo delle strade ferrate rappresentò uno degli aspetti salienti.
Nel 1830 fu installata, a Torre Annunziata, una piccola officina per la produzione di materiale meccanico e pirotecnico ad uso della marina e dell'esercito (trivelle, macchine a vapore, affusti per cannoni, proiettili). Sette anni più tardi la piccola industria fu trasferita presso la reggia di Napoli.
Lo sviluppo dell'Officina superò ogni aspettativa, al punto che sorse il problema di reperire una nuova sede più spaziosa, dove poter provvedere anche alla produzione di materiale ferroviario.
Il 3 ottobre 1839, infatti, era stata inaugurata la prima tratta ferroviaria italiana Napoli-Portci lunga 7.411 metri. Il percorso venne compiuto in 11 minuti a due convogli trainati da locomotive gemelle: la Bayard e la Vesuvio, progettate dall'ingegnere Armand Bayard de la Vingtrie su prototipo dell'inglese George Stephenson.
Per la costruzione del nuovo complesso venne scelta la località di Pietrarsa, anticamente detta Pietra Bianca, situata sulla riva del mare, al confine con il comune di Portici, dove preesisteva una batteria costiera costruita dai Francesi in epoca napoleonica per la difesa della rada.
Il 6 novembre 1840 venne emanato il Decreto Reale per l'acquisto di una prima parte di terreno presso la batteria. In un secondo momento, nel 1844, fu acquistata una zona adiacente.
L'area occupata dalle officine era compresa tra il tratto ferroviario Napoli-Portici e il mare, in modo che il trasporto dei prodotti e dei materiale potesse avvenire facilmente sia da mare che da terra.
Al loro sorgere, le officine rappresentavano un esempio tecnologicamente avanzato di una politica economica tendente a favorire lo sviluppo industriale: in appena due anni dalla costruzione vi lavoravano 200 operai ed erano state realizzate la Tornerai e i locali accessori ed istituita la Scuola per Ufficiali Macchinisti per la Marina del regno.
Nel 1843, per volere del re, lo stabilimento di Pietrarsa fu destinato alla costruzione delle locomotive e alla riparazione di tutti i tipi di rotabili della nuova ferrovia Napoli-Caserta-Capua.
Il 18 maggio1852 venne fusa nell'Opificio una colossale statua in ghisa, alta 4,50 metri, raffigurante il re Ferdinando II nell'atto di ordinare la fondazione delle officine. Si tratta di una delle più grandi statue in ghisa fuse in Italia e si trova attualmente nel piazzale del Museo.
Alla caduta del regno borbonico, nel 1860, Pietrarsa passò in gestione al Governo Italiano. Vi lavoravano 850 operai, 200 operai straordinari e 75 artiglieri con una produzione vastissima: ferriere per l'affinatura della ghisa, fonderie, laminatoi per la produzione di rotaie, caldaie, locomotive, macchine a vapore. Si eseguivano, inoltre, opere pirotecniche per la guerra, macchine e strumenti per porti, cantieri ed arsenali, macchine a vapore per la marina del regno e anche opere di notevole pregio artistico, come statue e busti.
Nel 1861 il Governo Italiano rilevò la scarsa economicità dell'industria, con costi di produzione elevati e manodopera eccessiva.
L'Opificio fu dato in gestione alla ditta Bozza che adottò una politica di licenziamenti e aumentò le ore lavorative giornaliere. Questi provvedimenti crearono forte tensione fra gli operai che protestarono contro il Direttore e il Governo. I 30 bersaglieri giunti a Pietrarsa caricarono le maestranze, causando la morte di sette operai e il ferimento di altri venti. L'eccidio di Pietrarsa divenne un simbolo della lotta della classe operaia post-unitaria.
A seguito di questi fatti, la gestione dell'Opificio fu data in concessione ventennale alla Società nazionale di Industrie meccaniche, la quale abbinò la produzione di Pietrarsa a quella dello stabilimento dei Granili di Napoli.
All'Esposizione Universale di Vienna del 1873, una locomotiva per treni merci, costruita a Pietrarsa per le Ferrovie Romane, vinse la medaglia d'oro.
Nonostante i riconoscimenti internazionali, tuttavia, la fabbrica rimase vittima della crisi economica per cui, nel 1875, il numero dei lavoratori fu ridotto a cento.
Nel 1877, per evitare la chiusura del complesso, lo Stato decise di gestire direttamente lo Stabilimento di industrie Meccaniche di Pietrarsa e Granili. Furono costruite 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture e varie caldaie a vapore. I rotabili costruiti a Pietrarsa furono utilizzati su tutta la rete italiana.
Nel 1885, con le Convenzioni ferroviarie, l'esercizio di tutta la rete nazionale fu dato in concessione a tre Società: L'Adriatica, la Mediterranea e la Sicula.
Nelle officine, inoltre, fu istituita una scuola per la formazione di nuove maestranze specializzate. Il 1° luglio 1905 lo Stato italiano assunse l'esercizio diretto di tutte le linee ferroviarie del territorio nazionale, pertanto, anche delle due officine napoletane.
A Pietrarsa si continuò a provvedere alla Grande Riparazione delle locomotive a vapore, mentre Granili fu destinata alla riparazione dei veicoli e alla fusione di getti in ghisa e bronzo. Nel 1930 l'Officina fu ristrutturata in modo radicale, aumentando la produttività degli operai e abbassando, di conseguenza, i costi di riparazione; il tempo medio di riparazione di una macchina passò da 150 a 30 giorni.
Con la fine della II Guerra Mondiale iniziò il declino, a causa dell'avanzare della trazione elettrica e di quella diesel, le locomotive a vapore, di anno in anno, diventavano sempre meno numerose e venivano utilizzate esclusivamente per il trasporto merci e per i servizi sussidiari.
Nel 1966 l'Azienda FS decise la chiusura di Pietrarsa, avvenuta ufficialmente il 15 novembre 1975.
L'ultima vaporiera a lasciare le storiche officine fu la GR 640.088, il 2° dicembre 1975. Dopo la chiusura, si decise di utilizzare i padiglioni dell'ex Opificio Borbonico come spazi espositivi di grande fascino architettonico per un museo a carattere nazionale sulla "civiltà della rotaia". Il 7 ottobre 1989 è stato inaugurato il Museo Nazionale di Pietrarsa.
Il Museo si sviluppa su un'area di circa 36.000 metri quadrati, dei quali 14.000 coperti, e si articola in padiglioni e settori in cui sono esposti numerosi rotabili, modelli, plastici, macchinari e oggetti d'interesse storico.
Padiglione A - Ex Reparto Montaggio
Il padiglione ex montaggio è senz'altro il più ricco di rotabili storici. Vi è esposta la riproduzione del 1939 di uno dei primi convogli italiani, ancora in grado di funzionare, costituito dalla locomotiva Bayard del 1839, il suo tender, un bagagliaio, una carrozza di prima classe e due di terza. Lungo la parete di fondo, si trovano: la 290.319 con tender a tre assi, la prima locomotiva a entrare nel Museo, segue la MMO n. 22, già appartenente alla ferrovia in concessione Monza-Molteno-Oggiono, la locotender 851, inizialmente utilizzata per treni leggeri, ma anche per manovra, una possente 477 con tender a tre assi, a due cilindri dissimmetrica, dalle linee ben diverse da quelle delle altre vaporiere in quanto una macchina austroungarica, ceduta all'Italia. Seguono altre tre locotender: una 910 per treni pendolari, che poteva circolare in entrambi i sensi di marcia senza essere girata ai capilinea, con notevole risparmio di tempo; una 835, locomotiva da manovra riuscitissima al punto che ne furono costruiti 370 esemplari; una 899. Segue una 640, macchina dotata di carrello italiano, adibita a treni veloci, molto simile alla 625, anch'essa esposta, che aveva una velocità più ridotta per cui era utilizzata soltanto su linee secondarie con treni accelerati. Sono esposte due locomotive impiegate sulle linee a cremagliera, la 980 e la R.370, quest'ultima per linee a scartamento ridotto. Una 680, macchina a doppia espansione a quattro cilindri, per treni viaggiatori veloci, è esposta senza il tender, uguale a quello collegato alla 685, vaporiera strettamente imparentata alla precedente, che campeggia sull'ultimo binario. La locotender 905, utilizzata per treni leggeri o per locomotiva di spinta e la 740.115, una delle macchine che trasportò a Roma il Milite Ignoto, chiudono la sequenza del primo lato. Dalla parte opposta si trova una 480, con tender a carrelli, dotata di cinque assi motori, adatta per linee a forte pendenza, una 735, una locotender 896, adatta a manovre pesanti in grandi scali, una 940, tipica locomotiva da montagna, utilizzata sulle linee transappenniniche. Chiude l'esposizione delle vaporiere la locomotiva Bayard, segue una 741, derivata dalla trasformazione di una 740. Sono esposti, inoltre, i locomotori trifase caratterizzati da prese di corrente a stanghe o a pantografo. Il primo è una E 551, cui fanno seguito un E.333, atre assi motori, un E.432, bella machina per treni viaggiatori e infine un E.430 della Ferrovia Alta Valtellina.
Padiglioni B e C - Ex Reparto Caldareria e Forni
Nel corpo di fabbrica dei padiglioni B e C, che in origine ospitava le caldarerie e i forni, sono esposte carrozze e automotrici. Un esemplare importante è la carrozza n. 10 del Treno Presidenziale, costruita dalla Fiat nel 1928 per il treno reale. Notevole è il salone da pranzo con un tavolo decorato in mogano lungo otto metri e con ventisei posti a sedere: il soffitto è intarsiato con lamine d'oro e medaglioni con gli stemmi delle quattro repubbliche marinare. Nel padiglione C sono in mostra altre cinque carrozze di cui una mista di terza classe e bagagliaio, un'antica carrozza postale a tre assi, un veicolo di servizio utilizzato per le corse di prova delle locomotive appena riparate a Pietrarsa, una vettura per il trasporto di detenuti, una carrozza, tipo centoporte, mista di I e II classe. Seguono quattro "littorine" così chiamate popolarmente perché entrate in servizio negli anni trenta in coincidenza con la nascita della città di Littoria, oggi Latina. Si notano: una 772, una 556 breda, una 556 Fiat, una rimorchiata Ln 55 e una moderna automotrice termica Aln 880. Inoltre, sono esposte tre automotrici elettriche: una E.623, già EAz a terza rotaia, un'ALe 792 dalle caratteristiche testate aerodinamiche, un locomotore a quattro assi della Ferrovia Casalecchio-Vignola, già appartenente al gruppo E.400 delle FS. Nel padiglione B, sono esposti tre locomotori: un E.428, un tempo utilizzato per treni direttissimi pesanti, presente su tutte le linee più importanti della rete nazionale; un E.326, macchina di poco successo, costruita in pochi esemplari, che ha concluso la sua carriera al deposito Locomotive di Bologna; un E.626, locomotiva tuttofare delle ferrovie italiane, che ha prestato servizio su tutta la rete sia in testa a lunghi treni merci o a merci raccoglitori che come titolare di convogli viaggiatori locali o diretti, come macchina di spinta sulle tracce acclivi o, in qualche caso, come macchina da manovra.
Padiglione M
Il padiglione, che in origine ospitava le tornerei, costituisce il nucleo più antico delle officine, perché costruito nel 1840.
Lo spettacolare edificio detto "La Cattedrale" è caratterizzato dalla grandiosità degli archi a sesto acuto che conferiscono all'immobile un aspetto maestoso..
All'interno sono esposti numerosi modelli di rotabili fra i quali quello della Bayard, una delle primissime locomotive italiane, del locomotore E.432, a corrente alternata trifase, il cui prototipo fu costruito nel 1928 dalla Breda in 40 unità, dell'E.428, a corrente continua 3000 V, dotato di otto motori e con velocità massima di 130 km/h, dell'elettromotrice ALe 880, il cui prototipo fu costruito nel 1937, caratterizzato dal profilo aerodinamico della cabina anteriore e dotato, sull'altra estremità, di porta intercomunicante a soffietto per consentire il passaggio dei viaggiatori tra le carrozze.
Notevoli sono il modello dell'automotrice ALn 668, con motori a nafta, dotata di 68 posti a sedere di cui 8 in I classe e quello della D.443, il cui prototipo fu costruito nel 1966 per essere impiegato sulle linee non elettrificate in sostituzione delle ormai vetuste locomotive a vapore.
In rappresentanza della trazione diesel da manovra è esposto il modello del locomotore D.245, diesel-idraulico, adibito alle manovre negli scali in sostituzione delle più antiche locotender.
Nel padiglione sono esposti anche numerosi plastici e vari oggetti ferroviari, tra gli altri, le antiche rotaie a doppio fungo, poggianti sui dai di pietra lavica che erano impiegati sulle antiche ferrovie prima che venissero adottate le più moderne traversine.
Padiglioni E, F, G, H e I
In origine i padiglioni ospitavano le fucine, il centro molle e i locali per la riparazione dei tubi bollitori. Il nucleo a due piani verso la statua di Ferdinando II era invece utilizzato come deposito.
Padiglione G - settore delle locomotive diesel
In questo ambiente sono esposte cinque locomotive diesel. La prima è la D.342, con motore diesel idraulico, che contribuì all'eliminazione della trazione a vapore su talune linee. Per le macchine di linea successive si preferì adottare il tipo di trazione diesel-elettrico, immesso massicciamente in tutte le regioni: la locomotiva a destra, la D.341, ne costituisce un esempio ben rappresentativo.
Seguono tre locomotive da manovra: una 235, tipica macchina diesel per lo spostamento di rotabili in tutti i tipi di scali; la 207 caratteristica macchina, soprannominata "soglilola", perché ridotta a una semplice sottile cabina poggiante su quattro ruotini, utilizzata in piccoli scali e stazioni per spostare qualche carro e una 215, per manovre di pochi carri.
Padiglione H - settore delle navi traghetto
In questo piccolo ambiente sono esposti numerosi oggetti e macchinari provenienti da navi traghetto demolite. Tra gli altri, i cinque modelli di traghetti della flotta FS.
Padiglione I - settore utensili delle officine
Nel padiglione sono conservati alcuni colossali macchinari e utensili delle officine, tra gli altri la calandra, che serviva a piegare le robuste lamiere ferree, l'alesatrice con la quale si praticavano i fori alle bielle delle locomotive, e due grandiosi magli, un tempo alimentati a vapore e successivamente ad aria compressa.
Il Museo di Pietrarsa ospita le locomotive storiche esposte nei monumentali padiglioni delle Antiche Officine Borboni, realizzate su iniziativa di Ferdinando II di Borbone nel 1840. E' composto da 5 padiglioni dove sono conservati materiale rotabile e attrezzature che raccontano oltre 160 anni di storia ferroviaria e per una superficie di 36.000 mq., di cui 14.000 coperti, e confina a nord con la linea ferroviaria Napoli - Salerno, ad ovest con la "passeggiata a mare" di Napoli ed a sud con il mare. Finito di restaurare e inaugurato nel 1989, in occasione del 150° anniversario della inaugurazione della Napoli - Portici, è oggi uno dei più importanti esempi di "archeologia industriale" del nostro Paese. Oggi Napoli Pietrarsa è un museo che ricorda la storia di un secolo e mezzo di ferrovie italiane e rappresenta una chiave di lettura del nostro Paese attraverso i riconoscimenti internazionali ottenuti fino alla seconda guerra mondiale e attraverso il fascino delle locomotive storiche. Grandiosi archi a sesto acuto costituiscono l'ossatura del nucleo più antico delle officine, il padiglione G detto "la Cattedrale". In questa ampia sala sono esposti numerosi modelli di rotabili e interessanti plastici dei treni. Vi trovano posto anche le antiche rotaie a doppio fungo, poggiate su dadi di pietra lavica impiegate come traversine sulle linee delle antiche ferrovie.
Le Officine di Napoli-Pietrarsa costituiscono il primo nucleo industriale della Penisola, avendo preceduto di numerosi anni colossi industriali quali Breda, Fiat, Ansaldo.Nella prima metà dell'800 il regno delle Due Sicilie, nonostante fosse lo stato più esteso della penisola, dipendeva dal predominio industriale e tecnico straniero. Per rendere autonomo il suo Regno dalle industrie inglesi all'avanguardia nella costruzione delle macchine a vapore, Ferdinando II di Borbone, appena salito al trono, avviò un processo di industrializzazione di cui lo sviluppo delle strade ferrate rappresentò uno degli aspetti salienti.
Nel 1830 fu installata, a Torre Annunziata, una piccola officina per la produzione di materiale meccanico e pirotecnico ad uso della marina e dell'esercito (trivelle, macchine a vapore, affusti per cannoni, proiettili). Sette anni più tardi la piccola industria fu trasferita presso la reggia di Napoli.
Lo sviluppo dell'Officina superò ogni aspettativa, al punto che sorse il problema di reperire una nuova sede più spaziosa, dove poter provvedere anche alla produzione di materiale ferroviario.
Il 3 ottobre 1839, infatti, era stata inaugurata la prima tratta ferroviaria italiana Napoli-Portci lunga 7.411 metri. Il percorso venne compiuto in 11 minuti a due convogli trainati da locomotive gemelle: la Bayard e la Vesuvio, progettate dall'ingegnere Armand Bayard de la Vingtrie su prototipo dell'inglese George Stephenson.
Per la costruzione del nuovo complesso venne scelta la località di Pietrarsa, anticamente detta Pietra Bianca, situata sulla riva del mare, al confine con il comune di Portici, dove preesisteva una batteria costiera costruita dai Francesi in epoca napoleonica per la difesa della rada.
Il 6 novembre 1840 venne emanato il Decreto Reale per l'acquisto di una prima parte di terreno presso la batteria. In un secondo momento, nel 1844, fu acquistata una zona adiacente.
L'area occupata dalle officine era compresa tra il tratto ferroviario Napoli-Portici e il mare, in modo che il trasporto dei prodotti e dei materiale potesse avvenire facilmente sia da mare che da terra.
Al loro sorgere, le officine rappresentavano un esempio tecnologicamente avanzato di una politica economica tendente a favorire lo sviluppo industriale: in appena due anni dalla costruzione vi lavoravano 200 operai ed erano state realizzate la Tornerai e i locali accessori ed istituita la Scuola per Ufficiali Macchinisti per la Marina del regno.
Nel 1843, per volere del re, lo stabilimento di Pietrarsa fu destinato alla costruzione delle locomotive e alla riparazione di tutti i tipi di rotabili della nuova ferrovia Napoli-Caserta-Capua.
Il 18 maggio1852 venne fusa nell'Opificio una colossale statua in ghisa, alta 4,50 metri, raffigurante il re Ferdinando II nell'atto di ordinare la fondazione delle officine. Si tratta di una delle più grandi statue in ghisa fuse in Italia e si trova attualmente nel piazzale del Museo.
Alla caduta del regno borbonico, nel 1860, Pietrarsa passò in gestione al Governo Italiano. Vi lavoravano 850 operai, 200 operai straordinari e 75 artiglieri con una produzione vastissima: ferriere per l'affinatura della ghisa, fonderie, laminatoi per la produzione di rotaie, caldaie, locomotive, macchine a vapore. Si eseguivano, inoltre, opere pirotecniche per la guerra, macchine e strumenti per porti, cantieri ed arsenali, macchine a vapore per la marina del regno e anche opere di notevole pregio artistico, come statue e busti.
Nel 1861 il Governo Italiano rilevò la scarsa economicità dell'industria, con costi di produzione elevati e manodopera eccessiva.
L'Opificio fu dato in gestione alla ditta Bozza che adottò una politica di licenziamenti e aumentò le ore lavorative giornaliere. Questi provvedimenti crearono forte tensione fra gli operai che protestarono contro il Direttore e il Governo. I 30 bersaglieri giunti a Pietrarsa caricarono le maestranze, causando la morte di sette operai e il ferimento di altri venti. L'eccidio di Pietrarsa divenne un simbolo della lotta della classe operaia post-unitaria.
A seguito di questi fatti, la gestione dell'Opificio fu data in concessione ventennale alla Società nazionale di Industrie meccaniche, la quale abbinò la produzione di Pietrarsa a quella dello stabilimento dei Granili di Napoli.
All'Esposizione Universale di Vienna del 1873, una locomotiva per treni merci, costruita a Pietrarsa per le Ferrovie Romane, vinse la medaglia d'oro.
Nonostante i riconoscimenti internazionali, tuttavia, la fabbrica rimase vittima della crisi economica per cui, nel 1875, il numero dei lavoratori fu ridotto a cento.
Nel 1877, per evitare la chiusura del complesso, lo Stato decise di gestire direttamente lo Stabilimento di industrie Meccaniche di Pietrarsa e Granili. Furono costruite 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture e varie caldaie a vapore. I rotabili costruiti a Pietrarsa furono utilizzati su tutta la rete italiana.
Nel 1885, con le Convenzioni ferroviarie, l'esercizio di tutta la rete nazionale fu dato in concessione a tre Società: L'Adriatica, la Mediterranea e la Sicula.
Nelle officine, inoltre, fu istituita una scuola per la formazione di nuove maestranze specializzate. Il 1° luglio 1905 lo Stato italiano assunse l'esercizio diretto di tutte le linee ferroviarie del territorio nazionale, pertanto, anche delle due officine napoletane.
A Pietrarsa si continuò a provvedere alla Grande Riparazione delle locomotive a vapore, mentre Granili fu destinata alla riparazione dei veicoli e alla fusione di getti in ghisa e bronzo. Nel 1930 l'Officina fu ristrutturata in modo radicale, aumentando la produttività degli operai e abbassando, di conseguenza, i costi di riparazione; il tempo medio di riparazione di una macchina passò da 150 a 30 giorni.
Con la fine della II Guerra Mondiale iniziò il declino, a causa dell'avanzare della trazione elettrica e di quella diesel, le locomotive a vapore, di anno in anno, diventavano sempre meno numerose e venivano utilizzate esclusivamente per il trasporto merci e per i servizi sussidiari.
Nel 1966 l'Azienda FS decise la chiusura di Pietrarsa, avvenuta ufficialmente il 15 novembre 1975.
L'ultima vaporiera a lasciare le storiche officine fu la GR 640.088, il 2° dicembre 1975. Dopo la chiusura, si decise di utilizzare i padiglioni dell'ex Opificio Borbonico come spazi espositivi di grande fascino architettonico per un museo a carattere nazionale sulla "civiltà della rotaia". Il 7 ottobre 1989 è stato inaugurato il Museo Nazionale di Pietrarsa.
Il Museo si sviluppa su un'area di circa 36.000 metri quadrati, dei quali 14.000 coperti, e si articola in padiglioni e settori in cui sono esposti numerosi rotabili, modelli, plastici, macchinari e oggetti d'interesse storico.
Padiglione A - Ex Reparto Montaggio
Il padiglione ex montaggio è senz'altro il più ricco di rotabili storici. Vi è esposta la riproduzione del 1939 di uno dei primi convogli italiani, ancora in grado di funzionare, costituito dalla locomotiva Bayard del 1839, il suo tender, un bagagliaio, una carrozza di prima classe e due di terza. Lungo la parete di fondo, si trovano: la 290.319 con tender a tre assi, la prima locomotiva a entrare nel Museo, segue la MMO n. 22, già appartenente alla ferrovia in concessione Monza-Molteno-Oggiono, la locotender 851, inizialmente utilizzata per treni leggeri, ma anche per manovra, una possente 477 con tender a tre assi, a due cilindri dissimmetrica, dalle linee ben diverse da quelle delle altre vaporiere in quanto una macchina austroungarica, ceduta all'Italia. Seguono altre tre locotender: una 910 per treni pendolari, che poteva circolare in entrambi i sensi di marcia senza essere girata ai capilinea, con notevole risparmio di tempo; una 835, locomotiva da manovra riuscitissima al punto che ne furono costruiti 370 esemplari; una 899. Segue una 640, macchina dotata di carrello italiano, adibita a treni veloci, molto simile alla 625, anch'essa esposta, che aveva una velocità più ridotta per cui era utilizzata soltanto su linee secondarie con treni accelerati. Sono esposte due locomotive impiegate sulle linee a cremagliera, la 980 e la R.370, quest'ultima per linee a scartamento ridotto. Una 680, macchina a doppia espansione a quattro cilindri, per treni viaggiatori veloci, è esposta senza il tender, uguale a quello collegato alla 685, vaporiera strettamente imparentata alla precedente, che campeggia sull'ultimo binario. La locotender 905, utilizzata per treni leggeri o per locomotiva di spinta e la 740.115, una delle macchine che trasportò a Roma il Milite Ignoto, chiudono la sequenza del primo lato. Dalla parte opposta si trova una 480, con tender a carrelli, dotata di cinque assi motori, adatta per linee a forte pendenza, una 735, una locotender 896, adatta a manovre pesanti in grandi scali, una 940, tipica locomotiva da montagna, utilizzata sulle linee transappenniniche. Chiude l'esposizione delle vaporiere la locomotiva Bayard, segue una 741, derivata dalla trasformazione di una 740. Sono esposti, inoltre, i locomotori trifase caratterizzati da prese di corrente a stanghe o a pantografo. Il primo è una E 551, cui fanno seguito un E.333, atre assi motori, un E.432, bella machina per treni viaggiatori e infine un E.430 della Ferrovia Alta Valtellina.
Padiglioni B e C - Ex Reparto Caldareria e Forni
Nel corpo di fabbrica dei padiglioni B e C, che in origine ospitava le caldarerie e i forni, sono esposte carrozze e automotrici. Un esemplare importante è la carrozza n. 10 del Treno Presidenziale, costruita dalla Fiat nel 1928 per il treno reale. Notevole è il salone da pranzo con un tavolo decorato in mogano lungo otto metri e con ventisei posti a sedere: il soffitto è intarsiato con lamine d'oro e medaglioni con gli stemmi delle quattro repubbliche marinare. Nel padiglione C sono in mostra altre cinque carrozze di cui una mista di terza classe e bagagliaio, un'antica carrozza postale a tre assi, un veicolo di servizio utilizzato per le corse di prova delle locomotive appena riparate a Pietrarsa, una vettura per il trasporto di detenuti, una carrozza, tipo centoporte, mista di I e II classe. Seguono quattro "littorine" così chiamate popolarmente perché entrate in servizio negli anni trenta in coincidenza con la nascita della città di Littoria, oggi Latina. Si notano: una 772, una 556 breda, una 556 Fiat, una rimorchiata Ln 55 e una moderna automotrice termica Aln 880. Inoltre, sono esposte tre automotrici elettriche: una E.623, già EAz a terza rotaia, un'ALe 792 dalle caratteristiche testate aerodinamiche, un locomotore a quattro assi della Ferrovia Casalecchio-Vignola, già appartenente al gruppo E.400 delle FS. Nel padiglione B, sono esposti tre locomotori: un E.428, un tempo utilizzato per treni direttissimi pesanti, presente su tutte le linee più importanti della rete nazionale; un E.326, macchina di poco successo, costruita in pochi esemplari, che ha concluso la sua carriera al deposito Locomotive di Bologna; un E.626, locomotiva tuttofare delle ferrovie italiane, che ha prestato servizio su tutta la rete sia in testa a lunghi treni merci o a merci raccoglitori che come titolare di convogli viaggiatori locali o diretti, come macchina di spinta sulle tracce acclivi o, in qualche caso, come macchina da manovra.
Padiglione M
Il padiglione, che in origine ospitava le tornerei, costituisce il nucleo più antico delle officine, perché costruito nel 1840.
Lo spettacolare edificio detto "La Cattedrale" è caratterizzato dalla grandiosità degli archi a sesto acuto che conferiscono all'immobile un aspetto maestoso..
All'interno sono esposti numerosi modelli di rotabili fra i quali quello della Bayard, una delle primissime locomotive italiane, del locomotore E.432, a corrente alternata trifase, il cui prototipo fu costruito nel 1928 dalla Breda in 40 unità, dell'E.428, a corrente continua 3000 V, dotato di otto motori e con velocità massima di 130 km/h, dell'elettromotrice ALe 880, il cui prototipo fu costruito nel 1937, caratterizzato dal profilo aerodinamico della cabina anteriore e dotato, sull'altra estremità, di porta intercomunicante a soffietto per consentire il passaggio dei viaggiatori tra le carrozze.
Notevoli sono il modello dell'automotrice ALn 668, con motori a nafta, dotata di 68 posti a sedere di cui 8 in I classe e quello della D.443, il cui prototipo fu costruito nel 1966 per essere impiegato sulle linee non elettrificate in sostituzione delle ormai vetuste locomotive a vapore.
In rappresentanza della trazione diesel da manovra è esposto il modello del locomotore D.245, diesel-idraulico, adibito alle manovre negli scali in sostituzione delle più antiche locotender.
Nel padiglione sono esposti anche numerosi plastici e vari oggetti ferroviari, tra gli altri, le antiche rotaie a doppio fungo, poggianti sui dai di pietra lavica che erano impiegati sulle antiche ferrovie prima che venissero adottate le più moderne traversine.
Padiglioni E, F, G, H e I
In origine i padiglioni ospitavano le fucine, il centro molle e i locali per la riparazione dei tubi bollitori. Il nucleo a due piani verso la statua di Ferdinando II era invece utilizzato come deposito.
Padiglione G - settore delle locomotive diesel
In questo ambiente sono esposte cinque locomotive diesel. La prima è la D.342, con motore diesel idraulico, che contribuì all'eliminazione della trazione a vapore su talune linee. Per le macchine di linea successive si preferì adottare il tipo di trazione diesel-elettrico, immesso massicciamente in tutte le regioni: la locomotiva a destra, la D.341, ne costituisce un esempio ben rappresentativo.
Seguono tre locomotive da manovra: una 235, tipica macchina diesel per lo spostamento di rotabili in tutti i tipi di scali; la 207 caratteristica macchina, soprannominata "soglilola", perché ridotta a una semplice sottile cabina poggiante su quattro ruotini, utilizzata in piccoli scali e stazioni per spostare qualche carro e una 215, per manovre di pochi carri.
Padiglione H - settore delle navi traghetto
In questo piccolo ambiente sono esposti numerosi oggetti e macchinari provenienti da navi traghetto demolite. Tra gli altri, i cinque modelli di traghetti della flotta FS.
Padiglione I - settore utensili delle officine
Nel padiglione sono conservati alcuni colossali macchinari e utensili delle officine, tra gli altri la calandra, che serviva a piegare le robuste lamiere ferree, l'alesatrice con la quale si praticavano i fori alle bielle delle locomotive, e due grandiosi magli, un tempo alimentati a vapore e successivamente ad aria compressa.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 21 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro acuto e sagacerelatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Buona serata a tutti ed un caloroso saluto all'amico Gianni che dalla Repubblica Dominicana, nel rinfrescarsi nelle splendite acque del Mar dei Caraibi, incessante prosegue nell'avventura napoletana.
Dei bolli "S.F.", sempre Gianni ci raccontò di "Torre dell'Annunziata": viewtopic.php?f=33&t=13403&p=186084&hilit=torre+annunziata
Il Bollo "S.F." (STRADA FERRATA) veniva utilizzato per obliterare i FB sulle lettere inviate per ferrovia, ma non vi erano carrozze destinate al servizio postale. Ai corrieri era riservato il posto nei vagoni.
Le due lettere di Maestro Mario partirono da Napoli ed i FB vennero annullati col bollo in cartella della capitale, quindi il bollo S.F. venne apposto sulla lettera.



pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........


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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Il Palazzo Reale di Napoli.
Il Palazzo Reale di Napoli, come tutti sanno, non è opera dei Borbone. Fu voluto - in previsione di una visita nel Viceregno (visita poi non effettuata) del nuovo Re di Spagna Filippo III d’Asburgo (il figlio di Filippo II) - dal Viceré spagnolo Fernando Ruiz de Castro, che nel 1600 diede inizio alla fabbrica.
Se dedichiamo attenzione anche a tale struttura, è perché i Borbone ristrutturarono ed abbellirono notevolmente la reggia e l’intera area circostante, che assunse solo sotto Ferdinando II l’incantevole aspetto che ancora oggi ha.
Il Palazzo sarebbe sorto nella vasta area fra Santa Lucia e Castelnuovo; il progetto generale fu affidato ad uno dei più celebri architetti del tempo, Domenico Fontana, già autore delle grandi opere del Papa Sisto V a Roma; ma i lavori continuarono poi per decenni, e in non pochi casi si mutò il primitivo progetto del Fontana.
Comunque, per tutto il Seicento, la reggia, con il suo grande “Largo di Palazzo”, fu il cuore pulsante della vita politica e sociale napoletana.
All’arrivo di Re Carlo nel 1734, la reggia era in stato di abbandono e del tutto priva del necessario per accogliere il Re e la sua Corte, al punto che si dovette ricorrere al Monte di Pietà e a privati per acquistare mobili, tendaggi e suppellettili .
L’architetto Ferdinando Sanfelice ebbe l’incarico di costruire un appartamento per il Maggiordomo Maggiore sul braccio orientale verso Castelnuovo; nel 1742, poi, attuò altri restauri insieme all’ingegnere camerale Casimiro Vetromile.
Nel 1736 iniziò il trasporto delle collezioni farnesiane, poi in parte trasferite a Capodimonte. Per il matrimonio del Re con Maria Amalia di Sassonia, furono chiamati a Corte nel 1737 i migliori artisti presenti in Napoli per decorare alcune parti del Palazzo (in particolare la Sala Diplomatica, detta anche Prima Anticamera di Sua Maestà); ricordiamo fra gli altri: Francesco Solimena, Francesco De Mura, Nicola Maria Rossi, Domenico Antonio Vaccaro.
Nello stesso anno fu inaugurata una fabbrica di porcellane, primo “abbozzo” di quella che poi diverrà la gloriosa fabbrica di Capodimonte.
Nel 1751 iniziò l’attività della Reale Stamperia Palatina, che fu arricchita dei macchinari della celebre tipografia di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, mentre nel 1753 fu affidato al Vanvitelli il restauro della facciata del Fontana.
Ma, a dir la verità, Re Carlo non fu mai veramente affezionato al Palazzo Reale, sebbene vi abitasse, probabilmente sia perché troppo soggetto alla vita caotica della capitale, sia perché costruzione “non sua”. Nella sua mente e nel suo cuore vi erano già altre due regge, Caserta e Capodimonte: pertanto solo con Ferdinando IV ripresero i lavori.
Fu costruito il lungo corpo di fabbrica verso oriente, il Braccio Nuovo, occupando gran parte dei giardini, ove attualmente è situata la Biblioteca Nazionale; fu poi iniziata la costruzione del fronte verso il mare – che rimase però incompleto – e furono realizzate le prime sei campate di balconi.
Nel 1769 Ferdinando Fuga trasformò definitivamente la Gran Sala della Reggia spagnola, utilizzata dai Viceré per spettacoli, in Teatrino stabile di Corte, inaugurato con una Serenata o festa teatrale in musica di G.B. Sassi con musiche di Giovanni Paisiello. Il teatro ospitò soprattutto rappresentazioni particolari per il Re di Nicola Piccinni, Domenico Cimarosa e del Paisiello.
Sempre sotto la direzione del Fuga, negli anni Settanta furono decorate le sale; a questa fase risalgono le porte dipinte del palazzo, gli arazzi della Real Fabbrica tuttora conservati.
Nel 1773 il Re aveva adattato il terreno antistante per le esibizioni militari, destinando la Piazza del Castello alle tradizionali feste popolari che si organizzavano in precedenza in quel luogo.
Nel 1767 fu fondato il Collegio Militare, nel 1778 l’Accademia di Scienze e Lettere e nel 1785 si avviò la sistemazione del Grande Archivio. Fu anche ripristinato nel cortile del maneggio il Laboratorio della Porcellana, dopo che Carlo aveva portato tutto a Capodimonte: la direzione fu affidata a Domenico Venuti nel 1781. Infine nel 1782 Ferdinando inaugurò una Fabbrica di Acciai con maestri viennesi, anch’essa diretta dal Venuti.
Dopo il 1815, Ferdinando I volle il Canova a Corte, commissionandogli una statua di Carlo; nel 1819 il Canova ebbe anche l’incarico di farne una del Re stesso; ma ormai l’artista era vecchio e malato, e poté solo modellare il cavallo; la statua fu completata da Antonio Calì: i due monumenti furono poi collocati nella piazza nel 1829
Una generale ristrutturazione della reggia avvenne, come sempre, sotto il Regno di Ferdinando II .
Fin dai primi anni furono ideati vari progetti; poi nel 1836 il Maggiordomo Maggiore Principe di Bisignano, con un Real Rescritto, ordinò un censimento generale del Real Palazzo, al fine di «por mano ai lavori prossimi», previsti per l’anno successivo. «In tal modo, almeno sul piano formale, iniziava uno tra i più complessi interventi di architettura intrapresi dai Borbone, che si concluderà in maniera quasi emblematica poco prima della morte di Ferdinando II» .
L’intera operazione di riforma generale fu denominata “Riduzione”, e non a caso: «si trattava di fatti di ricostruire un’identità architettonica, procedendo per eliminazione, mediante una poderosa opera di demolizioni nella frastagliata cortina edilizia, che serrata, si estendeva dal lato S. Ferdinando e S. Carlo, laddove il Palazzo Vecchio dei viceré, costituiva una dissonante presenza (…)
La politica di Ferdinando II tese a centralizzare i vari poteri dello stato all’interno della Reggia, intendeva recuperare in tal modo, un modello di architettura rappresentativa, immersa in maniera organica nel tessuto urbano, visibile e riconoscibile nella sua funzione» .
L’opera era veramente enorme, in quanto si trattava di lacerare la disordinata edilizia stratificatasi nel tempo, che aveva provocato la sopravvivenza di disparate attività all’interno delle mura del palazzo e perfino l’insediamento di nuclei familiari che si tramandavano il diritto di residenza.
Ma l’aspetto che finì per imporsi fu senz’altro l’esigenza di sottomettere la “Riforma Generale” alle innovazioni – che si stavano gradatamente affermando anche a Napoli – della prima Rivoluzione Industriale.
«Lo sviluppo tecnologico, non poteva non interessare i lavori di “Riforma” del Palazzo, poiché esso si innestava in una visione globale di una Reggia, che fosse non solo rappresentativa, ma che fosse pure espressione dei suoi tempi, con un’apertura verso le nuove tecnologie, ritenute indispensabili per sopperire alle carenze dei sistemi artigianali, che immutati erano sopravvissuti fino agli inizi del secolo» .
Così fu programmato un radicale ammodernamento degli impianti e dei servizi, secondo i criteri di efficienza tipici della nascente industrializzazione: furono introdotti l’illuminazione a gas, avanzati sistemi di distribuzione dell’acqua corrente, la macchina a vapore per i servizi idraulici, una nuova rete di scarico e fognature, lamiere nervate di zinco in sostituzione delle tegole, prodotti avanzati delle fonderie impiegati per la costruzione del Ponte del Belvedere e per i sostegni degli impianti illuminanti, composti plastici impermeabili per i giunti critici, vetri e specchi con vernici protettive, ecc.
Il tutto avvenne sotto il costante controllo del Re, che creò apposite commissioni lungo tutto il ventennio della realizzazione della “Riforma”. Ferdinando II scelse come architetto - al posto di Antonio Niccolini, il preferito di Ferdinando I e Francesco I - Gaetano Genovese, il quale «studiò e progettò un rifacimento della Reggia sopra un piano grandioso comodissimo e bello, che presentò alla Maestà del Re» , che poi sostanzialmente recuperava l’idea del Fontana, e che rispondeva alla visione conservatrice del Re.
Da ricordare poi è anche che nella seconda metà degli anni Quaranta, resi ormai agibili gli appartamenti reali, vi fu la “riduzione” a giardino inglese - «sinuoso e penetrante così come la tendenza della cultura romantica suggeriva» - del maneggio grande, con la direttiva del “giardiniere botanico” Federico Dehnhardt e l’assistenza del botanico Gussone, cui faceva da contrappunto il giardino pensile neoclassico della Loggia del Belvedere, che, sospeso nel vuoto, si affacciava sull’incantevole scenario del Golfo.
Da ricordare infine sono la meravigliosa “Scala Grande” con la Grande Lamia di copertura, gli arredi e i preziosissimi tappeti (prodotti in parte in Belgio in parte a San Leucio).
Il Palazzo Reale di Napoli, come tutti sanno, non è opera dei Borbone. Fu voluto - in previsione di una visita nel Viceregno (visita poi non effettuata) del nuovo Re di Spagna Filippo III d’Asburgo (il figlio di Filippo II) - dal Viceré spagnolo Fernando Ruiz de Castro, che nel 1600 diede inizio alla fabbrica.
Se dedichiamo attenzione anche a tale struttura, è perché i Borbone ristrutturarono ed abbellirono notevolmente la reggia e l’intera area circostante, che assunse solo sotto Ferdinando II l’incantevole aspetto che ancora oggi ha.
Il Palazzo sarebbe sorto nella vasta area fra Santa Lucia e Castelnuovo; il progetto generale fu affidato ad uno dei più celebri architetti del tempo, Domenico Fontana, già autore delle grandi opere del Papa Sisto V a Roma; ma i lavori continuarono poi per decenni, e in non pochi casi si mutò il primitivo progetto del Fontana.
Comunque, per tutto il Seicento, la reggia, con il suo grande “Largo di Palazzo”, fu il cuore pulsante della vita politica e sociale napoletana.
All’arrivo di Re Carlo nel 1734, la reggia era in stato di abbandono e del tutto priva del necessario per accogliere il Re e la sua Corte, al punto che si dovette ricorrere al Monte di Pietà e a privati per acquistare mobili, tendaggi e suppellettili .
L’architetto Ferdinando Sanfelice ebbe l’incarico di costruire un appartamento per il Maggiordomo Maggiore sul braccio orientale verso Castelnuovo; nel 1742, poi, attuò altri restauri insieme all’ingegnere camerale Casimiro Vetromile.
Nel 1736 iniziò il trasporto delle collezioni farnesiane, poi in parte trasferite a Capodimonte. Per il matrimonio del Re con Maria Amalia di Sassonia, furono chiamati a Corte nel 1737 i migliori artisti presenti in Napoli per decorare alcune parti del Palazzo (in particolare la Sala Diplomatica, detta anche Prima Anticamera di Sua Maestà); ricordiamo fra gli altri: Francesco Solimena, Francesco De Mura, Nicola Maria Rossi, Domenico Antonio Vaccaro.
Nello stesso anno fu inaugurata una fabbrica di porcellane, primo “abbozzo” di quella che poi diverrà la gloriosa fabbrica di Capodimonte.
Nel 1751 iniziò l’attività della Reale Stamperia Palatina, che fu arricchita dei macchinari della celebre tipografia di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, mentre nel 1753 fu affidato al Vanvitelli il restauro della facciata del Fontana.
Ma, a dir la verità, Re Carlo non fu mai veramente affezionato al Palazzo Reale, sebbene vi abitasse, probabilmente sia perché troppo soggetto alla vita caotica della capitale, sia perché costruzione “non sua”. Nella sua mente e nel suo cuore vi erano già altre due regge, Caserta e Capodimonte: pertanto solo con Ferdinando IV ripresero i lavori.
Fu costruito il lungo corpo di fabbrica verso oriente, il Braccio Nuovo, occupando gran parte dei giardini, ove attualmente è situata la Biblioteca Nazionale; fu poi iniziata la costruzione del fronte verso il mare – che rimase però incompleto – e furono realizzate le prime sei campate di balconi.
Nel 1769 Ferdinando Fuga trasformò definitivamente la Gran Sala della Reggia spagnola, utilizzata dai Viceré per spettacoli, in Teatrino stabile di Corte, inaugurato con una Serenata o festa teatrale in musica di G.B. Sassi con musiche di Giovanni Paisiello. Il teatro ospitò soprattutto rappresentazioni particolari per il Re di Nicola Piccinni, Domenico Cimarosa e del Paisiello.
Sempre sotto la direzione del Fuga, negli anni Settanta furono decorate le sale; a questa fase risalgono le porte dipinte del palazzo, gli arazzi della Real Fabbrica tuttora conservati.
Nel 1773 il Re aveva adattato il terreno antistante per le esibizioni militari, destinando la Piazza del Castello alle tradizionali feste popolari che si organizzavano in precedenza in quel luogo.
Nel 1767 fu fondato il Collegio Militare, nel 1778 l’Accademia di Scienze e Lettere e nel 1785 si avviò la sistemazione del Grande Archivio. Fu anche ripristinato nel cortile del maneggio il Laboratorio della Porcellana, dopo che Carlo aveva portato tutto a Capodimonte: la direzione fu affidata a Domenico Venuti nel 1781. Infine nel 1782 Ferdinando inaugurò una Fabbrica di Acciai con maestri viennesi, anch’essa diretta dal Venuti.
Dopo il 1815, Ferdinando I volle il Canova a Corte, commissionandogli una statua di Carlo; nel 1819 il Canova ebbe anche l’incarico di farne una del Re stesso; ma ormai l’artista era vecchio e malato, e poté solo modellare il cavallo; la statua fu completata da Antonio Calì: i due monumenti furono poi collocati nella piazza nel 1829
Una generale ristrutturazione della reggia avvenne, come sempre, sotto il Regno di Ferdinando II .
Fin dai primi anni furono ideati vari progetti; poi nel 1836 il Maggiordomo Maggiore Principe di Bisignano, con un Real Rescritto, ordinò un censimento generale del Real Palazzo, al fine di «por mano ai lavori prossimi», previsti per l’anno successivo. «In tal modo, almeno sul piano formale, iniziava uno tra i più complessi interventi di architettura intrapresi dai Borbone, che si concluderà in maniera quasi emblematica poco prima della morte di Ferdinando II» .
L’intera operazione di riforma generale fu denominata “Riduzione”, e non a caso: «si trattava di fatti di ricostruire un’identità architettonica, procedendo per eliminazione, mediante una poderosa opera di demolizioni nella frastagliata cortina edilizia, che serrata, si estendeva dal lato S. Ferdinando e S. Carlo, laddove il Palazzo Vecchio dei viceré, costituiva una dissonante presenza (…)
La politica di Ferdinando II tese a centralizzare i vari poteri dello stato all’interno della Reggia, intendeva recuperare in tal modo, un modello di architettura rappresentativa, immersa in maniera organica nel tessuto urbano, visibile e riconoscibile nella sua funzione» .
L’opera era veramente enorme, in quanto si trattava di lacerare la disordinata edilizia stratificatasi nel tempo, che aveva provocato la sopravvivenza di disparate attività all’interno delle mura del palazzo e perfino l’insediamento di nuclei familiari che si tramandavano il diritto di residenza.
Ma l’aspetto che finì per imporsi fu senz’altro l’esigenza di sottomettere la “Riforma Generale” alle innovazioni – che si stavano gradatamente affermando anche a Napoli – della prima Rivoluzione Industriale.
«Lo sviluppo tecnologico, non poteva non interessare i lavori di “Riforma” del Palazzo, poiché esso si innestava in una visione globale di una Reggia, che fosse non solo rappresentativa, ma che fosse pure espressione dei suoi tempi, con un’apertura verso le nuove tecnologie, ritenute indispensabili per sopperire alle carenze dei sistemi artigianali, che immutati erano sopravvissuti fino agli inizi del secolo» .
Così fu programmato un radicale ammodernamento degli impianti e dei servizi, secondo i criteri di efficienza tipici della nascente industrializzazione: furono introdotti l’illuminazione a gas, avanzati sistemi di distribuzione dell’acqua corrente, la macchina a vapore per i servizi idraulici, una nuova rete di scarico e fognature, lamiere nervate di zinco in sostituzione delle tegole, prodotti avanzati delle fonderie impiegati per la costruzione del Ponte del Belvedere e per i sostegni degli impianti illuminanti, composti plastici impermeabili per i giunti critici, vetri e specchi con vernici protettive, ecc.
Il tutto avvenne sotto il costante controllo del Re, che creò apposite commissioni lungo tutto il ventennio della realizzazione della “Riforma”. Ferdinando II scelse come architetto - al posto di Antonio Niccolini, il preferito di Ferdinando I e Francesco I - Gaetano Genovese, il quale «studiò e progettò un rifacimento della Reggia sopra un piano grandioso comodissimo e bello, che presentò alla Maestà del Re» , che poi sostanzialmente recuperava l’idea del Fontana, e che rispondeva alla visione conservatrice del Re.
Da ricordare poi è anche che nella seconda metà degli anni Quaranta, resi ormai agibili gli appartamenti reali, vi fu la “riduzione” a giardino inglese - «sinuoso e penetrante così come la tendenza della cultura romantica suggeriva» - del maneggio grande, con la direttiva del “giardiniere botanico” Federico Dehnhardt e l’assistenza del botanico Gussone, cui faceva da contrappunto il giardino pensile neoclassico della Loggia del Belvedere, che, sospeso nel vuoto, si affacciava sull’incantevole scenario del Golfo.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 22 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore e neo maestroPietro Pasfil e chiunque voglia commentarle. .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Caro Gianni, tieni sempre pronto il telo che le cadute dall'alto fanno tanto male....

Per quanto riguarda le due belle lettere, come sappiano la Restaurazione borbonica venne preceduta da un periodo francese.
Trascrivo integralmente l'art. 10 del Decreto 11.03.1809 nr. 316, citato da Mestro Mario:
"10. Per le mostre di mercanzie che sogliono jnviarsi per posta, la tassa sarà a ragione del terzo dell'importo delle rispettive tariffe, purchè i plichi sieno presentati sotto fascia di carta. La tassa non potrà essere mai minore di quella delle lettere semplici."
Pertanto, la tariffa di gr. 2 spettante per lettera semplice (di fogli 1 = 4 facciate) veniva applicata a tali spedizioni.
La lettera da Chieti reca bollo circolare borbonico con data 20.10.1860. Vi fu un errore nella realizzazione di alcuni datari di tali bolli. Il mese di ottobre risulta essere "TTO." (invece di OTT.).
Come periodo storico.
La prima, da Foggia, siamo verso il tramonto dell'epoca Borbonica. La seconda da Chieti in piena dittatura Garibaldina.



pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Giuseppe Cammarano di Luigi Fusco
L’artista Giuseppe Cammarano (Sciacca, 1766 – Napoli, 1850) è stato tra i maggiori esponenti della pittura napoletana dalla fine degli anni Novanta del Settecento alla prima metà del secolo successivo. Egli svolse la sua attività di frescante, ornatore e ritrattista per più di settanta anni; diversi furono i suoi maestri, e sin dall’inizio della sua carriera fu al servizio dei Borbone, senza trascurare altre importanti committenze come quelle dei francesi e del resto della nobiltà regnicola. La produzione pittorica partenopea di Cammarano è sterminata, ma molte sue opere si trovano anche in Terra di Lavoro. Difatti alcune sue esecuzioni sono presenti nei siti reali borbonici di Caserta, Carditello e San Leucio.
Già nel 1791 Giuseppe Cammarano venne impegnato per la realizzazione delle “pitture della Stanza da Letto” della Reggia di Carditello. Presso questa regal tenuta di campagna l’artista siciliano per l’esecuzione dei suoi affreschi si ispirò ai lavori, già conclusi, di Fedele Fischetti, di Domenico Chelli (suo primo maestro) e Jacob Philipp Hackert. La visione dei dipinti della fabbrica di Carditello consentì a Cammarano di coniare un nuovo linguaggio pittorico che facesse capo alle esperienze tardo-barocche di Fischetti, alle scenografie architettoniche ed illusionistiche di Chelli, ed ai fotografici paesaggi neoclassici di Hackert.
Le stupefacenti prove dimostrate dal siciliano attraverso le pitture di Carditello furono premiate da Ferdinando IV di Borbone con un viaggio di studio a Roma. Durante il suo soggiorno romano ebbe modo di aggiornarsi sulle novità neoclassiche allora in voga.
Il suo ritorno a Napoli fu segnato da un nuovo incarico da parte di re Ferdinando, questi gli chiese di restaurare tutti gli affreschi della reggia di Carditello, deturpati dalle truppe francesi durante l’occupazione del sito avvenuta a seguito della rivoluzione partenopea.
Come è noto i Borbone non fecero in tempo a tornar dalla Sicilia dopo la parentesi repubblicana che dovettero ritornarvi a causa dell’arrivo delle forze napoleoniche. Anche durante il cosiddetto “decennio francese” Cammarano ebbe modo di esprimere la propria arte per importanti committenze; ma fu in particolare al tempo di Murat che egli raggiunse la massima notorietà.
Sotto la reggenza del cognato di Napoleone Giuseppe Cammarano divenne pittore di corte e professore della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Immediato fu poi il suo impiego come frescante in alcuni ambienti della Reggia vanvitelliana. Nel 1814 dipinse “Minerva premia le arti e le scienze” nella volta della Sala del Consiglio dell’appartamento ottocentesco. Dopo qualche anno eseguì anche l’affresco raffigurante “Cerere” nel piccolo “cabinet” poi dedicato a Francesco II.
La produzione artistica di Giuseppe Cammarano non conobbe arresti neanche con il ritorno dei Borbone, infatti per quanto possa esser stato maestro di fiducia dei napoleonidi, re Ferdinando, apprezzando ancora una volta le sue velleità artistiche, lo volle nuovamente suo pittore di corte, superando, con grande lungimiranza intellettuale, qualsiasi pregiudizio politico ed ideologico.
Nel 1818 l’autore di Sciacca dipinse per la restaurata dinastia borbonica in una sala “murattiana” dell’appartamento nuovo del real palazzo casertano “Ettore che rimprovera Paride”. Ma il capolavoro di Cammarano eseguito nella Reggia di Caserta è l’affresco, stante nella “Camera da Letto di Francesco II”, raffigurante “La vittoria di Teseo sul Minotauro” (1824). In questo dipinto il pittore siciliano sintetizzò tutta la cultura neoclassica appresa attraverso la visione delle opere di Hackert e di Füger, senza omettere la sua personale interpretazione del classicismo rinascimentale di Raffaello.
L’attività del pittore di Sciacca proseguì ancora in favore della corte borbonica anche sotto la reggenza di Francesco I. Nota è infatti la serie dei ritratti della famiglia del figlio di re Ferdinando, attualmente conservati nei depositi della Reggia vanvitelliana.
Gli ultimi anni della sua carriera artistica pure furono spesi a Caserta. La stima accordatagli da Ferdinando II gli consentì di mantenere la sua posizione di pittore di corte, inoltre fu incaricato di procedere ai restauri di diversi affreschi del Belvedere di San Leucio, a cui aveva già accorso, sia nella veste di autore che di restauratore, diversi anni prima.
All’indomani del trasferimento della sedia vescovile casertana dalla medioevale borgata di “Casa Hirta” alla ormai istituita città del piano, Cammarano venne impegnato nella decorazione di alcuni ambienti della nuova cattedrale di Caserta. L’opera massima di questi suoi ultimi interventi è la “Ultima Cena” (1843) dell’abside.
Nel 1850 l’artista siciliano concludeva la sua esistenza, e già nel 1862, quindi a dodici anni dalla sua morte, veniva ricordato, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra, nell’elenco dei maestri più rappresentativi della scuola napoletana di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento. Nella relazione approntata in merito veniva così precisata la sua posizione: “surse tra noi il Cammarano Giuseppe in quella medesima guisa che a capo dell’Italiana pittura e in più grandi proporzioni d’importanza e di merito, sorgevano nella rimanente Italia il Camuccini, il Benvenuti, il Landi”. (Cfr. “Relazione sullo svolgimento delle tre arti, pittura, scultura ed architettura nelle province meridionali dal 1777 al 1862, scritta in occasione del sottocomitato speciale delle arti in Napoli, per l’esposizione di Londra del 1862”, in ‘Memorie di Belle Arti’, Napoli, 1862, Miscellanea XXVII, p. 32.).
Giuseppe Cammarano di Luigi Fusco
L’artista Giuseppe Cammarano (Sciacca, 1766 – Napoli, 1850) è stato tra i maggiori esponenti della pittura napoletana dalla fine degli anni Novanta del Settecento alla prima metà del secolo successivo. Egli svolse la sua attività di frescante, ornatore e ritrattista per più di settanta anni; diversi furono i suoi maestri, e sin dall’inizio della sua carriera fu al servizio dei Borbone, senza trascurare altre importanti committenze come quelle dei francesi e del resto della nobiltà regnicola. La produzione pittorica partenopea di Cammarano è sterminata, ma molte sue opere si trovano anche in Terra di Lavoro. Difatti alcune sue esecuzioni sono presenti nei siti reali borbonici di Caserta, Carditello e San Leucio.
Già nel 1791 Giuseppe Cammarano venne impegnato per la realizzazione delle “pitture della Stanza da Letto” della Reggia di Carditello. Presso questa regal tenuta di campagna l’artista siciliano per l’esecuzione dei suoi affreschi si ispirò ai lavori, già conclusi, di Fedele Fischetti, di Domenico Chelli (suo primo maestro) e Jacob Philipp Hackert. La visione dei dipinti della fabbrica di Carditello consentì a Cammarano di coniare un nuovo linguaggio pittorico che facesse capo alle esperienze tardo-barocche di Fischetti, alle scenografie architettoniche ed illusionistiche di Chelli, ed ai fotografici paesaggi neoclassici di Hackert.
Le stupefacenti prove dimostrate dal siciliano attraverso le pitture di Carditello furono premiate da Ferdinando IV di Borbone con un viaggio di studio a Roma. Durante il suo soggiorno romano ebbe modo di aggiornarsi sulle novità neoclassiche allora in voga.
Il suo ritorno a Napoli fu segnato da un nuovo incarico da parte di re Ferdinando, questi gli chiese di restaurare tutti gli affreschi della reggia di Carditello, deturpati dalle truppe francesi durante l’occupazione del sito avvenuta a seguito della rivoluzione partenopea.
Come è noto i Borbone non fecero in tempo a tornar dalla Sicilia dopo la parentesi repubblicana che dovettero ritornarvi a causa dell’arrivo delle forze napoleoniche. Anche durante il cosiddetto “decennio francese” Cammarano ebbe modo di esprimere la propria arte per importanti committenze; ma fu in particolare al tempo di Murat che egli raggiunse la massima notorietà.
Sotto la reggenza del cognato di Napoleone Giuseppe Cammarano divenne pittore di corte e professore della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Immediato fu poi il suo impiego come frescante in alcuni ambienti della Reggia vanvitelliana. Nel 1814 dipinse “Minerva premia le arti e le scienze” nella volta della Sala del Consiglio dell’appartamento ottocentesco. Dopo qualche anno eseguì anche l’affresco raffigurante “Cerere” nel piccolo “cabinet” poi dedicato a Francesco II.
La produzione artistica di Giuseppe Cammarano non conobbe arresti neanche con il ritorno dei Borbone, infatti per quanto possa esser stato maestro di fiducia dei napoleonidi, re Ferdinando, apprezzando ancora una volta le sue velleità artistiche, lo volle nuovamente suo pittore di corte, superando, con grande lungimiranza intellettuale, qualsiasi pregiudizio politico ed ideologico.
Nel 1818 l’autore di Sciacca dipinse per la restaurata dinastia borbonica in una sala “murattiana” dell’appartamento nuovo del real palazzo casertano “Ettore che rimprovera Paride”. Ma il capolavoro di Cammarano eseguito nella Reggia di Caserta è l’affresco, stante nella “Camera da Letto di Francesco II”, raffigurante “La vittoria di Teseo sul Minotauro” (1824). In questo dipinto il pittore siciliano sintetizzò tutta la cultura neoclassica appresa attraverso la visione delle opere di Hackert e di Füger, senza omettere la sua personale interpretazione del classicismo rinascimentale di Raffaello.
L’attività del pittore di Sciacca proseguì ancora in favore della corte borbonica anche sotto la reggenza di Francesco I. Nota è infatti la serie dei ritratti della famiglia del figlio di re Ferdinando, attualmente conservati nei depositi della Reggia vanvitelliana.
Gli ultimi anni della sua carriera artistica pure furono spesi a Caserta. La stima accordatagli da Ferdinando II gli consentì di mantenere la sua posizione di pittore di corte, inoltre fu incaricato di procedere ai restauri di diversi affreschi del Belvedere di San Leucio, a cui aveva già accorso, sia nella veste di autore che di restauratore, diversi anni prima.
All’indomani del trasferimento della sedia vescovile casertana dalla medioevale borgata di “Casa Hirta” alla ormai istituita città del piano, Cammarano venne impegnato nella decorazione di alcuni ambienti della nuova cattedrale di Caserta. L’opera massima di questi suoi ultimi interventi è la “Ultima Cena” (1843) dell’abside.
Nel 1850 l’artista siciliano concludeva la sua esistenza, e già nel 1862, quindi a dodici anni dalla sua morte, veniva ricordato, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra, nell’elenco dei maestri più rappresentativi della scuola napoletana di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento. Nella relazione approntata in merito veniva così precisata la sua posizione: “surse tra noi il Cammarano Giuseppe in quella medesima guisa che a capo dell’Italiana pittura e in più grandi proporzioni d’importanza e di merito, sorgevano nella rimanente Italia il Camuccini, il Benvenuti, il Landi”. (Cfr. “Relazione sullo svolgimento delle tre arti, pittura, scultura ed architettura nelle province meridionali dal 1777 al 1862, scritta in occasione del sottocomitato speciale delle arti in Napoli, per l’esposizione di Londra del 1862”, in ‘Memorie di Belle Arti’, Napoli, 1862, Miscellanea XXVII, p. 32.).
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Domenico Mondo di Luigi Fusco
Il pittore Domenico Mondo è stato tra le personalità artistiche più rilevanti della Terra di Lavoro durante l’età borbonica. Nato a Capodrise, nel 1723, ereditò dal padre molteplici interessi culturali, che spaziavano dalle rappresentazioni formali alla letteratura metastasiana, versatile fu inoltre la sua passione per la musica. Ma il suo grande amore fu di certo la pittura.
Domenico Mondo fu allievo di Francesco Solimena. Presso il maestro di Solofra apprese il gusto barocco ed il senso dell’estetica “ben composta e di ottima colorazione”. La sua arte fu immediatamente compresa da Luigi Vanvitelli, il quale lo fece entrare nella sua cerchia per la realizzazione di alcune decorazioni per il palazzo borbonico di Caserta. Però nonostante fosse amato da principi ed illustri committenti, la vera fortuna di Mondo cominciò solo nel 1789: quando Ferdinando IV gli offrì l’incarico di condirettore, insieme al tedesco Tischbein, della Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Purtroppo la sua pittura per quanto potesse essere squisitamente tardo-barocca, a tratti velatamente rococò, e di semplice grazia, non riuscì comunque a conseguire i successi che aveva tanto sperato. Nello stesso ’89 Domenico Mondo non divenne il pittore della corte di Ferdinando IV e Maria Carolina. Questo incarico venne affidato ad un altro tedesco: Jacob Philipp Hackert. La delusione del capodrisano fu tale che lo indusse a scrivere un sonetto per lo smacco ricevuto. Con le seguenti parole egli riuscì ad esprimere la propria amarezza: IL POETA DI CORTE A NIUN SIMILE,
SIRE, IL GIUDIZIO VOSTRO HA SCELTO BENE
MA SE ANCOR VI PIACESSER VARIE SCENE,
RESTI PUR QUEL DI CORTE, IO DI CORTILE.
CH’IO MI CONTENTO COL MIO BASSO STILE
CANTAR A SOLO COME VIENE, VIENE,
LASCIANDO ALTRUI LA GLORIA CHE CONVIENE
E STARMI A UN CANTO, DISPREZZATO E VILE.
Ma il disagio di Domenico Mondo non fu soltanto di tipo professionale, molti suoi dispiaceri vennero provocati da fatti prettamente economici. Difatti, diversi erano i debiti che la Corona borbonica aveva nei suoi confronti, e tanti erano gli arretrati che egli attendeva. Mondo, anche in questa occasione, riuscì a manifestare i propri dissapori attraverso la propria poesia. Ed un altro sonetto fu redatto, questa volta però indirizzato al ministro Bernardo Tanucci.
Lo scritto così recitava:
ASPETTAR PER QUATTRO ANNI LA RISERBA
DI UN AFFAR CHE NON HA CAPO NE’ CODA,
TRATTAR CON UN FISCAL FATTO ALLA MODA
E CON UN ARCHITETTO ANCOR IN ERBA,
STARE A DISAGIO IN VITA AMARA E ACERBA
COLLA SPERANZA SOL DI AVER LA BRODA
MENTRE SI DA’ AI COGLION LA CARNE SODA
E TAL GENTE VEDER GONFIA E SUPERBA.
Dalla lettura di questo componimento si evince che le lamentele del capodrisano non erano rivolte solo all’ex reggente toscano, ma anche al figlio di Vanvitelli, Carlo, il quale dal 1773, dopo la morte del padre, era stato nominato, dal Consiglio d’Amministrazione della Casa borbonica, Real Primo Architetto di Corte.
Tra mille difficoltà e mancate opportunità Domenico Mondo riuscì comunque ad affermare il proprio linguaggio artistico, caratterizzandolo attraverso il recupero della fortunata tradizione barocca napoletana e mediandolo con il naturalismo di Mattia Preti e la pittura illusionista e piacevole di Luca Giordano.
Mondo lavorò sostanzialmente tra Napoli e Caserta; molti sono i dipinti a lui attribuiti e ritrovati nelle tante chiese, nonché presso diversi privati, del napoletano e del casertano. Ma la testimonianza tangibile di questo pittore resta la sua residenza di Capodrise. Questo palazzo è il risultato di una visione architettonica fortemente barocca. Negli ultimi anni tale edificio è stato oggetto di vari interventi di restauro che ne hanno ripristinato, in parte, l’aspetto originario. In esso si sviluppano alcune sale di forma rettangolari, aventi la funzione di ambienti di rappresentanza, in cui è possibile riconoscere l’impianto decorativo che fu realizzato dallo stesso Mondo; altre pitture, invece, caratterizzate da un visibile quadraturismo scenografico sembra siano state eseguite dai fratelli Magri, già in forza presso il real complesso vanvitelliano di Caserta.
Domenica Mondo morì nel 1806, quando a Napoli c’erano i francesi di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone; ma ormai la sua pittura, come quella dei suoi coevi come Bardellino, Fischetti e tanti altri, era solo un ricordo del passato. Nuove tendenze affascinavano la moderna nobiltà napoletana, nuovi artisti d’oltralpe fecero la loro fortuna nella capitale partenopea.
------------------------------------------------------------------------------------------ Domenico Mondo, pittore di straordinaria modernità formale, formatosi presso il Solimena, che ha lasciato opere in chiese e palazzi del napoletano, alcune delle quali sono conservate anche presso la Reggia di Caserta. La Pinacoteca Provinciale conserva, di Domenico Mondo, un bozzetto raffigurante la Madonna con Bambino fra Sant’Andrea apostolo e San Giovanni Evangelista.
La figura di Domenico Mondo (Capodrise 1723-Napoli 1806) è stata rivalutata negli ultimi anni grazie soprattutto agli studi di Nicola Spinosa, Daniela Campanelli e Renato Ruotolo.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Tommaso De Vivo di Luigi Fusco
L’antica città di Atella, tra le sue tante beltà storico-artistiche ed archeologiche, ed i suoi innumerevoli personaggi storici, verso la fine del XVIII secolo, ha dato i natali anche al pittore Tommaso De Vivo. Nato da Pietro ed Elisabetta Marchesoni, l’artista atellano iniziò il suo apprendistato presso la Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Ancora adolescente De Vivo conseguì la specializzazione in pittura eseguendo diverse copie di alcuni dipinti Cinque-Seicenteschi, conservati nel Real Museo Borbonico della capitale partenopea. I livelli raggiunti nell’arte del copiare gli consentirono, successivamente, di entrar a far parte di svariati circoli intellettuali composti dalla miglior nobiltà napoletana, nonché dalla più stimata borghesia locale. Principi, marchesi, avvocati e notai furono i principali acquirenti delle opere dell’atellano. La signoria partenopea tanto ambiva ad avere dentro casa una copia di un Caravaggio, Raffaello o Ribeira eseguita da Tommaso De Vivo. Un suo dipinto sostituiva egregiamente l’originale e rendeva alla parete, verosimilmente tappezzata in seta di San Leucio, di un appartamento di un qualsiasi palazzo, probabilmente sanfeliciano, un prestigio a dir poco effimero, ma quanto più efficace nel sostituire l’autentico. L’amicizia con il marchese Luigi Medici consentì al De Vivo di ricevere la protezione del sovrano Francesco I di Borbone; questi assegnò al pittore un sussidio di 24 ducati mensili, perché andasse a Roma a perfezionarsi nella disciplina pittorica. Nella capitale pontificia l’atellano conobbe l’arte del Landi e del Camuccini. Presso la città eterna De Vivo si esercitò nel disegno ed apprese i fondamenti dell’arte romana. Il soggiorno romano fece conoscere al De Vivo anche i grandi capolavori del Cinquecento e del Seicento, rispettivamente rappresentati dalle opere di Raffaello e Caravaggio. Nonostante gli entusiasmi dovuti alla nuova esperienza artistica al di fuori della propria patria, l’autore campano mantenne sempre forti legami con l’ambiente culturale insito nella cittadina napoletana. Gli anni Trenta del XIX secolo segnarono per Tommaso De Vivo il suo ritorno a Napoli e l’investitura di pittore della Real casa borbonica. Egli riuscì ad accattivarsi le simpatie dei sovrani partenopei nel 1830, quando presentò alcuni suoi lavori all’Esposizione Borbonica. Per l’occasione l’atellano dipinse “Diomede che scende dal Carro”, tela oggi esposta al Museo e Gallerie Nazionali di Napoli; “San Francesco di Paola in Estasi” ed un “Ritratto virile”, entrambi copie di Guido Reni; infine realizzò “Il soccorso all’indigenza”, opera attualmente conservata nei depositi della Reggia di Caserta. La committenza reale diede la possibilità al De Vivo di creare diverse opere di gusto seicentesco, marcatamente naturalistiche ed, in qualche caso, esclusivamente caravaggesche. Ma la “tempeire” culturale dell’Ottocento romantico influì non poco sulla sua pittura. Il richiamo e la celebrazione della cultura medioevale riecheggiò nelle tele di Tommaso De Vivo; le architetture romaniche e le scenografie gotiche divennero i soggetti principali di numerose sue rappresentazioni. Ma di fondo la sua cultura fu impregnata di elementi e dettami squisitamente accademici. Ed è proprio tal caratterizzazione, forse un po’ reazionaria, ma anche conservatrice, che offrì una ulteriore opportunità all’artista originario di Orta di Atella, cioè di ricevere alcuni incarichi relativi alla decorazione, attraverso specifici dipinti, di alcuni ambienti del palazzo reale casertano. Tra il 1845 ed il 1846 De Vivo eseguì la “Sibilla fa osservare ad Enea Tizio incatenato alla rupe, divorato dall’avvoltoio”, la “Zingara predice a Sisto V l’ascesa al pontificato” ed il ritratto di papa Pio IX. Tutte opere sapientemente ispirate all’idea, di tipo rinascimentale, di forma, grandezza, purezza e rispetto della composizione pura ed equilibrata, tanto cara all’arte degli antichi greci e romani. Il favore raggiunto negli anni di Ferdinando II di Borbone diede la possibilità al De Vivo di diventare tra i principali e più importanti pittori attivi a Napoli nella prima metà del XIX secolo. La sua gloria, la sua bravura, e non ultima la sua notorietà, vennero ripagate dal re da una serie di incarichi all’interno della Real Accademia di Belle Arti. La sua fama venne poi ricordata da un altro autore partenopeo, verosimilmente un suo allievo all’Accademia, e presumibilmente di origini atellane, di cui però conosciamo il nome; e questi, appunto, celebrò il maestro attraverso un suo busto-ritratto, oggi esibito nel circolo “Tommaso De Vivo” di Succivo.
Tommaso De Vivo di Luigi Fusco
L’antica città di Atella, tra le sue tante beltà storico-artistiche ed archeologiche, ed i suoi innumerevoli personaggi storici, verso la fine del XVIII secolo, ha dato i natali anche al pittore Tommaso De Vivo. Nato da Pietro ed Elisabetta Marchesoni, l’artista atellano iniziò il suo apprendistato presso la Real Accademia di Belle Arti di Napoli. Ancora adolescente De Vivo conseguì la specializzazione in pittura eseguendo diverse copie di alcuni dipinti Cinque-Seicenteschi, conservati nel Real Museo Borbonico della capitale partenopea. I livelli raggiunti nell’arte del copiare gli consentirono, successivamente, di entrar a far parte di svariati circoli intellettuali composti dalla miglior nobiltà napoletana, nonché dalla più stimata borghesia locale. Principi, marchesi, avvocati e notai furono i principali acquirenti delle opere dell’atellano. La signoria partenopea tanto ambiva ad avere dentro casa una copia di un Caravaggio, Raffaello o Ribeira eseguita da Tommaso De Vivo. Un suo dipinto sostituiva egregiamente l’originale e rendeva alla parete, verosimilmente tappezzata in seta di San Leucio, di un appartamento di un qualsiasi palazzo, probabilmente sanfeliciano, un prestigio a dir poco effimero, ma quanto più efficace nel sostituire l’autentico. L’amicizia con il marchese Luigi Medici consentì al De Vivo di ricevere la protezione del sovrano Francesco I di Borbone; questi assegnò al pittore un sussidio di 24 ducati mensili, perché andasse a Roma a perfezionarsi nella disciplina pittorica. Nella capitale pontificia l’atellano conobbe l’arte del Landi e del Camuccini. Presso la città eterna De Vivo si esercitò nel disegno ed apprese i fondamenti dell’arte romana. Il soggiorno romano fece conoscere al De Vivo anche i grandi capolavori del Cinquecento e del Seicento, rispettivamente rappresentati dalle opere di Raffaello e Caravaggio. Nonostante gli entusiasmi dovuti alla nuova esperienza artistica al di fuori della propria patria, l’autore campano mantenne sempre forti legami con l’ambiente culturale insito nella cittadina napoletana. Gli anni Trenta del XIX secolo segnarono per Tommaso De Vivo il suo ritorno a Napoli e l’investitura di pittore della Real casa borbonica. Egli riuscì ad accattivarsi le simpatie dei sovrani partenopei nel 1830, quando presentò alcuni suoi lavori all’Esposizione Borbonica. Per l’occasione l’atellano dipinse “Diomede che scende dal Carro”, tela oggi esposta al Museo e Gallerie Nazionali di Napoli; “San Francesco di Paola in Estasi” ed un “Ritratto virile”, entrambi copie di Guido Reni; infine realizzò “Il soccorso all’indigenza”, opera attualmente conservata nei depositi della Reggia di Caserta. La committenza reale diede la possibilità al De Vivo di creare diverse opere di gusto seicentesco, marcatamente naturalistiche ed, in qualche caso, esclusivamente caravaggesche. Ma la “tempeire” culturale dell’Ottocento romantico influì non poco sulla sua pittura. Il richiamo e la celebrazione della cultura medioevale riecheggiò nelle tele di Tommaso De Vivo; le architetture romaniche e le scenografie gotiche divennero i soggetti principali di numerose sue rappresentazioni. Ma di fondo la sua cultura fu impregnata di elementi e dettami squisitamente accademici. Ed è proprio tal caratterizzazione, forse un po’ reazionaria, ma anche conservatrice, che offrì una ulteriore opportunità all’artista originario di Orta di Atella, cioè di ricevere alcuni incarichi relativi alla decorazione, attraverso specifici dipinti, di alcuni ambienti del palazzo reale casertano. Tra il 1845 ed il 1846 De Vivo eseguì la “Sibilla fa osservare ad Enea Tizio incatenato alla rupe, divorato dall’avvoltoio”, la “Zingara predice a Sisto V l’ascesa al pontificato” ed il ritratto di papa Pio IX. Tutte opere sapientemente ispirate all’idea, di tipo rinascimentale, di forma, grandezza, purezza e rispetto della composizione pura ed equilibrata, tanto cara all’arte degli antichi greci e romani. Il favore raggiunto negli anni di Ferdinando II di Borbone diede la possibilità al De Vivo di diventare tra i principali e più importanti pittori attivi a Napoli nella prima metà del XIX secolo. La sua gloria, la sua bravura, e non ultima la sua notorietà, vennero ripagate dal re da una serie di incarichi all’interno della Real Accademia di Belle Arti. La sua fama venne poi ricordata da un altro autore partenopeo, verosimilmente un suo allievo all’Accademia, e presumibilmente di origini atellane, di cui però conosciamo il nome; e questi, appunto, celebrò il maestro attraverso un suo busto-ritratto, oggi esibito nel circolo “Tommaso De Vivo” di Succivo.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 23 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Caro Gianni,
anzichè commentarla, rivolgo questa domanda a Mestro Mario che approfitto per salutare:
Quella bellissima lettera è quella cui il Sassone A.S.I. 2007, alla pag. 167 fa cenno nella descrizione del I tipo, I stato del gr. 2 (prima data nota 5 luglio 1860)?



pasfil
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Mentre attendiamo l'Amico Mario con la Sua risposta al "quesito"concernente la pagina 23 .......postiamo la pagina 24...cordialmente !gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Giacinto Gigante (1806-1876).
Con il termine «Scuola di Posillipo» si intende una corrente pittorica che si sviluppò a Napoli tra il 1820 e il 1850. La corrente nacque dalla presenza a Napoli, a partire dal 1815, di un pittore di origine olandese: Antonio Pitloo (1791-1837). La pittura di paesaggio era una tradizione che a Napoli risaliva già alla metà del Seicento con Salvator Rosa. Per tutto il Settecento, la pittura di paesaggio era stata orientata a due filoni principali: il gusto dello scenografico e il gusto del vedutismo turistico. Protagonista del primo filone fu soprattutto Filippo Hackert, con quadri dal taglio orizzontale e ampio sviluppo grandangolare. Del secondo filone ricordiamo in particolare Paolo Fabris che probabilmente introdusse a Napoli la tecnica della gouache, caratteristica di una grandissima parte della produzione partenopea. I piccoli paesaggi realizzati a gouaches erano indirizzati al mercato dei turisti che, nel Settecento, avevano a Napoli una tappa obbligata del loro Grand Tour italiano per ammirarvi il Vesuvio, gli scavi di Pompei e di Ercolano, le isole del golfo.
La novità introdotta da Pitloo, nella tradizione locale della pittura di paesaggio, consistette soprattutto nel disegno dal vero e nella resa impressionistica degli effetti di luce e di colore. La sua fu una ricerca che lo accomunò ad un altro grande pittore paesaggista di quel tempo: Camille Corot che, con la scuola di Barbizon, stava sperimentando per la prima volta la tecnica dell’en plain air. È da ricordare che l’ambiente napoletano era a conoscenza della pittura di paesaggio europea, anche perché i protagonisti di queste ricerche, come Corot, Constable, Turner, visitarono anche loro l’Italia facendovi conoscere le loro novità tecniche.
Dopo il 1837, anno di morte del Pitloo, il protagonista indiscusso della scuola di Posillipo divenne Giacinto Gigante (1806-1876). Figlio di un altro pittore, Gaetano, il Gigante portò a livelli eccelsi la sensazione pittoresca dei suoi paesaggi e delle sue vedute, dove prevale sempre il sentimento di intimismo lirico. Gli angoli visivi non sono mai ampi, ma ristretti a piccoli spazi visti con taglio quasi fotografico. La sensazione intima è data dalla quotidianeità quasi banale delle cose raffigurate che però si trasfigurano in una visione calma e quasi malinconica della realtà.
La scuola di Posillipo esaurì la sua maggior vitalità tra il 1850 e il 1860, quando le nuove tendenze naturalistiche, che a Napoli furono introdotte soprattutto dai fratelli Palizzi, resero inattuali la liricità così forte e così romantica dei pittori di questa scuola. Tra i protagonisti minori di questa scuola è da ricordare Achille Vianelli che dal 1848 al 1894, anno della sua morte, ha vissuto ed operato a Benevento. La sua pittura, di un vedutismo più fotografico e meno lirico rispetto a quella di Gigante, rimane come interessante documento iconografico per scoprire l’aspetto ottocentesco di luoghi ancora esistenti o scomparsi.
Giacinto Gigante (1806-1876).
Con il termine «Scuola di Posillipo» si intende una corrente pittorica che si sviluppò a Napoli tra il 1820 e il 1850. La corrente nacque dalla presenza a Napoli, a partire dal 1815, di un pittore di origine olandese: Antonio Pitloo (1791-1837). La pittura di paesaggio era una tradizione che a Napoli risaliva già alla metà del Seicento con Salvator Rosa. Per tutto il Settecento, la pittura di paesaggio era stata orientata a due filoni principali: il gusto dello scenografico e il gusto del vedutismo turistico. Protagonista del primo filone fu soprattutto Filippo Hackert, con quadri dal taglio orizzontale e ampio sviluppo grandangolare. Del secondo filone ricordiamo in particolare Paolo Fabris che probabilmente introdusse a Napoli la tecnica della gouache, caratteristica di una grandissima parte della produzione partenopea. I piccoli paesaggi realizzati a gouaches erano indirizzati al mercato dei turisti che, nel Settecento, avevano a Napoli una tappa obbligata del loro Grand Tour italiano per ammirarvi il Vesuvio, gli scavi di Pompei e di Ercolano, le isole del golfo.
La novità introdotta da Pitloo, nella tradizione locale della pittura di paesaggio, consistette soprattutto nel disegno dal vero e nella resa impressionistica degli effetti di luce e di colore. La sua fu una ricerca che lo accomunò ad un altro grande pittore paesaggista di quel tempo: Camille Corot che, con la scuola di Barbizon, stava sperimentando per la prima volta la tecnica dell’en plain air. È da ricordare che l’ambiente napoletano era a conoscenza della pittura di paesaggio europea, anche perché i protagonisti di queste ricerche, come Corot, Constable, Turner, visitarono anche loro l’Italia facendovi conoscere le loro novità tecniche.
Dopo il 1837, anno di morte del Pitloo, il protagonista indiscusso della scuola di Posillipo divenne Giacinto Gigante (1806-1876). Figlio di un altro pittore, Gaetano, il Gigante portò a livelli eccelsi la sensazione pittoresca dei suoi paesaggi e delle sue vedute, dove prevale sempre il sentimento di intimismo lirico. Gli angoli visivi non sono mai ampi, ma ristretti a piccoli spazi visti con taglio quasi fotografico. La sensazione intima è data dalla quotidianeità quasi banale delle cose raffigurate che però si trasfigurano in una visione calma e quasi malinconica della realtà.
La scuola di Posillipo esaurì la sua maggior vitalità tra il 1850 e il 1860, quando le nuove tendenze naturalistiche, che a Napoli furono introdotte soprattutto dai fratelli Palizzi, resero inattuali la liricità così forte e così romantica dei pittori di questa scuola. Tra i protagonisti minori di questa scuola è da ricordare Achille Vianelli che dal 1848 al 1894, anno della sua morte, ha vissuto ed operato a Benevento. La sua pittura, di un vedutismo più fotografico e meno lirico rispetto a quella di Gigante, rimane come interessante documento iconografico per scoprire l’aspetto ottocentesco di luoghi ancora esistenti o scomparsi.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Si la lettera è la stessa cui fa riferimento Pasfil. Mario
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Re: Da Napoli a Sofia..........

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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Antonio Capece Minutolo
5 marzo 1768 -4 marzo 1838
Antonio Capece Minutolo nasce a Napoli il 5 marzo 1768 da una delle famiglie nobili più antiche del regno, che aveva signoria sul vasto feudo di Canosa, in Puglia, ed era ascritta al primo dei Sedili o circoscrizioni di Napoli, quello di Capuana. La cappella di famiglia, edificata nel duomo della città partenopea , con i ritratti di numerosi uomini politici, due cardinali e uno stuolo di guerrieri, testimonia la virtù della stirpe dei Capece Minutolo, che hanno servito per secoli il regno di Napoli e la Chiesa cattolica, senza essere contaminati da quel declassamento dell'aristocrazia feudale in nobiltà cortigiana, verificatosi sotto la spinta dell'accentramento burocratico e amministrativo.
Il giovane Antonio compie gli studi di filosofia a Roma, presso il Collegio Nazareno dei gesuiti, quindi il padre lo avvia alla carriera forense ma egli, pur distinguendosi nella trattazione delle cause criminali, sente che l'avvocatura non è la sua vocazione. Le "declamazioni dei falsi liberali e dei miscredenti" lo tentano in quegli anni, concretizzandosi nell'invito ad affiliarsi alla massoneria, ma non lo attirano nella rete, anzi lo inducono ad approfondire la conoscenza della teologia e del diritto pubblico della nazione napoletana. Nel 1795, con un'orazione su La Trinità, diretta a confutare i deisti, che postulano una religione naturale fondata sull'"unità" di Dio, e con una dissertazione accademica su L'Utilità della Monarchia nello stato civile, il giovane principe scende in campo per difendere la causa del trono e dell'altare, cui attentano le teorie degli illuministi e le realizzazioni della Rivoluzione francese.
Richiamandosi alla tradizione del regno di Napoli, egli ricorda che non può esservi vera monarchia senza corpi intermedi, il più importante dei quali è l'aristocrazia, e che la società ha una sua personalità specifica, pur nella sottomissione e nella fedeltà al monarca, il quale da parte sua è legittimo quando rispetta le leggi e le consuetudini della nazione. La monarchia feudale, quindi, è organicamente in rapporto con i ceti e con le comunità, e, all'esterno del regno, con il Papato e con l'impero. Nel 1796, con le Riflessioni critiche sull'opera dell'avvocato fiscale sig. D. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra, precisa il suo pensiero sui compiti della nobiltà nell'ora presente. In particolare, muovendo dalla considerazione che i feudi moderni non erano più concessi dal monarca in ricompensa di servigi ricevuti e in cambio del servizio militare prestato dai nobili, ma erano diventati corpi venali, che potevano anche essere acquistati, senza obblighi o vincoli connessi, egli ritiene priva di fondamento giuridico la pretesa del re d'imporre il servizio militare ai baroni; costoro, tuttavia, per il senso dell'onore e della fedeltà che li caratterizza, devono fornire denaro e soldati alla nazione quando questa è in pericolo. L'occasione di dare concreta esecuzione a queste affermazioni non tarda a presentarsi.
Nel novembre del 1798, all'approssimarsi dell'invasione dell'esercito rivoluzionario francese, Antonio Capece Minutolo recluta soldati a sue spese e incita la popolazione alla resistenza. Alla partenza della corte e di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) per la Sicilia, viene nominato membro della Deputazione Straordinaria per il Buon Governo e per l' Interna Tranquillità, scontrandosi subito con Francesco Pignatelli, principe di Strongoli (1734-1812), vicario generale del regno. Il principe di Canosa, sulla base delle antiche consuetudini del regno, rivendica alla città di Napoli il privilegio di rappresentare la nazione in assenza del sovrano, come era già accaduto altre volte in passato; tuttavia il vicario il quale incarnava le tendenze assolutistiche, che miravano a rompere il rapporto organico fra monarca e società a svantaggio della seconda, concepita come una massa indifferenziata di sudditi si oppone alle richieste della municipalità, per di più accusando i rappresentanti della nobiltà di voler instaurare una "repubblica aristocratica", e conclude un armistizio con i francesi invasori.
La capitale è espugnata nel gennaio del 1799, dopo le gloriose "tre giornate", in cui i napoletani, soprattutto i lazzari, cioè il popolo minuto, si armano e resistono valorosamente ai giacobini stranieri e a quelli locali, i "collaborazionisti". Antonio Capece Minutolo è arrestato e condannato a morte senza processo.
La pronta reazione popolare, animata dal cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che alla testa dell'esercito della Santa Fede giunge in poco tempo alle porte della capitale, salva la vita all'intrepido aristocratico, il quale non sfugge però alla Giunta di Stato borbonica, che gli infligge "anni 5 di castello" per insubordinazione nei confronti del vicario regio. I repubblicani avevano punito in lui il realista e i realisti punivano l'aristocratico, cioè i due elementi che egli componeva armoniosamente nella sua persona. Alla condanna dei cavalieri napoletani segue lo scioglimento dei Sedili "l'atto più rivoluzionario compiuto dal dispotismo illuminato borbonico", secondo il giudizio dello storico Walter Maturi (1902-1961), che priva la nobiltà di ogni residua influenza politica e la nazione della sua rappresentanza.
Scarcerato grazie all'amnistia generale del 1801, il principe di Canosa può riprendere i suoi studi e, due anni dopo, dà alle stampe il Discorso sulla decadenza della Nobiltà, in cui individua la causa del declino di questo fondamentale ceto nella crisi del regime monarchico prodotta dalla dissennata politica di accentramento, che contribuisce a demolire la società tradizionale organica e cristiana. Nel 1806, di fronte alla seconda invasione francese, vuol prendersi con la Corte una "vendetta da cavaliere", mettendosi agli ordini del re e seguendolo in Sicilia. Questo atteggiamento conquista il sovrano, che gli affida il compito di difendere le isole di Ponza, Ventotene e Capri, gli unici territori non ancora caduti nelle mani dei francesi, e, dopo la Restaurazione, lo chiama a partecipare al governo.
Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, perde l'occasione per operare una restaurazione efficace, accontentandosi di quella politica di "conciliazione", cioè di compromesso con i vecchi rivoluzionari, favorita in Europa da Klemens Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859), e a Napoli da Luigi Medici, principe di Ottaviano (1759-1830), che ebbe più volte la direzione del governo. A nulla valgono gli accorti giudizi del principe di Canosa, il quale denuncia l'ambigua Restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1814-1815) e tenta invano di mettere in guardia il sovrano contro l'operato delle forze sovversive, che continuano a cospirare nell'ombra. Nominato due volte ministro di polizia, nel 1816 e nel 1821, in entrambe le situazioni verrà sacrificato sull'altare del cedimento e del compromesso.
Durante le due brevi esperienze di governo il nobile napoletano cerca di condurre un'azione politica fondata sulla propaganda e sulla polemica, anche satirica, con l'ideale rivoluzionario. Si preoccupa di usare "il minimo della forza e il massimo della filosofia" e raccomanda un'intensa opera d'informazione sulle ideologie: "Dai pergami, sopra le scene dei teatri, nelle pubbliche piazze, nelle gazzette, da mille fogli periodici fare si doveva la guerra ai settari. Essi dovevano essere perseguitati dalla penna e non già dalla spada, col ridicolo e non col tuono serio: daì'comedianti e non dal carnefice. Unica loro pena esser doveva quella di essere esclusi perpetuamente da ogni carica". In quel periodo compone L'Isola dei Ladroni o sia La Costituzione Selvaggia, opera teatrale che costituisce esempio concreto della pratica polemica da lui auspicata. L'uso del teatro per la formazione di una corretta opinione pubblica a conferma della costanza della riflessione canosiana sulla prassi contro-rivoluzionaria sarà tema anche di una corrispondenza del 1833 con il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), al quale propone di dedicarsi alla stesura di testi teatrali.
Accompagnando la sua azione politica istituzionale e quella propagandistica alla riflessione politico-religiosa, il principe di Canosa pubblica, nel 1820, la sua opera più nota, I Piffari di montagna, dove ribadisce le linee fondamentali del suo pensiero. Negli anni seguenti, percorrendo la penisola in esilio volontario, cerca di coordinare l'azione di quanti, laici e religiosi, intendono dare un carattere di maggiore profondità e incisività alla Restaurazione: fra questi, il padre teatino Gioacchino Ventura (1792-1861), il quale fonda a Napoli nel giugno del 1821 l'Enciclopedia Ecclesiastica e Morale, che vagheggia per prima una nuova forma di apostolato laicale; il marchese Cesare Taparelli d'Azeglio (1763-1830), che anima in Piemonte prima le Amicizie Cattoliche e poi il periodico l'Amico d'Italia; l'apologista modenese monsignor Giuseppe Baraldi (1778-1832), fondatore della rivista Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura; il conte Monaldo Leopardi, il quale a Pesaro dà vita al periodico La Voce della Ragione, che aveva una tiratura di duemila copie, stupefacente per i tempi. Da questi cenacoli, però, non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo e del regalismo diffusi presso il ceto colto, della tradizione giurisdizionalistica ancora viva nelle maggiori corti, in particolare a Napoli e a Torino, della diffidenza di alcuni monarchi verso gli esponenti della classe dirigente saldamente ancorati a princìpi contro-rivoluzionari. L'unico sovrano apertamente a favore delle posizioni legittimistiche è Francesco IV d'Asburgo-Este (1779-1846), duca di Modena, dotato di una forte personalità, nonchè di notevole chiarezza di vedute e di grande coerenza di princìpi. "E' forse l'unico Stato d'Italia scriveva il principe di Canosa nel 1822, in cui il buon partito della monarchia ha qualche energia, ed ove si parla e si scrive in favore della buona causa. Questo fenomeno assai singolare dipende dalla fermezza e decisione di cui si vede rivestito il cuore del sovrano, il quale non transige coi rivoluzionari, ma mostra intrepido loro il petto e il volto, perseguitando i nemici della religione e della monarchia".
Alla corte di Modena il principe di Canosa trascorre gli anni dal 1830 al 1834, collaborando a La Voce della Verità, diretta dallo storiografo Cesare Carlo Galvani (1801-1863), guardia d'onore di Francesco IV, e affrontando, fra i primi in Italia, la crisi di alcuni intellettuali cattolici, che apre la strada al liberalismo cattolico. Passa quindi nello Stato Pontificio, dove cerca di promuovere la costituzione di volontari armati legittimisti, e finalmente, nel 1835, fissa la sua dimora a Pesaro, dove si sente ormai "stanco lione" cui gli asini liberali avrebbero ardito tirare calci come nella favola di Esopo. Tuttavia, reagisce con il consueto vigore alle accuse mossegli, con la Storia del Reame di Napoli, da Pietro Colletta (1775-1831), contro il quale scrive un'Epistola in cui contrappone la verità dei fatti a una mendace storiografia e i suoi ideali incontaminati all'ipocrisia dei liberali. Dopo essersi battuto fino all'estremo, muore a Pesaro il 4 marzo 1838.
Antonio Capece Minutolo
5 marzo 1768 -4 marzo 1838
Antonio Capece Minutolo nasce a Napoli il 5 marzo 1768 da una delle famiglie nobili più antiche del regno, che aveva signoria sul vasto feudo di Canosa, in Puglia, ed era ascritta al primo dei Sedili o circoscrizioni di Napoli, quello di Capuana. La cappella di famiglia, edificata nel duomo della città partenopea , con i ritratti di numerosi uomini politici, due cardinali e uno stuolo di guerrieri, testimonia la virtù della stirpe dei Capece Minutolo, che hanno servito per secoli il regno di Napoli e la Chiesa cattolica, senza essere contaminati da quel declassamento dell'aristocrazia feudale in nobiltà cortigiana, verificatosi sotto la spinta dell'accentramento burocratico e amministrativo.
Il giovane Antonio compie gli studi di filosofia a Roma, presso il Collegio Nazareno dei gesuiti, quindi il padre lo avvia alla carriera forense ma egli, pur distinguendosi nella trattazione delle cause criminali, sente che l'avvocatura non è la sua vocazione. Le "declamazioni dei falsi liberali e dei miscredenti" lo tentano in quegli anni, concretizzandosi nell'invito ad affiliarsi alla massoneria, ma non lo attirano nella rete, anzi lo inducono ad approfondire la conoscenza della teologia e del diritto pubblico della nazione napoletana. Nel 1795, con un'orazione su La Trinità, diretta a confutare i deisti, che postulano una religione naturale fondata sull'"unità" di Dio, e con una dissertazione accademica su L'Utilità della Monarchia nello stato civile, il giovane principe scende in campo per difendere la causa del trono e dell'altare, cui attentano le teorie degli illuministi e le realizzazioni della Rivoluzione francese.
Richiamandosi alla tradizione del regno di Napoli, egli ricorda che non può esservi vera monarchia senza corpi intermedi, il più importante dei quali è l'aristocrazia, e che la società ha una sua personalità specifica, pur nella sottomissione e nella fedeltà al monarca, il quale da parte sua è legittimo quando rispetta le leggi e le consuetudini della nazione. La monarchia feudale, quindi, è organicamente in rapporto con i ceti e con le comunità, e, all'esterno del regno, con il Papato e con l'impero. Nel 1796, con le Riflessioni critiche sull'opera dell'avvocato fiscale sig. D. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra, precisa il suo pensiero sui compiti della nobiltà nell'ora presente. In particolare, muovendo dalla considerazione che i feudi moderni non erano più concessi dal monarca in ricompensa di servigi ricevuti e in cambio del servizio militare prestato dai nobili, ma erano diventati corpi venali, che potevano anche essere acquistati, senza obblighi o vincoli connessi, egli ritiene priva di fondamento giuridico la pretesa del re d'imporre il servizio militare ai baroni; costoro, tuttavia, per il senso dell'onore e della fedeltà che li caratterizza, devono fornire denaro e soldati alla nazione quando questa è in pericolo. L'occasione di dare concreta esecuzione a queste affermazioni non tarda a presentarsi.
Nel novembre del 1798, all'approssimarsi dell'invasione dell'esercito rivoluzionario francese, Antonio Capece Minutolo recluta soldati a sue spese e incita la popolazione alla resistenza. Alla partenza della corte e di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) per la Sicilia, viene nominato membro della Deputazione Straordinaria per il Buon Governo e per l' Interna Tranquillità, scontrandosi subito con Francesco Pignatelli, principe di Strongoli (1734-1812), vicario generale del regno. Il principe di Canosa, sulla base delle antiche consuetudini del regno, rivendica alla città di Napoli il privilegio di rappresentare la nazione in assenza del sovrano, come era già accaduto altre volte in passato; tuttavia il vicario il quale incarnava le tendenze assolutistiche, che miravano a rompere il rapporto organico fra monarca e società a svantaggio della seconda, concepita come una massa indifferenziata di sudditi si oppone alle richieste della municipalità, per di più accusando i rappresentanti della nobiltà di voler instaurare una "repubblica aristocratica", e conclude un armistizio con i francesi invasori.
La capitale è espugnata nel gennaio del 1799, dopo le gloriose "tre giornate", in cui i napoletani, soprattutto i lazzari, cioè il popolo minuto, si armano e resistono valorosamente ai giacobini stranieri e a quelli locali, i "collaborazionisti". Antonio Capece Minutolo è arrestato e condannato a morte senza processo.
La pronta reazione popolare, animata dal cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che alla testa dell'esercito della Santa Fede giunge in poco tempo alle porte della capitale, salva la vita all'intrepido aristocratico, il quale non sfugge però alla Giunta di Stato borbonica, che gli infligge "anni 5 di castello" per insubordinazione nei confronti del vicario regio. I repubblicani avevano punito in lui il realista e i realisti punivano l'aristocratico, cioè i due elementi che egli componeva armoniosamente nella sua persona. Alla condanna dei cavalieri napoletani segue lo scioglimento dei Sedili "l'atto più rivoluzionario compiuto dal dispotismo illuminato borbonico", secondo il giudizio dello storico Walter Maturi (1902-1961), che priva la nobiltà di ogni residua influenza politica e la nazione della sua rappresentanza.
Scarcerato grazie all'amnistia generale del 1801, il principe di Canosa può riprendere i suoi studi e, due anni dopo, dà alle stampe il Discorso sulla decadenza della Nobiltà, in cui individua la causa del declino di questo fondamentale ceto nella crisi del regime monarchico prodotta dalla dissennata politica di accentramento, che contribuisce a demolire la società tradizionale organica e cristiana. Nel 1806, di fronte alla seconda invasione francese, vuol prendersi con la Corte una "vendetta da cavaliere", mettendosi agli ordini del re e seguendolo in Sicilia. Questo atteggiamento conquista il sovrano, che gli affida il compito di difendere le isole di Ponza, Ventotene e Capri, gli unici territori non ancora caduti nelle mani dei francesi, e, dopo la Restaurazione, lo chiama a partecipare al governo.
Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, perde l'occasione per operare una restaurazione efficace, accontentandosi di quella politica di "conciliazione", cioè di compromesso con i vecchi rivoluzionari, favorita in Europa da Klemens Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859), e a Napoli da Luigi Medici, principe di Ottaviano (1759-1830), che ebbe più volte la direzione del governo. A nulla valgono gli accorti giudizi del principe di Canosa, il quale denuncia l'ambigua Restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1814-1815) e tenta invano di mettere in guardia il sovrano contro l'operato delle forze sovversive, che continuano a cospirare nell'ombra. Nominato due volte ministro di polizia, nel 1816 e nel 1821, in entrambe le situazioni verrà sacrificato sull'altare del cedimento e del compromesso.
Durante le due brevi esperienze di governo il nobile napoletano cerca di condurre un'azione politica fondata sulla propaganda e sulla polemica, anche satirica, con l'ideale rivoluzionario. Si preoccupa di usare "il minimo della forza e il massimo della filosofia" e raccomanda un'intensa opera d'informazione sulle ideologie: "Dai pergami, sopra le scene dei teatri, nelle pubbliche piazze, nelle gazzette, da mille fogli periodici fare si doveva la guerra ai settari. Essi dovevano essere perseguitati dalla penna e non già dalla spada, col ridicolo e non col tuono serio: daì'comedianti e non dal carnefice. Unica loro pena esser doveva quella di essere esclusi perpetuamente da ogni carica". In quel periodo compone L'Isola dei Ladroni o sia La Costituzione Selvaggia, opera teatrale che costituisce esempio concreto della pratica polemica da lui auspicata. L'uso del teatro per la formazione di una corretta opinione pubblica a conferma della costanza della riflessione canosiana sulla prassi contro-rivoluzionaria sarà tema anche di una corrispondenza del 1833 con il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), al quale propone di dedicarsi alla stesura di testi teatrali.
Accompagnando la sua azione politica istituzionale e quella propagandistica alla riflessione politico-religiosa, il principe di Canosa pubblica, nel 1820, la sua opera più nota, I Piffari di montagna, dove ribadisce le linee fondamentali del suo pensiero. Negli anni seguenti, percorrendo la penisola in esilio volontario, cerca di coordinare l'azione di quanti, laici e religiosi, intendono dare un carattere di maggiore profondità e incisività alla Restaurazione: fra questi, il padre teatino Gioacchino Ventura (1792-1861), il quale fonda a Napoli nel giugno del 1821 l'Enciclopedia Ecclesiastica e Morale, che vagheggia per prima una nuova forma di apostolato laicale; il marchese Cesare Taparelli d'Azeglio (1763-1830), che anima in Piemonte prima le Amicizie Cattoliche e poi il periodico l'Amico d'Italia; l'apologista modenese monsignor Giuseppe Baraldi (1778-1832), fondatore della rivista Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura; il conte Monaldo Leopardi, il quale a Pesaro dà vita al periodico La Voce della Ragione, che aveva una tiratura di duemila copie, stupefacente per i tempi. Da questi cenacoli, però, non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo e del regalismo diffusi presso il ceto colto, della tradizione giurisdizionalistica ancora viva nelle maggiori corti, in particolare a Napoli e a Torino, della diffidenza di alcuni monarchi verso gli esponenti della classe dirigente saldamente ancorati a princìpi contro-rivoluzionari. L'unico sovrano apertamente a favore delle posizioni legittimistiche è Francesco IV d'Asburgo-Este (1779-1846), duca di Modena, dotato di una forte personalità, nonchè di notevole chiarezza di vedute e di grande coerenza di princìpi. "E' forse l'unico Stato d'Italia scriveva il principe di Canosa nel 1822, in cui il buon partito della monarchia ha qualche energia, ed ove si parla e si scrive in favore della buona causa. Questo fenomeno assai singolare dipende dalla fermezza e decisione di cui si vede rivestito il cuore del sovrano, il quale non transige coi rivoluzionari, ma mostra intrepido loro il petto e il volto, perseguitando i nemici della religione e della monarchia".
Alla corte di Modena il principe di Canosa trascorre gli anni dal 1830 al 1834, collaborando a La Voce della Verità, diretta dallo storiografo Cesare Carlo Galvani (1801-1863), guardia d'onore di Francesco IV, e affrontando, fra i primi in Italia, la crisi di alcuni intellettuali cattolici, che apre la strada al liberalismo cattolico. Passa quindi nello Stato Pontificio, dove cerca di promuovere la costituzione di volontari armati legittimisti, e finalmente, nel 1835, fissa la sua dimora a Pesaro, dove si sente ormai "stanco lione" cui gli asini liberali avrebbero ardito tirare calci come nella favola di Esopo. Tuttavia, reagisce con il consueto vigore alle accuse mossegli, con la Storia del Reame di Napoli, da Pietro Colletta (1775-1831), contro il quale scrive un'Epistola in cui contrappone la verità dei fatti a una mendace storiografia e i suoi ideali incontaminati all'ipocrisia dei liberali. Dopo essersi battuto fino all'estremo, muore a Pesaro il 4 marzo 1838.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Benedetto Marzolla
Nasce a Brindisi il 14 marzo del 1801 uno dei più illustri geografi e cartografi italiani del XIX secolo. Vivace e ingegnoso, con uno spiccato spirito di osservazione fin da giovane, Benedetto Marzolla si forma culturalmente dapprima al Collegio degli Scolopi per poi trasferirsi a Napoli (1819) per studiare ingegneria. Appena ventenne venne assunto in qualità di tenente ingegnere topografico nell'ufficio della Guerra del Regno delle Due Sicilie, dove presto si distinse ottenendo incarichi di prestigio da rappresentanti del Governo, tra questi i rilievi del Tavoliere di Puglia e della Carta Catastale del Regno (1854).
Entrò come membro in Commissioni ministeriali, Accademie e società inerenti le sue attività topografiche e statistiche e per le sue capacità ottenne onorificenze da Ferdinando II di Borbone e la stima di Nicola e Alessandro II di Russia.
A sue spese fondò uno stabilimento cartografico che curò direttamente, realizzando le carte geografiche considerate tra le più ricche di dati e meglio impostate a livello europeo. Della sua produzione di grande rilievo, considerando i tempi ed i mezzi a disposizione, rimangono alcune opere molto importanti, come il grande dizionario geografico, storico e statistico del regno (1832), l'atlante corografico, storico e statistico del regno (1842), l'atlante geografico e statistico mondiale (1841/57).
Benedetto Marzolla ha il merito di aver introdotto un nuovo tipo di rappresentazione cartografica, basato sulla combinazione di immagine e testo e sull'utilizzo della litografia, da egli praticata sin dal suo ingresso, nel 1823, come disegnatore presso l'Officio Tipografico di Napoli.
A questa data risalgono, infatti, oltre ad alcuni ritratti, le prime riproduzioni litografiche quali il cantiere di Castellammare di Napoli e quelle inserite nel volume Wanderungen durch Pompeii, seguite, nel 1827, dal rione di S.Giuseppe all'interno della pianta dei quartieri di Napoli, affidata al disegnatore Giuseppe de Salvatori.
Ma è l'Atlante Corografico del Regno di Napoli (1829-1832) che segna l'inizio della fortunata ed intensa carriera del Marzolla.
Contemporaneamente, Marzolla partecipa alla pubblicazione, da un lato, di un opuscolo intitolato Descrizione dell'Isola Ferdinandea (1831) contenente pianta e vedute e, dall'altro, alla stesura della monografia sulla Difesa della città e del porto di Brindisi, pubblicata in tre edizioni successive tra il 1831 e il 1833 e per la quale esegue due carte raffiguranti la situazione del porto prima e dopo gli interventi di bonifica e riapertura settecenteschi dovuti all'ingegnere Andrea Pigonati.
Ad un volume viene allegata anche, nel 1837, la Carta della frontiera del Regno, destinata alla definizione della nuova frontiera tra lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli, in un periodo di controversie confinarie tra i due stati.
Nel 1840, Marzolla intraprende l'esecuzione dell'Atlante Geografico che, in un continuo lavoro di revisione, lo impegnerà fino al 1852 divenendo il più voluminoso e aggiornato atlante universale italiano dell'800, dopo la sua prima apparizione sul Giornale delle Due Sicilie.
In 41 carte, Marzolla illustra chiaramente e accuratamente il Regno delle Due Sicilie, il mappamodo e tutti i continenti, servendosi delle migliori e aggiornate fonti cartografiche internazionali, debitamente citate in ogni carta.
Con lo stesso spirito di analisi, nel 1854, propone la rinnovata edizione dell'Atlante corografico del Regno col titolo di Descrizione del Regno delle Due Sicilie, fornendone la visione più completa e dettagliata del momento, così da sostituire l'ormai storico atlante di Rizzi Zannoni.
A testimonianza dell'originalità e dell'universalità del lavoro di Marzolla, sono infine cinque carte relative alla Crimea e alla fortezza di Sebastopoli, pubblicate tra il 1854 e il 1855, la Carta dei Prodotti alimentari delle provincie continentali del Regno delle Due Sicilie, del 1856, e la Carta della circoscrizione ecclesiastica nel Regno delle Due Sicilie, pubblicata in 12 fogli nel 1857 dall'architetto Luigi Manzella, divenuto il direttore dello Stabilimento geografico di Marzolla dopo la morte di quest'ultimo.
Benedetto Marzolla morì l'11 maggio 1858 per apoplessia
Benedetto Marzolla
Nasce a Brindisi il 14 marzo del 1801 uno dei più illustri geografi e cartografi italiani del XIX secolo. Vivace e ingegnoso, con uno spiccato spirito di osservazione fin da giovane, Benedetto Marzolla si forma culturalmente dapprima al Collegio degli Scolopi per poi trasferirsi a Napoli (1819) per studiare ingegneria. Appena ventenne venne assunto in qualità di tenente ingegnere topografico nell'ufficio della Guerra del Regno delle Due Sicilie, dove presto si distinse ottenendo incarichi di prestigio da rappresentanti del Governo, tra questi i rilievi del Tavoliere di Puglia e della Carta Catastale del Regno (1854).
Entrò come membro in Commissioni ministeriali, Accademie e società inerenti le sue attività topografiche e statistiche e per le sue capacità ottenne onorificenze da Ferdinando II di Borbone e la stima di Nicola e Alessandro II di Russia.
A sue spese fondò uno stabilimento cartografico che curò direttamente, realizzando le carte geografiche considerate tra le più ricche di dati e meglio impostate a livello europeo. Della sua produzione di grande rilievo, considerando i tempi ed i mezzi a disposizione, rimangono alcune opere molto importanti, come il grande dizionario geografico, storico e statistico del regno (1832), l'atlante corografico, storico e statistico del regno (1842), l'atlante geografico e statistico mondiale (1841/57).
Benedetto Marzolla ha il merito di aver introdotto un nuovo tipo di rappresentazione cartografica, basato sulla combinazione di immagine e testo e sull'utilizzo della litografia, da egli praticata sin dal suo ingresso, nel 1823, come disegnatore presso l'Officio Tipografico di Napoli.
A questa data risalgono, infatti, oltre ad alcuni ritratti, le prime riproduzioni litografiche quali il cantiere di Castellammare di Napoli e quelle inserite nel volume Wanderungen durch Pompeii, seguite, nel 1827, dal rione di S.Giuseppe all'interno della pianta dei quartieri di Napoli, affidata al disegnatore Giuseppe de Salvatori.
Ma è l'Atlante Corografico del Regno di Napoli (1829-1832) che segna l'inizio della fortunata ed intensa carriera del Marzolla.
Contemporaneamente, Marzolla partecipa alla pubblicazione, da un lato, di un opuscolo intitolato Descrizione dell'Isola Ferdinandea (1831) contenente pianta e vedute e, dall'altro, alla stesura della monografia sulla Difesa della città e del porto di Brindisi, pubblicata in tre edizioni successive tra il 1831 e il 1833 e per la quale esegue due carte raffiguranti la situazione del porto prima e dopo gli interventi di bonifica e riapertura settecenteschi dovuti all'ingegnere Andrea Pigonati.
Ad un volume viene allegata anche, nel 1837, la Carta della frontiera del Regno, destinata alla definizione della nuova frontiera tra lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli, in un periodo di controversie confinarie tra i due stati.
Nel 1840, Marzolla intraprende l'esecuzione dell'Atlante Geografico che, in un continuo lavoro di revisione, lo impegnerà fino al 1852 divenendo il più voluminoso e aggiornato atlante universale italiano dell'800, dopo la sua prima apparizione sul Giornale delle Due Sicilie.
In 41 carte, Marzolla illustra chiaramente e accuratamente il Regno delle Due Sicilie, il mappamodo e tutti i continenti, servendosi delle migliori e aggiornate fonti cartografiche internazionali, debitamente citate in ogni carta.
Con lo stesso spirito di analisi, nel 1854, propone la rinnovata edizione dell'Atlante corografico del Regno col titolo di Descrizione del Regno delle Due Sicilie, fornendone la visione più completa e dettagliata del momento, così da sostituire l'ormai storico atlante di Rizzi Zannoni.
A testimonianza dell'originalità e dell'universalità del lavoro di Marzolla, sono infine cinque carte relative alla Crimea e alla fortezza di Sebastopoli, pubblicate tra il 1854 e il 1855, la Carta dei Prodotti alimentari delle provincie continentali del Regno delle Due Sicilie, del 1856, e la Carta della circoscrizione ecclesiastica nel Regno delle Due Sicilie, pubblicata in 12 fogli nel 1857 dall'architetto Luigi Manzella, divenuto il direttore dello Stabilimento geografico di Marzolla dopo la morte di quest'ultimo.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Ciao Gianni ed un saluto a tutti.gianni tramaglino ha scritto:Eccoci alla pagina 25 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil e chiunque voglia commentarle .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Su queste due bellissime lettere troviamo rispettivamente due falsi per servire da gr. 10.
Sulla prima, da Napoli a Messina (15 ottobre 1860) è riportato un eccezionale Sassone F6, quarto tipo. Varietà “B” di Emilio Diena? Riporto l’immagine ingrandita del FB. Sulla seconda, da Napoli a Roma, è riportato un eccezionale Sassone F7, quinto tipo. Ritengo si identifichi nella varietà “B” di Emilio Diena. Riporto l’immagine ingrandita del FB. A questo punto consentitemi alcune considerazioni.
Nell’opera di Emilio Diena, su questo falso , Sassone F7, l’autore riporta testualmente “Il falsario dimenticò di aggiungere i due puntini dopo la “G”.
Il Sassone nella breve descrizione riporta “Mancano quasi sempre i due puntini che seguono la “G”, ma nell’immagine (ancora una volta in bianco e nero) che raffigura tale esemplare il FB è colpito dall’annullato in cartella proprio a coprire la parte ove dovrebbero esserci i due puntini.
Il Vaccari riporta una immagine (a colori) di un falso del V tipo, privo dei due puntini, descrive “Mancanza dei “:” dopo la lettera “G”.
Quindi se il Sassone ne riporta le parole “quasi sempre” significa che a volte i due puntini in argomento sono presenti su tale esemplare.
Una piccolissima discordanza, ma ad essa si aggiunge altra che vado ad indicare.
Sempre nell’opera, Emilio Diena nel descrivere le caratteristiche comuni per tale falso riporta “La linea inferiore sinistra dell’ottagono esterno termina prima dell’incontro con la linea di cornice” . Da raffigurazione due varietà A e B. L’immagine che raffigura la varietà “A” riporta la citata interruzione, mentre quello che raffigura la varietà “B”.
Anche sul FB sulla lettera di Maestro Mario (da Napoli a Roma – QUINTO TIPO) i corrispondenza della G (ne riporto immagine ingrandita) è presente l’inchiostro dell’annullato in cartella, però mi sembra di scorgere sotto quell’inchiostro nero i due puntini. Dico mi sembra perché potrebbe essere una mera illusione ottica da monitor.
Ritengo che il FB sulla lettera in questione possa individuarsi nella classificazione Sassone come F7, V tipo, varietà “B” di Emilio Diena. Allora l’evidente prosecuzione della linea inferiore sinistra dell’ottagono esterno (non interrotta) sta a significare un ritocco dell’incisione?
Mi farebbe piacere avere un vostro parere.
Comunque questi piccoli particolari ed altri più evidenti che pian piano sto riscontrando, mi stanno ingenerando la convinzione che la grandissima opera di Emilio Diena, pur rimanendo una importante, poderosa ed insostituibile studio-lavoro sui FB napoletani, avrebbe bisogno di aggiornamenti.
Vi prego non fraintendetemi non intendo per nulla sminuire l’importanza assoluta del lavoro di Emilio Diena.



pasfil
Post modificato (ricollocazione esatta della freccetta distinta con il nr. 4) a seguito dell'autorevole precisazione fatta da apache che ringrazio.



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Ultima modifica di pasfil il 23 giugno 2010, 0:21, modificato 2 volte in totale.
Re: Da Napoli a Sofia..........
Buonasera Pasfil e salve a tutti
In effetti esistono esemplari dell'F7 (quinto tipo dei falsi del 10 grana di Napoli) con i due punti dopo la G. Sono molto rari.
Per quanto riguarda la linea inferiore dell'esagono esterno, Emilio Diena intendeva dire che non raggiungeva la linea di cornice inferiore, ma che è presente un trattolino che l'unisce a detta linea. Questo trattolino è sempre presente.
Apache
In effetti esistono esemplari dell'F7 (quinto tipo dei falsi del 10 grana di Napoli) con i due punti dopo la G. Sono molto rari.
Per quanto riguarda la linea inferiore dell'esagono esterno, Emilio Diena intendeva dire che non raggiungeva la linea di cornice inferiore, ma che è presente un trattolino che l'unisce a detta linea. Questo trattolino è sempre presente.

Ultima modifica di apache il 22 giugno 2010, 23:32, modificato 1 volta in totale.
Re: Da Napoli a Sofia..........
Cercherò di postare un'immagine dell'F7 con i punti dopo la G, che sono qusi sempre poco visibili.
Apache
Apache
- gianni tramaglino
- Messaggi: 983
- Iscritto il: 1 novembre 2007, 16:28
Re: Da Napoli a Sofia..........
Mentre attendiamo il nuovo e importante contributo dell'Amico Apache ai quesiti pasfiliani
continuiamo.....
Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Maggiore dell'artiglieria borbonica Carlo Corsi
Napoli 24/5/1830 -Napoli 19/2/1905
A sostituire il traditore Nicola Di Somma che aveva abbandonato la sua batteria, fu chiamato il capitano Carlo Corsi, figlio del colonnello Luigi Corsi, direttore dell 'officina di Pietrarsa.
Carlo Corsi era entrato alla Nunziatella a nove anni e ne era uscito alfiere d'artiglieria il 9 ottobre 1849.
Dopo undici anni di carriera otteneva il suo primo comando di batteria e al Volturno trovandosi in riserva nella piazza di Capua fu chiamato dal Re in persona a coadiuvare l'attacco sul paese di S.Tammaro fortificato dai garibaldesi. Al comando del generale Sergardi appoggiò la cavalleria è con molta intelligenza e coraggio altissimo distruggendo più barricate fino ad occupare il paese, con questa motivazione fu decorato con la Croce di diritto di S.Giorgio.
Il 29 ottobre la sua batteria fu la prima ad aprire il fuoco contro gli invasori che furono respinti con grandi perdite. Il 17 gennaio 1861 fu promosso maggiore per il valore ed il coraggio dimostrato per la difesa del regno. Irriducibile legittimista non volle entrare nell'esercito piemontese ed occupò il resto della sua vita a difendere la causa duosiciliana.
Sul quotidiano borbonico "La discussione" pubblicò a puntate "Le memorie di un veterano". Nel 1861 scrisse un opuscolo dal titolo "
"Cenno biografico di Giuseppe Salvatore Pianell" destinato a fare passare delle spiacevoli giornate al generale prezzolato grande traditore del regno.
Il Corsi inviò una copia dell'opuscolo al Pianell accompagnato da una nota a termine che diceva: "Và che la maledizione della Patria ti perseguiti fin nelle viscere dell'inferno con tutti i Traditori tuoi compagni".
Nel 1903 oramai settantaduenne, riprese la penna per dare alle stampe un libretto che ebbe addirittura due edizioni, intitolato: "Confutazione alle lettere del generale Pianell", nel quale rispondeva alla sua maniera, alle affermazioni contenute nelle memorie del generale voltagabbana da poco pubblicate.
Amava firmarsi , Carlo Corsi, maggiore delle artiglierie borboniche,capitolato di Gaeta.

Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Maggiore dell'artiglieria borbonica Carlo Corsi
Napoli 24/5/1830 -Napoli 19/2/1905
A sostituire il traditore Nicola Di Somma che aveva abbandonato la sua batteria, fu chiamato il capitano Carlo Corsi, figlio del colonnello Luigi Corsi, direttore dell 'officina di Pietrarsa.
Carlo Corsi era entrato alla Nunziatella a nove anni e ne era uscito alfiere d'artiglieria il 9 ottobre 1849.
Dopo undici anni di carriera otteneva il suo primo comando di batteria e al Volturno trovandosi in riserva nella piazza di Capua fu chiamato dal Re in persona a coadiuvare l'attacco sul paese di S.Tammaro fortificato dai garibaldesi. Al comando del generale Sergardi appoggiò la cavalleria è con molta intelligenza e coraggio altissimo distruggendo più barricate fino ad occupare il paese, con questa motivazione fu decorato con la Croce di diritto di S.Giorgio.
Il 29 ottobre la sua batteria fu la prima ad aprire il fuoco contro gli invasori che furono respinti con grandi perdite. Il 17 gennaio 1861 fu promosso maggiore per il valore ed il coraggio dimostrato per la difesa del regno. Irriducibile legittimista non volle entrare nell'esercito piemontese ed occupò il resto della sua vita a difendere la causa duosiciliana.
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