Il complesso
dei Frari come appare nella pianta di Venezia "a volo
d'uccello" incisa da Jacopo de' Barbari nel 1500. Sulla destra,
sul rio, si nota il ponte dei Frari del quale ci occupiamo qui sotto.
Prima di parlare della Basilica dei Frari si devono fare alcuni cenni sulla
presenza di S. Francesco a Venezia che ci è documentata attraverso due
fonti: la "Legenda Major" di S. Bonaventura da Bagnoregio
ed il "Chronicon Venetum" di Andrea Dandolo.
Noi sappiamo che il 24 giugno 1219 Francesco parte da Ancona accompagnato
da fra Pietro Cattani diretto in Egitto dove incontrerà il Sultano.
Faranno sosta ad Acri dove si unirà a loro fra Elia che si trovava da due
anni in Siria. Francesco visita i luoghi santi e fa ritorno dall'Oriente
tra la primavera e l'estate del 1220.
Probabilmente Francesco ed i suoi compagni sbarcarono a Venezia sul molo
dell'attuale riva degli Schiavoni nel maggio o giugno 1220, quando era doge
Pietro Ziani.
Restando nelle ipotesi, si può immaginare che trovarono alloggio
nell'isola della Giudecca, nell'ospizio per i pellegrini di Terrasanta
dedicato a S. Biagio e S. Cataldo.
Per un approfondimento sulla presenza a Venezia di San Francesco,
leggi qui.
Non possediamo una data precisa di quando i frati minori cominciarono ad
insediarsi nel Veneto. Una delle prime città del nord che li accolsero fu
Trento, dove i francescani erano presenti già nel 1221: un gruppo che in
origine faceva parte della missione francescana diretta in Germania con fra
Giordano da Ciano.
A Padova erano giunti tra il 1220-25 e sempre in quegli anni sono
segnalati anche a Vicenza, Verona e Treviso (ad esempio nel 1221 abbiamo un
fra Giuseppe da Treviso e nel 1224, sempre da Treviso, un fra Giacomo ed un
fra Enrico).
Il complesso
dei Frari disegnato da padre Vincenzo Coronelli (1650-1718) per il suo
"Singolarità di Venezia, Chiese di Venezia" (circa 1709).
Si notano la Basilica ed i tre chiostri che si succedono nell'ordine, da quello più in fondo a quello più prossimo alla
Basilica, il chiostro di
S. Nicoletto, il chiostro interno, o di S. Antonio, il chiostro esterno,
o della Santissima Trinità. Gli orti dei frati circondano il complesso.
Non possediamo date circa il loro arrivo nella città lagunare. Il
documento più antico finora ritrovato che li riguarda è il testamento di
Achilia Singnolo del novembre 1227: «...dimitto fratribus minoribus libras
denariorum venetorum decem...».
Da questo documento possiamo facilmente dedurre che i frati minori fossero
già da un certo tempo stanziati a Venezia se erano riusciti ad attirare
l'attenzione di una devota che fa un lascito in loro favore, di importo
doppio di quello disposto per i Domenicani. Ma la mancanza di un
riferimento ad una chiesa o ad un convento, riferimento che invece c'è per
altre chiese e monasteri beneficiati dal testamento, ci fa intuire che i
nostri frati fossero ancora non stanziati in un luogo determinato.
Il fatto che siano stati ricordati in un testamento ci fa intendere che la
loro presenza fosse apprezzata a Venezia.
E questo per tutta una serie di motivi.
Prima di tutto vivevano e si comportavano in modo ben diverso dal clero del
tempo: la loro vita era di estrema povertà ed umiltà. Vivevano del lavoro
delle loro mani dando il buon esempio a tutti: «...de laboribus manum
suarum» leggiamo nel "Chronicon Venetum" di Andrea
Dandolo, «...oneste fatiche di
sua mano...» scriveva il Papini in "Etruria francescana", ed
il Sanudo aggiunge «...e faceano fatiche di sua mano, e con quelle e
con limosine viveano...».
Una veduta
aerea del complesso dei Frari come si presenta oggi: in una
prospettiva simile a quella del de' Barbari e del Coronelli, troviamo
in primo piano sulla destra la Basilica con le absidi ed il
campanile e dietro il convento con i tre chiostri. La quasi
totalità dell'antico convento, soppresso dalle leggi napoleniche, è
occupato dall'Archivio di Stato che è venuto a costituirsi in
quest'area agli inizi dell'Ottocento, sotto la dominazione austriaca.
Il tetto del grande complesso in basso a sinistra appartiene alla
Scuola Grande si S. Rocco.
Una di queste oneste fatiche consisteva nel lavoro di ricopiare codici e di rilegare libri.
Nulla possedevano all'inizio: non avevano
chiese o conventi, ma dormivano dove capitava; di notte sotto i portici della chiesa di S.
Silvestro: «Fratres quidam de Ordine Minorum ... in atrio Ecclesia
Sancti Sylvestri vitam ducebant», oppure sotto quelli di S. Lorenzo e
di S. Marco.
Un altro motivo per farsi voler bene dalla popolazione era la loro
predicazione, una predicazione che affascinava la gente, spirituale ma
anche estremamente critica nei confronti dei vescovi e del clero in genere.
E' così che cominciano a trovare un tetto sotto il quale passare la notte:
«...dormivano bene spesso ne' sottoportici delle Chiese ... finché
cominciarono ad aver notturno alloggio nelle case dei Devoti».
Cominciano così a trovare accoglienza non solo tra il popolo minuto, ma
anche tra le grandi famiglie della città che si interessano a loro.
Parlando di grandi famiglie significa il patriziato veneziano,
quell'aristocrazia che governava la città. Ecco quindi l'interesse di
queste famiglie per i frati minori si trasforma in interesse della
Repubblica per loro.
L'interesse dapprima è quello di controllare questi gruppi più o meno
irregolari, quasi per far smettere questo tipo di vita senza regole, poi
diventa un aperto sostegno favorendone l'insediamento nelle zone
periferiche della città e nelle isolette disabitate ed incolte della
laguna.
La facciata
della Basilica dei Frari con il campo sulla sinistra, le cappelle
laterali ed il campanile completato nel 1396. Alto 70 metri, è
secondo dopo quello di S. Marco che misura 98,60 metri.
In questo modo la Repubblica raggiungeva anche altri scopi: concedendo loro
le isolette della laguna e le aree perimetrali della città otteneva che i
monaci sorvegliassero gli accessi e controllassero chi andava e veniva per
la laguna.
Ma non è tutto.
Otteneva che i monaci tenessero puliti ed in ordine i canali in modo che
agevolassero il flusso ed il riflusso delle maree e restassero sempre
navigabili.
Senza bisogno di ordinanze, i monaci inoltre prosciugavano e bonificavano
zone paludose ed insane per edificarvi i loro edifici e preparare i loro
orti.
Ai frati minori la Repubblica, sotto il dogado di Jacopo Tiepolo, decise di dare
un terreno dove potessero insediarsi con un convento.
La data è controversa, anche per la mancanza di tutti i documenti più
antichi che erano conservati nel convento di S. Maria Gloriosa dei Frari,
andati distrutti in un incendio nel 1369. Possiamo però affermare, in
controtendenza rispetto a quanto generalmente viene detto e scritto, ma
alla luce di un attento studio di altri documenti che ci sono pervenuti,
che la data della donazione del Doge Jacopo Tiepolo di un terreno sul quale
i frati potessero insediarsi con un convento è da porre con ogni
probabilità nell'anno 1231: «Nunc ... Fratres de Ordine Minorum ...
sub vocabulo Sanctae Mariae Virginis sibi Monasterium inchoarunt». Ed
ancora: «Li Fratti minori ... con molta povertà vivendo, e sempre
predicando, amonendo, et esortando le persone a ben far, et a lassar i
peccadi davano per tutto buon esempio, et gerano amiradi, et reveridi da
tutti... Alli Fratti poi Minori fu similmente donado dal Comun un terren
vacuo posto in Contrà de s. Stefano Confessor detto s. Stin, dove fu anche
intitolà una Giesa de Santa Maria de' Frati Minori, e ghe fu fatto un
Monastero».
E' una delle più antiche piante di Venezia: questa è
opera di Fra' Paolino (Venezia 1270 circa - Pozzuoli 1344) ed è attualmente conservata presso la
Biblioteca Nazionale Marciana (Cod. Lat. 399).
Una delle sue particolarità è di rappresentare la città secondo
un aspetto cronologico: come doveva presentarsi Venezia nel IX secolo
(ma con alcuni particolari riferiti addirittura all'VIII secolo) e come
doveva essere nel XII secolo, con aggiunte relative alla sua
configurazione coeva all'autore: per questa caratteristica l'opera
è una fonte preziosissima di informazioni sulla città e
sull'idrografia lagunare in quei secoli
Dopo la morte di Fra' Paolino la pianta pergamenacea rimase nascosta
a tutti,
dimenticata in un ponderoso volume, il "Compendium" ovvero
la "Chronologia Magna" compilata dal frate.
Solo circa quattro secoli più tardi, nel 1730-31, uno studioso,
l'architetto Tommaso Temanza, sfogliando il "Compendium"
scoperse la pergamena 7-r. Il Temanza studiò lungamente la pianta,
ricopiando la cartografia numerose volte per accontentare amici ed
altri studiosi. Infatti lo stesso Temanza ebbe a scrivere: «...non
ho potuto resistere alle ricerche dei Padroni, né alle istanze
degli Amici, che me ne dimandarono qualche copia; laonde quasi a
forza, ho dovuto lasciarmene uscire dalle mani un centinaio».
Finalmente nel 1781 il Temanza realizzò una incisone su rame nella
quale riportò il disegno e le scritte con una calligrafia più
chiara (commettendo anche alcuni errori), incisione che diede alle
stampe, ed è quella mostrata a destra.
La pianta di Fra' Paolino venne ridisegnata ed
incisa su rame dall'architetto Tommaso Temanza nel 1781. Nonostante
alcuni errori, dovuti ad alcune discutibili interpretazioni dei
segni originali sulla pergamena che si era molto deteriorata, ci
consente una lettura facilitata (rispetto al prezioso originale)
di come doveva apparire Venezia
dal IX al XII secolo.
Il particolare evidenziato ed ingrandito si riferisce all'area
su cui sarebbe sorta la Basilica di Santa Maria Gloriosa dei
Frari: «miõres» è la contrazione che si legge come «minores»,
cioè i frati minori francescani.
Ma la cosa più interessante è quel segno topografico che
indica una sorta di lago, di stagno: è il "lacus
badovarius", una bassa area sommersa dalle acque salmastre
della laguna, di cui si parla qui sotto.
Nel 1234 Giovanni Badoer, proprietario di un terreno acquitrinoso di piedi
164x100 tra S. Stin e S. Tomà dove aveva fatto costruire una casa,
stabilisce di donare quel terreno con la casetta ai Frati Minori. Quel
terreno confinava con quello donato dal Tiepolo dove già i frati vi
avevano costruito una chiesetta: «in territorio et ecclesia eorumdem
fratrum minorum habitant».
Tale terreno era noto già dal 1038 come "lacus badovarius"
(lago Badoer) ed era appunto uno stagno posto in un'area bassa e paludosa
che troviamo anche segnalata nella più antica mappa conosciuta di Venezia,
quella di fra Paolino da Venezia, riprodotta da Tommaso Temanza.
Altre donazioni, anche di terreni limitrofi, si succederanno nel tempo.
I frati si danno subito da fare con le opere di bonifica dei terreni,
bonifica che completano in cinque anni se si può leggere in un rogito che
avevano incanalato le acque «...in rivo qui quondam fuit lacus
badovarius...».
Un errore viene ripetuto da anni su molte guide,
anche prestigiose ed importanti, della città che affermano che la chiesa
dei Frari fu edificata sul luogo di un'antica abbazia (cistercense?,
camaldolese?).
Non è questo il luogo dove approfondire, con l'aiuto di altri documenti,
la falsità di tale affermazione. Basti dire che non è mai citata nelle
fonti antiche una abbazia benedettina.
Allora è interessante chiederci da dove ha origine questo errore.
Ha origine nel XVI secolo, e precisamente in un passo del Sansovino quando
questi scrive: «Nei primi tempi fu in questo luogo una Badia di monaci
bianchi, ma essendo venuto in queste parti San Francesco, ottenne dal
Dominio (essendo allora Doge Henrico Dandolo) tutto il terreno del suo
circuito.»
Basti osservare che San Francesco fu a Venezia nel 1220, come abbiamo già
ricordato, e che il donatore Enrico Dandolo era morto nel 1205.
A suffragare l'errore c'è chi ha scritto che i francescani ebbero in dono
un'abbazia benedettina come sarebbe dimostrato dallo
stipite di destra della
porta che conduce alla sacrestia con un bassorilievo che raffigura S.
Benedetto. Ma non tengono conto che quel S. Benedetto non ha alcuna
relazione con la presunta abbazia, ma piuttosto è il Santo patronimico da
riferire al sovrastante monumento a Benedetto Pesaro; esattamente come
sullo stipite opposto c'è una figura di S. Girolamo, da riferire a
Girolamo Pesaro che fece costruire il monumento al padre.
Senza volerci ulteriormente dilungare, ci limitiamo ad una ulteriore
osservazione: come mai nessuna congregazione benedettina ricorda di aver
avuto una badia a Venezia presso il "lacus badovarius"?
Ma intanto i compilatori di guide continuano a sbagliare.
L'ipotetica
posizione della prima chiesetta di S. Maria rispetto all'attuale
Basilica.
Sono scarse le notizie che abbiamo su come fosse la prima chiesa dei frati.
Possiamo ipotizzare che fosse ubicata tra gli attuali monumenti a Canova ed
a Tiziano, mentre sappiamo che era intitolata a S. Maria, e basta, come la
chiesetta cara a S. Francesco, la Porziuncola di Assisi. «Fratres minores
apud locum s. Marie commorantes». Quasi contemporaneamente a questa
chiesetta i frati minori costruivano una loro chiesa a Padova dedicata alla
madre del Signore: S. Maria
Mater Domini. Questa chiesa, che molto probabilmente servì da modello ai
confratelli di Venezia per la loro S. Maria, esiste ancora: nonostante i
rimaneggiamenti, è stata inglobata nella Basilica di Sant'Antonio e la si
può vedere a sinistra, trasformata in una cappella conosciuta come
"cappella della Madonna mora".
In origine, prima di essere rimaneggiata, misurava metri 7x14, cioè con un
rapporto di 1 a 2 tra larghezza e lunghezza.
La chiesetta di S. Maria della Porziuncola aveva un rapporto simile, metri
6x11, e questo rapporto è conforme a tante altre chiesette dell'Italia
settentrionale e centrale della fine del XII secolo, inizi del XIII.
Questo ci consente ragionevolmente di pensare che le due chiese
francescane, costruite negli stessi anni a Padova ed a Venezia, si
assomigliassero e che quindi la prima chiesa dei Frari avesse circa queste
misure.
Probabilmente la chiesetta veneziana possedeva una struttura muraria con un
soffitto basso in legno.
Qui i frati celebravano le messe, custodivano il Santissimo e svolgevano le
altre funzioni religiose.
Oggi di questa primitiva chiesetta non ci resta nulla.
La predicazione dei frati attira sempre più gente e diventa indispensabile
costruire una chiesa più vasta che possa accoglierla tutta.
Con la carità dei fedeli si giunge alla posa della prima pietra che
avvenne il 28 aprile 1250 alla presenza del cardinale Ottaviano Ubaldini di
S: Maria in via Lata, delegato pontificio, del vescovo di S. Pietro di
Castello (cioè di Venezia) Pietro Pini, del vescovo di Bologna Giacomo
Buoncambio e del vescovo di Treviso, il domenicano Gualtiero Agnus Dei.
L'orientamento
della seconda chiesa dedicata a Santa Maria Gloriosa rispetto
all'attuale Basilica, con l'altare volto ad oriente e con le absidi che
pescano nel canale.
In genere viene erroneamente indicata la presenza di un fantomatico vescovo
Vitale Tomasini, o Vitale Tommasini, ma si tratta di un errore di lettura
della pergamena originale, come ha fatto notare Isidoro Gatti. Nella
pergamena originale infatti è scritto «...in praesentia Domini Wal.
episcopi tervisini». L'abbreviazione "Wal" viene
sciolta dal Gatti come "Walterius" che corrisponde al
vescovo "Gualterius Agnus Dei" a quel tempo nella diocesi
di Treviso.
La presenza di così tanti prelati è significativa di quanto amata e
sentita fosse la presenza dei francescani non solo a Venezia.
Alla chiesa viene imposto il nome di S. Maria Gloriosa: gloriosa vuol dire
nella gloria, è Maria elevata nella gloria del Signore, nella luce di Dio,
Lei, che è nata senza peccato, cioè Immacolata. I francescani avevano
raccolto questa pietà popolare che vedeva la Vergine, come collaboratrice
della salvezza dell'uomo, esente dal peccato originale.
La
pergamena che attesta la posa della prima pietra di S. Maria Gloriosa
il 28 aprile 1250 (Biblioteca
Antoniana di Padova, pergamena 1).
Solo pochi giorni prima della posa della prima pietra, il 5 aprile 1250, il
papa Innocenzo IV aveva pubblicato una bolla "Cum tamquam
veri" secondo la quale le chiese francescane annesse ad un
convento sarebbero state dichiarate "conventuali". A seguito di
questo, al di là del diritto di poter suonare le campane, queste chiese
potevano avere un cimitero proprio, diverso da quello parrocchiale. E la
chiesa di S. Maria Gloriosa quindi nasceva come chiesa
"conventuale".
Numerose persone, nobili o ricchi mercanti, per essere sicuri di godere
delle preghiere dei frati e delle particolari indulgenze annesse alle
messe, chiedevano di essere seppellite nella chiesa o nel camposanto
adiacente ad essa.
Anche questa seconda chiesa doveva essere molto semplice, costruita in
legno e mattoni: in pietra erano il presbiterio con le absidi e la
sagrestia.
Di questa chiesa non ci è restato nulla (se si esclude un
un piccolo bassorilievo) e neppure alcun disegno. Sappiamo solo che
aveva una «capella granda» con «do capellette» ai lati.
Ma la novità era un'altra: era una chiesa orientata.
Orientata perché era rivolta verso oriente: in pratica era costruita a
rovescio rispetto all'attuale Basilica dei Frari.
Le tre absidi pescavano nel canale, il presbiterio con l'altare si
trovavano dove ora c'è un tratto del campo dei Frari, davanti all'attuale
facciata, mentre la facciata di quella seconda chiesa doveva arrivare
all'incirca all'altezza dell'attuale monumento Pesaro.
La lunghezza doveva essere di una cinquantina di metri per venticinque di
larghezza.
La tomba venuta alla luce durante gli scavi sul sagrato
della Basilica, dove una volta c'era il presbiterio della precedente
costruzione (foto Soprintendenza Archeologica del Veneto).
Nel dicembre 1998, nel fare dei lavori si scavo per il
sistema antincendio del vicino Archivio di Stato, furono ritrovati in
questo tratto del campo dei Frari alcune strutture in laterizi ed arenaria
che suggerirono di procedere ad ulteriori approfondimenti tra il febbraio
ed il marzo 1999.
I
lavori in campo dei Frari e sulla fondamenta del rio prospiciente
la Basilica (foto
Insula Spa).
I
lavori sulla fondamenta del rio e gli scavi in campo dei Frari
davanti alla Basilica (foto
Insula Spa).
Venne così alla luce una struttura di fondazione formata da due corsi di sesquipedali
rotti riutilizzati e da fondazioni di sei corsi di conci squadrati
d'arenaria: la struttura poggiava su una doppia zattera di legno. Un'altra
struttura venuta alla luce era composta da quattro corsi di sesquipedali
ordinati lungo il profilo di un muro avente per fondazione sempre sei corsi
di conci d'arenaria squadrati sopra una zattera lignea che poggiava su
teste di palo e su un'intercapedine di blocchi più piccoli
d'arenaria.
Tra le due strutture così venute alla luce venne ritrovato uno scheletro
deposto con le mani giunte: apparentemente seppellito senza corredo, gli
sono stati ritrovati i resti di una cintura della quale si sono conservati
la fibbia centrale e due anelli laterali. Si trattava di un maschio, alto
circa 160 centimetri, di età compresa tra i 30 ed i 40 anni, di robusta
costituzione fisica.
Procedendo con i lavori per la posa in opera dei tubi per gli idranti
antincendio ci si imbatté in una serie di altre strutture murarie e
pavimentali che costrinsero ad effettuare un secondo scavo di
approfondimento, che venne concluso il 18 marzo 2000.
L'area del primo scavo corrispondeva all'abside centrale della seconda
chiesa all'interno della quale era collocata la sepoltura di un personaggio
evidentemente importante, se le sue spoglie erano state collocate in una
posizione così importante.
Queste scoperte archeologiche non fecero che confermare quello che già
sapevamo del diverso orientamento, rispetto all'attuale, della chiesa.
Il ponte dei Frari in una incisione di Michele Marieschi
del 1741.
Il ponte era stato costruito dai frati su
concessione del Maggior Consiglio del 10 ottobre 1428 in sostituzione
di uno precedente, collocato poco lontano, citato in un documento del
1382.
I frati ottennero che il ponte fosse luogo di immunità per i
delinquenti dovendo essere considerato luogo sacro. Si tratta del
cosiddetto "diritto d'asilo" che trae origine dalla
raccomandazione che San Francesco aveva rivolto ai suoi frati: «Chiunque
verrà da essi, amico o nemico, ladro o brigante sia ricevuto con
bontà».
Da notare, nell'incisione del Marieschi, le cinque edicolette poste
sulla facciata: oggi sono tre, non essendoci più quelle sopra i due
pilastri esterni.
Già da prima eravamo in possesso di testimonianze in tal senso.
Queste testimonianze sono tutte rivolte ad affermare che il ponte che
attraversa il canale, entrambi tutt'oggi esistenti, era di proprietà dei
frati; infatti il simbolo francescano ancora oggi campeggia sull'arcata di
quel ponte.
«...el ponte de piera di fra menori è posto dove che za per avanti era la
Capella granda de la giexa vechia, e l'altar grando de dicta giexa era da
banda del ponte de piera...» Ed un'altra testimonianza ancora: «...la
giexa vechia di fra menori zoè la Capella granda de dicta giexa era et
vegniva infine suxla fondamenta del rio dove che xe ora el ponte de piera,
et alhora lì non era ponte alguno...»
Ma perché tutta questa preoccupazione a rivendicare la proprietà di quel
ponte, che una volta non c'era?
Ce lo spiega Marin Sanudo: quel ponte, costruito nel 1428, era luogo di
immunità per i delinquenti che non potevano essere catturati ed arrestati
in quanto doveva essere considerato sacro perché un tempo «la chiesa
dei frari era lì, et era lì la capella granda, che adesso è
voltada».
Allora guardando la facciata della seconda chiesa abbiamo a destra di essa
il campo dei Frari delimitato da un lato dal canale ed adibito a cimitero
dalla parte opposta in prossimità della facciata, dove oggi c'è il
presbiterio della chiesa attuale.
Ma perché orientata? Perché rivolta verso oriente?
Perché Cristo è la luce, il sole, e il sole sorge ad est, ad oriente.
Così la chiesa, e l'altare su cui si celebra con l'Eucaristia la
Resurrezione di Cristo, sono rivolti verso la luce, verso oriente. Per
questo motivo quasi tutte le chiese più antiche sono rivolte verso est.
La pianta della
terza chiesa, l'attuale Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.
Ben
presto anche questa chiesa si rivelò troppo piccola per accogliere i
numerosi fedeli che accorrevano per ascoltare la predicazione dei frati. Le
elargizioni dei fedeli dovevano essere cospicue se si pensa di costruirne,
solo dopo ottant'anni, un'altra grande il doppio: e questa è la chiesa che
ammiriamo ancor oggi.
Questa viene costruita in modo che nella chiesa esistente possano
continuare a svolgersi le funzioni.
Un documento datato 13 luglio 1330 già cita la nuova chiesa quando nomina
una cappella «ecclesie nove».
Infatti il metodo escogitato dai frati per costruire la nuova chiesa senza
interrompere il funzionamento della precedente è quello di iniziare dalla
costruzione delle absidi, rivoltando l'orientamento della nuova chiesa: le
absidi al posto del sagrato e del camposanto, il nuovo sagrato al posto del
presbiterio.
L'aver rivoltato l'orientamento consente di avere un maggior spazio a
disposizione per fare la nuova chiesa più grande ed inoltre, in questo
modo, la facciata sarebbe stata rivolta verso il cuore della città: verso
Rialto e verso San Marco.
Abbastanza velocemente sorgono dunque le cappelle absidali al posto
dell'antico camposanto.
Nel giro di tre o quattro anni le absidi sono già costruite
Che le absidi siano terminate abbastanza presto lo dimostra il
fatto che nella seconda cappella absidale del transetto di destra vengono
eretti i monumenti sepolcrali a Duccio Alberti, ambasciatore di Firenze a
Venezia, morto nel 1336, e di Arnoldo d'Este, morto nel 1337.
Questa velocità di esecuzione dimostra anche come,
in questa fase, non mancassero le elargizioni da parte di ricche e potenti
famiglie.
Fiordaliso, vedova di Nicolò Gradenigo, figlio del doge Pietro, il 21
maggio 1348 lasca 25 lire «per la fabricha ... de la glexia nuova de
santa Maria deli frari menori».
A cominciare dal 1361, comincia la costruzione del campanile,
il più alto della città (70 metri) dopo quello di San Marco (98,60
metri).
E' opera di Jacopo Celega e di suo figlio Pierpaolo che lo completa nel
1396, come si legge sulla lapide posta alla base.
Lo decorano due bassorilievi in pietra d'Istria, uno con la Madonna ed uno
con S. Francesco nel momento in cui riceve le stimmate.
Si susseguono i lasciti e le donazioni, come quello della Scuola dei
Milanesi, costituita soprattutto dai mercanti della colonia di Milano e
Monza a Venezia che ottengono in cambio una propria cappella, che è quella
che oggi vediamo all'estrema sinistra del transetto, e che è chiamata
appunto cappella dei Milanesi.
La costruzione va avanti con le colonne: Marco Gradenigo, un altro figlio del doge Pietro, il 20
giugno 1391 lascia 4.000 ducati per la costruzione di un monastero, ma poi,
essendosi ridotta la disponibilità di capitale, vengono dati solo 1.000
ducati per consentire l'avanzamento dei lavori della chiesa. Con questo
lascito vengono costruite alcune colonne. Sono quattro e precisamente la
coppia di colonne su cui poggia il "septo" marmoreo che racchiude il
coro e la terza e la quarta sulla sinistra: sulle mensole e sui capitelli
del muro, in corrispondenza di queste colonne, sono scolpiti gli stemmi di
famiglia.
Altri lasciti, ma solo per ricordarne
alcuni, arrivano attraverso il testamento di Marsilio da Carrara del 17
maggio 1396 ed il doge Tommaso Mocenigo con testamento del 21 ottobre 1415
dispone
che una certa casa fosse venduta ed il ricavato «...dieba esser dispensado
in la fabrica de la gliesia de madona Sancta maria di frari menori de
Veniexia».
E' verso la fine del Trecento che il corpo della nuova chiesa è avanzato
fino a giungere alla facciata di quella esistente che, ricordiamo, era
sempre restata in funzione.
C'è una pausa nei lavori, proprio quando bisogna pensare di demolire la
precedente chiesa del 1250 per completare la nuova.
Nel 1417 il Senato della Repubblica ordina ai frati di contribuire per tre
anni, con 800 ducati da prelevare dai testamenti dei benefattori, al
completamento della chiesa.
Nel 1428 la chiesa vecchia dovrebbe esser stata completamente demolita.
Infatti il 10 ottobre di quell'anno il Maggior Consiglio della Repubblica
permette ai frati di costruire un ponte in pietra «pro meliori commodo
dictae ecclesiae»: il ponte doveva esser costruito dove una volta
c'erano le absidi del 1250, segno questo che nel 1428 queste non c'erano
più.
Nel 1440 forse le donazioni di ricchi benefattori non bastano più, ed i
frati accettano la generosità della Scuola dei Fiorentini in cambio di
consentir loro di costruire una cappella per le loro cerimonie religiose.
La cappella, che forse altro non è che un ricco altare, si trova sulla
sinistra entrando in chiesa, nello spazio attualmente occupato dall'altare
del Crocifisso e dal monumento ad Antonio Canova. I fiorentini ottengono
anche una porzione di cimitero e di poter inserire sulla cornice in
pietra della finestra ad occhio sulla sinistra
della facciata, accanto al leone di San Marco, il Giglio di Firenze:
emblema che è ripetuto in vetro sulla vetrata policroma sopra il proprio
altare.
Da questo possiamo arguire che la chiesa in quest'anno è arrivata alla
facciata, anche se forse non è ancora tutta coperta dal tetto.
Nel 1468 è ultimato dai fratelli Francesco e Marco Cozzi il grandioso coro
ligneo con 124 stalli per i frati che nel 1475 viene racchiuso dal "septo"
marmoreo che scandisce così gli spazi interni della Basilica.
Il 27 maggio 1492 la chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari viene
consacrata da padre Pietro Pollagari da Trani, frate minore conventuale,
vescovo di Telese (Benevento) dal 1487: così recita la lapide posta sul
pilastro che divide la prima dalla seconda cappella del transetto di
destra.
Ammirando la maestosità della chiesa verrebbe da osservare come non sia
stata rispettata la volontà di S. Francesco, che voleva una chiesa
piccola, e ne aveva dettato anche le misure.
Francesco è morto da due secoli e mezzo ed ora, alla metà del
Quattrocento, sono cambiati i gusti e la mentalità. Troviamo un
francescano che scrive «Non voglio adorare e lodare il Signore in un
luogo piccolo ed angusto, ma voglio un luogo che mi parli della grandezza e
della magnificenza di Dio».