"Kingdom of Naples" - La collezione di Mario Merone con commento tecnico di pasfil e note storiche di gianni tramaglino
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Ripreso da altro topic
Visioni d' Italia 1861-2011 Messina, Gaeta, Civitella La fine dell' ultimo sovrano del Mezzogiorno. Battaglie e vendette poco note
L' esercito di Franceschiello una storia di onori e calunnie
I soldati provarono a resistere. Con la regina Maria Sofia di Baviera La guarnigione di Civitella operò in collegamento con bande e legittimisti: preludio al brigantaggio Al contrario dei militari l' intero personale borbonico, politico e amministrativo, si «squagliò» all' istante
«F are la fine dell' esercito di Franceschiello»: era un modo di dire napoletano per indicare un completo e anche un pò ridicolo insuccesso. Nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l' esercito l' unico elemento del regime allora caduto a salvare l' onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica. Ingiusto, dunque, quel modo di dire, che ora, finalmente, non si usa più, come è bene che sia. L' esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto. Era stato mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l' intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava», come suol dirsi, pressoché all' istante. Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l' esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi. Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse allora nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour voleva così dare il colpo di grazia all' ultima resistenza borbonica e prendere in mano le cose del Sud. Temeva, infatti, eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell' Austria nella penisola, oppure un' azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose sia per l' unità italiana sotto i Savoia, sia per le posizioni di liberali e moderati nel nuovo Stato nazionale). Garibaldi dimostrò poi coi fatti di non avere simili intenzioni. Con l' arrivo di Cialdini la partita era, comunque, chiusa. La resistenza di Gaeta, da una parte, mirava a suscitare una reazione europea all' espansione dei Savoia e alla formazione di un grande Stato unitario in Italia: reazione che non vi fu (e ciò va pure tenuto presente per giudicare quei fatti). Dall' altra parte, vi era sempre l' idea che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l' appoggio popolare aveva consentito in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, il recupero del Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, più energica e determinata del Re, un perfetto gentiluomo, scrupoloso e leale, ma certo poco idoneo a quelle prove, e durò per un bel pò, ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all' incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna. La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, e non potevano essere, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 lo si sostituì con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l' assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. In realtà, piuttosto di un continuo bombardamento che di un' azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono piuttosto gli assediati a condurre un' azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l' unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d' onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovene, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l' Ascione, promosso solo a tenente colonnello. Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Gli ultimi giorni furono piuttosto convulsi. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l' invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovene propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti cinque anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l' Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città. Intanto, il Regno d' Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l' Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto nel Sud la consistenza e il vigore che molti revisionisti o nostalgici attribuiscono ad esso, quello sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all' interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté; e il nuovo Stato dimostrò una base etico-politica superiore al previsto e fu in grado di resistere alle sue grandi prove di allora e di dopo a Nord come a Sud. Anzi, proprio dopo il 1866 le agitazioni nel Sud declinarono decisamente.
Galasso Giuseppe
Visioni d' Italia 1861-2011 Messina, Gaeta, Civitella La fine dell' ultimo sovrano del Mezzogiorno. Battaglie e vendette poco note
L' esercito di Franceschiello una storia di onori e calunnie
I soldati provarono a resistere. Con la regina Maria Sofia di Baviera La guarnigione di Civitella operò in collegamento con bande e legittimisti: preludio al brigantaggio Al contrario dei militari l' intero personale borbonico, politico e amministrativo, si «squagliò» all' istante
«F are la fine dell' esercito di Franceschiello»: era un modo di dire napoletano per indicare un completo e anche un pò ridicolo insuccesso. Nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l' esercito l' unico elemento del regime allora caduto a salvare l' onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica. Ingiusto, dunque, quel modo di dire, che ora, finalmente, non si usa più, come è bene che sia. L' esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto. Era stato mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l' intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava», come suol dirsi, pressoché all' istante. Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l' esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi. Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse allora nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour voleva così dare il colpo di grazia all' ultima resistenza borbonica e prendere in mano le cose del Sud. Temeva, infatti, eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell' Austria nella penisola, oppure un' azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose sia per l' unità italiana sotto i Savoia, sia per le posizioni di liberali e moderati nel nuovo Stato nazionale). Garibaldi dimostrò poi coi fatti di non avere simili intenzioni. Con l' arrivo di Cialdini la partita era, comunque, chiusa. La resistenza di Gaeta, da una parte, mirava a suscitare una reazione europea all' espansione dei Savoia e alla formazione di un grande Stato unitario in Italia: reazione che non vi fu (e ciò va pure tenuto presente per giudicare quei fatti). Dall' altra parte, vi era sempre l' idea che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l' appoggio popolare aveva consentito in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, il recupero del Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, più energica e determinata del Re, un perfetto gentiluomo, scrupoloso e leale, ma certo poco idoneo a quelle prove, e durò per un bel pò, ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all' incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna. La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, e non potevano essere, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 lo si sostituì con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l' assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. In realtà, piuttosto di un continuo bombardamento che di un' azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono piuttosto gli assediati a condurre un' azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l' unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d' onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovene, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l' Ascione, promosso solo a tenente colonnello. Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Gli ultimi giorni furono piuttosto convulsi. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l' invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovene propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti cinque anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l' Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città. Intanto, il Regno d' Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l' Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto nel Sud la consistenza e il vigore che molti revisionisti o nostalgici attribuiscono ad esso, quello sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all' interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté; e il nuovo Stato dimostrò una base etico-politica superiore al previsto e fu in grado di resistere alle sue grandi prove di allora e di dopo a Nord come a Sud. Anzi, proprio dopo il 1866 le agitazioni nel Sud declinarono decisamente.
Galasso Giuseppe
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
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Visioni d' Italia 1861-2011 il Paese di Oggi nei Luoghi della Memoria 5. Torre del Greco
I piroscafi, il Vesuvio e il naufragio della Tirrenia
Nel 1861 un' eruzione «punì» i patrioti campani. Ora sotto il vulcano la terra trema per l' agonia della compagnia di navigazione
«Q uel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura. A Torre del Greco celebrandosi la festa all' Immacolata, i camorristi italianissimi...». Proprio così lo storico borbonico Giacinto De Sivo chiama gli irredentisti unitari che in quegli scorci finali del 1861 ebbero la pensata blasfema di festeggiare la raggiunta Unità nazionale coprendo la statua della Madonna con una banda biancorossoverde: «camorristi italianissimi». Come avevano potuto osare tanto? «Svestirono la Vergine, e sacrìlegamente l' addobbarono di massoniche insegne, con la tricolorata fascia, a guisa dè loro delegati politiotti. E sì volean menarla a processione, e ' l facevano, e un gastigo di Dio all' ora stessa noi vietava». Ma ci pensò il Vesuvio, continua il cronista nella sua «Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861», a vendicare l' oltraggio: «Limpido era il cielo, dolce l' aere, poco mancava al meriggio, quando improvvisamente sotterranee scosse e frequenti, pria lievi, poi gravi, travagliano la vesuviana mole. Mugghia il monte e geme, sinché sull' ore tre con gran fracasso si squarcia nè fianchi, e gitta nugoli di smisurato fumo, ch' alzatosi alla vetta, a forma d' immenso pino lo copre». Era la prova che Maria di Nazareth stava irritata assaie: un botto tremendo e il Vesuvio seppellì Torre del Greco sotto la cenere, provocò l' innalzamento della città di un metro e mezzo e prese a sversare lungo i fianchi una minacciosissima colata di lava che per due giorni scese e scese fermando a tutti il respiro. Finché, miracolo, la grande collera del vulcano borbonico si placò, le case furono salve, le anime pie ringraziarono la santa Vergine d' aver avuto pietà. E da allora ogni 8 dicembre la processione si ripete festosa e imponente in un tripudio di canti, balli, putipù, scetavajasse e triccheballacche. Certo è che da allora la Madonna di Santa Croce, insieme con quella del Portosalvo («O Dio, Tu che volesti che la Vergine Maria, la Santissima Madre del Figlio Tuo, brillasse come una Stella del Mare e fosse di aiuto a noi sbattuti fra i flutti...») non ha cessato un solo istante di proteggere i marinai di queste terre. E se il buon Gesù a Cana moltiplicò i pani e i pesci, Ella (sia detto con rispetto) è andata oltre. A Torre del Greco ha moltiplicato negli anni i dipendenti della Tirrenia. Uno su due vivono qui. E pesano sulle pubbliche casse la bellezza di 87.453 euro di buco finanziario l' anno. Per capirci: il triplo di quanto perdeva per ogni addetto un carrozzone quale la vecchia Alitalia. Direte: a parte la processione blasfema con l' Immacolata tricolorizzata, che c' entra il Risorgimento con questa città a una quindicina di chilometri da via Partenope che già sotto Gioacchino Murat era la terza città del Regno di Napoli? C' entra. A partire dalla storia di Giovanni Francesco Bottiglieri che, stando a quanto si racconta in famiglia da un secolo e mezzo, avrebbe prestato ai garibaldini un po' di battelli di appoggio alla spedizione dei Mille. Perché non risulta da nessuna parte? Perché il bisnonno, rispondono per bocca di Grazia Bottiglieri Rizzo i pronipoti che possiedono una trentina fra petroliere e bulk carrier e le acque minerali Sangemini, «non voleva dare un dispiacere al parroco». Al parroco! Una leggenda? Può essere. Ma certo qui, nel cuore del regno borbonico, la vita non doveva essere facile per i sostenitori della causa italiana. Basti ricordare Antonio Ranieri, diffidato per le sue idee unitarie, costretto per anni a tenersi alla larga dall' area vesuviana. Futuro deputato al parlamento italiano, Ranieri era amico di Giacomo Leopardi. Al punto che fu lui a ospitare il poeta nei suoi ultimi mesi di vita, nella villa di Torre del Greco dove vennero composte le liriche «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». E ancora qui, in questa città che avrebbe avuto in seguito il titolo di «Leopardiana», sarebbe stata armata la mano di Agesilao Milano, il soldato calabrese che l' 8 dicembre 1856 (di nuovo l' 8 dicembre!) tentò di assassinare Re Ferdinando II mentre passava in rassegna le truppe a Napoli, nel Campo di Marte, dopo la messa dell' Immacolata. Condannato alla pena capitale, morì il 13 dicembre. Impiccato dopo aver gridato: «Io muoio martire! Viva l' Italia! Viva l' indipendenza dei popoli». E in ogni caso è qui che va a finire la lunghissima e travagliata navigazione della flotta commerciale italiana che ebbe come primi protagonisti risorgimentali quei piroscafi Piemonte e Lombardo che, forniti dall' armatore genovese Raffaele Rubattino, salparono da Quarto. Centocinquant' anni dopo quella terrificante eruzione del 1861 la terra, qui a Torre del Greco, ha ricominciato a tremare: la Tirrenia è in ballo per la privatizzazione. Senza sussidi pubblici avrebbe chiuso il bilancio 2008 in perdita per 246 milioni di euro: appunto 87.453 euro per ognuno dei 2.815 dipendenti. Il tira e molla è durato anni, ma ora a quanto pare ci siamo. Il segnale? Si è rassegnato perfino il padre-padrone della compagnia pubblica, Franco Pecorini. Gentiluomo di Sua sanità, amministratore delegato dal 1984, inamovibile come un paracarro per un quarto di secolo, confermato via via da 19 governi della prima e della seconda repubblica, di sinistra e di destra, Pecorini ha trovato un altro lavoro. Adesso è presidente della Ital Brokers, compagnia di brokeraggi. Chi è il suo principale cliente? La Tirrenia. Chiederete: possibile? Tutto è possibile. Tutto. E da queste parti ancora di più. A Torre del Greco, per dire, Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro sono stati non solo meno nemici ma addirittura alleati. Il sindaco Ciro Borriello, ex deputato di Forza Italia, dopo una lunga traversata del deserto era approdato all' Italia dei valori. E come dipietrista aveva vinto le comunali del 2007, ritrovandosi a capo di una giunta macedonia con assessori azzurri e dell' Idv. Ed erano ancora insieme, berlusconiani e dipietristi, solo pochi mesi fa, quando Di Pietro accusava Berlusconi di «voler far tornare il fascismo in Italia» e il Cavaliere bollava l' ex pm di Mani pulite con l' epiteto di «ricattatore». Poi Borriello ha deciso di tornare a Canossa, ha scaricato i dipietristi e si è candidato alle prossime regionali con il Pdl, al fianco di quel sottosegretario all' Economia Nicola Cosentino che il suo ex leader Antonio Di Pietro avrebbe voluto consegnare alla magistratura. Coerenze. Il tutto nella sostanziale indifferenza di una città ben più preoccupata per i destini della Tirrenia che per le risse fra berlusconiani e dipietristi. Da almeno un secolo e mezzo Torre del Greco, che ha quasi novantamila abitanti ma è ormai un sobborgo di Napoli in un territorio stravolto all' inverosimile da migliaia di costruzioni orrende e scrostate e senza intonaco che si sono ingoiate buona parte dell' antica edilizia gentile, è la capitale della marineria italiana. Ai tempi d' oro, tra mozzi e capitani e marinai vari nell' area torrese erano in 30 mila. Non c' era famiglia che non avesse un uomo imbarcato. C' era benessere, solidarietà, serenità sociale. Adesso, in un territorio sempre più a rischio, sono rimasti poche migliaia. Quasi tutti stagionali. Più di metà dei marinai della scassata Tirrenia sono di qui. E sono gli unici davvero garantiti, perché dipendenti pubblici. Ma per capire come ci si è arrivati bisogna fare un passo indietro di 150 anni. Fino all' armatore Raffaele Rubattino. Genovese, patriota, prima di dare il «Piemonte» e il «Lombardo» a Garibaldi aveva dato il «Cagliari», per la sfortunata impresa di Sapri, a Carlo Pisacane. Nel 1881, dopo essersi guadagnata i favori del governo, la società si fuse con la compagnia palermitana Ignazio & Vincenzo Florio e nacque la società Navigazione generale italiana. Alcuni decenni di crescita e arriviamo al 1932. Il crollo di Wall Street ha lasciato segni profondi. In Italia Mussolini progetta di mettere tutte le imprese in crisi nell' Istituto per la ricostruzione industriale. Anche le compagnie di navigazione che fanno la spola fra l' Italia e le Americhe cariche di emigranti sono in profonda difficoltà. Ed è inevitabile che i tre principali armatori si fondano nella Italia Flotte riunite, risultato dell' accorpamento fra la Navigazione generale italiana di Rubattino e Florio, il Lloyd sabaudo e la Cosulich di Monfalcone. Passano quattro anni e al suo posto ecco l' Italia Società Anonima di Navigazione che confluisce nella Finmare, una finanziaria Iri nata per gestire le attività nel settore marittimo, insieme ad altre quattro compagnie: Lloyd triestino, Adriatica di Navigazione e Tirrenia. Il sogno di Mussolini di creare una grande flotta pubblica sotto il controllo del governo è realtà. Fatto questo, è ora di pensare ai marinai. Una specie di «contratto» della gente di mare degno di tal nome c' è già da 13 anni. È il «Patto marino» siglato nel 1923, per conto del governo di Benito Mussolini, da un delegato d' eccezione: Gabriele D' Annuzio. Ma è nel 1937 che si arriva a un vero e proprio contratto dei dipendenti della flotta pubblica. I transatlantici erano il biglietto da visita dell' Italia all' estero, un po' come l' Alitalia in seguito. Ufficiali e marinai dovevano essere di bella presenza e alti non meno di un metro e settanta. Avevano stipendi superiori mediamente del 30% rispetto ai privati e condizioni di lavoro migliori. Come sia finita si può immaginare: diritti acquisiti. Basti ricordare che l' ultimo aggiornamento del contratto mussoliniano è del 1985. E che alla Tirrenia ci sono ancora 80 ufficiali che beneficiano di quelle disposizioni. Il canto del cigno fu quello delle due navi gemelle Michelangelo e Raffaello, varate fra il 1962 e il 1963. Lussuosissime, avevano costi astronomici e dopo appena una decina d' anni finirono in disarmo. Per essere infine vendute nel 1976 allo scià Reza Palhevi. Ancorate nel porto di Bandar Abbas e adibite ad alloggi galleggianti. Una vecchiaia malinconica. Prima della fine: la Raffaello venne bombardata e affondata dall' aviazione irachena durante la guerra fra Iran e Iraq. La Michelangelo fu demolita dai pachistani. L' epoca dei grandi transatlantici era penosamente archiviata. L' Italia di navigazione fu ceduta ai cinesi della Evergreen, mentre il Lloyd triestino finì alla D' Amico. Alla Finmare restarono l' Adriatica e la Tirrenia, che nel 2004 avrebbe incorporato la società veneziana. Da allora la Tirrenia ha retto il peso dei marittimi di Torre del Greco. Ma è servita anche per creare posti di lavoro inutili, aiutare i cantieri in debito d' ossigeno, dare una mano ai fornitori. Un grande ammortizzatore sociale, che ha funzionato anche con il sostegno della Cassa marittima. Capita regolarmente che i marinai della Tirrena lavorino tre mesi d' estate e poi godano di lunghissimi periodi di malattia, pagati il 75% del salario. Un meccanismo accettato come normale: nessuno ha mai sollevato il problema. Quanti soldi pubblici lo Stato abbia riversato da 25 anni a questa parte nella Tirrenia non lo sa nessuno. Non meno di 5 miliardi in valuta attuale. Dicono i difensori: le navi devono camminare anche d' inverno a prezzi accettabili, quale privato potrebbe farlo? Il fatto è che i sussidi non sono serviti solo a coprire i costi di questi servizi in perdita. Ma anche per investimenti quanto meno discutibili. Come quello delle quattro navi veloci comprate fra la metà e la fine degli anni 90, pagate l' equivalente di 270 milioni di euro di oggi e rimaste quasi sempre in banchina: consumano così tanto che costa meno tenerle ancorate che farle navigare. Dicono: quella operazione è servita a far lavorare un po' la Fincantieri. Vero. Ma aveva senso? No, che non ce l' aveva. Se proprio si doveva far lavorare la Fincantieri, tanto valeva spendere quei soldi per fare dei traghetti meno veloci ma almeno utilizzabili: o no? Troppi debiti, troppi marinai, troppe mezzemaniche: fra i 2.815 addetti, gli amministrativi sono 400. Uno ogni sette. Con un costo mediamente superiore del 30-40% a quello dei dipendenti privati grazie a una contrattazione integrata generosa. E navi non proprio giovani. Il gruppo ne ha 72: quelle che hanno meno di dieci anni sono 20. C' è qualche proprietà immobiliare, vero: un immobile affittato ad Alessandria D' Egitto, eredità della compagnia veneziana, la sede di Napoli, il palazzo dell' Adriatica a Venezia... Ma sono ipotecati. Insomma, una situazione complicata. Chi mai avrebbe potuto comprare un' azienda così? Fatto sta che si sarebbe andati avanti chissà per quanto se l' Unione europea non avesse detto basta. Basta al vecchio sistema degli aiuti: cessione obbligatoria. Già, ma a chi? Idea: un passaggio di mano dal pubblico al pubblico. Dallo Stato alle Regioni. La Tirrena controllava quattro società: Caremar per le linee campane-laziali, Toremar per quelle toscane, Saremar per quelle sarde e Siremar per quelle siciliane. Soluzione: una cessione a titolo gratuito. Risultato? Prendiamo la Caremar. Passata alle regioni, è stata già sdoppiata: Corema, rimasta alla Campania, e Laziomar, trasferita alla Regione Lazio. Due società, due consigli di amministrazione, due staff di dirigenti... Senza che il flusso di fondi pubblici si interrompa. Avranno dallo Stato 30 milioni l' anno ancora per 12 anni: 20 a Corema e 10 a Laziomar. L' unica regione che non ha accettato di prendersi gratis il suo pezzo di Tirrenia è quella siciliana. Ma non perché Raffaele Lombardo non voglia la Siremar. La verità è che medita il colpo gobbo. Comprare tutto quanto insieme, Tirrenia e Siremar: l' affare vale 570 milioni di sovvenzioni pubbliche nei prossimi otto anni. Fra le 16 manifestazioni d' interesse che sono arrivate c' è infatti pure l' offerta di Mediterranea, una società fra la Regione siciliana, il fondo Cape di Simone Cimino e un armatore privato. Il suo nome: Salvatore Lauro, ex senatore di Forza Italia, titolare della Alilauro, fondata da suo padre Agostino che cominciò coi mezzi da sbarco comprati dagli americani dopo la guerra. Fatto sta che per ora gli unici privati ad aver fatto affari con la Tirrenia sono stati i banchieri. Nel 2004 il Tesoro controllava attraverso Fintecna l' 85%. Il restante 15%, per favorire l' ingresso dei privati attraverso la conversione in titoli azionari di un prestito obbligazionario, ce l' aveva Mediobanca. Alla scadenza del prestito, però, nessuno volle le azioni di quella specie di carrozzone navale. E il Tesoro ricomprò tutto. RIPRODUZIONE RISERVATA Il poeta Giacomo Leopardi fu ospitato a Torre del Greco nella villa del patriota Antonio Ranieri e lì compose «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». * * *
Rizzo Sergio, Stella Gian Antonio
Visioni d' Italia 1861-2011 il Paese di Oggi nei Luoghi della Memoria 5. Torre del Greco
I piroscafi, il Vesuvio e il naufragio della Tirrenia
Nel 1861 un' eruzione «punì» i patrioti campani. Ora sotto il vulcano la terra trema per l' agonia della compagnia di navigazione
«Q uel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura. A Torre del Greco celebrandosi la festa all' Immacolata, i camorristi italianissimi...». Proprio così lo storico borbonico Giacinto De Sivo chiama gli irredentisti unitari che in quegli scorci finali del 1861 ebbero la pensata blasfema di festeggiare la raggiunta Unità nazionale coprendo la statua della Madonna con una banda biancorossoverde: «camorristi italianissimi». Come avevano potuto osare tanto? «Svestirono la Vergine, e sacrìlegamente l' addobbarono di massoniche insegne, con la tricolorata fascia, a guisa dè loro delegati politiotti. E sì volean menarla a processione, e ' l facevano, e un gastigo di Dio all' ora stessa noi vietava». Ma ci pensò il Vesuvio, continua il cronista nella sua «Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861», a vendicare l' oltraggio: «Limpido era il cielo, dolce l' aere, poco mancava al meriggio, quando improvvisamente sotterranee scosse e frequenti, pria lievi, poi gravi, travagliano la vesuviana mole. Mugghia il monte e geme, sinché sull' ore tre con gran fracasso si squarcia nè fianchi, e gitta nugoli di smisurato fumo, ch' alzatosi alla vetta, a forma d' immenso pino lo copre». Era la prova che Maria di Nazareth stava irritata assaie: un botto tremendo e il Vesuvio seppellì Torre del Greco sotto la cenere, provocò l' innalzamento della città di un metro e mezzo e prese a sversare lungo i fianchi una minacciosissima colata di lava che per due giorni scese e scese fermando a tutti il respiro. Finché, miracolo, la grande collera del vulcano borbonico si placò, le case furono salve, le anime pie ringraziarono la santa Vergine d' aver avuto pietà. E da allora ogni 8 dicembre la processione si ripete festosa e imponente in un tripudio di canti, balli, putipù, scetavajasse e triccheballacche. Certo è che da allora la Madonna di Santa Croce, insieme con quella del Portosalvo («O Dio, Tu che volesti che la Vergine Maria, la Santissima Madre del Figlio Tuo, brillasse come una Stella del Mare e fosse di aiuto a noi sbattuti fra i flutti...») non ha cessato un solo istante di proteggere i marinai di queste terre. E se il buon Gesù a Cana moltiplicò i pani e i pesci, Ella (sia detto con rispetto) è andata oltre. A Torre del Greco ha moltiplicato negli anni i dipendenti della Tirrenia. Uno su due vivono qui. E pesano sulle pubbliche casse la bellezza di 87.453 euro di buco finanziario l' anno. Per capirci: il triplo di quanto perdeva per ogni addetto un carrozzone quale la vecchia Alitalia. Direte: a parte la processione blasfema con l' Immacolata tricolorizzata, che c' entra il Risorgimento con questa città a una quindicina di chilometri da via Partenope che già sotto Gioacchino Murat era la terza città del Regno di Napoli? C' entra. A partire dalla storia di Giovanni Francesco Bottiglieri che, stando a quanto si racconta in famiglia da un secolo e mezzo, avrebbe prestato ai garibaldini un po' di battelli di appoggio alla spedizione dei Mille. Perché non risulta da nessuna parte? Perché il bisnonno, rispondono per bocca di Grazia Bottiglieri Rizzo i pronipoti che possiedono una trentina fra petroliere e bulk carrier e le acque minerali Sangemini, «non voleva dare un dispiacere al parroco». Al parroco! Una leggenda? Può essere. Ma certo qui, nel cuore del regno borbonico, la vita non doveva essere facile per i sostenitori della causa italiana. Basti ricordare Antonio Ranieri, diffidato per le sue idee unitarie, costretto per anni a tenersi alla larga dall' area vesuviana. Futuro deputato al parlamento italiano, Ranieri era amico di Giacomo Leopardi. Al punto che fu lui a ospitare il poeta nei suoi ultimi mesi di vita, nella villa di Torre del Greco dove vennero composte le liriche «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». E ancora qui, in questa città che avrebbe avuto in seguito il titolo di «Leopardiana», sarebbe stata armata la mano di Agesilao Milano, il soldato calabrese che l' 8 dicembre 1856 (di nuovo l' 8 dicembre!) tentò di assassinare Re Ferdinando II mentre passava in rassegna le truppe a Napoli, nel Campo di Marte, dopo la messa dell' Immacolata. Condannato alla pena capitale, morì il 13 dicembre. Impiccato dopo aver gridato: «Io muoio martire! Viva l' Italia! Viva l' indipendenza dei popoli». E in ogni caso è qui che va a finire la lunghissima e travagliata navigazione della flotta commerciale italiana che ebbe come primi protagonisti risorgimentali quei piroscafi Piemonte e Lombardo che, forniti dall' armatore genovese Raffaele Rubattino, salparono da Quarto. Centocinquant' anni dopo quella terrificante eruzione del 1861 la terra, qui a Torre del Greco, ha ricominciato a tremare: la Tirrenia è in ballo per la privatizzazione. Senza sussidi pubblici avrebbe chiuso il bilancio 2008 in perdita per 246 milioni di euro: appunto 87.453 euro per ognuno dei 2.815 dipendenti. Il tira e molla è durato anni, ma ora a quanto pare ci siamo. Il segnale? Si è rassegnato perfino il padre-padrone della compagnia pubblica, Franco Pecorini. Gentiluomo di Sua sanità, amministratore delegato dal 1984, inamovibile come un paracarro per un quarto di secolo, confermato via via da 19 governi della prima e della seconda repubblica, di sinistra e di destra, Pecorini ha trovato un altro lavoro. Adesso è presidente della Ital Brokers, compagnia di brokeraggi. Chi è il suo principale cliente? La Tirrenia. Chiederete: possibile? Tutto è possibile. Tutto. E da queste parti ancora di più. A Torre del Greco, per dire, Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro sono stati non solo meno nemici ma addirittura alleati. Il sindaco Ciro Borriello, ex deputato di Forza Italia, dopo una lunga traversata del deserto era approdato all' Italia dei valori. E come dipietrista aveva vinto le comunali del 2007, ritrovandosi a capo di una giunta macedonia con assessori azzurri e dell' Idv. Ed erano ancora insieme, berlusconiani e dipietristi, solo pochi mesi fa, quando Di Pietro accusava Berlusconi di «voler far tornare il fascismo in Italia» e il Cavaliere bollava l' ex pm di Mani pulite con l' epiteto di «ricattatore». Poi Borriello ha deciso di tornare a Canossa, ha scaricato i dipietristi e si è candidato alle prossime regionali con il Pdl, al fianco di quel sottosegretario all' Economia Nicola Cosentino che il suo ex leader Antonio Di Pietro avrebbe voluto consegnare alla magistratura. Coerenze. Il tutto nella sostanziale indifferenza di una città ben più preoccupata per i destini della Tirrenia che per le risse fra berlusconiani e dipietristi. Da almeno un secolo e mezzo Torre del Greco, che ha quasi novantamila abitanti ma è ormai un sobborgo di Napoli in un territorio stravolto all' inverosimile da migliaia di costruzioni orrende e scrostate e senza intonaco che si sono ingoiate buona parte dell' antica edilizia gentile, è la capitale della marineria italiana. Ai tempi d' oro, tra mozzi e capitani e marinai vari nell' area torrese erano in 30 mila. Non c' era famiglia che non avesse un uomo imbarcato. C' era benessere, solidarietà, serenità sociale. Adesso, in un territorio sempre più a rischio, sono rimasti poche migliaia. Quasi tutti stagionali. Più di metà dei marinai della scassata Tirrenia sono di qui. E sono gli unici davvero garantiti, perché dipendenti pubblici. Ma per capire come ci si è arrivati bisogna fare un passo indietro di 150 anni. Fino all' armatore Raffaele Rubattino. Genovese, patriota, prima di dare il «Piemonte» e il «Lombardo» a Garibaldi aveva dato il «Cagliari», per la sfortunata impresa di Sapri, a Carlo Pisacane. Nel 1881, dopo essersi guadagnata i favori del governo, la società si fuse con la compagnia palermitana Ignazio & Vincenzo Florio e nacque la società Navigazione generale italiana. Alcuni decenni di crescita e arriviamo al 1932. Il crollo di Wall Street ha lasciato segni profondi. In Italia Mussolini progetta di mettere tutte le imprese in crisi nell' Istituto per la ricostruzione industriale. Anche le compagnie di navigazione che fanno la spola fra l' Italia e le Americhe cariche di emigranti sono in profonda difficoltà. Ed è inevitabile che i tre principali armatori si fondano nella Italia Flotte riunite, risultato dell' accorpamento fra la Navigazione generale italiana di Rubattino e Florio, il Lloyd sabaudo e la Cosulich di Monfalcone. Passano quattro anni e al suo posto ecco l' Italia Società Anonima di Navigazione che confluisce nella Finmare, una finanziaria Iri nata per gestire le attività nel settore marittimo, insieme ad altre quattro compagnie: Lloyd triestino, Adriatica di Navigazione e Tirrenia. Il sogno di Mussolini di creare una grande flotta pubblica sotto il controllo del governo è realtà. Fatto questo, è ora di pensare ai marinai. Una specie di «contratto» della gente di mare degno di tal nome c' è già da 13 anni. È il «Patto marino» siglato nel 1923, per conto del governo di Benito Mussolini, da un delegato d' eccezione: Gabriele D' Annuzio. Ma è nel 1937 che si arriva a un vero e proprio contratto dei dipendenti della flotta pubblica. I transatlantici erano il biglietto da visita dell' Italia all' estero, un po' come l' Alitalia in seguito. Ufficiali e marinai dovevano essere di bella presenza e alti non meno di un metro e settanta. Avevano stipendi superiori mediamente del 30% rispetto ai privati e condizioni di lavoro migliori. Come sia finita si può immaginare: diritti acquisiti. Basti ricordare che l' ultimo aggiornamento del contratto mussoliniano è del 1985. E che alla Tirrenia ci sono ancora 80 ufficiali che beneficiano di quelle disposizioni. Il canto del cigno fu quello delle due navi gemelle Michelangelo e Raffaello, varate fra il 1962 e il 1963. Lussuosissime, avevano costi astronomici e dopo appena una decina d' anni finirono in disarmo. Per essere infine vendute nel 1976 allo scià Reza Palhevi. Ancorate nel porto di Bandar Abbas e adibite ad alloggi galleggianti. Una vecchiaia malinconica. Prima della fine: la Raffaello venne bombardata e affondata dall' aviazione irachena durante la guerra fra Iran e Iraq. La Michelangelo fu demolita dai pachistani. L' epoca dei grandi transatlantici era penosamente archiviata. L' Italia di navigazione fu ceduta ai cinesi della Evergreen, mentre il Lloyd triestino finì alla D' Amico. Alla Finmare restarono l' Adriatica e la Tirrenia, che nel 2004 avrebbe incorporato la società veneziana. Da allora la Tirrenia ha retto il peso dei marittimi di Torre del Greco. Ma è servita anche per creare posti di lavoro inutili, aiutare i cantieri in debito d' ossigeno, dare una mano ai fornitori. Un grande ammortizzatore sociale, che ha funzionato anche con il sostegno della Cassa marittima. Capita regolarmente che i marinai della Tirrena lavorino tre mesi d' estate e poi godano di lunghissimi periodi di malattia, pagati il 75% del salario. Un meccanismo accettato come normale: nessuno ha mai sollevato il problema. Quanti soldi pubblici lo Stato abbia riversato da 25 anni a questa parte nella Tirrenia non lo sa nessuno. Non meno di 5 miliardi in valuta attuale. Dicono i difensori: le navi devono camminare anche d' inverno a prezzi accettabili, quale privato potrebbe farlo? Il fatto è che i sussidi non sono serviti solo a coprire i costi di questi servizi in perdita. Ma anche per investimenti quanto meno discutibili. Come quello delle quattro navi veloci comprate fra la metà e la fine degli anni 90, pagate l' equivalente di 270 milioni di euro di oggi e rimaste quasi sempre in banchina: consumano così tanto che costa meno tenerle ancorate che farle navigare. Dicono: quella operazione è servita a far lavorare un po' la Fincantieri. Vero. Ma aveva senso? No, che non ce l' aveva. Se proprio si doveva far lavorare la Fincantieri, tanto valeva spendere quei soldi per fare dei traghetti meno veloci ma almeno utilizzabili: o no? Troppi debiti, troppi marinai, troppe mezzemaniche: fra i 2.815 addetti, gli amministrativi sono 400. Uno ogni sette. Con un costo mediamente superiore del 30-40% a quello dei dipendenti privati grazie a una contrattazione integrata generosa. E navi non proprio giovani. Il gruppo ne ha 72: quelle che hanno meno di dieci anni sono 20. C' è qualche proprietà immobiliare, vero: un immobile affittato ad Alessandria D' Egitto, eredità della compagnia veneziana, la sede di Napoli, il palazzo dell' Adriatica a Venezia... Ma sono ipotecati. Insomma, una situazione complicata. Chi mai avrebbe potuto comprare un' azienda così? Fatto sta che si sarebbe andati avanti chissà per quanto se l' Unione europea non avesse detto basta. Basta al vecchio sistema degli aiuti: cessione obbligatoria. Già, ma a chi? Idea: un passaggio di mano dal pubblico al pubblico. Dallo Stato alle Regioni. La Tirrena controllava quattro società: Caremar per le linee campane-laziali, Toremar per quelle toscane, Saremar per quelle sarde e Siremar per quelle siciliane. Soluzione: una cessione a titolo gratuito. Risultato? Prendiamo la Caremar. Passata alle regioni, è stata già sdoppiata: Corema, rimasta alla Campania, e Laziomar, trasferita alla Regione Lazio. Due società, due consigli di amministrazione, due staff di dirigenti... Senza che il flusso di fondi pubblici si interrompa. Avranno dallo Stato 30 milioni l' anno ancora per 12 anni: 20 a Corema e 10 a Laziomar. L' unica regione che non ha accettato di prendersi gratis il suo pezzo di Tirrenia è quella siciliana. Ma non perché Raffaele Lombardo non voglia la Siremar. La verità è che medita il colpo gobbo. Comprare tutto quanto insieme, Tirrenia e Siremar: l' affare vale 570 milioni di sovvenzioni pubbliche nei prossimi otto anni. Fra le 16 manifestazioni d' interesse che sono arrivate c' è infatti pure l' offerta di Mediterranea, una società fra la Regione siciliana, il fondo Cape di Simone Cimino e un armatore privato. Il suo nome: Salvatore Lauro, ex senatore di Forza Italia, titolare della Alilauro, fondata da suo padre Agostino che cominciò coi mezzi da sbarco comprati dagli americani dopo la guerra. Fatto sta che per ora gli unici privati ad aver fatto affari con la Tirrenia sono stati i banchieri. Nel 2004 il Tesoro controllava attraverso Fintecna l' 85%. Il restante 15%, per favorire l' ingresso dei privati attraverso la conversione in titoli azionari di un prestito obbligazionario, ce l' aveva Mediobanca. Alla scadenza del prestito, però, nessuno volle le azioni di quella specie di carrozzone navale. E il Tesoro ricomprò tutto. RIPRODUZIONE RISERVATA Il poeta Giacomo Leopardi fu ospitato a Torre del Greco nella villa del patriota Antonio Ranieri e lì compose «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». * * *
Rizzo Sergio, Stella Gian Antonio
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Sbarcammo sotto il fuoco L' unica vittima? Un cane»La cronaca «in diretta» della giornata di Marsala Il generale «Non si perdé d' animo Garibaldi, non ostante i nostri legni non fossero tali da resistere alle cannonate; ma ordinato si recassero sovra coverta scuri e ramponi, si preparava all' arrembaggio gridando: invece di aver due vapori ne avrò tre!»
Quelli che seguono sono alcuni passi del libro «I Mille», nel quale Giuseppe Bandi ha raccontato lo sbarco a Marsala. Da testimone oculare. Nella spedizione Bandi era infatti aiutante di campo di Garibaldi. Oltrepassata Favignana, apparsa bella e ridente la spiaggia di Sicilia, e raggiunto il capo Provvidenza, il capitano Castiglia additò a Garibaldi il porto di Marsala, che biancheggiava da lungi. Ma un altro spettacolo apparve intanto al vigile sguardo del prode nizzardo. Due legni a vapore ed una grossa fregata a vela ci venivano incontro a golfo lanciato tentando tagliarci fuori dalla costa e pigliarci in mezzo. Ammutolimmo a tal vista ed un lugubre silenzio successe alle esclamazioni di gioia, suscitate dall' aspetto dell' isola vicina. Garibaldi guardò attentamente quei legni; quindi, volgendo l' occhio sul porto di Marsala depose il cannocchiale, esclamando con un allegro sorriso: - Oggi le fregate napoletane rimarranno con tanto di naso. E vòlto poi al timoniere gridò in dialetto genovese: - Rossi, appoggiate a Marsala! Era un' ora prima di mezzogiorno. Si gareggiava adesso tra le nostre e le navi borboniche a chi prima toccherebbe il porto. Venti minuti più o meno decidevano della vittoria e dell' unità della patria. Invano, alcuni siciliani proposero al generale di virar di bordo e tentar lo sbarco colà o in altra parte, durante la notte. Egli li respinse con un no! così tondo, che non trovarono più il fiato per parlare (...) Eravamo tutti sul ponte con le armi in pugno ed impazienti di sentir coi piedi la terra, quando il Castiglia accennò due navi da guerra ancorate presso Marsala. La più lontana fu senza difficoltà conosciuta alla struttura, siccome inglese; l' altra (ché nessuna delle due issavano bandiera) non riuscì poter chiarire a qual nazione appartenesse. Si sospettò e quasi s' ebbe certezza, potesse essere un legno da guerra borbonico, ancorato a guardia del porto. Non si perdé d' animo Garibaldi, non ostante che i nostri legni non fossero tali da resistere alle cannonate; ma ordinato si recassero sovra coverta le scuri e i ramponi, si preparava all' arrembaggio, gridando con volto sereno: - Ebbene! invece di aver due vapori ne avrò tre! (...) Le campane di Marsala suonavano il mezzogiorno quando giungemmo vicini ai due legni ancorati che, al nostro apparire, alzarono la bandiera inglese e ci tolsero una spina dal cuore. Non restava adesso che infilare nel porto e mettere a terra la gente prima che si avvicinassero gl' incrociatori nemici, uno dei quali ci seguiva a quattro miglia forse di distanza (...) Il Piemonte entrò difilato nel porto, rimorchiando la paranzella; e riuscito ad imboccare il canale (unico sito navigabile di quel povero scalo) gittò felicemente l' àncora dirimpetto alla fabbrica di vini dell' Ingham e al consolato inglese, dove sventolava la temuta bandiera dei tre regni. In un batter d' occhio, Türr co' suoi cinquanta uomini fu a terra, ed occupata la piccola torre del molo, corse alla porta della città, nel mentre che la più parte della gente, congregata per l' arrivo dei due vapori, se la dava a gambe per lo spavento. Nel tempo istesso, approdavano i canotti e le lance con quanti uomini vi potettero capir dentro, e incontanente si pose mano alle barche dei pescatori e dei legni ancorati per accelerare lo sbarco. Non toccò ugual fortuna al Lombardo, che rimase arenato sulla bocca del porto, e in tal posizione che, per la lontananza, non era così agevole sbarcare con pari sollecitudine la sua gente. Di ciò accortosi Garibaldi si diè a gridare mandassero barche in tutta fretta al legno incagliato, tanto più che uno dei vapori della crociera appariva già quasi a tiro di cannone. Entrando nel porto, la prima cosa che ci diè nell' occhio si fu uno scappavia che conduceva due ufficiali dei legni da guerra inglesi, e parea si divertissero alla pesca o a bordeggiare con quel bel venticello che spirava. - Ecco là, - esclama Garibaldi - ecco là gente che pagherebbero cento sterline per godersi due volte questa scena. E costoro, infatti, ridevano sgangheratamente, giacché due legni con bandiera sarda e zeppi di uomini armati che si cacciavano in quel porto a tutta furia, non lasciavano, per certo, dubbio alcuno su quanto fosse per accadere.
La presenza delle navi inglesi dinanzi a Marsala è stata oggetto di varie interpretazioni. Alcuni sostengono essersi trovate lì non sine qua re, e per un accordo segreto tra Cavour e l' ammiraglio Fanshawe. Altri giurano invece che vi furono per motivi affatto diversi e senza veruna valuta intesa. L' opinione più da seguirsi si è questa: che i due legni inglesi ancorassero presso Marsala per proteggere gl' interessi dei loro connazionali, vessati più volte dalle angherie poliziesche, specialmente nell' ultimo disarmo, eseguito con tanto rigore e senza rispetto per chicchessia. C' è in Marsala una vera e propria colonia inglese, essendosi gl' inglesi (per quella benedetta voglia di non voler far niente, tanto rimproverata a tutti noi) lasciato scappar di mano anche il commercio dei loro vini, che sono i meglio riputati di tutta Italia. Ora è ben ragionevole che quella potenza, e inimicissima ai Borboni, non lasciasse indifeso un dei migliori emporî del suo commercio e sì gran numero dei suoi cittadini, in un momento in cui il governo della sciabola malmenava a chius' occhi l' isola intiera (...) Appena il generale pose piede a terra, Giorgio Manin spiegò la bandiera. Un lungo grido di gioia accolse l' audace e fortunato condottiero, il quale, come ci ebbe confortati a procedere ordinati e con passo tranquillo, avvertendo che gl' inglesi ci guardavano, si avviò lentamente sul molo, appoggiando sulla spalla destra la sciabola, impugnata dalla parte della punta, e colla cintola penzoloni. Intanto, un altro legno borbonico a vapore era giunto a mezzo tiro dal molo; un altro s' avvicinava a tutta corsa, rimorchiando la grossa e panciuta Partenope. Avevamo fissi gli occhi su que' visitatori pericolosi, e non sapevamo che cosa pensare del loro inesplicabile silenzio, quando, a un tratto, dalla prua del più vicino sfolgorò un lampo, e bum! una gran botta, e una granata passò ronzando sulla testa del generale, e cadde, lontano pochi passi. Un gran: "Viva l' Italia!" rispose da cento e cento bocche a quel primo segno di battaglia; e un volontario, fattosi sulla granata, la prese in mano e la recò al generale dicendo: - Ho l' onore di presentarle il primo fuoco. Tosto a quel primo colpo ne seguì un secondo, e poi un terzo; e non andò molto che i colpi divennero innumerevoli, aggiungendovisi quelli della Partenope che lanciò intiere bordate. Come Dio volle, tutti que' tiri caddero a vuoto, sia perché le granate, vecchie e guaste, raramente scoppiavano, sia perché difficile era l' assestarli da' legni ondeggianti, su quella spiaggia, bassa e quasi a livello dell' acqua. Procedevamo a quattro a quattro e cantando, quand' ecco una bòtta di mitraglia flagellar le onde, a cinquanta braccia forse dal generale. Questi veduto il pericolo gridò: - Sparpagliatevi tutti! Ubbidimmo. Giunti che fummo su d' una vasta spianata (che è opera delle arene che affluiscono in quel porto) la tempesta delle palle divenne così fitta, che il generale ordinò più volte: - Ventre a terra! Grosse bombe frullavano per l' aria e rimbalzavano per terra, scoppiando poi con indicibile frastuono. Una di queste bombe cadde presso a noi, in una gran pozzanghera, e quivi si spense irrorandoci di spruzzi. Un' altra scoppiò non lungi dalla porta, e uccise un cane, vittima unica e innocentissima di quel giorno memorabile (...)
Quelli che seguono sono alcuni passi del libro «I Mille», nel quale Giuseppe Bandi ha raccontato lo sbarco a Marsala. Da testimone oculare. Nella spedizione Bandi era infatti aiutante di campo di Garibaldi. Oltrepassata Favignana, apparsa bella e ridente la spiaggia di Sicilia, e raggiunto il capo Provvidenza, il capitano Castiglia additò a Garibaldi il porto di Marsala, che biancheggiava da lungi. Ma un altro spettacolo apparve intanto al vigile sguardo del prode nizzardo. Due legni a vapore ed una grossa fregata a vela ci venivano incontro a golfo lanciato tentando tagliarci fuori dalla costa e pigliarci in mezzo. Ammutolimmo a tal vista ed un lugubre silenzio successe alle esclamazioni di gioia, suscitate dall' aspetto dell' isola vicina. Garibaldi guardò attentamente quei legni; quindi, volgendo l' occhio sul porto di Marsala depose il cannocchiale, esclamando con un allegro sorriso: - Oggi le fregate napoletane rimarranno con tanto di naso. E vòlto poi al timoniere gridò in dialetto genovese: - Rossi, appoggiate a Marsala! Era un' ora prima di mezzogiorno. Si gareggiava adesso tra le nostre e le navi borboniche a chi prima toccherebbe il porto. Venti minuti più o meno decidevano della vittoria e dell' unità della patria. Invano, alcuni siciliani proposero al generale di virar di bordo e tentar lo sbarco colà o in altra parte, durante la notte. Egli li respinse con un no! così tondo, che non trovarono più il fiato per parlare (...) Eravamo tutti sul ponte con le armi in pugno ed impazienti di sentir coi piedi la terra, quando il Castiglia accennò due navi da guerra ancorate presso Marsala. La più lontana fu senza difficoltà conosciuta alla struttura, siccome inglese; l' altra (ché nessuna delle due issavano bandiera) non riuscì poter chiarire a qual nazione appartenesse. Si sospettò e quasi s' ebbe certezza, potesse essere un legno da guerra borbonico, ancorato a guardia del porto. Non si perdé d' animo Garibaldi, non ostante che i nostri legni non fossero tali da resistere alle cannonate; ma ordinato si recassero sovra coverta le scuri e i ramponi, si preparava all' arrembaggio, gridando con volto sereno: - Ebbene! invece di aver due vapori ne avrò tre! (...) Le campane di Marsala suonavano il mezzogiorno quando giungemmo vicini ai due legni ancorati che, al nostro apparire, alzarono la bandiera inglese e ci tolsero una spina dal cuore. Non restava adesso che infilare nel porto e mettere a terra la gente prima che si avvicinassero gl' incrociatori nemici, uno dei quali ci seguiva a quattro miglia forse di distanza (...) Il Piemonte entrò difilato nel porto, rimorchiando la paranzella; e riuscito ad imboccare il canale (unico sito navigabile di quel povero scalo) gittò felicemente l' àncora dirimpetto alla fabbrica di vini dell' Ingham e al consolato inglese, dove sventolava la temuta bandiera dei tre regni. In un batter d' occhio, Türr co' suoi cinquanta uomini fu a terra, ed occupata la piccola torre del molo, corse alla porta della città, nel mentre che la più parte della gente, congregata per l' arrivo dei due vapori, se la dava a gambe per lo spavento. Nel tempo istesso, approdavano i canotti e le lance con quanti uomini vi potettero capir dentro, e incontanente si pose mano alle barche dei pescatori e dei legni ancorati per accelerare lo sbarco. Non toccò ugual fortuna al Lombardo, che rimase arenato sulla bocca del porto, e in tal posizione che, per la lontananza, non era così agevole sbarcare con pari sollecitudine la sua gente. Di ciò accortosi Garibaldi si diè a gridare mandassero barche in tutta fretta al legno incagliato, tanto più che uno dei vapori della crociera appariva già quasi a tiro di cannone. Entrando nel porto, la prima cosa che ci diè nell' occhio si fu uno scappavia che conduceva due ufficiali dei legni da guerra inglesi, e parea si divertissero alla pesca o a bordeggiare con quel bel venticello che spirava. - Ecco là, - esclama Garibaldi - ecco là gente che pagherebbero cento sterline per godersi due volte questa scena. E costoro, infatti, ridevano sgangheratamente, giacché due legni con bandiera sarda e zeppi di uomini armati che si cacciavano in quel porto a tutta furia, non lasciavano, per certo, dubbio alcuno su quanto fosse per accadere.
La presenza delle navi inglesi dinanzi a Marsala è stata oggetto di varie interpretazioni. Alcuni sostengono essersi trovate lì non sine qua re, e per un accordo segreto tra Cavour e l' ammiraglio Fanshawe. Altri giurano invece che vi furono per motivi affatto diversi e senza veruna valuta intesa. L' opinione più da seguirsi si è questa: che i due legni inglesi ancorassero presso Marsala per proteggere gl' interessi dei loro connazionali, vessati più volte dalle angherie poliziesche, specialmente nell' ultimo disarmo, eseguito con tanto rigore e senza rispetto per chicchessia. C' è in Marsala una vera e propria colonia inglese, essendosi gl' inglesi (per quella benedetta voglia di non voler far niente, tanto rimproverata a tutti noi) lasciato scappar di mano anche il commercio dei loro vini, che sono i meglio riputati di tutta Italia. Ora è ben ragionevole che quella potenza, e inimicissima ai Borboni, non lasciasse indifeso un dei migliori emporî del suo commercio e sì gran numero dei suoi cittadini, in un momento in cui il governo della sciabola malmenava a chius' occhi l' isola intiera (...) Appena il generale pose piede a terra, Giorgio Manin spiegò la bandiera. Un lungo grido di gioia accolse l' audace e fortunato condottiero, il quale, come ci ebbe confortati a procedere ordinati e con passo tranquillo, avvertendo che gl' inglesi ci guardavano, si avviò lentamente sul molo, appoggiando sulla spalla destra la sciabola, impugnata dalla parte della punta, e colla cintola penzoloni. Intanto, un altro legno borbonico a vapore era giunto a mezzo tiro dal molo; un altro s' avvicinava a tutta corsa, rimorchiando la grossa e panciuta Partenope. Avevamo fissi gli occhi su que' visitatori pericolosi, e non sapevamo che cosa pensare del loro inesplicabile silenzio, quando, a un tratto, dalla prua del più vicino sfolgorò un lampo, e bum! una gran botta, e una granata passò ronzando sulla testa del generale, e cadde, lontano pochi passi. Un gran: "Viva l' Italia!" rispose da cento e cento bocche a quel primo segno di battaglia; e un volontario, fattosi sulla granata, la prese in mano e la recò al generale dicendo: - Ho l' onore di presentarle il primo fuoco. Tosto a quel primo colpo ne seguì un secondo, e poi un terzo; e non andò molto che i colpi divennero innumerevoli, aggiungendovisi quelli della Partenope che lanciò intiere bordate. Come Dio volle, tutti que' tiri caddero a vuoto, sia perché le granate, vecchie e guaste, raramente scoppiavano, sia perché difficile era l' assestarli da' legni ondeggianti, su quella spiaggia, bassa e quasi a livello dell' acqua. Procedevamo a quattro a quattro e cantando, quand' ecco una bòtta di mitraglia flagellar le onde, a cinquanta braccia forse dal generale. Questi veduto il pericolo gridò: - Sparpagliatevi tutti! Ubbidimmo. Giunti che fummo su d' una vasta spianata (che è opera delle arene che affluiscono in quel porto) la tempesta delle palle divenne così fitta, che il generale ordinò più volte: - Ventre a terra! Grosse bombe frullavano per l' aria e rimbalzavano per terra, scoppiando poi con indicibile frastuono. Una di queste bombe cadde presso a noi, in una gran pozzanghera, e quivi si spense irrorandoci di spruzzi. Un' altra scoppiò non lungi dalla porta, e uccise un cane, vittima unica e innocentissima di quel giorno memorabile (...)
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Buona serata a tutti
Ritorno su queste pagine a far compagnia all'infaticabile amico Gianni ed a chiunque abbia voglia di intervenire.
Qualcuno penserà: "ma, stavamo meglio prima"
.
Dall'agosto ad oggi sono state postate ancora bellissime pagine della collezione "Sofia", riguardandi i c.d. "cammini", con il suoi percorsi principali e traversi, brillantemente descritti da Maestro Mario e Gianni le ha corredate di importanti informazioni di quel periodo "napoletano".
Entrando nel merito, mi ha attirato l'attenzione la descrizione, riportata a pagina 33, per il FB della III tavola, della lettera, da Napoli a Bari. E' indicata come prima data conosciuta d’uso 9.12.1858. Tale data è riportata anche nel catalogo Vaccari. Nel Sassone in corrispondenza del valore invece è indicato erroneamente 9-X-1858 (errore di stampa?).
Ho ritenuto limitarmi, senza alcuna presunzione, ad evidenziare alcune frodi su FB da gr. 2 e plattagio.
pasfil



Ritorno su queste pagine a far compagnia all'infaticabile amico Gianni ed a chiunque abbia voglia di intervenire.
Qualcuno penserà: "ma, stavamo meglio prima"

Dall'agosto ad oggi sono state postate ancora bellissime pagine della collezione "Sofia", riguardandi i c.d. "cammini", con il suoi percorsi principali e traversi, brillantemente descritti da Maestro Mario e Gianni le ha corredate di importanti informazioni di quel periodo "napoletano".
Entrando nel merito, mi ha attirato l'attenzione la descrizione, riportata a pagina 33, per il FB della III tavola, della lettera, da Napoli a Bari. E' indicata come prima data conosciuta d’uso 9.12.1858. Tale data è riportata anche nel catalogo Vaccari. Nel Sassone in corrispondenza del valore invece è indicato erroneamente 9-X-1858 (errore di stampa?).
Ho ritenuto limitarmi, senza alcuna presunzione, ad evidenziare alcune frodi su FB da gr. 2 e plattagio.



pasfil
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Vivissimi complimenti all'Amico Pietro Pasfil per le sue ampie chiosature!
FRANCESCO COBIANCHI UN EROE BORBONICO SICILIANO
Cavaliere di diritto del Real Ordine Militare di S. Giorgio della riunione - Cavaliere di prima classe del Real Ordine di Francesco I - Cavaliere deli' ordine Pontificio di S. Gregario Magno - Insignito della Medaglia di bronzo con l'epigrafe Fedeltà - Insignito della Medaglia di Bronzo per la campagna dello stato Pontificio dell'anno 1849— Insignito della Medaglia di bronzo di quarta classe della campagna di Sicilia del 1848 e 1849 e di quella dell'Assedio della Cittadella di Messina - Generale di Brigata del Reale Esercito delle Due Sicilie ( disciolto)Comandante la prima Brigata di Fanteria nella Cittadella di Messina.
Dal signor Giovanni e dalla signora Raffaela Forcate nascea Francesco Cobianchi il 1° agosto 1814 in Palermo. Fatto adulto si dava interamente allo studio delle matematiche, e belle lettere , ma l'istinto sin dai primi suoi anni lo spingeva pel nobile mestiere delle armi.
Non ancora quattordicenne, otteneva il grado di 1° Tenente nell' armata Reale, per averne beneficiato l'impiego, e veniva destinato ad Aiutante di campo del sig. Generale Dusmet comandante i corpi della Guardia Reale, fino al 1° Novembre 1840 che fu promosso a Capitano nel 3° Reggimento di linea Principe; in qual corpo messo in seguito al comando d' una compagnia cacciatori, ebbe occasione di distinguersi per coraggio e valore ne' fatti d'armi avvenuti in Calabria nel 1848, particolarmente il 27 Giugno di questo anno al ponte dell'Angitola, ove ricuperò un obice ( cannone ) ch' era stalo abbandonato dagl' inservienti. Poscia ne' giorni 6 e 7 Settembre del detto anno alla presa di Messina si distinse soprammodo.
Li 24 Novembre 1848 fu nominato Aiutante Maggiore nel 3° battaglione dell' 11° di linea, poscia 8° battaglione Cacciatori, e con questo corpo fece la campagna dello Stato Pontificio. In Velletri si distinse molto nel sostenere e garentire la ritirata del corpo d' Esercito che rientrava al Regno.
Il 21 Giugno 1851 fu nominato Maggiore e rimase al 8° Cacciatori fino a che non ne divenne comandante titolare.
Li 28 Dicembre 1855 fu promosso Tenente Colonnello ritenendo il comando dell'8° Cacciatori , e li 16 Giugno 1859 fu nominato Colonnello al comando del 5° Reggimento di linea.
Scoppiata la rivoluzione in Sicilia nel 1860 , egli da Colonnello ebbe il comando della Brigata del 5° e 7° di linea.
In Messina fu il comandante dell' intera linea di avamposti, che circondava il paese , e quando questa città si dovette abbandonare egli rientrò in Cittadella ove rimase al comando della Brigata di Fanteria.
Li 20 Agosto, giorno del disbarco di Garibaldi in Reggio , chiestisi rinforzi alla Cittadella , fu egli destinato a comandare i mille uomini che doveano sbarcare a Reggio.
In Settembre 1860 fu nominato Brigadiere rimanendo in Cittadella ove la sua condotta fu esempio di fedeltà ed attaccamento al Re fino all'uttimo istante.
Fedeltà, attaccamento, attitudine nel servizio, ed intrepidezza ne' momenti difficili, che gli fecero meritare sempre la stima de'suoi superiori, l' amore e la fiducia de' suoi subordinati.
Resasi la piazza si ritirò in Napoli, e da questa in Sorrento , ove ottenuto il ritiro , se ne vive vita tranquilla. (Nove mesi in Messina e la sua Cittadella - Napoli - 1862)
FRANCESCO COBIANCHI UN EROE BORBONICO SICILIANO
Cavaliere di diritto del Real Ordine Militare di S. Giorgio della riunione - Cavaliere di prima classe del Real Ordine di Francesco I - Cavaliere deli' ordine Pontificio di S. Gregario Magno - Insignito della Medaglia di bronzo con l'epigrafe Fedeltà - Insignito della Medaglia di Bronzo per la campagna dello stato Pontificio dell'anno 1849— Insignito della Medaglia di bronzo di quarta classe della campagna di Sicilia del 1848 e 1849 e di quella dell'Assedio della Cittadella di Messina - Generale di Brigata del Reale Esercito delle Due Sicilie ( disciolto)Comandante la prima Brigata di Fanteria nella Cittadella di Messina.
Dal signor Giovanni e dalla signora Raffaela Forcate nascea Francesco Cobianchi il 1° agosto 1814 in Palermo. Fatto adulto si dava interamente allo studio delle matematiche, e belle lettere , ma l'istinto sin dai primi suoi anni lo spingeva pel nobile mestiere delle armi.
Non ancora quattordicenne, otteneva il grado di 1° Tenente nell' armata Reale, per averne beneficiato l'impiego, e veniva destinato ad Aiutante di campo del sig. Generale Dusmet comandante i corpi della Guardia Reale, fino al 1° Novembre 1840 che fu promosso a Capitano nel 3° Reggimento di linea Principe; in qual corpo messo in seguito al comando d' una compagnia cacciatori, ebbe occasione di distinguersi per coraggio e valore ne' fatti d'armi avvenuti in Calabria nel 1848, particolarmente il 27 Giugno di questo anno al ponte dell'Angitola, ove ricuperò un obice ( cannone ) ch' era stalo abbandonato dagl' inservienti. Poscia ne' giorni 6 e 7 Settembre del detto anno alla presa di Messina si distinse soprammodo.
Li 24 Novembre 1848 fu nominato Aiutante Maggiore nel 3° battaglione dell' 11° di linea, poscia 8° battaglione Cacciatori, e con questo corpo fece la campagna dello Stato Pontificio. In Velletri si distinse molto nel sostenere e garentire la ritirata del corpo d' Esercito che rientrava al Regno.
Il 21 Giugno 1851 fu nominato Maggiore e rimase al 8° Cacciatori fino a che non ne divenne comandante titolare.
Li 28 Dicembre 1855 fu promosso Tenente Colonnello ritenendo il comando dell'8° Cacciatori , e li 16 Giugno 1859 fu nominato Colonnello al comando del 5° Reggimento di linea.
Scoppiata la rivoluzione in Sicilia nel 1860 , egli da Colonnello ebbe il comando della Brigata del 5° e 7° di linea.
In Messina fu il comandante dell' intera linea di avamposti, che circondava il paese , e quando questa città si dovette abbandonare egli rientrò in Cittadella ove rimase al comando della Brigata di Fanteria.
Li 20 Agosto, giorno del disbarco di Garibaldi in Reggio , chiestisi rinforzi alla Cittadella , fu egli destinato a comandare i mille uomini che doveano sbarcare a Reggio.
In Settembre 1860 fu nominato Brigadiere rimanendo in Cittadella ove la sua condotta fu esempio di fedeltà ed attaccamento al Re fino all'uttimo istante.
Fedeltà, attaccamento, attitudine nel servizio, ed intrepidezza ne' momenti difficili, che gli fecero meritare sempre la stima de'suoi superiori, l' amore e la fiducia de' suoi subordinati.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
....continuando...
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Ciao Gianni ed un saluto a tutti.
pasfil



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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
IL CONTE CESARE ANGUISSOLA
Di San Giorgio e San Damiano — Cavaliere di prima classe di Francesco I° - Cavaliere di prima classe di S. Ludovico di Parma - Cavaliere di S. Silvestro dello stato Pontificio - Decorato della medaglia istituita dal sommo Pontefice Pio IX per le truppe collegate al riacquisto dello stato nel 1849 - Insignito della Medaglia dell'assedio della. Cittadella di Messina - Generale di Brigata del disciollo Esercito delle Due Sicilie.
Comandante superiore del forte SS. Salvatore, e della seconda Brigata di Fanteria.
Nasceva in Palermo li 5 Ottobre 1813 da S. E. il vice Ammiraglio conte Ferdinando da nobilissima famiglia Piacentina, e dalla Contessa Luigia de' Langèle, per trovarsi il genitore di lui in quell'Isola avendo seguito Re Ferdinando I. Nel di 8 Settembre 1820 volendo questo Sovrano rimeritare i lunghi ed onorati servizi del genitore, veniva Cesare nominato Paggio della Real Paggeria ove rimaneva fino all' abbolizione di esso stabilimento.
Per volere del Re Francesco I° il 26 Gennaio 1826 dell'età di 14 anni venne nominato 2° Tenente nel 1° Granatieri della Guardia Reale, in dove apprendeva la carriera delle armi sotto il comando del chiarissimo Colonnello Barone d' Orgemont. Nel 1 Settembre 1837 promosso 1° Tenente era destinato al 4° battaglione Cacciatori di linea ed al 1° Dicembre detto a Delegato del corpo, carica ch' esercitava fino alla nomina a Capitano nel 1 Marzo 1846.
Destinato al 1° battaglione dell'arma, nel 1848 faceva parte della spedizione in Palermo sotto gli ordini del Generale de Sauget , e benchè quella spedizione non avesse avuto felici risultamenti pure I' Anguissola si distingueva al comando d'una scorta di viveri e munizioni che dai quattro venti si trasportava al Real Palazzo, sostenendo l'azione coi rivoltosi. Nel 13 Luglio 1848 passava al Reggimento Cacciatori della Guardia e destinato al comando dalla 1° compagnia partiva per la spedizione di Roma distinguendosi nell' azione di Montecompito avvenuta la notte dell' 8 Maggio percui ne veniva decorato ed ancora distinguevasi nell' attacco innanzi Velletri.
Nel 1848 facendo parte della spedizione nelle Calabrie sotto il comando del Generale Lanza si distinse nell' azione del vallo della Rotonda, ove fece molli prigionieri.
Nel 2 Gennaio 1856 promosso a Maggiore veniva destinato al 10° di linea in Palermo. Nel 18 Settembre 1857 passava al 7° di linea ed al 27 Giugno 1859 a' corpi della Guardia Reale.
Al 1 Novembre 1859 promosso Tenente Colonnello destinato al 6° di Linea, da colà passava al comando del 7° di linea. Al 1 Maggio 1860 nominato Colonnello rimaneva al comando del corpo medesimo.
Nel 25 Giugno 1860 partiva con le 8 compagnie del centro del Reggimento per Messina, ove giunto veniva destinato agli avamposti di Collereale, e da colà con dolore da non comprendere umana mente apprese la diserzione dell'ultimo di lui fratello Amiilcare comandante il Veloce, e fu in tale occasione ch'egli per lavare l'onta dal germano messa al proprio nome scrisse al Maresciallo de Clary che volea da soldato partire con la colonna del Bosco.
Conchiusa capitolazione tra il Generale de Clary e de Medici, col 7° di linea ripiegava in Cittadella. In Settembre 1860 l'Anguissola a capo di una deputazione veniva spedilo in Gaeta ad umiliare le occorrenze della cittadella a S. M. il Re.
Nel di 8 Ottobre venne promosso a Brigadiere rimanendo al comando del Reggimento, ed indi destinato al comando della 2° Brigata in cittadella.
Il come Anguissola si condusse in cittadella , e come avesse dato pruova di se è inutile parlarne, operoso,zelante , pieno di coraggio , fedelissimo al Re ed onorato soldato, sono le qualità che Io distinsero , e gli fecero meritare il plauso de' suoi superiori, e la stima de' subordinati. Comandante superiore del forte Salvatore, non lasciò niente a desiderare, sia pel miglioramento delle opere di fortificazione che per l'offensiva. Resasi la piazza li 13 Marzo 1861 e reduce l'Anguissola come prigioniero di guerra, dimandò il suo ritiro e vive vita privata nel seno di sua famiglia.
.
( Nove mesi in Messina e la sua Cittadella - Napoli - 1862 )
Di San Giorgio e San Damiano — Cavaliere di prima classe di Francesco I° - Cavaliere di prima classe di S. Ludovico di Parma - Cavaliere di S. Silvestro dello stato Pontificio - Decorato della medaglia istituita dal sommo Pontefice Pio IX per le truppe collegate al riacquisto dello stato nel 1849 - Insignito della Medaglia dell'assedio della. Cittadella di Messina - Generale di Brigata del disciollo Esercito delle Due Sicilie.
Comandante superiore del forte SS. Salvatore, e della seconda Brigata di Fanteria.
Nasceva in Palermo li 5 Ottobre 1813 da S. E. il vice Ammiraglio conte Ferdinando da nobilissima famiglia Piacentina, e dalla Contessa Luigia de' Langèle, per trovarsi il genitore di lui in quell'Isola avendo seguito Re Ferdinando I. Nel di 8 Settembre 1820 volendo questo Sovrano rimeritare i lunghi ed onorati servizi del genitore, veniva Cesare nominato Paggio della Real Paggeria ove rimaneva fino all' abbolizione di esso stabilimento.
Per volere del Re Francesco I° il 26 Gennaio 1826 dell'età di 14 anni venne nominato 2° Tenente nel 1° Granatieri della Guardia Reale, in dove apprendeva la carriera delle armi sotto il comando del chiarissimo Colonnello Barone d' Orgemont. Nel 1 Settembre 1837 promosso 1° Tenente era destinato al 4° battaglione Cacciatori di linea ed al 1° Dicembre detto a Delegato del corpo, carica ch' esercitava fino alla nomina a Capitano nel 1 Marzo 1846.
Destinato al 1° battaglione dell'arma, nel 1848 faceva parte della spedizione in Palermo sotto gli ordini del Generale de Sauget , e benchè quella spedizione non avesse avuto felici risultamenti pure I' Anguissola si distingueva al comando d'una scorta di viveri e munizioni che dai quattro venti si trasportava al Real Palazzo, sostenendo l'azione coi rivoltosi. Nel 13 Luglio 1848 passava al Reggimento Cacciatori della Guardia e destinato al comando dalla 1° compagnia partiva per la spedizione di Roma distinguendosi nell' azione di Montecompito avvenuta la notte dell' 8 Maggio percui ne veniva decorato ed ancora distinguevasi nell' attacco innanzi Velletri.
Nel 1848 facendo parte della spedizione nelle Calabrie sotto il comando del Generale Lanza si distinse nell' azione del vallo della Rotonda, ove fece molli prigionieri.
Nel 2 Gennaio 1856 promosso a Maggiore veniva destinato al 10° di linea in Palermo. Nel 18 Settembre 1857 passava al 7° di linea ed al 27 Giugno 1859 a' corpi della Guardia Reale.
Al 1 Novembre 1859 promosso Tenente Colonnello destinato al 6° di Linea, da colà passava al comando del 7° di linea. Al 1 Maggio 1860 nominato Colonnello rimaneva al comando del corpo medesimo.
Nel 25 Giugno 1860 partiva con le 8 compagnie del centro del Reggimento per Messina, ove giunto veniva destinato agli avamposti di Collereale, e da colà con dolore da non comprendere umana mente apprese la diserzione dell'ultimo di lui fratello Amiilcare comandante il Veloce, e fu in tale occasione ch'egli per lavare l'onta dal germano messa al proprio nome scrisse al Maresciallo de Clary che volea da soldato partire con la colonna del Bosco.
Conchiusa capitolazione tra il Generale de Clary e de Medici, col 7° di linea ripiegava in Cittadella. In Settembre 1860 l'Anguissola a capo di una deputazione veniva spedilo in Gaeta ad umiliare le occorrenze della cittadella a S. M. il Re.
Nel di 8 Ottobre venne promosso a Brigadiere rimanendo al comando del Reggimento, ed indi destinato al comando della 2° Brigata in cittadella.
Il come Anguissola si condusse in cittadella , e come avesse dato pruova di se è inutile parlarne, operoso,zelante , pieno di coraggio , fedelissimo al Re ed onorato soldato, sono le qualità che Io distinsero , e gli fecero meritare il plauso de' suoi superiori, e la stima de' subordinati. Comandante superiore del forte Salvatore, non lasciò niente a desiderare, sia pel miglioramento delle opere di fortificazione che per l'offensiva. Resasi la piazza li 13 Marzo 1861 e reduce l'Anguissola come prigioniero di guerra, dimandò il suo ritiro e vive vita privata nel seno di sua famiglia.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Quella breve rivoluzione che scoppiò per Piedigrotta
Due giorni di scontri a L'Aquila, vinti dai borbonici di Walter Cavalieri
Nel 1841, approfittando della festa, i patrioti scesero in piazza. Ma solo i popolani furono puniti
Quella breve rivoluzione che scoppiò per Piedigrotta
Due giorni di scontri a L'Aquila, vinti dai borbonici
Chissà cosa avrà pensato sua altezza reale Ferdinando II quando lo informarono dell'insurrezione aquilana del 1841? Genero di Vittorio Emanuele I di Savoia, vedovo da un lustro, il pingue e bigotto sovrano contava allora poco più di trent'anni, undici dei quali già trascorsi sul trono delle Due Sicilie, cioè alla testa dello Stato più esteso, più popoloso, più prospero e industrializzato d'Italia. Stato ben provvisto anche dal punto di vista militare, il regno non aveva gran che da temere da parte di nemici esterni, collocato com'era - diceva lo stesso Ferdinando - «fra l'acqua santa e l'acqua salata». Diverso il discorso per i nemici interni: un'aristocrazia fellona, una burocrazia corrotta, una borghesia inetta, il serpeggiare del separatismo siciliano, ma soprattutto l'azione incessante della carboneria che chiedeva buon governo, riforme e «ordinato reggimento».
Dopo i fatti di Palermo, Napoli, Penne e Catania, era la quinta volta (la seconda in Abruzzo) che il suo regno era scosso da una rivolta, per di più in quella che per rilevanza amministrativa, per popolazione e per posizione strategica, era annoverata tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real liceo degli Abruzzi, L'Aquila vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, che la vide protagonista anche nella travagliata storia del nostro Risorgimento.
Tutto era iniziato l'8 settembre, data oggi evocativa di ben altri sfasci, ma all'epoca coincidente con la famosa festa di Piedigrotta, celebrata fra l'altro nella Capitale con una grande parata militare alla quale partecipavano anche reparti del presidio dell'Aquila. Trovandosi dunque la città pressoché sguarnita di truppe, si ritenne giunto il momento propizio per un'insurrezione preceduta da un lungo lavoro organizzativo e pensata come capace di provocare un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica.
Intorno alle ore 22 l'uccisione del comandante della piazza, il colonnello Gennaro Tanfano (lo spietato repressore della recente rivolta di Penne) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagnolo, dà il segnale all'insurrezione.
Euforici per la riuscita dell'agguato, una cinquantina di patrioti confluiscono nella casa-arsenale dell'armiere Romualdo Palesse, dove prelevano fucili e munizioni. Da parte degli insorti è stata appena conquistata porta Rivera, da dove sarebbero dovuti entrare in città alcune centinaia di rivoltosi provenienti dai centri vicini, e si sta organizzando la liberazione di tutti i prigionieri politici, quando il giovane sarto Giovanni Franciosa esce di casa issando su un'asta una bandiera tricolore da lui stesso confezionata, la cui vista moltiplica nei ribelli la voglia di battersi.
Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre pattuglie di insorti e di gendarmi (cui dà man forte una guardia civica costituitasi per l'occasione) si affrontano al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco, fino al rientro delle truppe che si erano momentaneamente assentate. La loro tempestiva azione repressiva, insieme alla mancata sollevazione di altre province del regno, porta al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Nonostante l'ispirazione mazziniana, la rivolta è stata condotta infatti senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garantire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze.
Quando in città entrano i rinforzi borbonici provenienti da Sulmona, si contano i morti e i feriti di entrambe le parti rimasti sul terreno. E l'Intendente conte Gaetani può diramare una circolare nella quale si legge: «I pacifici abitanti di questa città, costernati da prima per tale misfatto e pel conflitto su accennato hanno mostrato tutto l'attaccamento al nostro Sovrano». Iniziava così la normalizzazione all'insegna delle consuete «tre F» borboniche (Forca, Feste e Farina).
Le perquisizioni e gli arresti successivi portano all'incriminazione di 192 persone, in prevalenza artigiani, e comunque quasi tutti appartenenti al ceto popolare urbano, che avevano sperato in un'abolizione dei pesi fiscali e nella diminuzione del prezzo del sale. Ma nella rete della polizia cade anche il ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommossa, costituito invece da una sparuta pattuglia di notabili colti, tra i quali spicca lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella. Le indagini, svolte dalla Procura della Gran Corte Criminale, metteranno a nudo l'intera regia della sommossa, costituita dal suddetto Ciampella, nonché dal patrizio Luigi Falconi, dal marchese Luigi Dragonetti, dal barone Giuseppe Cappa e da Pietro Marrelli.
Non furono loro, però, a pagare il prezzo maggiore. Il processo, svoltosi in varie fasi in un ampio locale della fortezza spagnola fino al settembre 1842, si articolò nella pubblica deposizione di circa 1.500 testimoni e si concluse con otto condanne a morte (tutte a carico di artigiani o popolani), tre delle quali eseguite per esplicita volontà del re e le restanti commutate in ergastolo.
La mattina del 21 aprile 1842 i diretti responsabili dell'uccisione del Tanfano, a piedi nudi, vestiti di nero e con un cartello da «uomo empio» sul petto, vennero moschettati sugli spalti della fortezza. Altri 90 insorti furono invece condannati a pene detentive che variavano dall'ergastolo, a 30 o 25 anni di bagno penale, fino alla libertà vigilata.
Di contro, i gentiluomini borghesi (professionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla repressione del moto furono ricevuti in udienza dal re e da lui insigniti di medaglie e altre decorazioni. Forse anche per questo la città dell'Aquila - a differenza di Penne o di Siracusa - non fu punita dai Borboni, potendo mantenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all'Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte.
Si dirà che, nonostante il suo fallimento, lo sporadico moto dell'Aquila abbia ispirato la sfortunata azione calabrese dei fratelli Bandiera del 1844 e sia stato «germe in potenza di quelli più complessi, meglio organizzati del '48 e del '59» (Luigi Manzi, 1893).
Il fatto singolare dell'intera vicenda è però che una città che nel 1841, unica in Italia, aveva espresso un moto di notevole rilevanza, sette anni dopo si presenterà con sorprendente titubanza all'appuntamento con la «primavera dei popoli». Quando infatti nel maggio 1848 il re con un colpo di mano scioglierà il parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell'Aquila, il siciliano Mariano d'Ayala, tenterà di difendere la Costituzione senza poter contare su alcun appoggio cittadino contro l'esercito accorso in forza da Napoli (storia di ordinaria repressione rispetto allo spietato cannoneggiamento di Messina che varrà al giovane sovrano il noto appellativo di «re Bomba»).
Evidentemente il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del '41, mentre il notabilato borghese persisteva in quella linea gattopardesca che gli aveva garantito la sopravvivenza nell'ultimo travagliatissimo secolo e che gli permetterà, all'indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Non a caso sarà proprio l'avvocato aquilano moderato Giuseppe Pica a dare il suo nome alle durissime leggi per la repressione del brigantaggio.
Due giorni di scontri a L'Aquila, vinti dai borbonici di Walter Cavalieri
Nel 1841, approfittando della festa, i patrioti scesero in piazza. Ma solo i popolani furono puniti
Quella breve rivoluzione che scoppiò per Piedigrotta
Due giorni di scontri a L'Aquila, vinti dai borbonici
Chissà cosa avrà pensato sua altezza reale Ferdinando II quando lo informarono dell'insurrezione aquilana del 1841? Genero di Vittorio Emanuele I di Savoia, vedovo da un lustro, il pingue e bigotto sovrano contava allora poco più di trent'anni, undici dei quali già trascorsi sul trono delle Due Sicilie, cioè alla testa dello Stato più esteso, più popoloso, più prospero e industrializzato d'Italia. Stato ben provvisto anche dal punto di vista militare, il regno non aveva gran che da temere da parte di nemici esterni, collocato com'era - diceva lo stesso Ferdinando - «fra l'acqua santa e l'acqua salata». Diverso il discorso per i nemici interni: un'aristocrazia fellona, una burocrazia corrotta, una borghesia inetta, il serpeggiare del separatismo siciliano, ma soprattutto l'azione incessante della carboneria che chiedeva buon governo, riforme e «ordinato reggimento».
Dopo i fatti di Palermo, Napoli, Penne e Catania, era la quinta volta (la seconda in Abruzzo) che il suo regno era scosso da una rivolta, per di più in quella che per rilevanza amministrativa, per popolazione e per posizione strategica, era annoverata tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real liceo degli Abruzzi, L'Aquila vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, che la vide protagonista anche nella travagliata storia del nostro Risorgimento.
Tutto era iniziato l'8 settembre, data oggi evocativa di ben altri sfasci, ma all'epoca coincidente con la famosa festa di Piedigrotta, celebrata fra l'altro nella Capitale con una grande parata militare alla quale partecipavano anche reparti del presidio dell'Aquila. Trovandosi dunque la città pressoché sguarnita di truppe, si ritenne giunto il momento propizio per un'insurrezione preceduta da un lungo lavoro organizzativo e pensata come capace di provocare un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica.
Intorno alle ore 22 l'uccisione del comandante della piazza, il colonnello Gennaro Tanfano (lo spietato repressore della recente rivolta di Penne) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagnolo, dà il segnale all'insurrezione.
Euforici per la riuscita dell'agguato, una cinquantina di patrioti confluiscono nella casa-arsenale dell'armiere Romualdo Palesse, dove prelevano fucili e munizioni. Da parte degli insorti è stata appena conquistata porta Rivera, da dove sarebbero dovuti entrare in città alcune centinaia di rivoltosi provenienti dai centri vicini, e si sta organizzando la liberazione di tutti i prigionieri politici, quando il giovane sarto Giovanni Franciosa esce di casa issando su un'asta una bandiera tricolore da lui stesso confezionata, la cui vista moltiplica nei ribelli la voglia di battersi.
Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre pattuglie di insorti e di gendarmi (cui dà man forte una guardia civica costituitasi per l'occasione) si affrontano al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco, fino al rientro delle truppe che si erano momentaneamente assentate. La loro tempestiva azione repressiva, insieme alla mancata sollevazione di altre province del regno, porta al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Nonostante l'ispirazione mazziniana, la rivolta è stata condotta infatti senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garantire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze.
Quando in città entrano i rinforzi borbonici provenienti da Sulmona, si contano i morti e i feriti di entrambe le parti rimasti sul terreno. E l'Intendente conte Gaetani può diramare una circolare nella quale si legge: «I pacifici abitanti di questa città, costernati da prima per tale misfatto e pel conflitto su accennato hanno mostrato tutto l'attaccamento al nostro Sovrano». Iniziava così la normalizzazione all'insegna delle consuete «tre F» borboniche (Forca, Feste e Farina).
Le perquisizioni e gli arresti successivi portano all'incriminazione di 192 persone, in prevalenza artigiani, e comunque quasi tutti appartenenti al ceto popolare urbano, che avevano sperato in un'abolizione dei pesi fiscali e nella diminuzione del prezzo del sale. Ma nella rete della polizia cade anche il ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommossa, costituito invece da una sparuta pattuglia di notabili colti, tra i quali spicca lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella. Le indagini, svolte dalla Procura della Gran Corte Criminale, metteranno a nudo l'intera regia della sommossa, costituita dal suddetto Ciampella, nonché dal patrizio Luigi Falconi, dal marchese Luigi Dragonetti, dal barone Giuseppe Cappa e da Pietro Marrelli.
Non furono loro, però, a pagare il prezzo maggiore. Il processo, svoltosi in varie fasi in un ampio locale della fortezza spagnola fino al settembre 1842, si articolò nella pubblica deposizione di circa 1.500 testimoni e si concluse con otto condanne a morte (tutte a carico di artigiani o popolani), tre delle quali eseguite per esplicita volontà del re e le restanti commutate in ergastolo.
La mattina del 21 aprile 1842 i diretti responsabili dell'uccisione del Tanfano, a piedi nudi, vestiti di nero e con un cartello da «uomo empio» sul petto, vennero moschettati sugli spalti della fortezza. Altri 90 insorti furono invece condannati a pene detentive che variavano dall'ergastolo, a 30 o 25 anni di bagno penale, fino alla libertà vigilata.
Di contro, i gentiluomini borghesi (professionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla repressione del moto furono ricevuti in udienza dal re e da lui insigniti di medaglie e altre decorazioni. Forse anche per questo la città dell'Aquila - a differenza di Penne o di Siracusa - non fu punita dai Borboni, potendo mantenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all'Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte.
Si dirà che, nonostante il suo fallimento, lo sporadico moto dell'Aquila abbia ispirato la sfortunata azione calabrese dei fratelli Bandiera del 1844 e sia stato «germe in potenza di quelli più complessi, meglio organizzati del '48 e del '59» (Luigi Manzi, 1893).
Il fatto singolare dell'intera vicenda è però che una città che nel 1841, unica in Italia, aveva espresso un moto di notevole rilevanza, sette anni dopo si presenterà con sorprendente titubanza all'appuntamento con la «primavera dei popoli». Quando infatti nel maggio 1848 il re con un colpo di mano scioglierà il parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell'Aquila, il siciliano Mariano d'Ayala, tenterà di difendere la Costituzione senza poter contare su alcun appoggio cittadino contro l'esercito accorso in forza da Napoli (storia di ordinaria repressione rispetto allo spietato cannoneggiamento di Messina che varrà al giovane sovrano il noto appellativo di «re Bomba»).
Evidentemente il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del '41, mentre il notabilato borghese persisteva in quella linea gattopardesca che gli aveva garantito la sopravvivenza nell'ultimo travagliatissimo secolo e che gli permetterà, all'indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Non a caso sarà proprio l'avvocato aquilano moderato Giuseppe Pica a dare il suo nome alle durissime leggi per la repressione del brigantaggio.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
...continuando...
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Ciao Gianni. Grazie per le Tue notizie storiche. Sei una miniera inesauribile e Pietro, con i Suoi commenti, non Ti è da meno. Grazie di cuore. Alla fine del Tuo lavoro potremo scrivere un'opera. Grazie, Grazie ed ancora Grazie anche da parte di Marisa. Mario
- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Grazie ,Mario carissimo,delle gentili parole .Io spero,che il lavoro che stiamo producendo con Pietro -Pasfil ,ormai grande esperto "napoletano",sia da sprone per un nuovo modo di intendere e sviluppare la filatelia.Come vedi, da una Tua splendida collezione abbiamo tratto lo spunto per "storicizzarla" e "commentarla".
Il mio modestissimo auspicio è che altri Amici intraprendano questo cammino,non facile ma esaltante , di studio e ricerca e vogliano nel tempo continuarlo con altre prestigiose raccolte ! Felice sia il continuare!gianni tramaglino
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E continuiamo....come ben sappiamo è il primo gennaio 1858 la nostra "data di partenza"....penso sia interessante interessarci di quei personaggi illustri napoletani che videro la luce con i francobolli "partenopei".
Uno di questi è...........
Giuseppe De Sanctis (Napoli 1858 - 1924)
di Enzo Montanari
Nato a Napoli il 21 giugno 1858, frequentò l’Istituto di Belle Arti della città partenopea sotto la guida di G. Palizzi, D. Morelli e G. Ruo.
Agli esordi, influenzato dal Morelli e dalle sue visioni d’oriente, trattò temi di soggetto orientale che gli procurarono i primi successi di pubblico e di critica. Tra questi sono da menzionare: Theodora (presentata a Venezia nel 1887); Nell’harem e Preghiera della sera a Bisanzio (esposti a Monaco nel 1888).
Si recò poi a Londra, ove incontrò il pittore L. Alma-Tadema, e successivamente visitò Parigi.
Dopo essersi trasferito stabilmente in questa città, dove ebbe modo di entrare in contatto con il Gérôme, si rivolse alla pittura di genere, al paesaggio e in modo particolare al ritratto femminile, trattando questi generi con buona vena e con inclinazione impressionista (Verso sera; La Marna presso Nogent).
Questa nuova ricerca di occasionali suggestioni impressioniste riuscì a stemperare un poco il linguaggio della sua arte, sino ad allora piuttosto povero di consistenza pittorica, fino a renderlo maggiormente fresco e godibile, ben appetito dal gusto della ricca committenza borghese, il cui status era in costante ascesa a cavallo tra i due secoli, che gli procurava il noto mercante Goupil per il quale nel frattempo si era messo a lavorare.
Il De Sanctis fu uomo di vasta cultura e di fine temperamento, un artista molto coscienzioso con una maniera di dipingere del tutto personale, aristocratica, dal sapore francesizzante, che egli conserverà anche nella produzione di soggetti partenopei, una volta fatto rientro nel paese di origine. Ciò gli valse un vasto successo di pubblico in Francia e una discreta fama in patria. Dal 1883 al 1922 tenne una intensa attività espositiva sia in Italia (Bologna, Firenze, Milano, Venezia, Roma, Torino) che all’estero (Londra, Berlino, Parigi, Monaco, Barcellona, Bruxelles, Buenos Aires, S. Francisco), ottenendo lusinghieri successi.
Tra le sue opere principali vanno ricordate: Dolores (esposta a Firenze nel 1883); Curiosità (esposta a Milano sempre nel 1883); La Senna vista dal ponte Alessandro; Vecchia canzone e la già citata La Marna presso Nogent (esposte a Venezia nel 1905); Garofano rosso e il bozzetto Ritratto della principessa R. (esposti all’Internazionale di S. Francisco nel 1915 e alla Primaverile di Firenze nel 1922).
Oltre che con la pittura ad olio, si espresse con l’acquarello ed il pastello, eseguendo con quest’ultima tecnica alcuni ritratti assai accattivanti, non privi di grazia e di sensualità.
Praticò anche l’incisione all’acquaforte con buoni risultati (va detto che fu insegnante di tecniche dell’incisione all’Istituto di Belle Arti di Napoli) e l’attività di caricaturista con verve vivace ed aggraziata.
Si spense a Napoli nel 1924.
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E continuiamo....come ben sappiamo è il primo gennaio 1858 la nostra "data di partenza"....penso sia interessante interessarci di quei personaggi illustri napoletani che videro la luce con i francobolli "partenopei".
Uno di questi è...........
Giuseppe De Sanctis (Napoli 1858 - 1924)
di Enzo Montanari
Nato a Napoli il 21 giugno 1858, frequentò l’Istituto di Belle Arti della città partenopea sotto la guida di G. Palizzi, D. Morelli e G. Ruo.
Agli esordi, influenzato dal Morelli e dalle sue visioni d’oriente, trattò temi di soggetto orientale che gli procurarono i primi successi di pubblico e di critica. Tra questi sono da menzionare: Theodora (presentata a Venezia nel 1887); Nell’harem e Preghiera della sera a Bisanzio (esposti a Monaco nel 1888).
Si recò poi a Londra, ove incontrò il pittore L. Alma-Tadema, e successivamente visitò Parigi.
Dopo essersi trasferito stabilmente in questa città, dove ebbe modo di entrare in contatto con il Gérôme, si rivolse alla pittura di genere, al paesaggio e in modo particolare al ritratto femminile, trattando questi generi con buona vena e con inclinazione impressionista (Verso sera; La Marna presso Nogent).
Questa nuova ricerca di occasionali suggestioni impressioniste riuscì a stemperare un poco il linguaggio della sua arte, sino ad allora piuttosto povero di consistenza pittorica, fino a renderlo maggiormente fresco e godibile, ben appetito dal gusto della ricca committenza borghese, il cui status era in costante ascesa a cavallo tra i due secoli, che gli procurava il noto mercante Goupil per il quale nel frattempo si era messo a lavorare.
Il De Sanctis fu uomo di vasta cultura e di fine temperamento, un artista molto coscienzioso con una maniera di dipingere del tutto personale, aristocratica, dal sapore francesizzante, che egli conserverà anche nella produzione di soggetti partenopei, una volta fatto rientro nel paese di origine. Ciò gli valse un vasto successo di pubblico in Francia e una discreta fama in patria. Dal 1883 al 1922 tenne una intensa attività espositiva sia in Italia (Bologna, Firenze, Milano, Venezia, Roma, Torino) che all’estero (Londra, Berlino, Parigi, Monaco, Barcellona, Bruxelles, Buenos Aires, S. Francisco), ottenendo lusinghieri successi.
Tra le sue opere principali vanno ricordate: Dolores (esposta a Firenze nel 1883); Curiosità (esposta a Milano sempre nel 1883); La Senna vista dal ponte Alessandro; Vecchia canzone e la già citata La Marna presso Nogent (esposte a Venezia nel 1905); Garofano rosso e il bozzetto Ritratto della principessa R. (esposti all’Internazionale di S. Francisco nel 1915 e alla Primaverile di Firenze nel 1922).
Oltre che con la pittura ad olio, si espresse con l’acquarello ed il pastello, eseguendo con quest’ultima tecnica alcuni ritratti assai accattivanti, non privi di grazia e di sensualità.
Praticò anche l’incisione all’acquaforte con buoni risultati (va detto che fu insegnante di tecniche dell’incisione all’Istituto di Belle Arti di Napoli) e l’attività di caricaturista con verve vivace ed aggraziata.
Si spense a Napoli nel 1924.
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
La strage di Casalduni e Pontelandolfo
Buona parte del Sannio e del Molise e della Terra di lavoro, era insorto alla dominazione savoiarda, malgrado l'unità del regno d'italia fosse stata dichiarata da tempo. Nei pressi di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi di circa 5000 anime, operava un folto numero di partigiani, guidati da ex ufficiali e sottoufficiali dell'esercito Borbonico, con il pieno appoggio delle popolazioni locali. Nei giorni che precedono questa cronaca, ci furono fucilazioni perpetrate dai bersaglieri dell'esercito invasore e le reazioni a questi eccidi ingiustificati, da parte della resistenza, che causò morti trà le fila dei soldati nordisti. La reazione delle alte sfere di comando savoiarde non si fece attendere . Il 12 agosto al maggiore Melegari fu ordinato di presentarsi dal generale Cialdini; con solerzia si recò alla luogotenenza, dove lo ricevette il generale Piola- Caselli, che lo fece accomodare e gli disse: "Maggiore, lei avrà sentito parlare di sicuro del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; ebbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che quei due paesi debbano fare la fine di Gaeta, ossia devono essere rasi al suolo ed i suoi cittadini massacrati. Ella, Sig. Maggiore, ha carta bianca ed è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati i soldati del povero Bracci. Infligga a quei due paesi la piú severa delle punizioni e ai suoi abitanti faccia desiderare la morte. Ha ben capito?" Il Melegari rispose: "Signorsí, so benissimo come si devono interpretare i desideri del generale Cialdini.". Il 14 agosto Melegari ed i suoi quattrocento soldati avevano raggiunto Casalduni e dopo averla circondata, cominciarono il massacro.Ecco la cronaca: " Le quattro compagnie ebbero il comando di carica alla baionetta dal Melegari e cominciarono la carneficina ed il saccheggio delle case e delle chiese come erano soliti fare per poi passare ad incendiarle. La prima casa ad essere bruciata fu quella del sindaco Ursini, indicata alla truppa dal traditore Tommaso Lucente da Sepino. Sentendo gli spari e le grida dei bersaglieri, i pochi rimasti in paese uscirono quasi nudi; cercavano la montagna e trovarono la morte, infilzati dalle baionette dei piemontesi.". Ma questo pauroso episodio non finisce qui, il maggiore Melagri è scontento, perchè hanno ucciso solo poche centinaia di persone, visto che la popolazione era stata avvisata in tempo e si era data in gran parte alla macchia. Così decide di inviare il tenente Mancini a Pontelandolfo, per sapere come era andata li al colonnello Negri. Il tenente Mancini tornò dopo un ora riportando quanto segue: "Possiamo tornarcene a San Lupo il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo. Ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina!", è il Melagri rispose: "Ci hanno fregati quelli del 36° fanteria!",affranto perchè il suo collega aveva macellato più civili inermi di lui.
Buona parte del Sannio e del Molise e della Terra di lavoro, era insorto alla dominazione savoiarda, malgrado l'unità del regno d'italia fosse stata dichiarata da tempo. Nei pressi di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi di circa 5000 anime, operava un folto numero di partigiani, guidati da ex ufficiali e sottoufficiali dell'esercito Borbonico, con il pieno appoggio delle popolazioni locali. Nei giorni che precedono questa cronaca, ci furono fucilazioni perpetrate dai bersaglieri dell'esercito invasore e le reazioni a questi eccidi ingiustificati, da parte della resistenza, che causò morti trà le fila dei soldati nordisti. La reazione delle alte sfere di comando savoiarde non si fece attendere . Il 12 agosto al maggiore Melegari fu ordinato di presentarsi dal generale Cialdini; con solerzia si recò alla luogotenenza, dove lo ricevette il generale Piola- Caselli, che lo fece accomodare e gli disse: "Maggiore, lei avrà sentito parlare di sicuro del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; ebbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che quei due paesi debbano fare la fine di Gaeta, ossia devono essere rasi al suolo ed i suoi cittadini massacrati. Ella, Sig. Maggiore, ha carta bianca ed è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati i soldati del povero Bracci. Infligga a quei due paesi la piú severa delle punizioni e ai suoi abitanti faccia desiderare la morte. Ha ben capito?" Il Melegari rispose: "Signorsí, so benissimo come si devono interpretare i desideri del generale Cialdini.". Il 14 agosto Melegari ed i suoi quattrocento soldati avevano raggiunto Casalduni e dopo averla circondata, cominciarono il massacro.Ecco la cronaca: " Le quattro compagnie ebbero il comando di carica alla baionetta dal Melegari e cominciarono la carneficina ed il saccheggio delle case e delle chiese come erano soliti fare per poi passare ad incendiarle. La prima casa ad essere bruciata fu quella del sindaco Ursini, indicata alla truppa dal traditore Tommaso Lucente da Sepino. Sentendo gli spari e le grida dei bersaglieri, i pochi rimasti in paese uscirono quasi nudi; cercavano la montagna e trovarono la morte, infilzati dalle baionette dei piemontesi.". Ma questo pauroso episodio non finisce qui, il maggiore Melagri è scontento, perchè hanno ucciso solo poche centinaia di persone, visto che la popolazione era stata avvisata in tempo e si era data in gran parte alla macchia. Così decide di inviare il tenente Mancini a Pontelandolfo, per sapere come era andata li al colonnello Negri. Il tenente Mancini tornò dopo un ora riportando quanto segue: "Possiamo tornarcene a San Lupo il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo. Ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina!", è il Melagri rispose: "Ci hanno fregati quelli del 36° fanteria!",affranto perchè il suo collega aveva macellato più civili inermi di lui.
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Re: Da Napoli a Sofia..........

BERNARDO CANTALAMESSA
Cantante e macchiettista nasce a Napoli nel 1858.
Padre dell'attore Bruno Cantalamessa e nonno della soubrette Clery Fiamma,è ancora ricordato per le cosidette "Canzoni col fischio"e soprattutto per la celeberrima"Risata"che dovrebbe risalire secondo alcune testimonianze addirittura al 1895.
Tale brano infatti sarebbe stato inspirato da una incisione su rullo di un cantante nero proveniente dagli Stati Uniti che Cantalamessa avrebbe ascoltato a Napoli casualmente.
Ciò che invece è certo è che Cantalamessa interpretò macchiette diventate famosissime scritte per lui da autori di grande fama.
Elegantissimo nel vestire,duettò spesso con le regine del varietà dell'epoca:dalla Faraone alla Sampieri,dalla Persico alla D'Avigny.
All'avvento del disco fu tra i primi artisti del Cafè Chantant a essere scritturato per incidere i suoi successi e le sue macchiette e lui risultò abilissimo nel comprendere i limiti tecnici del mezzo e dunque a sfruttare al meglio quei suoni e quelle tecniche linguistiche che più si adattavano alla pionieristiche registrazioni del tempo.
Il suo più grande successo fonografico è senza dubbio "La risata"che fu pure la sua prima incisione.
Conobbe vasta notorietà anche all'estero,grazie a frequenti tournèe nei più importanti teatri del mondo.
In particolare in America si esibì a partire dal 1907 con talmente grande successo che decise di stabilirvisi con al suo fianco l'inseparabile compagna,l'importante soubrette Olimpia D'Avigny costruendo la propria casa a Buenos Aires dove morirà a soli quarantotto anni probabilmente per un banale incidente domestico.
TRA I SUOI DISCHI
1895 78 giri La Risata
1904 78 giri 'E Tre D''A Chiazza
1904 78 giri Un Professore Di Trombone A Spasso
1905 78 giri La Ciociara
1905 78 giri 'A Buscia!
1906 78 giri L'Eruzione Del Vesuvio
1906 78 giri 'E Rragazze
1907 78 giri 'A Risata Nova
1907 78 giri Se Ti Ritiri Tu
1907 78 giri Voglio Sisca' (Con Ersilia Sampieri)
1907 78 giri I' Vurria (Con Ersilia Sampieri)
1908 78 giri Cchio' Cchio' Cchio'
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Giacinto de' Sivo (1814-1867)
di Francesco Pappalardo
1. Dalla letteratura alla storia attraverso la politica
Giacinto de' Sivo, scrittore e storico napoletano, nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814, da una famiglia di militari devota alla dinastia borbonica. Il nonno, pure di nome Giacinto, aveva armato a proprie spese soldati per la difesa del regno in occasione dell'aggressione giacobina e francese, e lo zio Antonio era stato fra gli ufficiali del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che nel 1799 aveva animato e guidato l'impresa della Santa Fede; anche il padre, Aniello, era stato un valoroso ufficiale dell'esercito napoletano, ma aveva dovuto lasciare il servizio attivo a causa di un infortunio.
Il giovane Giacinto preferisce l'arte della penna a quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1847), maestro di lingua e di elocuzione italiana. Di tale insegnamento si possono riconoscere le tracce in tutti i suoi scritti, in prosa o in versi: la classica armonia delle strutture, la purezza delle voci e le preziosità lessicali, che rendono il suo stile non sempre agevole, ma denso e caustico. Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe un volumetto di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie, alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più volte; quindi pubblica un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei tempi di Manfredi. Nel 1844, sposa Costanza Gaetani dell'Aquila d'Aragona, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale avrà tre figli.
Parallelamente all'attività letteraria, entra a far parte della Commissione per l'Istruzione Pubblica e, nel 1848, è nominato consigliere d'Intendenza della provincia di Terra di Lavoro. L'anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale di Maddaloni, fino allo scioglimento di questa milizia, quindi comanda per alcuni mesi la ricostituita Guardia Urbana. Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849, che recano le prime gravi minacce all'integrità dell'antico Stato napoletano, turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica per comprendere le ragioni dell'immane tragedia che sconvolge l'Europa. Sospende per qualche tempo la composizione tragica e comincia a scrivere una monografia sugli avvenimenti recenti, che non pubblica immediatamente "[...] per non parer di percuotere i vinti e inneggiare a' vincitori", e che rappresenterà il nucleo generatore della Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. I tristi presentimenti diventano presto realtà e, nel 1860, aggredito dalle bande garibaldine e dall'esercito sardo, il Regno delle Due Sicilie cessa di esistere dopo una storia sette volte secolare.
De' Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d'Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la "vantata libertà della parola" e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il "prepotente amore" alla patria, che non è la "Patria" astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì "idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l'ossa degli avi, la terra de' padri". La Tragicommedia, che nasce anche con l'intento di "[...] ricordar le ricchezze dileguate, l'armi perdute, fra' rimbombi de' cannoni, e i gemiti de' fucilati, e i lagni de' carcerati", viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell'esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell'identità nazionale del paese - appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili - e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di "altissimo pregio" quanto "a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati".
De' Sivo intraprende quindi un nuovo lavoro, una difesa storica del Papato contro le calunnie rivoluzionarie, ma la morte lo raggiunge a cinquantadue anni, il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui - come fu scritto nel necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il settimanale antirisorgimentale la cui prima serie venne pubblicata a Roma dall'agosto del 1862 all'11 settembre 1870, sotto la direzione di monsignor Giuseppe Troysi - "la gloriosa vittoria di Mentana gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d'ingiusto esilio e gli stenti di morbo rincrudito".
2. La "damnatio memoriae"
Il trattamento inflitto all'opera di de' Sivo è conseguenza dello sforzo compiuto dalla cultura dominante per manipolare o per cancellare la memoria storica del popolo italiano attraverso l'inquinamento del patrimonio culturale della nazione e l'abbandono nell'oblio di avvenimenti e di personaggi particolarmente significativi.
Per circa sessant'anni sull'opera dello storico di Maddaloni ha gravato una coltre di silenzio, sollevata da Benedetto Croce (1866-1952) - partenopeo di adozione ma privo di una comprensione adeguata della storia napoletana, a causa dei suoi pregiudizi storicistici - con un breve saggio, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, che ne offre però un'interpretazione riduttiva e deformante. Soltanto nel secondo dopoguerra viene data alle stampe, un secolo dopo la prima edizione, la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861; e vede la luce la prima biografia dell'autore, scritta con affettuosa "compassione" dallo storico Roberto Mascia, scomparso nel 1972. Seguono quindi le riedizioni de I Napolitani al cospetto delle nazioni civili e dell'Elogio di Ferdinando Nunziante, e la ristampa dei tre numeri del periodico La Tragicommedia.
3. L'insegnamento storico e morale
L'opera storica di de' Sivo non si esaurisce nello sterile rimpianto del passato e nella difesa incondizionata della dinastia borbonica, ma costituisce un'aperta denuncia della malizia e della strategia rivoluzionarie, nonché dell'inettitudine e dell'impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi, eventualmente, una reazione agli accadimenti.
Anche quando prevalgono lo sdegno per la violazione del diritto e la protesta contro l'"iniquo servaggio" che grava sulle contrade napoletane, non viene meno la consapevolezza del carattere rivoluzionario dell'aggressione al Regno delle Due Sicilie, che è soltanto un episodio - anche se macroscopico - dello scontro gigantesco in atto fra la religione e l'ateismo. La "cruenta e atrocissima" lotta che contrappone italiani a italiani passa in secondo piano di fronte a un male più grave, cioè il "dileggio" che lo Stato unitario fa del diritto, della morale e della religione. L'unità politica, dunque, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata contro la Chiesa e le autorità legittime, a danno dei valori spirituali e civili della nazione. In opposizione al piano rivoluzionario, che vuole "l'unità geografica e la disunione morale", egli prospetta l'ipotesi di una confederazione, sul modello di quella svizzera e degli Stati germanici, affinché possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola "[...] e l'Italia cristiana riederà al suo naturale primato", alla sua vocazione storica, che è quella di accogliere e di proteggere la Cattedra di Pietro.
De' Sivo apporta alla cultura cattolica contro-rivoluzionaria un contributo non trascurabile sia per la comprensione della dinamica delle ideologie, che si affermano nella storia - come ebbe a scrivere Papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la XVIII Giornata Mondiale della Pace, dell'8-12-1984, al n. 6 - attraverso "disegni nascosti" - accanto ad altri "apertamente propagandati" - "miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta", sia per la conoscenza dei meccanismi di tale dinamica, messi in moto soprattutto da circoli settari di origine massonica, che - dopo avere sradicato la religione dalle classi dirigenti nel corso del secolo XVIII - perseguono l'obiettivo della "democratizzazione dell'irreligione". Anche la dinastia borbonica e le classi dirigenti del regno hanno gravi colpe, la cui "confessione" non è meno utile della denuncia delle manovre settarie. Le calamità del secolo XIX sarebbero incomprensibili senza gli errori del secolo precedente: l'adesione degli intellettuali all'illuminismo, la decadenza colpevole della Nobiltà, il contributo decisivo dato dalla monarchia assoluta all'opera di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione della società, hanno indebolito il regno, che nel momento decisivo non seppe resistere all'aggressione interna ed esterna.
4. "Tacito della tirannide settaria"
Poiché la Rivoluzione - cioè l'opera plurisecolare tesa alla distruzione della Cristianità e alla costruzione di una realtà storica a essa diametralmente opposta nei princìpi e nei fatti - ha potuto procedere solo grazie all'occultamento del suo volto e dei suoi fini ultimi, il mezzo più efficace per combatterla - secondo la lezione del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) nell'opera Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, del 1959 - consiste nel denunciarne lo spirito e la strategia: "Strapparle, dunque, la maschera significa sferrarle il più duro dei colpi". Ebbene, de' Sivo ha svolto tale compito con efficacia, meritando l'appellativo di "Tacito della tirannide settaria" - attribuitogli dall'anonimo estensore del citato necrologio - per aver "strappato coraggiosamente all'ipocrita la rossa camicia e il tricolore paludamento, disvelando sott'esso di che lagrime grondi e di che sangue". Inoltre, insegna a Napoli e a tutto il Mezzogiorno d'Italia che l'attesa rinascita religiosa e civile può essere perseguita e conseguita soltanto compiendo un profondo esame di coscienza nazionale e ricuperando le proprie radici storiche e spirituali, da tempo conculcate e disprezzate, non solamente da parte di allogeni.
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Per approfondire: fra le opere principali di Giacinto de' Sivo, ripubblicate negli ultimi decenni, vedi Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964; I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, e, con una introduzione di Silvio Vitale, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; Storia di Galazia Campana e di Maddaloni, La Fiorente, Maddaloni (Caserta) 1986; Elogio di Ferdinando Nunziante, presentato e pubblicato da Bruno Iorio con il titolo Un "eroe" borbonico, Galzerano, Casalvelino Scalo (Salerno) 1989; e il periodico La Tragicommedia, ristampato - a cura di Francesco Maurizio Di Giovine e di Gabriele Marzocco - dall'Editoriale il Giglio, Napoli 1993; di Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 vedi due recensioni su La Civiltà Cattolica, una al primo volume, a firma di padre Carlo Maria Curci S. J. (anno XV [1864], serie V, vol. X, fasc. 340, pp. 444-463), e l'altra al terzo volume, a firma di padre Francesco Berardinelli S. J. (1816-1892) (anno XVII [1866], serie VI, vol. VII, fasc. 392, pp. 200-212); l'unica biografia completa dello storico napoletano è Roberto Mascia, La vita e le opere di Giacinto de' Sivo (1814-1867). Il narratore - Il poeta tragico - Lo storico, Berisio, Napoli 1966; il saggio di Benedetto Croce, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, Tipografia Giannini, Napoli 1918, è ora in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari 1949, pp.147-160.
di Francesco Pappalardo
1. Dalla letteratura alla storia attraverso la politica
Giacinto de' Sivo, scrittore e storico napoletano, nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814, da una famiglia di militari devota alla dinastia borbonica. Il nonno, pure di nome Giacinto, aveva armato a proprie spese soldati per la difesa del regno in occasione dell'aggressione giacobina e francese, e lo zio Antonio era stato fra gli ufficiali del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che nel 1799 aveva animato e guidato l'impresa della Santa Fede; anche il padre, Aniello, era stato un valoroso ufficiale dell'esercito napoletano, ma aveva dovuto lasciare il servizio attivo a causa di un infortunio.
Il giovane Giacinto preferisce l'arte della penna a quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1847), maestro di lingua e di elocuzione italiana. Di tale insegnamento si possono riconoscere le tracce in tutti i suoi scritti, in prosa o in versi: la classica armonia delle strutture, la purezza delle voci e le preziosità lessicali, che rendono il suo stile non sempre agevole, ma denso e caustico. Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe un volumetto di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie, alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più volte; quindi pubblica un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei tempi di Manfredi. Nel 1844, sposa Costanza Gaetani dell'Aquila d'Aragona, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale avrà tre figli.
Parallelamente all'attività letteraria, entra a far parte della Commissione per l'Istruzione Pubblica e, nel 1848, è nominato consigliere d'Intendenza della provincia di Terra di Lavoro. L'anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale di Maddaloni, fino allo scioglimento di questa milizia, quindi comanda per alcuni mesi la ricostituita Guardia Urbana. Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849, che recano le prime gravi minacce all'integrità dell'antico Stato napoletano, turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica per comprendere le ragioni dell'immane tragedia che sconvolge l'Europa. Sospende per qualche tempo la composizione tragica e comincia a scrivere una monografia sugli avvenimenti recenti, che non pubblica immediatamente "[...] per non parer di percuotere i vinti e inneggiare a' vincitori", e che rappresenterà il nucleo generatore della Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. I tristi presentimenti diventano presto realtà e, nel 1860, aggredito dalle bande garibaldine e dall'esercito sardo, il Regno delle Due Sicilie cessa di esistere dopo una storia sette volte secolare.
De' Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d'Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la "vantata libertà della parola" e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il "prepotente amore" alla patria, che non è la "Patria" astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì "idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l'ossa degli avi, la terra de' padri". La Tragicommedia, che nasce anche con l'intento di "[...] ricordar le ricchezze dileguate, l'armi perdute, fra' rimbombi de' cannoni, e i gemiti de' fucilati, e i lagni de' carcerati", viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell'esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell'identità nazionale del paese - appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili - e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di "altissimo pregio" quanto "a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati".
De' Sivo intraprende quindi un nuovo lavoro, una difesa storica del Papato contro le calunnie rivoluzionarie, ma la morte lo raggiunge a cinquantadue anni, il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui - come fu scritto nel necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il settimanale antirisorgimentale la cui prima serie venne pubblicata a Roma dall'agosto del 1862 all'11 settembre 1870, sotto la direzione di monsignor Giuseppe Troysi - "la gloriosa vittoria di Mentana gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d'ingiusto esilio e gli stenti di morbo rincrudito".
2. La "damnatio memoriae"
Il trattamento inflitto all'opera di de' Sivo è conseguenza dello sforzo compiuto dalla cultura dominante per manipolare o per cancellare la memoria storica del popolo italiano attraverso l'inquinamento del patrimonio culturale della nazione e l'abbandono nell'oblio di avvenimenti e di personaggi particolarmente significativi.
Per circa sessant'anni sull'opera dello storico di Maddaloni ha gravato una coltre di silenzio, sollevata da Benedetto Croce (1866-1952) - partenopeo di adozione ma privo di una comprensione adeguata della storia napoletana, a causa dei suoi pregiudizi storicistici - con un breve saggio, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, che ne offre però un'interpretazione riduttiva e deformante. Soltanto nel secondo dopoguerra viene data alle stampe, un secolo dopo la prima edizione, la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861; e vede la luce la prima biografia dell'autore, scritta con affettuosa "compassione" dallo storico Roberto Mascia, scomparso nel 1972. Seguono quindi le riedizioni de I Napolitani al cospetto delle nazioni civili e dell'Elogio di Ferdinando Nunziante, e la ristampa dei tre numeri del periodico La Tragicommedia.
3. L'insegnamento storico e morale
L'opera storica di de' Sivo non si esaurisce nello sterile rimpianto del passato e nella difesa incondizionata della dinastia borbonica, ma costituisce un'aperta denuncia della malizia e della strategia rivoluzionarie, nonché dell'inettitudine e dell'impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi, eventualmente, una reazione agli accadimenti.
Anche quando prevalgono lo sdegno per la violazione del diritto e la protesta contro l'"iniquo servaggio" che grava sulle contrade napoletane, non viene meno la consapevolezza del carattere rivoluzionario dell'aggressione al Regno delle Due Sicilie, che è soltanto un episodio - anche se macroscopico - dello scontro gigantesco in atto fra la religione e l'ateismo. La "cruenta e atrocissima" lotta che contrappone italiani a italiani passa in secondo piano di fronte a un male più grave, cioè il "dileggio" che lo Stato unitario fa del diritto, della morale e della religione. L'unità politica, dunque, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata contro la Chiesa e le autorità legittime, a danno dei valori spirituali e civili della nazione. In opposizione al piano rivoluzionario, che vuole "l'unità geografica e la disunione morale", egli prospetta l'ipotesi di una confederazione, sul modello di quella svizzera e degli Stati germanici, affinché possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola "[...] e l'Italia cristiana riederà al suo naturale primato", alla sua vocazione storica, che è quella di accogliere e di proteggere la Cattedra di Pietro.
De' Sivo apporta alla cultura cattolica contro-rivoluzionaria un contributo non trascurabile sia per la comprensione della dinamica delle ideologie, che si affermano nella storia - come ebbe a scrivere Papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la XVIII Giornata Mondiale della Pace, dell'8-12-1984, al n. 6 - attraverso "disegni nascosti" - accanto ad altri "apertamente propagandati" - "miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta", sia per la conoscenza dei meccanismi di tale dinamica, messi in moto soprattutto da circoli settari di origine massonica, che - dopo avere sradicato la religione dalle classi dirigenti nel corso del secolo XVIII - perseguono l'obiettivo della "democratizzazione dell'irreligione". Anche la dinastia borbonica e le classi dirigenti del regno hanno gravi colpe, la cui "confessione" non è meno utile della denuncia delle manovre settarie. Le calamità del secolo XIX sarebbero incomprensibili senza gli errori del secolo precedente: l'adesione degli intellettuali all'illuminismo, la decadenza colpevole della Nobiltà, il contributo decisivo dato dalla monarchia assoluta all'opera di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione della società, hanno indebolito il regno, che nel momento decisivo non seppe resistere all'aggressione interna ed esterna.
4. "Tacito della tirannide settaria"
Poiché la Rivoluzione - cioè l'opera plurisecolare tesa alla distruzione della Cristianità e alla costruzione di una realtà storica a essa diametralmente opposta nei princìpi e nei fatti - ha potuto procedere solo grazie all'occultamento del suo volto e dei suoi fini ultimi, il mezzo più efficace per combatterla - secondo la lezione del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) nell'opera Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, del 1959 - consiste nel denunciarne lo spirito e la strategia: "Strapparle, dunque, la maschera significa sferrarle il più duro dei colpi". Ebbene, de' Sivo ha svolto tale compito con efficacia, meritando l'appellativo di "Tacito della tirannide settaria" - attribuitogli dall'anonimo estensore del citato necrologio - per aver "strappato coraggiosamente all'ipocrita la rossa camicia e il tricolore paludamento, disvelando sott'esso di che lagrime grondi e di che sangue". Inoltre, insegna a Napoli e a tutto il Mezzogiorno d'Italia che l'attesa rinascita religiosa e civile può essere perseguita e conseguita soltanto compiendo un profondo esame di coscienza nazionale e ricuperando le proprie radici storiche e spirituali, da tempo conculcate e disprezzate, non solamente da parte di allogeni.
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Per approfondire: fra le opere principali di Giacinto de' Sivo, ripubblicate negli ultimi decenni, vedi Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964; I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, e, con una introduzione di Silvio Vitale, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; Storia di Galazia Campana e di Maddaloni, La Fiorente, Maddaloni (Caserta) 1986; Elogio di Ferdinando Nunziante, presentato e pubblicato da Bruno Iorio con il titolo Un "eroe" borbonico, Galzerano, Casalvelino Scalo (Salerno) 1989; e il periodico La Tragicommedia, ristampato - a cura di Francesco Maurizio Di Giovine e di Gabriele Marzocco - dall'Editoriale il Giglio, Napoli 1993; di Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 vedi due recensioni su La Civiltà Cattolica, una al primo volume, a firma di padre Carlo Maria Curci S. J. (anno XV [1864], serie V, vol. X, fasc. 340, pp. 444-463), e l'altra al terzo volume, a firma di padre Francesco Berardinelli S. J. (1816-1892) (anno XVII [1866], serie VI, vol. VII, fasc. 392, pp. 200-212); l'unica biografia completa dello storico napoletano è Roberto Mascia, La vita e le opere di Giacinto de' Sivo (1814-1867). Il narratore - Il poeta tragico - Lo storico, Berisio, Napoli 1966; il saggio di Benedetto Croce, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, Tipografia Giannini, Napoli 1918, è ora in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari 1949, pp.147-160.
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Re: Da Napoli a Sofia..........
Buona serata a tutti.
Una caro saluto a Gianni, e un sincero ringraziamento a Mario Merone.
pasfil
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- gianni tramaglino
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Re: Da Napoli a Sofia..........
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- gianni tramaglino
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