gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 29 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Buona serata a tutti.
Solo per mostrare i segni del precedente annullo sul 5 gr., parzialmente coperto dal nuovo annullato. Ebbene, un pò ovunque si davano da fare per frodare le poste napoletane. In questo caso, da Solmona a Aquila, meno rischi per il breve cammino, quindi meno occhi che potessero avvedersi della furbacchiata.
frode su gr 5 Merone.jpg
pasfil
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Eccoci alla pagina 30 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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gianni tramaglino ha scritto:Ciao:Eccoci alla pagina 30 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Ciao Gianni, che dire su questa bellissima frode.
E' un esempio inequivoco della scarsa buona fede ed onestà dell'adetto alla posta in partenza da Napoli. Sono troppo evidenti quei segni dell'annullato lasciati sui due FB e l'affrancatura di gr. 3, lontanissima dal porto previsto. Chissà, la "marachella" sarà stata combinata prima della chiusura della valigia e l'addetto in tutta fretta avrà rimosso il FB pagati regolarmente dal mittente, sostituendoli e colpendoli con un ulteriore ANNULLATO?
Sarà stato un vero piacere per Maestro Mario averla potuta studiare dal vero, oltre che possederla. Complimenti. pasfil
Eccoci alla pagina 31 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli
Giovanni Patturelli
Discende dall'omonima famiglia di architetti, Giovanbattista (suo padre), Carlo e Crispino che il sovrano Carlo III di Borbone chiamò insieme con il Vanvitelli per la costruzione della Reggia di Caserta. Nacque a Caneggio (Canton Ticino) il 6 dicembre del 1770 da Giovanbattista e da Maria Giovanna Maggi. Ancora adolescente fu chiamato in Italia dallo zio Carlo che, non avendo figli, si occupò della sua istruzione e della sua educazione fino a farne un valente architetto, chiamato presto a collaborare con Francesco Collecini, primo aiutante di Luigi Vanvitelli. Grazie dell'aiuto del maestro ebbe incarichi importanti, quali la direzione delle fabbriche di Carditello e del Condotto Carolino; curò la sistemazione del boschetto in cima a monte Briano sovrastante la cascata delle acque di Caserta. Il re Ferdinando IV lo ascrisse fra i primi individui della nascente Real Colonia di San Leucio. Sposò Carolina Brunelli, figlia di Domenico, architetto, che assieme ai fratelli Carlo, pittore, e Angelo, scultore, lavorava anche lui alla costruzione di San Leucio. Da questo matrimonio nacquero dodici figli. Quando Ferdinando IV ideò Ferdinandopoli, ne affidò l'incarico a Francesco Collecini che lo commissionò a Giovanni Patturelli. Gli avvenimenti del 1799 bloccarono un po' la sua fortuna che, però, si riprese poco dopo con la costruzione del Casino di San Silvestro e della Chiesa Madre del Comune di San Nicola la Strada. Alla morte del Collecini, avvenuta nel 1804, il Patturelli completò la Chiesa della Madonna delle Grazie alla Vaccheria e, per quest'opera, il re regalò a "Giovannino" un astuccio di compassi d'oro e trecento ducati. Durante l'occupazione militare fu nominato architetto dei Real Siti di Caserta, San Leucio e Carditello ed è in questo periodo che portò a termine sale e giardini della Reggia e di quei luoghi. Finita l'occupazione, nel Real Casino di Belvedere in San Leucio costruì la Real Fabbrica delle sete e la filanda. Con un'alta opera di ingegneria idraulica, fece arrivare alla filanda acqua necessaria per dare movimento al rotone che muoveva i mangani (mossi in precedenza a braccia) evitando così la costruzione di un nuovo acquedotto dalla cascata di Caserta e, quindi, nuove spese per il sovrano. Altro capolavoro di idraulica realizzò accanto al ponte di Ercole e, all'esterno verso Aldifreda: un grandioso stabilimento di macchine idrauliche che riciclavano l'acqua del Parco della Reggia. Progettò la Cattedrale di Caserta, la piazza del Mercato, sistemò la piazza antistante la Reggia e il viale che la collega a Napoli. Alla morte di Ferdinando IV, Francesco I lo nominò suo architetto particolare, affidandogli il completamento e il rifacimento di fabbriche in San Leucio, Caserta, Carditello, Calvi e Mondragone opere che curò anche sotto Ferdinando II. Numerose sono pure le opere che progettò e realizzò per privati, come la Fabbrica de' Cotoni, presso Aldifreda, commissionatagli dal signor negoziante Luigi Vallin. Non va trascurato l'amore che il Patturelli ebbe verso l'archeologia, infatti recuperò scavi greci e romani nel territorio di Capua; collezionò monete e vasi antichi e fu ascritto fra i soci dell'istituto Archeologico di Roma. Morì a Caserta (per ascesso maligno all'ascella sinistra) il 26 luglio del 1849, di giovedì, alle ore 14.00, assistito dai numerosi figli.
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gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 31 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Ciao Gianni ed un saluto a tutti.
merone 3.jpg
pasfil
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Eccoci alla pagina 32 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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gianni tramaglino ha scritto:Ciao: Eccoci alla pagina 32 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
Buonaserata a tutti.
PAGINA 32 1.jpg
Notate la dicitura "ANNULLATO" perchè presenta due lettere "U". Spettacolare!
pagina 32 2.jpg
ECCO COSA PREVEDEVA IL REGOLAMENTO, MA VISTO IL DIFFUSO USO DELLE FRODI, PRENDETELO COL BENEFICIO D'INVENTARIO : (ripreso da altro intervento)
REGOLAMENTO pel servizio dell'Amministrazione generale delle poste e de'procacci, che avrà luogo dal primo di gennajo 1858, secondo le basi appi-ovate col real decreto de' 9 di luglio 1857.
CAPITOLO IV. De' procedimenti ne' casi di verifica di frodi nell'apposizione de' bolli di posta.
52. Ove un agente di posta riconoscerà che un bollo apposto ad una lettera o stampa sia stato di già usato, ovvero sia contraffatto, si asterrà dal l'applicarvi il bollo annullante. Scriverà in vece con inchiostro rosso-inviato all’Amministrazione generale per fondato sospetto di frode.
53. Questa lettera sarà quindi dall'agente di posta acchiusa in un piego insieme con un rapporto diretto all'amministratore generale in Napoli.
54. Esaminatosi il bollo di posta dall'Amministrazione generale, se la frode non apparisca con chiarezza, sarà cancellata la nota apposta alla lettera, e questa verrà spedita alla sua destinazione. Se poi il bollo si riconosca essere usato ovvero contraffatto, invierà la lettera con la narrazione del fatto al regio giudice del circondario, cui appartiene il luogo ove la lettera stessa è indirizzata.
55. Il regio giudice chiamerà a se il destinatario, e consegnandogli la lettera lo inviterà ad aprirla e farne conoscere la sottoscrizione. Nel caso che lo scritto fosse privo di firma, richiederà al destinatario tutte le possibili dilucidazioni per conoscerne l'autore.
56. Il detto magistrato riterrà quindi presso di se : 1.° il brano della lettera ove è la firma dell'immittente; 2° il foglio d'involto; e nel caso che non ve ne abbia, quella parte della lettera sulla quale è l'indirizzo col bollo incriminato.
57. Questi oggetti di convinzione saranno all'amministratore generale rinviati dal regio giudice, accompagnati da un verbale in cui saranno precisate tutte le dichiarazioni fatte dal destinatario sulla persona dello immittente.
58. L'amministratore generale allora riunendo queste carte al rapporto fatto dallo agente di posta che si accorse della frode, le invierà tutte ali' agente del contenzioso della Tesoreria generale, perché curi la procedura da iniziarsi, sia per l'ammenda nel caso di un bollo di posta già usato, sia per la punizione del misfatto nel caso di bolli contraffatti.
59. Quando all' apertura della lettera in frode si riconoscesse che questa non sia che un involto di altra lettera diretta ad un terzo, il regio giudice richiederà dal destinatario dell'involto tutte le notizie che potrà costui fornire sull'immittente e sul secondo destinatario: e chiamato a se quest' ultimo, procederà a tutte le operazioni indicate negli articoli 55 e 56.
60. Ove la lettera incriminata fosse diretta all'estero, ovvero a persona partita per l'estero, verrà ritenuta nell'Amministrazione generale con analogo verbale, sino a che non venga reclamata da persona dimorante nel Regno, nel qual caso sarà verso di questa praticato quanto ne' due citali articoli viene prescritto. pasfil
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Eccoci alla pagina 33 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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Persone che hanno lasciato un segno importante durante il glorioso Regno di Napoli Vincenzo
Vincenzo Bellini
Salvatore Carmelo Francesco Bellini, compositore italiano, tra i più celebri operisti dell'800, nasce a Catania il 3 novembre 1801. Studia musica a Catania, poi a Napoli (1819). Tra i suoi maestri vi è Nicola Antonio Zingarelli, che lo indirizza verso lo studio dei classici. Conosce il calabrese Francesco Florimo, con cui instaura una profonda e duratura amicizia; Florimo diventerà bibliotecario del conservatorio di Napoli e sarà biografo dell'amico Bellini, prematuramente scomparso.
Tra le sue prime composizioni, in questo periodo, vi sono opere di musica sacra, alcune sinfonie e alcune arie per voce e orchestra, tra cui la celebre "Dolente immagine", oggi nota per i successivi adattamenti per voce e pianoforte.
Presenta nel 1825 al teatrino del conservatorio "Adelson e Salvini", sua prima opera e lavoro finale del corso di composizione. Solo un anno dopo con "Bianca e Fernando", arriva il primo grande e inaspettato successo. Per non mancare di rispetto al principe Ferdinando di Borbone, l'opera va in scena al teatro San Carlo di Napoli con il titolo modificato in "Bianca e Gernando".
Nel 1827 gli viene commissionata un'opera da rappresentare al Teatro alla Scala di Milano. Bellini lascia Napoli e anche Maddalena Fumaroli, la ragazza di cui è innamorato ma che non aveva potuto sposare a causa dell'opposizione del padre.
A Milano vanno in scena "Il pirata" (1827) e "La straniera" (1829) ottenendo clamorosi successi; nelle pagine della stampa milanese dell'epoca si può apprezzare come Bellini fosse considerato l'unico operista italiano con uno spiccato stile personale in grado di tener testa a quello di Gioacchino Rossini.
"Zaira" nel 1829, rappresentata a Parma, ottiene meno fortuna: sembra che lo stile di Bellini mal si adattasse ai gusti del tradizionalista pubblico di provincia. Delle opere successive le più riuscite sono quelle scritte per il pubblico di Milano: "La sonnambula" (1831), "Norma" (1831) e "Parigi" (I puritani - 1835). Nello stesso periodo compone anche due opere per il teatro La Fenice di Venezia: "I Capuleti e i Montecchi" (1830), per i quali adatta parte della musica scritta per "Zaira", e la poco fortunata "Beatrice di Tenda" (1833).
La svolta decisiva nella sua carriera come nella sua evoluzione artistica coincide con il suo trasferimento a Parigi. Qui Vincenzo Bellini entra in contatto con alcuni dei più grandi compositori d'Europa (tra cui Fryderyk Chopin); pur conservando intatta l'ispirazione melodica di sempre, il linguaggio musicale dell'italiano si arricchisce di colori e soluzioni nuove.
A Parigi compone numerose romanze da camera di grande interesse, alcune delle quali in francese. E' ormai maturo e pronto per comporre un'opera in francese per il Teatro dell'Opéra di Parigi: purtroppo la carriera e la sua vita vengono stroncate alla giovane età di 33 anni, da un'infezione intestinale probabilmente contratta qualche anno prima.
Vincenzo Bellini viene sepolto vicino a Chopin e Cherubini nel cimitero Père Lachaise, dove la salma rimarrà per oltre quarant'anni, fino al 1876, quando verrà portata nel Duomo di Catania.
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Eccoci alla pagina 34 della collezione presentata a Sofia dall'Amico Mario,attendendo il nostro relatore Pietro Pasfil .....e chiunque voglia commentarla .Felice sia il bel-vedere e sereno il continuare!gianni tramaglino
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borbone0 ha scritto:Ciao: a tutti Voi. Mi trovo a San Pietroburgo. Vi mando un pensiero. Al rientro Vi rispondero. Gianni continua le pubblicazioni. Mario
Ricambio calorosamente il caro saluto dell'Amico Mario e ...in attesa del ritorno di Pietro Pasfil per le sue note deduzioni continuiamo dalla pagina 35 in avanti ...a postare la splendida collezione ...Meroniana!Cordialmente!gianni tramaglino
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MARIA SOFIA, LA REGINA CHE NON SI ARRESE MAI di Cesare Linzalone
II 19 gennaio del 1925 cessava di vivere l'ultima Regina di Napoli, Maria Sofia Wittelsbach-Borbone. Di questa meravigliosa donna, detta I' Eroina di Gaeta è raro che se ne parli, mentre tutti conoscono la vita e le vicende della sorella Elisabetta, l'indimendicata Sissy, imperatrice d'Austria, moglie di Francesco Giuseppe d'Asburgo. La storia, scritta dai savoiardi e dai risorgimentalisti liberali, dopo aver calunniato Maria Sofia, attribuendole ogni sorta di nefandezze, ha coperto con un velo d'oblio la figura e le gesta dell'ultima impavida nostra Regina, che difese letteralmente a "spada tratta" dagli spalti di Gaeta i diritti della Monarchia Napoletana e di tutto il Sud, contro il sopruso e la criminale aggressione piemontese dell'Antico Regno delle Delle Due Sicilie. Maria Sofia Amalia era nata il 4 ottobre del 1841 nel Castello di Passenhofen in Baviera dai Duchi Massimiliano Wittelsbach e Ludovica, figlia del re di Baviera, Luigi I. Terza delle cinque figlie dei duchi di Baviera, Maria Sofia somigliava molto a Elisabetta. Era "alta, slanciata, dotata di bellissimi occhi di color azzurro-cupo e di una magnifica capigliatura castana; Maria Sofia aveva un portamento nobile ed insieme maniere molto graziose" . Elisabetta, chiamata Sissy in famiglia, era la sorella alla quale si ispirava Maria Sofia e costituiva per lei l'esempio da imitare nel modo di vestirsi, di comportarsi, in una parola, di vivere. Le due sorelle erano le più affiatate e somigliavano molto al padre, il Duca Max, come esuberanza di carattere e spirito d'avventura. Erano esperte cavallerizze, bravissime nel nuoto, nella scherma, nell'uso della carabina e amavano la vita all'aperto, a contatto della natura. Non di rado seguivano il padre nel bosco in lunghe galoppate a caccia di animali selvatici. Certo per l'epoca in cui vissero e per il ceto a cui appartenevano, i loro modi non risultavano consoni al ruolo che esse avrebbero avuto nella società di allora. La madre Ludovica prodigò ogni suo sforzo per frenare l'esuberanza delle figlie che a Possy (Passenhofen), dispiegavano il loro spirito libero. Più allegra e più portata all'azione era Maria Sofia, rispetto a Sissy, il cui animo era piuttosto incline a una velata malinconia. Non ancora diciottenne, per la duchessina Maria Sofia giunse la richiesta di matrimonio. Il "principe azzurro" tante volte sognato era l'erede al trono delle Due Sicilie Francesco di Borbone, Duca di Calabria. L'unione fra i due fu ovviamente stabilita dalle rispettive famiglie Borbone-Wittelsback. Maria Sofia conobbe lo sposo attraverso una miniatura che mostrava Francesco in divisa da Ussaro rimanendone favorevolmente sorpresa, nonostante che le voci a lei giunte sull'aspetto del futuro sposo non fossero entusiasmanti. In vero la miniatura era stata notevolmente abbellita. Secondo l'uso dei tempi il matrimonio fu celebrato per procura l'8 gennaio del 1859 a Monaco di Baviera e dopo Maria Sofia volle recarsi dalla sorella Sissy a Vienna per un breve soggiorno. Successivamente la nuova duchessa di Calabria si imbarcò a Trieste per raggiungere il suo sposo a Bari, dove giunse il 3 febbraio. Le accoglienze della popolazione furono entusiastiche, ma la malattia del Re già gettava un'ombra funesta sul lieto evento. Durante la permanenza a Bari la famiglia reale soggiornò nel palazzo dell'Intendenza, attuale sede della Prefettura. Maria Sofia, col suo fascino e la giovanile bellezza si attirò subito le simpatie di quanti la conobbero. Primo fra tutti fu il Re a rimanere favorevolmente impressionato dalla figura della nuora. Le sue giornate si dividevano fra il teatro e le escursioni nelle vicinanze di Bari, in compagnia dei giovani cognati con i quali aveva subito fraternizzato, avendo in comune con essi spirito d'avventura e atteggiamenti goliardici. L'aggravarsi della malattia del Re che lo costrinse a letto per tutta la durata del suo soggiorno a Bari, accellerò il rientro a Caserta. Il 7 marzo, il Re costretto su una lettiga, la Regina Maria Teresa, Francesco, Maria Sofia e tutto il loro seguito si imbarcarono sulla pirofregata "Fulminante" e partirono alla volta di Napoli. Finalmente per Maria Sofia, lasciato il grigiore del Palazzo intendentizio barese, si aprivano nuovi orizzonti. Il mare che ella tanto amava le dava il senso dell'avventura e del mistero; man mano che il vascello s'avanza tra le onde, la futura regina ripassa nella mente i racconti e le descrizioni della sua nuova dimora apprese dal suo sposo e dalla sua dama di compagnia, la marchesa napoletana signora Nina Rizzo. Di certo non poteva immaginare la giovanissima Duchessa quali trame stesse tessendo il destino per il suo futuro. Sopra coperta, Maria Sofia scrutava l'orizzonte e sognava: sarebbe stata la regina di uno Stato mediterraneo considerato il giardino d'Europa. Francesco, invece, non si staccava dal capezzale del Re, suo padre; in lui crescevano l'angoscia e, di pari passo, l'ansia ed i timori per le gravi responsabilità che lo attendevano. Tutto ciò può aver avuto un peso sull'atteggiamento poco ardente tenuto dal Principe nei confronti della sua giovanissima moglie. La sua profonda religiosità, un'innata timidezza non disgiunta da soggezione, frenavano Francesco che pure era rimasto affascinato e travolto dalla esuberante bellezza di Maria Sofia.
Inizi del periodo napoletano
Giunti finalmente a Napoli, Maria Sofia rimase colpita dallo splendore della capitale, ma ancor più rimarrà ammirata dalla magnificenza della Reggia di Caserta e del grande parco, esteso ben centoventi ettari. Inevitabilmente tornarono alla sua mente le giornate in allegra libertà trascorse a Passenhofen, nella sua amata terra. Ma in più a Caserta, i profumi, il calore e la luminosità meridionali le infondevano una gioiosa frenesia. Con la nuova numerosa famiglia napoletana si trovò presto a suo agio; i giovani cognati l'accolsero con calore e simpatia. La sola Regina Maria Teresa manteneva nei suoi confronti un atteggiamento severo e diffidente, tipico del suo carattere, mentre con suo suocero, Re Ferdinando, si era stabilita una subitanea intesa. Durante l'ultimo breve periodo della sua vita, Ferdinando riceveva quasi tutti i giorni nella sua camera i Principi ereditari per istruirli sulle cose del Regno, e a Maria Sofia, in particolare, raccomandava di non fidarsi mai dei "parenti di Torino", definiti : "piemontesi falsi e cortesi". Dopo la morte di Ferdinando II, passato il periodo del lutto, la giovane sovrana può finalmente liberarsi della soggezione della Regina-madre e riprendere liberamente le sue abitudini sportive come le lunghe cavalcate, la scherma, il nuoto. Ripresero le feste a corte in sintonia con la gioiosità napoletana così gradita alla nuova Regina che già riscuoteva le simpatie del popolo. Maria Sofia non perse tempo ed impose con fermezza il suo ruolo, neutralizzando la residua autorità di sua suocera Maria Teresa e l'influenza dei suoi amici, da lei definiti ironicamente "potenza delle tenebre" . Questo tempo di relativa tranquillità già volgeva alla fine. Le prime avvisaglie della bufera in arrivo si ebbero con la sanguinosa rivolta degli Svizzeri, anch'essa provocata ad arte da agenti piemontesi (con la propaganda e la corruzione) allo scopo di privare l'esercito borbonico di reggimenti che erano sempre stati esempio di disciplina e fedeltà alla Corona. In questa occasione Maria Sofia fu l'unica a tenere un comportamento coraggioso; non ebbe paura di salire sul terrazzo della reggia per assistere a cosa stesse accadendo. Dopo questi gravi eventi, conclusisi con l'allontanamento degli Svizzeri, i liberali e gli altri nemici occulti della Corona gioirono ritenendo un loro successo lo scioglimento dei reggimenti. I fedeli della Monarchia, invece, videro in esso una grave iattura. A colmare la grave carenza militare determinatasi, per iniziativa di Maria Sofia, furono costituiti tre battaglioni con soldati bavaresi prontamente inviati nel reame da suo zio, Re Massimiliano di Baviera. Intanto capo del governo veniva nominato il vecchio Carlo Filangieri, "l'uomo dei momenti perduti", come lo aveva definito Ferdinando. Maria Sofia presto si rese conto di quale coacervo di interessi multiformi e contrastanti era composto l'ambiente di Corte. Un fatto appariva chiaro: la morte di Ferdinando II sembrava avesse sciolto tutti dal vincolo di fedeltà alla Corona e, anziché stringersi intorno al Trono e sostenere il giovane sovrano, tutti si sentivano liberi di fare e disfare, non nutrendo nessuna fiducia nel nuovo Re e non avendo di lui alcun timore.
Governo Filangieri e riforme
Il nuovo governo guidato da Filangieri emanò un condono per i condannati per reati politici ed abolì le "liste degli attendibili". Inoltre, non solo consentì il rientro nel Regno di liberali e fuorusciti, bensì diede loro posti importanti nella Pubblica Amministrazione togliendoli a funzionari di provata fedeltà per dare un messaggio di "pacificazione". Ma gli irriducibili nemici della Monarchia napoletana che agivano all'interno del paese erano fermamente decisi a "non lasciare al nuovo Re, di cui era nota la correttezza morale, il tempo si assestarsi sul trono e di coagulare intorno alla monarchia, grazie anche alla simpatia che riscuoteva la giovane Regina, nuove adesioni e consensi con un pericoloso (per loro) recupero di legittimazione " . Nei pochi mesi del soggiorno napoletano, Maria Sofia seppe imporre la sua personalità e dimostrare il suo già forte legame con la nazione. La sua risolutezza e determinazione sembravano compensare la debolezza e le incertezze del Re. Per quanto riguarda la pretesa adesione di Maria Sofia ai principi costituzionali, data per certa da quasi tutti i suoi biografi, solo perché nella sua patria d'origine tali principi erano già in atto, non v'è una documentazione sufficiente per dimostrarla. Ammesso, comunque, che tale fosse il suo pensiero, non poteva sfuggire alla Regina, donna di acuta intelligenza, che le contingenze del Regno non erano tali da consentire una riforma in senso costituzionale da molti ritenuta rovinosa per il paese, né poteva aver dimenticato gli ammaestramenti dati in punto di morte da Re Ferdinando, per il quale Costituzione significava rivoluzione. Era tempo, invece, di "serrare i ranghi", chiamando i fedelissimi a raccolta e dare precisi segnali di energia e risolutezza. Così non fu. E i nemici interni ed esterni intensificarono ogni azione per condurre il Regno alla rovina. "Lentamente cresceva nel Regno la tensione politica che né i numerosi decreti di clemenza, né la buona volontà dimostrata dal giovane Re potevano esorcizzare. Anzi, sembrava che ad ogni provvedimento positivo gli eventi accelerassero il loro corso" . Maria Sofia, assisa su uno dei più bei troni d'Europa, già ne avvertiva lo scricchiolio. Il Re era praticamente prigioniero della larga cerchia di collaboratori e consiglieri che lo avevano indotto, col nemico già alle porte, a prendere quei provvedimenti libertari che risulteranno esiziali per il Regno: già allignava negli ambienti governativi e nelle alte sfere militari l'ombra del tradimento. Sfuggiva agli onesti ed ai fedeli alla Monarchia che ai liberali ed ai fuorusciti napoletani non interessava affatto una trasformazione dello Stato borbonico in senso liberale, volevano semplicemente e solamente la fine del Regno napoletano e l'annessione al Piemonte. Dice lo storico Ruggero Moscati che per i liberali ed i massoni il "porro unum" era la "cacciata" dei Borbone, per il resto, poi si sarebbe visto.
Dissoluzione dell'esercito e abbando-no della Capitale
Nel clima di generale disorientamento che dominava a Corte, solo Maria Sofia era determinata a seguire qualunque strategia che fosse d'attacco e di efficace contrasto ai nemici invasori. Ella non si stancava di incitare il Re a mettersi a capo dell'esercito e passare all'azione, sicura che tutto il popolo l'avrebbe sostenuto e seguito. Ma Francesco II, a parte la sua naturale indolenza, irretito e condizionato com'era, da una selva di ministri e collaboratori di dubbia fede non riusciva a prendere quelle decisioni che la situazione richiedeva. Dopo la perdita della Sicilia e la dissoluzione dell'esercito in Calabria, tutti a Napoli furono presi dallo scoramento. La tragedia era ormai incombente e il Re non sapeva a chi votarsi. Chiedeva consiglio ai maggiorenti del Regno, ma riceveva suggerimenti contrastanti. Il vecchio generale Carrascosa, interpellato rispose : "Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà; o cadremo da valorosi, o butteremo Garibaldi in mare" .Ovviamente questo tipo di consigli trovavano la Regina consenziente ed entusiasta. Altri, invece, sostenevano che se il Re si fosse allontanato da Napoli ci sarebbe stata la rivolta. Intanto era già iniziata la lunga serie di dimissioni di ministri e generali. Dopo le dimissioni di Pianell il Re offrì l'incarico di capo del governo al generale Ischitella, ma questi dopo vari tentativi, rimise l'incarico sostenendo che "ognuno si rifiutava di essere ministro in quel momento, in cui si vedeva la dissoluzione del Regno, e nessuno voleva compromettersi." . Appariva, invece, determinato e risoluto il ministro Liborio Romano (che meriterà poi l'aureola di primo grande traditore). Costui consigliò il Re di affidare la Reggenza temporanea ad un "ministro forte e fidato" (cioè lui) e lasciare Napoli, reputando ormai impossibile fermare Garibaldi. Consiglio che poi, funestamente, il Re seguirà, essendo venuto nella determinazione di rifugiarsi a Gaeta e apprestare poi una difesa fra il Volturno e il Garigliano. Il pomeriggio del 5 settembre i Sovrani uscirono dalla reggia per mostrarsi al popolo napoletano e ai soldati per risollevarne gli animi; anche in questa occasione il piglio battagliero di Maria Sofia si manifestò con l'intenzione di mostrarsi a cavallo insieme al Re, ma prevalse il consiglio di uscire in una carrozza scoperta. Il giorno dopo, nel pomeriggio, i Sovrani lasciarono la reggia e si imbarcarono per Gaeta, dove erano già stati preceduti dalla Regina madre con i figli minori. Dopo la decisiva e sfortunata battaglia del Volturno, il Re, insieme ai principi reali, avvilito, ritornò a Capua e fu convinto dal Maresciallo Ritucci dell'impossibilità di riprendere la battaglia, ma al suo ritorno a Gaeta, la stessa notte, ancora una volta, incitato dalla moglie e da altri, mutò parere e comunicò telegraficamente al Ritucci la sua decisione di riprendere la battaglia, ma costui tergiversava, non avendo ormai nessuna intenzione di combattere. Né si decise a riprendere l'offensiva quando il Re, appreso che Vittorio Emanuele aveva varcato il confine del Regno, gli intimò di marciare verso Napoli. Inevitabile fu allora la sua sostituzione col generale Salzano, il quale già nel consiglio di guerra del 31 ottobre, appoggiato da Ulloa, invitava Francesco II a intraprendere una guerra partigiana conducendo l'esercito sulle montagne. Molto esplicito a questo proposito fu il generale Salzano: "Si facciano rivivere i Fra Diavolo, i Pronio, i Mammone ed i tanti altri condottieri di masse del 1799 ; in una parola il Reame intero deve essere chiamato alle armi. Imitiamo il popolo spagnolo che seppe umiliare la potenza di Napoleone I" . Ma il Re preferiva ripiegare su una lunga resistenza a Gaeta nella convinzione che le potenze europee non avrebbero tollerato oltre i soprusi del Piemonte e sarebbero intervenute. Dopo gli scontri sul Garigliano inevitabile fu il ripiegamento in Gaeta.
Il tempo di Gaeta
E' il tempo di Gaeta quello in cui Maria Sofia si guadagna l'aureola di "eroina". E proprio a Gaeta, durante quel memorabile assedio, fra inenarrabili patimenti e angustie, troverà il suo humus e dispiegherà tutte le sue energie. Dice di lei Amedeo Tosti, uno dei suoi biografi: "Fin dal giorno del suo arrivo a Gaeta, la Regina Maria Sofia aveva preso ad esplicare una grande, inconsueta attività: visita ai reparti delle caserme, sopraluoghi sui lavori di afforzamento, predisposizioni per le cure ai feriti ed agli ammalati, contatti con la popolazione, tra la quale la giovane Sovrana non tardò a diventare popolarissima" . I soldati la chiamavano:"Bella Guagliona nuosta". Nei momenti più gravi Maria Sofia non si perdeva d'animo, lo sprezzo del pericolo era una costante del suo comportamento; sapeva affrontare ogni rischio col sorriso sulle labbra, quasi a sfidare il destino. Per questo i soldati l'adoravano ed anche in punto di morte invocavano il suo nome. Quando a Gaeta la situazione diventerà sempre più tragica a causa dell'epidemia del tifo, del terribile freddo di quell'anno, della scarsità di cibo, la Regina risponderà sempre no all'invito del marito di lasciare la roccaforte. In una lettera a Napoleone, Francesco II a questo proposito, non senza compiacimento, dirà della moglie : "Ho fatto ogni sforzo per persuadere S.M. la Regina a separarsi da me, ma sono stato vinto dalle tenere sue preghiere, dalle generose sue risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali la cura dei feriti e degli ammalati; da questa sera Gaeta conta una suora di carità in più" . Ciò che destava ammirazione, soprattutto fra i combattenti, era la continua sfida del rischio da parte di Maria Sofia sempre presente dove più infuriava al battaglia. Non da meno si dimostrò il Re che ogni disagio e privazione volle dividere con i suoi soldati e la popolazione. In non poche occasioni sembrò che Egli cercasse la morte fra i suoi soldati, ma evidentemente il destino gli riservava altre angosce. Man mano che il tempo passava, andavano scemando le speranze del Re in un intervento militare da parte di qualche potenza europea (Austria, Spagna, Russia) per ristabilire il diritto. Tali possibili interventi, viceversa, erano temuti dagli assedianti piemontesi, che perciò erano determinati ad intensificare il fuoco e le operazioni di assedio per espugnare quanto prima la cittadella. Per la festa dell'Immacolata dell'otto dicembre, il Re fece sospendere le ostilità per le celebrazioni religiose. In questa occasione anche gli assedianti sospesero il fuoco, non per motivi religiosi, ma per consentire al vice ammiraglio francese de Tinan di consegnare al Re una lettera di Napoleone con cui si annunziava l'imminente ritiro della squadra navale francese da Gaeta, e si consigliava Francesco II di desistere dalla ormai inutile resistenza. Tale avviso fu per i reali napoletani un colpo ferale e se ne dolsero con i sovrani di Francia. Ciononostante erano determinati a combattere fino alla fine. La Regina continuò con maggior sprezzo del pericolo ad aggirarsi fra le batterie rincuorando gli impavidi soldati. Il 19 gennaio, con l'allontanamento della squadra navale francese, tutto il fronte di mare rimarrà scoperto ed in balia della flotta piemontese. Cesserà da questo momento la possibilità di rifornimento della Piazza, ormai condannata ad una rapida agonia.
Isolamento della Piazza e fine delle ostilità
Non si erano del tutto allontanate le navi francesi, che già comparvero come funesti avvoltoi, le prime tre navi piemontesi dell'ammiraglio Persano. L'isolamento della Piazza era ormai completo. Dappertutto in Gaeta ben visibili apparivano segni di distruzione e di morte: macerie e cadaveri disseminati, animali morti di stenti, feriti e moribondi. Ritenendo ormai imminente la resa, Napoleone, il 27 gennaio fece informare Francesco II che all'occorrenza era già pronta nel golfo di Napoli la nave a vapore "Mouette" a disposizione dei reali napoletani , quando avessero deciso di abbandonare Gaeta. Ma il Re, dopo aver ringraziato l'Imperatore, fece sapere ancora una volta, che era "deciso a difendere fino agli ultimi estremi questa piazza, isolata dal resto del mondo". Completamente ignorata fu, invece, l'oltraggiosa offerta fatta da Vittorio Emanuele, l'invasore, tramite Cavour, che informava di aver messo a disposizione di Re Francesco la nave da guerra "Vittorio Emanuele" per lasciare Gaeta. Ancora la sera dell'otto febbraio dal consiglio di guerra convocato dal Re venne fuori la decisione di resistere ad oltranza, ma ormai tutto rovinava, anche le ultime muraglie. Ogni residua speranza ed illusione cessava la sera del 10, quando una lettera autografa dell'Imperatrice Eugenia, inviata a Maria Sofia, riferiva dell'impossibilità di un ulteriore intervento francese ed invitava a cedere al destino. Sotto l'incalzare degli avvenimenti, soltanto il giorno 11 il Consiglio Supremo dello Stato, convocato da Re Francesco, riconobbe la necessità di una pronta ed onorevole capitolazione. Ormai rassegnati a quella sorte iniqua, ma non domi, i reali napoletani si aggiravano come fantasmi fra le macerie fumanti di Gaeta. La mattina del 14 febbraio Francesco II e Maria Sofia, lasciata la loro residenza, si avviavano verso il molo per imbarcarsi sulla motonave "Mouette" che li avrebbe condotti nello Stato Pontificio. Particolarmente toccante è la descrizione della scena di partenza fatta dal generale Pietro Ulloa : "I soldati laceri e defaticati, con gli occhi abbattuti, presentavano le armi, e le musiche dei reggimenti suonavano la marcia reale. Quest'inno, opera del Paisiello, durante i bombardamenti si suonò continuamente; ed allora questo pezzo d'armonia faceva un contrasto doloroso col rumore spaventevole delle artiglierie, ma in questo momento solenne queste note, così armoniose e tenere, fecero alta impressione, poiché ricordavano ben altri tempi; talché l'emozione divenne generale e le lagrime sgorgarono dagli occhi di tutti. I soldati, gridando: "Viva il Re", non facevano sentire che suoni rauchi, misti a singulti, e la popolazione, esposta a dure prove durante l'assedio, si precipitò allora sui passi del Re per baciargli chi le mani e chi gli abiti, e parte di essa dall'alto dei balconi, convulsa, agitava i bianchi fazzoletti come affettuoso segnale dell'estremo addio. I soldati si prostravano, singhiozzando, dinanzi al Re, e gli ufficiali , oppressi dallo stesso dolore, si gettavano nelle braccia dei loro soldati, scambievolmente abbracciandosi; e di questi ultimi vi furono molti che, strappandosi le spalline, ruppero le spade e le gittarono al suolo. La commozione era intensa: il Re a stento si potè aprire il varco fra i suoi soldati, fra la popolazione che lo serrava come in un abbraccio: per la prima volta si videro spuntare dagli occhi della Regina le lagrime. Finalmente il Re potè raggiungere la porta di mare e il porto, dove s'imbarcò sulla "Mouette"; quando lasciò il porto, una batteria rese gli ultimi onori al Re. Il rumore del cannone s'innalzò per l'aere come il singhiozzo del moribondo... Le grida di "Viva il Re", innalzate dai connonieri sul momento in che abbassavasi la bandiera napolitana, ci stringevano il cuore; poiché sembravaci quella bandiera un funereo lenzuolo, che si gittava sulla Monarchia di Carlo III, e gli stessi francesi della "Mouette erano commossi come i napolitani" . Al passaggio della nave reale davanti alla batteria borbonica Santa Maria " fu eseguita la salva reale di ventun colpi di cannone ed, in segno di saluto, per tre volte fu ammainata la bandiera gigliata sulla Torre d'Orlando. Per sempre".
Periodo romano e organizzazione della guerriglia
Al suo arrivo a Roma, Maria Sofia, pur con l'angoscia nel cuore, non era per nulla rassegnata alla sorte; il legittimo risentimento e l'inimicizia contro i Savoia la rendevano ancora più determinata a continuare la lotta con tutti i mezzi. La sua fama per le gesta di Gaeta l'aveva preceduta, ed i romani furono presto conquistati dalla sua leggiadra figura. Dopo le festose accoglienze, il Papa aveva messo a disposizione dei reali napoletani il Palazzo del Quirinale. Il Re allora, volle dare subito un segnale di continuità ricostituendo in esilio il governo borbonico sotto la presidenza di Pietro Calà Ulloa. Compito primario di questo governo era innanzi tutto quello di organizzare la resistenza contro i piemontesi nel Regno e dispiegare un'attività diplomatica di coinvolgimento delle nazioni europee. Della parte organizzativa militare, con beneplacito del Re, se ne volle occupare Maria Sofia. Volontari da tutta Europa giungevano a Roma per prendere parte alla resistenza contro gli invasori piemontesi, in una vera e propria crociata per la liberazione del Sud. Focolai di rivolta si diffusero in tutto l'ex Regno, organizzati e diretti da "comitati" borbonici in ogni provincia. "La stampa internazionale dedicava ampio spazio alla guerriglia che si combatteva nel Mezzogiorno d'Italia, prendendo spesso le difese delle popolazioni locali" . Maria Sofia era la " vera ispiratrice della resistenza". L'atmosfera romantica di quel tempo ben si accordava con gli ideali dei legittimisti, che pur sapendo di rischiare la vita, con entusiasmo si davano alla macchia con l'intimo convincimento di operare per una giusta causa: la riconquista del Regno. Ai facili entusiasmi si alternavano periodi di scoramento, ma la giovane Regina non si sarebbe mai sognata di abbandonare la lotta, anzi ne aveva fatto lo scopo principale della sua vita. Ricordava ed idealizzava sempre di più l'epico periodo di Gaeta e lo considerava il più bello trascorso fino allora. Il suo intenso attivismo attirò l'odio dei circoli liberali romani che cominciarono ad osteggiarla in tutti i modi. Da loro partì la vergognosa e infame operazione dei fotomontaggi in cui appariva la testa di Maria Sofia montata sul corpo nudo di una prostituta in pose lascive. Tali foto furono inviate a tutti i reali d'Europa, compreso il Papa. La polizia pontificia scoprì ed arrestò gli autori di tali vergogne: i coniugi Antonio e Costanza Diotallevi . I mandanti erano i membri del Comitato nazionale o "partito piemontese" e il "Comitato d'Azione" (liberali), i quali avevano anche organizzato un'aggressione mortale a Maria Sofia, fortunatamente fallita per caso. Senza nessuno scrupolo e con ogni più turpe mezzo i liberali continuavano a calunniare ed osteggiare l'amata Regina, che decise di allontanarsi per qualche tempo da Roma per recarsi a Monaco. Di ritorno, dopo le preghiere del Re, nella primavera del 1863, Maria Sofia e Francesco si trasferirono a Palazzo Farnese, antica proprietà dei Borbone. La grigia realtà dell'esilio romano cominciava a incidere negativamente sull'umore della giovane Regina, anche a causa degli intrighi e dei contrasti che si sviluppavano fra le diverse fazioni dei legittimisti esuli a Roma, i quali si perdevano in vane discussioni senza produrre concrete azioni di guerriglia nei territori dell'ex Regno. Non paghi erano i detrattori di Maria Sofia, che continuavano a tessere trame calunniose nei suoi confronti allo scopo di distruggere il simbolo stesso della resistenza da lei rappresentato. Ma nonostante tutto, Maria Sofia era ancora e fermamente convinta di poter, un giorno, riconquistare il trono alla guida dei suoi fedeli soldati e rientrare a Napoli. Fra speranze e delusioni, fino al 1866, la vita dei sovrani napoletani era trascorsa più o meno tranquilla fra Roma e la Baviera. Ma i venti di guerra che già soffiavano in Europa mettevano in apprensione gli esuli borbonici che temevano l'occupazione di Roma da parte dei piemontesi. Viceversa, i governanti italiani non nascondevano il timore per eventuali sollevazioni popolari nell'ex Regno.
Guerra del 1866 e speranze borboniche
Scoppiata la guerra, i borbonici speravano in una sconfitta italiana che avrebbe rimesso tutto in discussione. E la notizia della disfatta di Custoza riaccese le speranze degli esuli napoletani a Roma e fece pensare a un non lontano rientro in patria. Invece, ancora una volta le loro speranze andarono deluse. Infatti la sconfitta degli austriaci a Sadowa ed il successivo trattato di pace che non teneva conto delle aspettative dei Borbone relative alla restituzione dei loro beni privati, raggelò l'ambiente legittimista romano, ma la rivolta siciliana del settembre 1866 repressa nel sangue dimostrò ancora una volta come fosse ancora viva l'avversione delle popolazioni dell'ex Regno contro lo Stato unitario che produceva solo miseria e morte. Dopo tali episodi, man mano che il tempo passava aumentava l'indifferenza dell'opinione pubblica internazionale verso la causa della restaurazione dei Borbone. Maria Sofia, stanca e sfiduciata ritornò nella sua nativa Baviera, ma non vi soggiornò per molto; infatti la sorella prediletta, Elisabetta d'Austria la convinse a ritornare a Roma dove, ansioso, l'attendeva suo marito e la Corte, che temeva l'abbandono degli ex sovrani. Nella primavera del 1869, finalmente un lieto evento veniva annunziato: la Regina era in stato interessante e nella notte di Natale dello stesso anno diede alla luce una bambina alla quale furono imposti i nomi di Maria Cristina Pia. Grande fu la gioia del Re e di Maria Sofia, anche se tutti aspettavano l'erede al trono. Ma per gli ex sovrani di Napoli non v'erano gioie durature: dopo appena tre mesi , la sera del 28 marzo, la piccola principessa, già di gracile costituzione, morì per improvviso malore, tra lo strazio dei genitori. Così descrive il Tosti la scena dell'addio: " quando la Regina dovette distaccarsi per sempre dalla sua creatura, resa quasi folle dal dolore, si prese la piccola cassa tra le braccia e la portò al Re, perché desse alla figlia l'ultimo bacio; poi, cadde priva di sensi" . Dopo questa tragedia Maria Sofia non fu più la stessa, e questo fu solo il primo di una serie di lutti che colpirà la sfortunata "Spatz" (Passero), così veniva anche chiamata la Regina del Sud. Le vicende politiche-militari ormai incalzavano, facendo temere prossima anche l'invasione di Roma da parte delle truppe italiane. Quanto ad una possibile restaurazione nel Sud, cadevano le ultime illusioni. Erano trascorsi poco meno di dieci anni nell'esilio romano e gli ex Sovrani di Napoli nulla avevano trascurato per organizzare e promuovere la resistenza e la ribellione, definite "brigantaggio" dagli invasori. Ora bisognava lasciare Roma. E ad aprile del 1870 Maria Sofia parte per Vienna, seguita poco dopo da Francesco.
L'esilio fuori d'Italia
Inizia allora per i sovrani napoletani, un triste pellegrinaggio in varie parti d'Europa, ma la loro residenza per la maggior parte dell'anno è a Parigi, in una villetta acquistata da Francesco nel sobborgo di Saint Mandé. La loro fama, e specialmente quella di Maria Sofia, "l'Eroina di Gaeta", era così grande che, ancora da poco tempo a Parigi, già veniva pubblicato da Alfonso Daudet il suo romanzo "Les rois en exil", divenuto presto notissimo, dove è adombrata la vicenda degli ex re in esilio. Nel lungo periodo parigino la Regina di Napoli coltivò soprattutto la sua grande passione per i cavalli, e per seguirne le gare si recava spesso in varie città d'Europa e a Londra, dove si appassionò alla caccia alla volpe. Non si pensi per questo che Maria Sofia si sia rassegnata ed abbia abbandonata la lotta contro gli usurpatori Savoia; per tutta la vita continuerà a combattere e non perderà occasione per ribadire i diritti della monarchia napoletana e osteggiare in ogni modo il governo italiano. L'inimicizia per coloro che avevano distrutto la sua "favola" fu come una fiaccola che, continuamente alimentata, si spegnerà solo con la sua morte. "Impavidum ferient ruinae", dice Orazio nelle sue "Odi”, e nessun motto più di questo si attaglia perfettamente alla personalità di Maria Sofia: Ella resisterà impavida a tutti i colpi del destino. Nessuna sciagura riuscirà mai a piegarla. E di sciagure familiari ne ebbe tante, a cominciare dalla perdita della figlioletta di cui abbiamo parlato. Il 14 novembre 1888 le morì il padre, l'amato Duca Max, a poco più di un anno di distanza, il 26 gennaio del 1889, morì anche la madre Ludovica. Il 13 giugno 1886, nel lago di Starnberg trova la morte lo zio, il Re di Baviera Luigi II, forse suicida; il 30 gennaio 1889 segue la tragedia di Mayerling con la morte dell'Arciduca ereditario d'Austria, Rodolfo, suo nipote, figlio di Sissy, insieme alla sua giovane amante Maria Vetsera, anch'essi suicidi. Nell'autunno del 1894, mentre Maria Sofia era a Parigi, Francesco che soggiornava ad Arco, località termale del Trentino, vide improvvisamente aggravarsi le sue condizioni di salute, tanto che, nonostante le premurose cure, il 31 dicembre del 1894 cessava di vivere. Appena in tempo Maria Sofia riuscì a raggiungere Arco per i funerali che si svolsero con tutti gli onori dovuti all'ex Sovrano delle Due Sicilie. Le salve di cannone all'occorrenza esplose, riportarono Maria Sofia ai giorni di Gaeta, da lei considerati, nonostante tutto, i più belli della sua vita. Anche la sorella più piccola, Sofia Carlotta periva tragicamente a Parigi nell'incendio del Bazar de la Charité il 4 maggio 1897; l'anno dopo, l'opera nefasta del destino, sembra concludersi con l'assassinio dell'Imperatrice Elisabetta (Sissy), pugnalata a morte lungo la riva del lago di Ginevra da un "macabro idiota ", purtroppo italiano".
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I disordini sociali e l'attentato a Umberto I
Maria Sofia, pur oppressa dal dolore, prestava sempre viva attenzione alle vicende italiane. Ormai conclusa l'epica stagione del "brigantaggio", si andava accentuando nel nuovo Stato un malessere generale che, a causa della miseria diffusa e del governo oppressore, sfociava in frequenti disordini sociali, domati nel sangue, come nel caso di Milano, dove il generale Bava Beccarsi fece sparare sulla folla inerme. Naturale fu l'intesa fra anarchici, rivoluzionari e legittimisti borbonici, in quanto tutti speravano che un crollo del novello Stato unitario avrebbe determinato, insieme alla cacciata dei Savoia, un nuovo assetto politico in Italia e la possibilità per i borbonici di ricostituire l'antico Stato. E' facilmente intuibile come questo vento rivoluzionario rinfocolasse le speranze e rinnovasse gli ardori di Maria Sofia e della sua corte di Neuilly a Parigi. Fra i fedelissimi dell'ex Regina, c'è Angelo Insogna, napoletano, ex direttore di giornali legittimisti, autore di una biografia di Francesco II, vero uomo di punta del legittimismo borbonico. Egli coordina le azioni di anarchici e di quanti avversano la monarchia sabauda. Nella primavera del 1898 promuove da Parigi una campagna di stampa contro lo Stato italiano con cui viene denunziata una situazione veramente allarmante: al malessere sociale diffuso dappertutto si risponde con gli stati d'assedio e la repressione più violenta. Così scriveva il giornale parigino "Petit Parisien": "Ci si domanda perché manovali, operai italiani dovrebbero essere partigiani di una Unità che non seppe affatto migliorare la loro sorte" . In questo clima esacerbato maturò il progetto dell'attentato al Re Umberto I. L'esecutore, già schedato dalla polizia italiana come "anarchico pericoloso" era Gaetano Bresci, già emigrato in America a Paterson, dove fu ingaggiato e fatto tornare in Europa. Sbarcò in Francia, a Le Havre e di lì raggiunse l'Italia, dove a Monza, il 29 luglio del 1900 compì il regicidio. Anche se non v'è certezza, non sono pochi gli indizi che conducono a Maria Sofia quale ispiratrice dell'attentato. Dopo questo grave fatto il governo italiano cominciò a temere ancora di più le trame anarchico-legittimiste ed i convegni segreti che periodicamente si svolgevano presso la dimora parigina di Maria Sofia. Pare che, secondo le informazioni in possesso del primo ministro Giolitti, si stesse preparando la liberazione di Bresci e la contemporanea sollevazione popolare in molti centri dell'ex Reame di Napoli. E' per questo che Maria Sofia era continuamente sorvegliata da agenti dei servizi segreti italiani. La risposta del governo italiano a tali progetti non si fece attendere: Gaetano Bresci fu trovato "suicidato" nella sua cella del penitenziario dell'isola di Santo Stefano il 22 maggio del 1901. Pochi giorni prima, in missione segreta nel penitenziario era stato inviato dal Primo Ministro Giolitti tale Alessandro Doria, un losco figuro, funzionario del Ministero dell'Interno, non nuovo a "soluzioni" di tal genere. La morte di Gaetano Bresci, comunque, pare tornasse utile a molti e non dispiacesse agli ambienti anarchici che oppressi dalla pressione poliziesca, si andavano orientando verso forme diverse di lotta politica. D'altronde, dopo il regicidio non c'erano state le auspicate rivolte popolari e l'anarchismo rivoluzionario cominciò a perdere terreno, anche perché la politica giolittiana apriva nuovi orizzonti con l'istituzione del suffragio universale, e quindi, la temuta e per altri versi auspicata involuzione reazionaria del governo (che avrebbe potuto scatenare la reazione popolare) non ci fu. Col trascorrere degli anni i governanti italiani sempre più si andavano convincendo della diminuita pericolosità dell' "Aquiletta bavara" , anche a ragione delle ormai cessate sue frequentazioni di personaggi dell'anarchia. Si sbagliavano. Sebbene fossero trascorsi circa cinquant'anni dalla fine del regno meridionale e Maria Sofia avesse ormai settant'anni, con alle spalle una lunghissima serie di delusioni e angosce, non rinunciava affatto a tessere le sue trame contro i Savoia e a sperare nei mutamenti della politica europea. Alla corte di Vienna l'Arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe e suo erede, nell'ottica di una politica anti-italiana, apertamente auspicava il ricongiungimento del Lombardo-Veneto all'Austria e, in un futuro riassetto della penisola, il ripristino del Regno delle due Sicilie. Come si vede, le speranze di Maria Sofia non erano del tutto illusorie e traevano alimento da precisi fatti politici. Fosche nubi si addensavano sui cieli d'Europa che preludevano alla prima guerra mondiale. L'Italia, che aveva aderito alla Triplice Alleanza già mostrava segni di "cedimento". E non è un mistero che buona parte del paese era avversa a quell'alleanza ritenuta "innaturale" dai nazionalisti. Dopo l'attentato di Sarajevo contro l'Arciduca Francesco Ferdinando e il successivo scoppio della guerra, l'Italia dei Savoia si dichiarerà "neutrale" non rispettando i patti sottoscritti con gli alleati della Triplice. Per questa ragione a Vienna gli Stati Maggiori dell'esercito già pensavano ad una "spedizione punitiva" contro i "traditori" italiani. Maria Sofia, il cui interesse coincideva con i neutralisti, quando il "voltafaccia" italiano si manifestò chiaramente con l'intervento in guerra a fianco di Francia e Inghilterra, non potè che gioire, ritenendo che finalmente i Savoia avrebbero avuta la "lezione" che meritavano, e la loro sconfitta avrebbe determinato gli auspicati rivolgimenti nella penisola. Nel frattempo, a causa della sua attività in favore degli Imperi Centrali, l'ex Regina di Napoli era stata costretta a lasciare la Francia e si era rifugiata a Monaco, dove continuò, intensa, la sua battaglia.
Periodo di Monaco ed epilogo
La disfatta italiana di Caporetto dell'autunno del 1917 sembrò l'inizio della catastrofe che poteva culminare nella fine della monarchia degli esecrandi Savoia, tanto agognata da Maria Sofia. Il suo sogno sembra concretizzarsi, ma la gioia e il gusto inebriante della vendetta, a lungo desiderata, per poco tempo acquietarono il suo spirito. Infatti i ragazzi-fanti, per buona parte meridionali, con l'eroica resistenza sulla linea del Piave fermarono gli Austriaci. E, ironia della sorte, l'artefice della vittoria italiana fu un generale napoletano: Armando Diaz. Gli ultimi mesi di guerra videro l'ex Regina di Napoli nei campi dei prigionieri italiani prodigarsi nell'assistenza. "Fra quei soldati laceri ed affamati, lei cerca i suoi napoletani. Distribuisce, come a Gaeta, bombon e sigari". Inevitabile per Maria Sofia il pensiero a Gaeta , il cui ricordo le struggeva il cuore. Erano trascorsi ben 56 anni e il suo ardente amore per la terra napoletana non si spegneva. Negli anni che seguirono Maria Sofia fu spettatrice di avvenimenti che cambieranno il corso della storia, come la fine del glorioso Impero austro-ungarico, il sorgere in Italia del Fascismo che molto la incuriosiva, i primi movimenti che in Germania porteranno Hitler al potere. Si trattava del crollo del suo mondo e lei ne era consapevole. Aveva ottant'anni l'ex Regina di Napoli , e tutte le mattine faceva ancora la sua consueta passeggiata a cavallo. Il destino volle che un'altra principessa nelle cui vene scorreva il sangue dei Wittelsbach sarà per brevissimo tempo Regina d'Italia, l'ultima: Maria Josè, pronipote di Maria Sofia, figlia di Elisabetta, Regina del Belgio. Non avrebbe mai immaginato Maria Sofia che una sua consanguinea avrebbe sposato un discendente dell'esecrando "usurpatore" (Vittorio Emanuele II). La morte la colse in tempo [19 Gennaio 1925] per risparmiarle quell'ennesimo dolore.
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Quel maestro di doppiezza che unì Napoli all' Italia Liborio Romano usò anche la camorra per aiutare Garibaldi di Nico Perrone
Il suo giorno di gloria don Liborio Romano, protagonista quasi sconosciuto dell' Unità d' Italia, lo ebbe il 7 settembre 1860, a Napoli, seduto in carrozza alla destra di Garibaldi che entrava trionfalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Egli stesso, nelle memorie, così ricorderà l' episodio: «E Garibaldi, spettacolo sublime ed indescrivibile, entrava in Napoli, solo inerme e senza alcun sospetto; tranquillo come se tornasse a casa sua, modesto come se nulla avesse fatto per giungervi!». Eppure quel momento di gloria, sarebbe stata anche la sua dannazione. E lo avrebbe inchiodato, più o meno giustamente, all' immagine del voltagabbana. Nato a Patù, un paesino che non contava neppure mille abitanti, nei pressi del capo di Santa Maria di Leuca, Romano era il frutto di una contraddizione clamorosa: dopo un apprendistato politico nelle sette anti-borboniche, era stato nominato poche settimane prima, da Francesco II, ministro degli Interni. Una nomina decisa il 14 luglio 1860, quando Garibaldi, sbarcato a Marsala l' 11 maggio, occupava già una parte considerevole del regno delle Due Sicilie. E voluta dal re di Napoli, presumibilmente, per lanciare un segnale estremo di svolta riformatrice. Era stata molto difficile la vita di Liborio Romano. Figlio di famiglia che vantava la discendenza da un ramo dei Romanov, nel Regno di Napoli egli si fece la reputazione di avvocato «principe». Aveva avuto perfino l' ardire di difendere interessi vicini alla corte britannica contro i Borbone, costringendo il sovrano napoletano a un compromesso oneroso. Per le sue idee liberali, Romano aveva patito molti anni di prigione, e poi di esilio in Francia. Rientrato in patria, venne tenuto sotto vigilanza. Ma riuscì ugualmente a portare avanti l' attività forense. A corte, di lui, si guardava sempre con preoccupazione al grande ascendente sul popolo. Francesco II salì giovane al trono. Mentre il Regno di Napoli si avviava allo sfacelo, egli attuò una mossa ardita, nominando (14 luglio 1860) ministro di polizia proprio Romano. Il disegno del re sarebbe stato quello di schierare un oppositore dalla propria parte. Un aspetto importante della sua capacità politica, Romano lo mostrò da ministro borbonico. Prima di tutto nei rapporti col popolo, mediante l' attenzione quotidiana agli umori della gente e la comunicazione diretta. Fece affiggere continuamente dei manifesti che davano conto delle attività del ministero. Questo per le esigenze istituzionali. Al tempo stesso dette sfogo alla doppiezza politica che lo caratterizzava. Da ministro borbonico, condusse infatti un gioco politico tutto suo, operando su tre fronti diversi. Mentre serviva Francesco II, si tenne in segreta corrispondenza con Cavour; al tempo stesso volle mettersi in rapporti anche con Garibaldi. Vincendo le fondate resistenze del sovrano, era riuscito a fare installare nel proprio gabinetto un' apparecchiatura telegrafica, e proprio di questa si servì per i suoi contatti segreti. Mentre Garibaldi avanzava, Cavour in una lettera dette atto al ministro borbonico «del suo illuminato e forte patriottismo» e della sua «devozione alla causa» nazionale italiana. Roba da mandare don Liborio davanti alla corte marziale; ma anche titolo di gloria nel processo unitario. In quel gioco, Romano riuscì a salvare la testa; ma vedremo che non potrà invece far valere i suoi meriti patriottici. Sotto Francesco II, il ministero di Romano durò molto poco, eppure realizzò passi avanti nel regime delle prigioni. Poiché ebbe il problema di una forza pubblica insufficiente a fronteggiare la malavita, col consenso del re assunse perfino qualche camorrista a rinforzare la polizia. Cavour intanto fece clandestinamente arrivare a don Liborio un carico di fucili, affinché fossero utilizzati per la conquista di Napoli; per sbarcare quelle armi, servirono i camorristi che il ministro aveva assunto. Ma tutta questa disinvoltura, al nostro sarà fatta pagare nella futura attività politica e perfino nella postuma reputazione. Per realizzare la conquista di Napoli, il nostro non volle però utilizzare i fucili di Cavour, ma scelse un' occupazione pacifica con l' ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860) e la camorra in funzione di ordine pubblico. Anche questa operazione, descritta dallo stesso Romano nelle memorie, venne utilizzata per spezzargli la carriera nel Regno d' Italia. A lui non servì neppure l' elezione alla Camera dei Deputati, ottenuta in ben nove collegi (1861), né la rielezione (1865). Due possono considerarsi i meriti di Liborio Romano. Il primo, lo abbiamo visto, quello di avere reso possibile la conquista del Regno di Napoli senza spargimento di sangue. Il secondo, quello di avere indicato a Cavour, con un lungo memoriale, le caratteristiche peculiari e i problemi gravi dell' Italia meridionale. Egli avvertì che, se di quelle cose non si fosse tenuto conto per tempo, sarebbero sorti problemi molto gravi. Soltanto poco prima di morire, Cavour gli concesse un' udienza. L' artefice dell' unità d' Italia dovette sentirsi spiegare da un politico di provincia, che per di più veniva da un regno conquistato, che non sarebbe stato né giusto né opportuno ignorare i problemi del Mezzogiorno. Almeno questo lo si sarebbe dovuto ricordare come un punto importante della visione politica del nostro. A proposito della fiducia riposta in Cavour, Liborio Romano scrisse: «fatale illusione, inescusabile e tanto più grave errore», quello di avere creduto «di poter continuare a servire il Paese, attuando un indirizzo governativo di conciliazione e di concordia». Cavour morì il 6 giugno 1861. Ma a Romano non daranno ascolto neppure i suoi successori. Egli ebbe una presenza assidua al parlamento unitario; ma non si può dire che essa sia stata incisiva. Commise, il nostro, un peccato imperdonabile, quando per stizza rese pubblici gli arricchimenti illeciti che si erano realizzati dopo l' Unità intorno alla liquidazione del debito pubblico borbonico. La visione costruttiva e ampia dei problemi del Mezzogiorno che egli aveva illustrato a Cavour, continuò invece a caratterizzare la sua azione parlamentare. Romano non aveva attitudine per le alchimie politiche e neppure per le semplici mediazioni. Soprattutto non seppe capire la necessità, affinché le sue analisi fossero almeno conosciute, di inserirsi in uno schieramento politico. Ebbe l' incapacità di capire le posizioni diverse dalle sue, sognando un ruolo di leader indiscusso, che non poteva essergli consentito. I suoi critici non vollero mai affrontare in modo spregiudicato il problema della doppiezza di Romano. La doppiezza è stata studiata, talvolta giustificata, soltanto con riferimento ai personaggi che raggiunsero vette molto elevate. Non fu il caso dell' ex ministro borbonico. Condannato, e perciò espunto: questo successe a Liborio Romano. Grande fu invece la complessità della sua figura politica: disconoscerlo, non è stato né giusto né utile. L' averlo cancellato ha avuto la conseguenza di negare alla conoscenza una parte importante della storia nazionale. Nel Parlamento italiano Romano fu isolato; nei suoi interventi dovette perciò ripiegare su questioni sempre più secondarie. Se ne tornò in quel paesetto nel quale era nato, e vi morì. Dimenticato in Italia, in Francia invece ha ottenuto l' attenzione di un' intera colonna sulla grande enciclopedia Larousse. professore di Storia all' Università di Bari e all' Università danese di Roskilde, autore de «L' inventore del trasformismo» dedicato a Liborio Romano .
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FERDINANDO BENEVENTANO DEL BOSCO Palermo 3.3.1813 - Napoli 8.1.1881
L'eroe borbonico per antonomasia Era nato a Palermo da Aloisio Beneventano dei baroni del Bosco e da Marianna Roscio. Apparteneva ad una antica famiglia siracusana e il padre, funzionario di corte, aveva ottenuto per il figlio l'ammissione a corte nel 1821 come paggio di re Ferdinando I. Nel 1825 era entrato alla Nunziatella e il 6 ottobre 1829 usciva dalla scuola militare nella quale si era distinto per le capacità militari ma non per quelle caratteriali che ne fecero un uomo particolarmente collerico ed orgoglioso. Ebbe il grado di 2° tenente al 2° granatieri della guardia reale. Undici anni dopo era 1° tenente al 2° Regina e nel 1845, per un duello con l'alfiere Francesco Vassallo, il primo di una serie, fu cassato dai ruoli. Soltanto dopo tre anni, il re lo perdonò e lo riammise in servizio. Il 25 marzo 1848 fu promosso capitano al comando di una compagnia del 3° Principe. Inviato in Calabria con la brigata comandata da Ferdinando Nunziante per combattere i rivoltosi si distinse in tutta la campagna. Spavaldo e estroverso pagò cara l'abitudine di corrispondere con ì personaggi della corte scavalcando ì superiori e emettendo giudizi sugli stessi sempre velenosi. Intercettata una sua lettera al conte Del Balzo, quello che aveva sposato la regina vedova, fu volutamente ignorato dal Nunziante nel notamente dei distinti in Calabria. Nel settembre del 1849 sbarcò a Messina con la sua compagnia e dette prove di grande valore espugnando alla baionetta una batteria nemica. Ferito al braccio da un proiettile, continuò imperterrito a combattere. Nell'aprile dell'anno successivo alla presa di Catania, fu come sempre valoroso e, dopo aver espugnato con tre compagnie una posizione importante, il generale Filangieri si complimentò con lui dicendogli: «Mon cher Ferdinand, je ne m'attendais que ca de toi. J'ai dans ma poche la plus belle decoration c'est la croix de S. Ferdinand». Fu proposto per la promozione a maggiore ma il re, che ne conosceva i bollenti spiriti si limitò a confermargli le decorazioni di diritto di S. Giorgio e di S. Ferdinando con una pensione annua. La promozione arrivò solamente nel 1859 quando Filangieri divenne presidente del consiglio. Con la promozione arrivò anche il primo comando, quello del 9° battaglione cacciatori. Se Bosco, che nel frattempo era stato promosso tenente colonnello il 1 maggio 1860, ebbe difficoltà per il suo carattere ad essere preso in considerazione dai superiori, non la ebbe con i suoi sottoposti che lo idolatrarono e ne ebbero sempre cieca fiducia. Profondamente devoto alla dinastia, da siciliano, conosceva ì suoi conterranei ma ì suoi consigli non vennero ascoltati dai superiori nel maggio del 1860. Naturalmente le sue lamentele giungevano puntuali al giovane re dalle lettere che Bosco spediva giornalmente al suo segretario particolare colonnello Severino. Nei combattimenti in cui fu coinvolto il 9° cacciatori Bosco dette sempre prove di grande coraggio. Il suo consiglio di rientrare a Palermo con la colonna Von Mechel, non fu ascoltato dal testardo colonnello svizzero mentre avrebbe potuto fare cambiare il corso delle cose. Rientrato a Napoli col suo battaglione, il re riconobbe i suoi meriti promuovendolo colonnello il 1° giugno. Dopo sole 48 ore di permanenza in Napoli, fu inviato a Messina dove si erano riunite le truppe al comando del maresciallo Clary per una eventuale riconquista dell'isola. Al comando di una colonna composta da tre battaglioni cacciatori fra cui il suo, fu inviato a Milazzo, ultimo avamposto napoletano col compito di difenderlo. Bosco, pur vedendo che il nemico ingrossava e poteva tagliargli la ritirata verso Messina, con il suo irruento carattere, volle dare imprudentemente battaglia e lo fece sulla piana di Milazzo. Ancora una volta si comportò da prode come fecero tutti gli uomini da lui dipendenti ma il numero delle forze era impari e dovette soccombere e ritirarsi nel forte di Milazzo. Per il re e per 1 borbonici era ormai un eroe ed è facile comprenderlo nella pochezza che contraddistinse la maggior parte degli alti ufficiali dell'esercito napoletano. Se non altro fu sempre coraggioso anche se troppo guascone. Rientrato a Napoli, ebbe la promozione a generale di brigata il 17 agosto 1860. Il ritorno di Girolamo Ulloa a Napoli e la sua eventuale utilizzazione come comandante delle truppe in Calabria dandogli come capo di stato maggiore il Bosco, lo fece salire su tutte le furie perché, senza alcun senso politico, si ritenne offeso dal dover servire un disertore del 1848. In lui furono riposte soverchie speranze e su suo consiglio furono inviate due forti brigate al suo comando ed a quello di Von Mechel per incontrare Garibaldi sulla piana di Salerno e tentare di batterlo prima che potesse giungere nella capitale. Ma il re aveva ormai deciso di tentare la fortuna dietro il Volturno per poter essere certo di contare su ufficiali realmente fedeli alla causa e, proprio quando giunsero gli ordini di ripiegamento su Capua, Bosco fu colpito da quello che oggi si chiama colpo della strega. La notte del 5 settembre si fece portare a Napoli dove dovette stare nascosto perché due giorni dopo vi fece ingresso Garibaldi. Grazie all'intervento di suo cognato Gaetano Zir, liberale da sempre e proprietario di un albergo, potette evitare di essere preso prigioniero e, con un accordo, fu espulso dal paese con la promessa di non combattere per due mesi contro Garibaldi. Da questo momento sembra terminare il periodo del grande coraggio di Ferdinando Bosco perché, data la considerazione di cui poteva godere un Garibaldi per un fedele suddito del re delle Due Sicilie, non sembra essere stata la parola data ad averlo tenuto lontano dai campi del Volturno. Trascorsi due mesi, Bosco comunque si presentò a Gaeta e la sua sola presenza galvanizzò gli assediati. Gli fu affidata una divisione di fanteria e la direzione di due sortite effettuate per distruggere i lavori del nemico. Bosco non le guidò e si limitò ad attendere con la riserva il rientro dei soldati. Anche a Roma, durante l'esilio, al quale volontariamente volle sottoporsi il generale, che prima della resa di Gaeta era stato promosso maresciallo di campo, il suo comportamento non fu più quello di un tempo. Preoccupato per l'avvenire, passò il tempo a complottare e, secondo le memorie di Pietro Ulloa, non sempre attendibile, richiese al governo italiano di potervi essere ammesso da maggior generale. Gli sarebbe stato risposto che poteva essere ammesso col grado di capitano. L'inattendibilità di questa asserzione di Ulloa è data dal fatto che tutto si può dire al governo italiano dell'epoca sull'argomento ma non che non rispettò i gradi dei militari napoletani avuti prima del 7 settembre 1860. Comunque tutto ciò dimostra la pessima atmosfera da basso intrigo che regnava a Roma durante l'esilio di Francesco II. Messo a capo insieme al Vial dell'organizzazione della resistenza armata, dimostrò di aver perso completamente le attitudini bellicose che tanto lo avevano fatto apprezzare. Sempre pronto a parole a mettersi a capo di truppe inesistenti, rimaneva a Roma dove perdeva il tempo a provocare duelli come quello in cui si fece padrino di un legittimista francese volontario a Gaeta col colonnello Pisacane. Il re cercò di farlo fermare ma Bosco continuò per la sua strada sulla quale però questa volta incappò nelle ire di Pio IX che, già nel 1861, lo aveva fatto ammonire per un altro episodio consimile. Bosco fu espulso dallo stato
romano e, nonostante i tentativi e le suppliche, dovette partire e girovagò per varie capitali estere fino a giungere in Spagna ed in Marocco. Da quel momento scompare dalle cronache. Rientrerà a Napoli dove morirà nel 1881. Fu un personaggio amato e odiato. Ebbe estimatori tanti quanti lo furono i detrattori. Comunque attorno a lui si creò quel clima di leggenda con un fondo di realtà. Se molti avessero fatto fin dall'inizio come lui nell'esercito napoletano difficilmente Garibaldi avrebbe avuto partita vinta con tanta facilità.
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Vorrei ancora una volta ringraziare Gianni per il suo notevolissimo contributo al Forum attraverso questi approfondimenti storici, che, almeno nel mio caso, mi inducono a riguardare la storia del Regno di Napoli sotto una nuova luce. Sto trasferendo sul mio computer copia di questi messaggi come preziosa documentazione. Apache
L'inventore della moderna forchetta?Ferdinando II di Borbone
La storia di quella posata, imposta sulle mense del mondo grazie ai buoni uffici di Caterina de’ Medici, mogliera di Francesco II di Francia e madre d’una sfilza di re e regine, è stranota. Ella poteva sopportare, si fa poi per dire, che il marito se la spassasse con la bella Diane de Poitiers, ma non che mangiasse con le mani. Pertanto impose - e Caterina sapeva imporsi, ne sanno qualcosa gli ugonotti - a corte l’uso dello strumento allora a due rebbi. Fin qui, storia nota. Ma sa dove, quando e perché da due i rebbi diventarono quattro? A Napoli, regnante il buon Re Ferdinando II e per far sì ch’egli arrotolasse i maccheroni con più agio. Maccheroni dei quali era ghiottissimo e ai quali, però, doveva rinunciare nei pranzi di gala perché non facendo la forchetta a due rebbi molta presa, bisognava aiutarsi con le «posate del re» (le dita), cosa ormai ritenuta universalmente indecorosa. Gli venne allora in soccorso il suo ciambellano, Gennaro Spadaccini, escogitando la forchetta ferdinandea, a quattro rebbi. Quella che tutt’ora e con sempre rinnovata soddisfazione usiamo !
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