In questa pagina, senza alcuna
pretesa di completezza o di approfondimento e senza alcun ordine logico, sono esposti alcuni
particolari, opere, notizie sulla Basilica che non hanno trovato posto
nelle pagine precedenti.
In genere si tratta di rimandi da quelle pagine.
Sugli
stipiti della porta che conduce alla sacrestia, sotto la tomba di
Benedetto Pesaro, sono effigiati S. Girolamo, a sinistra, e S.
Benedetto, a destra. Per questa immagine di S. Benedetto, oltre per
quanto aveva scritto Francesco Sansovino, è nato
l'equivoco che sul
luogo francescano fosse preesistente un'abbazia benedettina: sono
invece semplicemente i santi patronimici di Girolamo Pesaro,
committente del monumento funebre e figlio di Benedetto, il defunto
Capitano da Mar.
Il monumento funebre a Benedetto Pesaro Sulla parete che chiude
il lato destro del transetto vi è la porta attraverso la quale si accede alla
sacrestia della Basilica. La porta è sovrastata, ed allo stesso tempo
conglobata, dalla struttura architettonica del monumento funebre di
Benedetto Pesaro
Benedetto Pesaro era stato Capitano da Mar della flotta della Repubblica
di Venezia ed era morto durante la presa di Corfù nel 1503.
Nel suo testamento aveva chiesto di essere sepolto ai Frari e questo suo
desiderio fu esaudito dal figlio Girolamo che commissionò questo
monumento funebre.
L'opera è attribuita a Lorenzo e Giovambattista Bregno.
Tutta la struttura è stata condizionata dalla presenza della porta di
accesso alla sacrestia che è stata contornata da due coppie di colonne
composite in mezzo alle quali, oltre alle iscrizioni celebrative, entro
due tondi è raffigurato il leone di S. Marco che tiene il Vangelo eccezionalmente
chiuso e non aperto come di consueto.
Le quattro colonne sorreggono il monumento posto tra le statue di Nettuno
e di Marte attribuite (ma l'attribuzione è contestata da John Turner) a
Baccio da Montelupo.
Il
monumento funebre del Capitano da Mar Benedetto Pesaro che
incorpora la porta di accesso alla sacrestia.
Sul sarcofago in marmi policromi sono raffigurate le fortezze di Cefalonia
e Leucade conquistate da Benedetto Pesaro la cui statua naturalistica (gli
occhi del condottiero sono dipinti) è
posta ritta in piedi sopra l'urna: in essa il capitano è presentato
armato mentre impugna lo stendardo.
All'interno del timpano che chiude l'impianto architettonico è collocata
una statua di "Madonna con Bambino".
Sugli stipiti della porta sottostante che conduce alla sacrestia sono
scolpiti due tondi raffiguranti S. Girolamo (a sinistra), il santo
patronimico di Girolamo Pesaro, committente dell'opera e figlio del
Capitano da Mar, e S. Benedetto (a destra) in onore del defunto Benedetto
Pesaro.
L'"imago
pietatis", proveniente dalla seconda chiesa dei Frari, misura
appena cm. 23x36.
L'Imago pietatis
Non ci è rimasta alcuna traccia della seconda chiesa dei Frari, quella i
cui lavori iniziarono nel 1250.
Probabilmente i disegni ed i documenti andarono distrutti a seguito
dell'incendio del convento del 1369.
Appartiene sicuramente alla seconda chiesa questo piccolo bassorilievo
marmoreo che si trova incastonato nel pilastro trecentesco che divide la
seconda dalla terza cappella absidale destra del transetto.
Venne incassato qui probabilmente all'epoca della costruzione della terza
attuale chiesa.
Il bassorilievo, che conserva ancora gran parte del colore con cui era stato
dipinto, misura appena cm. 23x36 e rappresenta il Cristo morto a mezzo busto, con
le costole sporgenti. Su di lui piange un angelo.
Esposta alla devozione dei fedeli, questa piccola immagine costituiva, e
costituisce ancora oggi, un invito a conformarsi al Cristo morto che si era
dato tutto per noi.
Questo piccolo marmo è un ulteriore segno dell'amore salvifico oblativo
offerto dai frati ai veneziani.
Più tardi nel 1487, proprio nella contigua
cappella Bernardo,
nella parte superiore del suo polittico, Bartolomeo Vivarini avrebbe dipinto
un "Cristo morto" che mostra le piaghe.
Ed ancora più tardi nel 1516 il committente dell'Assunta del Tiziano, padre
Germano da Casale, volle che, alla base della cornice in centro, fosse posto
un finto tabernacolo
in pietra raffigurante il "Cristo morto" per
sottolineare il pensiero francescano sull'umanità sofferente e redentrice
di Cristo.
Un'ala
del coro ligneo (quella verso la navata di destra).
Al centro della chiesa è collocato il coro ligneo dei frati che occupa
l'intero spazio dell'ultima campata della navata centrale, di fronte
all'abside ed all'altar maggiore.
Non è comune incontrare un coro in questa collocazione, in quanto con il
Concilio di Trento del 1545-1563 fu deciso di dare centralità all'altare del
sacrificio eucaristico trasportando dietro all'altare i cori.
Spesso i cori furono demoliti, oppure smontati per adattare i pezzi al
nuovo contesto: tra gli esempi che si possono ricordare a Venezia c'è la
chiesa di S. Stefano dove i resti del coro originario sono addossati al
presbiterio.
Ai Frari invece si può ammirare il coro ligneo nella sua collocazione
originaria, che era stata prevista sin dal momento della costruzione della
chiesa, come testimoniano le colonne di forma diversa là dove doveva
essere inserito il coro.
Successivamente alla costruzione del complesso ligneo, nel 1475 il coro
venne racchiuso all'esterno da un "septo" marmoreo, una
cortina in pietra d'Istria con una serie di decorazioni di mani diverse: i
profeti, i dottori della Chiesa, gli apostoli, S. Antonio e S. Francesco,
l'arco della Crocifissione con la Vergine e S. Giovanni, angioletti, il
monogramma di S. Bernardino da Siena.
Se è vero che il coro, completato dal "septo",
costituisce una barriera alla visuale verso l'altar maggiore, è anche
vero che forma un artificio scenografico che incornicia con l'arco della
Crocifissione il punto focale della Basilica, cioè l'Assunta del Tiziano.
Il coro è opera dei vicentini Francesco e Marco Cozzi, autori di altri
lavori nelle chiese veneziane di S. Zaccaria, di S. Zanipolo (SS. Giovanni
e Paolo) e di S. Elena. Luca Pacioli (Arezzo, 1445?-1517?) frate, maestro
e divulgatore delle scienze matematiche, che visse in diversi periodi nel
convento di Frari, ci fa sapere, sbagliando, che al coro lavorarono anche i fratelli
Lorenzo e Cristoforo Canozi di Lendinara: l'errore potrebbe derivare dal
fatto che questi ultimi erano stati gli autori del coro della Basilica
del Santo a Padova.
I due cori infatti vengono costruiti praticamente negli stessi anni: tra il 1462
ed il 1469 quello patavino, ultimato invece nel 1468 quello dei Frari. Ma
la firma gotica (scoperta nel 1827 da Emanuele Cicogna), posta dal solo Marco sulla testata
dell'ala destra del coro (il fratello Francesco era morto durante i
lavori) rivela l'errore in cui cadde Luca Pacioli, giustificata dal fatto
che comunque ai Frari aveva lavorato anche Lorenzo Canozi (il dossale nel
braccio sinistro del transetto). La firma recita: «Marcus q. Iohannis Petri de Vicentia fecit
hoc opus 1468».
La
firma di Marco Cozzi sulla testata dell'ala di destra del coro
ligneo dei Frari.
Un
particolare della disposizione degli stalli del coro ligneo.
Gli stalli dei frati sono disposti su tre ordini: ce ne sono 50
nell'ordine superiore, 40 in quello mediano e 34 in quello inferiore, per
complessivi 124 posti.
Questo dato ci suggerisce che i religiosi residenti nel convento fossero,
all'epoca, circa un centinaio. Ed esattamente cento sono un secolo dopo.
Infatti il 10 luglio 1581 il padre guardiano Domenico Carli dichiara al Visitatore
apostolico Lorenzo Campeggio: «Fratres eiusdem monasterii,
comprehensis Sacrae Theologiae magistris, baccalaureis, aliis fratribus
novitiis, et aliis de familia ipsius conventus centum in totum existere».
Gli stalli consistono in moduli fortemente divisi con ricche decorazioni
di fregi, archetti, nicchie, foglie scolpite dalle forme sovente
ricorrenti nelle chiese cistercensi. Tuttavia abbiamo un certo gusto
veneziano per il colore: la conchiglia finemente intagliata che sovrasta i
dossali è dipinta con striature azzurre e dorate; sopra pinnacoli e
gugliette e la figurina dorata di un angelo.
Anche la superficie sotto i sedili, quella parte che poteva essere
ribaltata, è intarsiata.
Dobbiamo immaginare che l'ordine superiore degli stalli termini con
l'angioletto dorato: infatti tutta la balaustra superiore (cantoria) è
stata aggiunta nel Settecento, quando furono costruiti i due organi ancora
oggi perfettamente funzionanti, quello di Giovanni Battista Piaggia a
sinistra (1732) e quello dell'estense Gaetano Callido a destra (1795-96).
I cinquanta stalli dell'ordine superiore hanno dei riquadri intagliati in
duplice ordine nella parte alta dello schienale: quelli in alto presentano
delle figure ad intaglio gotico in rilievo, non tutte di facile
individuazione; quelle sotto sono degli intarsi rappresentanti edifici,
campi, calli, pozzi con scorcio prospettico.
L'ultima figura rappresentata nell'ala sinistra del coro raffigurerebbe lo
stesso autore Marco Cozzi.
Nonostante l'individuazione difficile ed a volte non certa delle quaranta
figure, padre Antonio Sartori ce ne ha fornito un elenco.
Ala di destra a partire dall'arco d'ingresso: Cristo sofferente, S.
Francesco d'Assisi, S. Antonio, S. Zaccaria, S. Girolamo, S. Stefano papa,
S. Pietro, S. Andrea, S. Tommaso apostolo, S. Matteo, S. Luigi IX, S.
Chiara d'Assisi, S. Bonaventura, S. Lorenzo, S. Elena, S. Nicola di Bari,
S. Anna, S. Benedetto, S. Simone Stock, S. Bernardo abate, S. Agnese, S.
Pantaleone, S. Maria Maddalena.
Ala di sinistra a partire dall'arco d'ingresso: il Redentore, la Beata
Vergine, S. Lodovico d'Angiò vescovo di Tolosa, S. Giovanni Battista, S.
Bernardino da Siena, S. Gregorio Magno, S. Paolo, Beato Gentile da
Matelica, S. Domenico, S. Luca, S. Giovanni evangelista, S. Caterina
d'Alessandria, Beata Angela da Foligno, S. Barbara, S. Marco, S. Michele
Arcangelo, S. Agostino, S. Margherita da Cortona, S. Elisabetta di
Turingia, S. Giacomo Maggiore, S. Margherita, S. Ambrogio, S. Cristoforo,
S. Lucia e Marco Cozzi di Vicenza, autore del coro.
La
sacrestia: nel 1478 i frati concessero alla famiglia Pesaro di
modificarla ricavandoci una cappella funebre per accogliere
Franceschina Tron prima e poi il marito Pietro Pesaro. Per questa
cappella Giovanni Bellini dipinse la pala d'altare (visibile sul
fondo).
La
sacrestia è una delle parti più antiche dei Frari (la più antica
sarebbe la sala del Capitolo) costruita quando ancora esisteva
la seconda chiesa e veniva costruita la terza.
In origine si trattava di una sala rettangolare larga metri 8,80 e
profonda quanto il transetto con le absidi, cioè circa 21 metri.
Mentre la terza chiesa era ancora in costruzione, nel 1478 la famiglia
Pesaro da S. Beneto (S. Benedetto) chiede di usare parte della sacrestia
come cappella funebre per la propria madre (e sposa, perché sono
rispettivamente i figli ed il marito Pietro a chiederlo) Franceschina Tron.
I frati accolgono la richiesta e la sacrestia rettangolare viene
modificata con l'aggiunta di un'abside pentagonale che le fa raggiungere
gli attuali 31 metri di lunghezza che accoglie la tomba di Franceschina e,
più tardi, anche quella del marito Pietro Pesaro.
I Pesaro chiederanno a Giovanni Bellini di dipingere la pala d'altare che
si può ammirare ancora oggi.
All'epoca la sacrestia era arredata con banchi e panche in legno che
furono attribuite a Pierantonio dell'Abate, continuatore della scuola dei
Canozi: dovevano essere dei manufatti in legno veramente pregevoli,
probabilmente presi a modello per la sacrestia della Basilica di S.
Antonio a Padova, se nel 1497 dopo una visita alla chiesa dei Frari il
cavaliere Arnold von Harff (1471-1505), pellegrino e viaggiatore negli
anni 1496-99, raggiunta Venezia per imbarcarsi alla volta di Alessandria
d'Egitto, sentì la necessità di scrivere: «La sagrestia contiene
degli stalli corali di legno intagliato, i più mirabili che si possa
vedere».
Oggi, oltre alla
Madonna con il Bambino di Giovanni Bellini, nella sacrestia si
possono ammirare altri capolavori. Tra le opere pittoriche (dall'ingresso
cominciando dal lato sinistro) una Deposizione di Nicolò Frangipane,
allievo del Tiziano, Salomone e la Regina di Saba ed una Adorazione dei
Magi, entrambe della scuola di Bonifacio de' Pitati, sulla parete sinistra
dell'abside Susanna tra i vecchioni della scuola del Piazzetta e Agar nel
deserto di Giambattista Pittoni.
Proseguendo dopo la Madonna del Bellini, sempre nell'abside a destra,
un'altra Adorazione dei Magi attribuita a Sebastiano Ricci e quindi, sulla
parete di destra della sacrestia, una tavola di fine '400, probabilmente
un paliotto d'altare, rappresentante la Vergine Misericordiosa che
protegge i fedeli sotto il suo manto con attorno S. Marco e S. Francesco,
opera di anonimo pittore veneto di ambito del Carpaccio. Quindi lo
Sposalizio mistico di S. Caterina d'Alessandria probabilmente di Francesco
di Simone da Santacroce (o del Polidoro di Paolo de' Renzi, detto Polidoro
veneziano) e un ritratto di S. Filippo Neri dall'attribuzione incerta (chi
propende per Giuseppe Nogari, chi per Giovanni Antonio Fumiani).
A molti può sfuggire un'altra opera pittorica presente nella sacrestia:
una delicata Annunciazione affrescata sull'arco che conduce al presbiterio
dipinta da Jacopo Parisati da Montagnana.
L'apparato
barocco dell'altare delle reliquie: la più preziosa che custodisce è
quella del Sangue di Cristo che sarebbe stato raccolto da Maria
Maddalena. In un vaso di cristallo in un po' di balsamo sono frammiste
alcune gocce di sangue; venerato a S. Cristina di Costantinopoli, nel
1479 ne entrò in possesso il generale delle flotte veneziane
Melchiorre Trevisan.
Oltre alle opere pittoriche sono da segnalare almeno il tabernacolo
reliquiario (visibile a sinistra, osservando la porta d'ingresso) per
lungo tempo attribuito a Pietro Lombardo, ma probabilmente opera del
Bellano: in esso era custodita la reliquia del Preziosissimo Sangue.
Consiste in un'ampolla di cristallo contenente del balsamo con frammiste
alcune gocce del sangue di Cristo cha sarebbero state raccolte da Maria
Maddalena.
La reliquia si trovava a S. Cristina di Costantinopoli dove era molto
venerata; nel 1479 ne era venuto in possesso il generale delle flotte
veneziane Melchiorre Trevisan che al suo ritorno la donò ai Frari il 19
marzo 1480. Il tabernacolo reliquiario in origine era collocato nella
cappella di S. Michele. La reliquia oggi è conservata nell'altare delle
reliquie.
Altra opera inusuale è l'orologio (sulla parte opposta della porta)
intagliato da Francesco Pianta il giovane nella seconda metà del XVII
secolo in un unico pezzo di legno di ciliegio: le due antine sono foderate
da una pergamena che descrive il significato degli intagli: il trascorrere
del tempo, delle stagioni, della vita. Osservatelo bene e cercate di
capire in che modo indicava le ore.
Da notare sono anche i banconi cinquecenteschi e seicenteschi e,
seppure rimaneggiato, il lavabo a destra dell'abside.
L'opera che maggiormente attira l'attenzione, anche perché posta di
fronte alla porta d'ingresso, è l'altare delle reliquie. Originariamente
commissionato per contenere il tabernacolo reliquario marmoreo che poi
venne spostato accanto alla porta dove lo vediamo oggi, fu completato nel
1711 con i bassorilievi in marmo di Francesco Penso detto Cabianca e con
le statue in legno dorato dell'intagliatore bellunese Andrea Brustolon.
All'interno sono conservati numerosi reliquiari, veri gioielli d'oreficeria,
tra i quali il reliquiario di Evangelista di Zara (1485), una croce di
arte veneziana (1470) ed il reliquario boemo a forma di tempietto gotico
con la raffigurazione di dodici santi in smalti policromi (XV secolo con
aggiunte del XVI e XVII secolo).
La
sala del Capitolo: a sinistra il sepolcro del doge Francesco Dandolo
ed a destra le finestre e la porta che immettono al chiostro esterno
(o della Trinità). Sullo sfondo, in vetrinette, sono oggi conservati
alcuni preziosi reliquiari, oggetti liturgici e paramenti sacri.
Inoltre un antico ingranaggio del campanile.
La
tomba del doge Francesco Dandolo. Sull'urna è
rappresentata la "dormitio virginis". Sopra l'arca
sepolcrale c'è la lunetta dipinta da Paolo Veneziano con S. Francesco
e S. Elisabetta d'Ungheria che presentano alla Madonna con il
Bambino rispettivamente il doge Dandolo e la dogaressa.
In
una vecchia foto, l'urna del doge quando era ospitata nel cortile del
Seminario.
La sala del capitolo è il locale destinato alle riunioni comunitarie dei
frati.
L'attuale sala del Capitolo è cronologicamente la terza tra quelle che si
sono succedute nel convento dei Frari.
La prima, la più antica, doveva far parte della prima abitazione dei frati,
molto modesta in muratura e legno, ad un solo piano, che ospitava il
dormitorio e gli ambienti comunitari.
Che tra questi ambienti vi fosse anche una sala del Capitolo è
espressamente scritto in un documento dell'8 giugno 1232.
Poi con i lavori di costruzione della
nuova chiesa nel 1250 si dovette
pensare, anche per l'accresciuto numero di frati, ad un convento più
grande.
A questi lavori fa riferimento un testamento del 13 marzo 1271 con
il quale Giovanni Sanador che destina una somma ai frati perché la loro
casa era "troppo stretta": «...pro fratribus minoribus de sancta
maria ut possint adampliare locum suum cum nimis sit strictus locus ipsorum
fratrum, pro anima mea, et omnium mortuorum meorum.»
Questo convento, esistente tra il 1250 ed il 1330, aveva una sala del
Capitolo nuova, nominata espressamente in un documento del 23 marzo 1308.
Quella esistente oggi, che misura m. 17,80x10,60, potremmo chiamarla sala del Capitolo nuovissima: della
sua esistenza più antica possediamo una testimonianza indiretta:
l'urna
sepolcrale del doge Francesco Dandolo che volle essere seppellito in questa
sala; il doge morì nel 1339. Nel 1346 vi si tenne il Capitolo generale
dell'Ordine con i Ministri provinciali ed i delegati di tutta Europa.
La sala del Capitolo, facendo parte del convento dei Frari, seguirà le
vicende di quest'ultimo. Con la capitolazione della Repubblica di
Venezia, entrate le truppe francesi in città il 16 maggio 1797, gli ambienti
del convento furono occupati dai soldati che vi si accamparono.
Durante la seconda occupazione francese, il 4 aprile 1806 tutto il
complesso dei Frari, dalla chiesa al convento,
dagli arredi alla biblioteca, furono incamerati dal Demanio. Successivamente
tutti gli ambienti del convento vennero destinati ad "Archivio generale
Veneto", oggi "Archivio di Stato".
La sala del Capitolo di conseguenza venne abbandonata: la tomba del doge
Giovanni Gradenigo (morto nel 1356) venne distrutta e le spoglie gettate
alla rinfusa nell'isola ossario di S. Ariano, oltre Torcello, assieme alle
ossa provenienti da altre chiese soppresse.
L'urna del doge Francesco
Dandolo si salvò ed andò a finire al Museo del Seminario mentre la lunetta
di Paolo Veneziano venne portata nella sacrestia della chiesa della Madonna
della Salute.
La stessa sala del Capitolo subì diverse trasformazioni che la resero
irriconoscibile: venne destinata dal Demanio ad uso della fabbriceria della
chiesa in comunicazione con la sacrestia, venne divisa in tre locali e
tagliata a metà da un solaio in legno per ricavare altri spazi per
l'Archivio di Stato che destinò a sala dei Testamenti.
Nel Novecento la sala del Capitolo ha subito importanti interventi di
restauro che ne hanno messo in rilievo l'eleganza gotica del soffitto sostenuto
dalle colonne e la finestratura di trifore che si affaccia sul chiostro
esterno (o della Trinità).
Qui è finalmente tornata al suo posto originario la tomba del doge Dandolo
con la lunetta di Paolo Veneziano: quest'ultima, dopo essere tornata dalla
sacrestia della chiesa della Madonna della Salute, per un periodo fu
ospitata anche nella sacrestia dei Frari, prima di ritornare ad unirsi al
monumento per il quale era stata concepita e dipinta.
Il
Crocifisso duecentesco, all'inizio delle indagini prima del restauro,
come era ridotto dalla ridipintura ottocentesca (foto
Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia).
All'inizio del Novecento sopra la porta della cappella Emiliani (o cappella
di S. Pietro, aggiunta nel 1432-34 sulla sinistra della Basilica, a ridosso
del campanile e non facente parte del corpo della chiesa) esisteva una
grande croce in legno alta m. 3,27, larga m. 2,36, con uno spessore di 7,7
centimetri.
La croce recava dipinto un Cristo che alcuni avevano attribuito addirittura
al pennello di Tiziano: «...rimane qui ancora del Vecellio (...) il
Crocifisso, dipinto sulla gran croce, che pende in alto...» ("Venezia
e le sue lagune", Venezia, Antonelli, 1847).
Negli anni Settanta cominciarono ad essere espressi dei dubbi sulla
paternità del dipinto ed alla fine di quegli anni, terminato il restauro
della sala del Capitolo, vi venne collocato il
Crocifisso per permetterne una migliore visione.
Si osservò che era costruito con due tavole di legno di cipresso incastrate
a croce latina e presentava una serie di mutilazioni: in alto, alla base,
alle estremità delle due braccia ed anche ai due lati erano stati tagliati
dei pezzi. Insomma, nel passato tutta la forma della croce era stata
modificata.
Anche la realizzazione del Cristo risultò molto più tarda: secondo i
restauratori Luigi Savio e Patrizia Tempesta era ottocentesca ed è
probabile che l'intervento sia stato maldestramente eseguito dopo la
soppressione degli Ordini religiosi del 1810.
Non fu possibile scrutare con le radiografie se si celava qualcosa sotto la
crosta di pittura, in quanto la biacca era un carbonato basico di piombo che
non permetteva ai raggi X di penetrare.
Il
Crocifisso dei Frari come si presenta dopo l'asportazione della pittura
ottocentesca ed il restauro.
Sul retro della croce venne rilevato uno strato di tempera di minio ed anche
un frammento di pittura riproducente un personaggio, forse S. Marco, il che
autorizzava a pensare che fossero presenti prima delle mutilazioni tutti e
quattro gli evangelisti.
In occasione del quinto centenario della consacrazione della Basilica il
parroco, padre Annibale Marini, volle ricordare l'anniversario disponendo un
completo restauro del Crocifisso autorizzato dalla Soprintendenza ai Beni
Artistici e Storici di Venezia sotto la direzione della dottoressa Adriana
Ruggeri-Augusti.
Il restauro, che iniziò nel gennaio 1992, venne condotto dai restauratori
Luigi Savio e Patrizia Tempesta.
Dapprima vennero operati piccoli saggi per verificare l'esistenza di un
precedente strato sotto la biacca ottocentesca e quindi si procedette alla
pulitura di tutto il pezzo.
Alla fine dell'opera di restauro emerse il Crocifisso che vediamo oggi nel
presbiterio a fianco dell'altare.
Si tratta di un'opera duecentesca riconducibile ad una Scuola umbra che
rappresenta un uomo ormai entrato nella morte dopo atroci dolori; il corpo
dissanguato, di colore verdastro, è ricoperto solo da un perizoma azzurro
ed è mutilato a seguito della riduzione della croce per adattarla alla
successiva dipintura ottocentesca.
La tecnica con cui è stato realizzato il dipinto è "povera": sul
legno preparato con colla e gesso sono stati applicati direttamente i colori
del legno della croce ed i contorni della figura che risultano privi di
legante che possa far presa sui colori; su uno strato di
"verdaccio" (miscuglio di nero, ocra, cinabro e bianco Sangiovanni)
ha proceduto con i mezzi toni ed i colpi di luce con ocra e biacca. Per
l'azione del tempo i colori sono diventati trasparenti accentuando il verde
del corpo di Cristo ed enfatizzando la drammaticità del corpo esangue.
La foglia d'oro è stata usata solo per l'aureola e per
la scritta che corre sulle due braccia della croce: a sinistra «IN CRUCE
MONSTRAVIT QUANTUM TE GRATIS AMAVIT» (nella croce mostrò quanto ti
amò gratuitamente) ed a destra «PRO MUNDI VITA, SUAM CRUCIFIXIT ITA»
(per la vita del mondo crocifisse in questo modo la sua).
Il legno della croce è dipinto con tre diversi toni di marrone:
"terra di Siena bruciata", "terra d'ombra" e "terra
d'ombra bruciata". Si tratta di un riferimento alla tradizione che
vuole la croce di Cristo composta da tre differenti tipi di legno, il legno
di cedro, di cipresso e di pino, ed alle diverse storie e leggende che la
mettono in relazione con l'Adamo della prima Creazione, quando Gesù è
invece l'uomo nuovo (il "novello Adamo"), l'uomo della seconda
Creazione.
Il restauro ha portato alla luce anche un particolare curioso: tracce di
chiodi infissi, soprattutto nella parte inferiore, usati dai fedeli per
appendervi "ex voto", preghiere ed invocazioni, oltre a
tracce di colamenti di cera delle candele votive.
Il crocifisso duecentesco dei Frari dunque non venne realizzato a Venezia ma
in una qualche Scuola di area umbra. Si può ipotizzare che giunse a Venezia
via mare partendo forse dal porto di Ancona.
Dobbiamo ricordarci che in origine la croce era ben più grande di come la
vediamo oggi, comprendendo anche i tabelloni in alto ed ai lati e la base.
Non possiamo pensare che fosse stata commissionata per la prima chiesetta di
S. Maria, modesta e di piccole dimensioni.
Piuttosto questo Crocifisso poteva stare nella
seconda chiesa
iniziata nel 1250 e lunga una cinquantina di metri. Forse era stato
commissionato per la consacrazione dell'altar maggiore e in questo caso
potremmo datarlo attorno al 1260-65.
Particolare
del volto di Cristo in croce.
Continuando con le ipotesi, possiamo sicuramente immaginare questo crocifisso
appeso sopra l'altar maggiore della seconda chiesa come si usava nelle
chiese francescane per una precisa ragione teologica. L'altare era il luogo
dell'eucaristia, del sacrificio di Gesù attraverso il quale Egli raduna
l'umanità alla mensa del Padre: «Quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me» (Giovanni 12, 32).
Sopra l'altare maggiore dovette restare fino a circa il 1428, cioè fino a
quando restò in funzione la seconda chiesa.
Nella terza chiesa
venne a mancare un posto centrale per il Crocifisso. Anche per la
"dèesis"
che corona l'arco al centro del "septo"
marmoreo venne collocato un Crocifisso nuovo.
Così il vecchio Crocifisso francescano trovò posto nella seconda cappella
della navata destra, dove oggi c'è il monumento
funebre a Tiziano che venne chiamata cappella del Crocifisso.
Il Crocifisso venne ritenuto miracoloso e tanto importante da meritare un
frate che avesse il compito di accdirlo particolarmente. Ad esempio il 3
gennaio 1489 il Ministro generale dell'Ordine Francesco Sansone confermò al
Procuratore della fabbrica signor Girolamo Dolfin il compito di incaricare
un frate di occuparsi della cappella del Crocifisso: «Domino Ieronimo
Delfino confirmantur omnea concessiones et quod possit (...) tenere fratrem
in capella Crucifixit».
L'afflusso dei fedeli doveva essere notevole se, morto il sig. Dolfin, il 7
luglio 1493 venne nominato un nuovo Procuratore, il signor Zannotto Querini,
Patrizio veneto, con il potere di scegliere o rimuovere un frate come
altarista della cappella del Crocifisso mentre le offerte, che evidentemente
dovevano essere considerevoli, dovevano essere amministrate dal padre
Guardiano con gli altri padri del Capitolo conventuale: «Conceduntur
magnifico domino Zannotto Quirino patritio veneto omnes et singule
concessiones, institutiones et gratie que concesse fuerant domino Hieronimo
Delphino (...) et quod habeat auctoritatem super devotionem
Crucifixi,
ponendi et removendi unum ex illis fratribus ibidem astantibus, et
elemosinis exponantur in conventu prout sibi et aliis procuratoribus et
guardiano melius videbitur opportunum, et quod pluries in anno vel ad annum
semel reddantur rationes patribus conventus et reverendo ministro, si
commode haberi potest.»
Nel 1579 nella cappella del Crocifisso, su di un altare di legno, cominciò
a tenere le proprie funzioni la "Scuola della Passione", davanti
al Cristo miracolosa. E fu qui che lo vide Francesco Sansovino due anni
dopo, nel 1581, dove «...si honora (...) il Christo miracoloso a mezza
chiesa».
Poi attorno al 1672 un nuovo trasferimento: padre Agostino Maffei aveva
commissionato un nuovo altare del Crocifisso, disegnato da Baldassare
Longhena e realizzato da Giusto Le Court: l'architettura barocca aveva preso
il sopravvento sul Crocifisso duecentesco che così venne trasferito. Anche
l'altare barocco verrà più tardi sfrattato per lasciare posto al monumento
funebre a Tiziano ed oggi è la prima cappella dell'abside di sinistra, dove
prima c'era la cappella dei Fiorentini (se alzate lo sguardo vedrete sulla
vetrata della finestra un giglio di Firenze e, analogamente, se uscite ad
osservare dal di fuori la finestra circolare di sinistra della facciata
della Basilica, posta in corrispondenza di questa cappella, noterete sulla
cornice rotonda ripetuto più volte il giglio di Firenze, assieme al leone
di S. Marco).
Dove sia stato collocato subito dopo il 1672 il nostro Crocifisso
duecentesco, non si sa. Abbiamo però notizia certa che nel 1825 si trovava
sopra la porta laterale del braccio sinistro del transetto, quasi certamente
già mutilato e ridipinto. Quindi, forse durante i lavori di restauro
svoltisi tra il 1902 ed il 1915, venne collocato, come dicevamo all'inizio,
sopra la porta della cappella Emiliani (o cappella di S. Pietro).
Attualmente è collocato a sinistra dell'altar maggiore (in precedenza, dopo
il restauro, era stato collocato a destra del presbiterio).
L'iscrizione
sul pavimento che segnala la presenza della sepoltura di Tiziano: «Gui
Giace il Gran Tiziano de' Vecelli Emulator de' Zeusi e degli Apelli».
Durante
i lavori per la costruzione del monumento dedicato a Tiziano, furono
cercate in quel luogo le ossa, o quanto restava, del corpo del grande
pittore. Non essendo stato trovato nulla, accanto all'antica
iscrizione che ne segnalava la presenza, sul pavimento venne collocata
nel 1852 quest'altra iscrizione, che spiegava: «Lapide antica qui
ritrovata e qui ricollocata benché senza traccia della mortale
spoglia del pittore MDCCCLII».
Il monumento funebre a Tiziano
fatto erigere per volontà dell'imperatore d'Austria Ferdinando I. La
committenza austriaca è sottolineata da vari particolari. Osserviamo
prima di tutto la dedica posta alla base entro una ghirlanda sostenuta
da due angeli: «TITIANUS / FERDINANDUS I / MDCCCLII»; inoltre il
leone di S. Marco sulla sommità del monumento non reca tra le zampe
il Vangelo, bensì uno scudo con l'aquila bicipite, stemma degli
Asburgo. Tiziano è raffigurato con le insegne di Cavaliere dello
Sperone d'Oro che Carlo V gli aveva conferito assieme al titolo di
Conte Palatino, un onore mai concesso ad un pittore: ricorda i legami
che l'Austria ha sempre avuto con Venezia e la particolare ammirazione
che nutriva nei confronti delle arti veneziane.
Il mistero della tomba di Tiziano
E' noto che Tiziano aveva molto amato questa chiesa dei Frari, a tal punto
che aveva chiesto di esservi sepolto, presso la
cappella del Crocifisso. Non
solo, stava anche dipingendo per la sua tomba un'intensa e struggente
Pietà, nella quale si era autoritratto, che non riuscì a terminare perché
sorpreso dalla morte il 27 agosto 1576 e che ora si conserva presso le
Gallerie dell'Accademia a Venezia.
Il quadro (m. 3,52x3,49), nel quale Tiziano raggiunge delle alchimie
cromatiche spinte al limite delle possibilità espressive, venne completato
dall'intervento di Palma il Giovane che si limitò a rifinire l'angelo
reggicero ed a ripassare il timpano della poderosa edicola di pietra. Una
iscrizione dipinta in basso al centro ricorda questo intervento: «QUOD
TITIANUS INCHOATUM RELIQUIT / PALMA REVERENTER ABSOLUIT... / DEOQ. DICAVIT
OPUS».
Comunemente viene detto che Tiziano morì di peste e per questo motivo il
suo corpo ebbe sepoltura in una fossa comune assieme agli altri appestati: questo non è vero.
Sarebbe piuttosto da dire che Tiziano morì sì durante una pestilenza, ma
semplicemente di vecchiaia.
Nel "Registro dei Defunti" della parrocchia di S. Canciano
(anni 1574-1665, pagina 125) è registrato l'atto di morte: «Messier
Titiano pitor è morto de anni cento e tre amalato de febre». Con
calligrafia diversa a fianco è scritto «licenziato».
Questa parola indica l'autorizzazione (la "licenza") che i
Magistrati alla Sanità dovevano rilasciare perché il corpo potesse avere
un normale funerale nella propria chiesa che ai quei tempi, normalmente,
aveva un proprio cimitero.
A riprova di questo, nella stessa pagina ove è registrato l'atto di morte
di Tiziano, ci sono altri certificati che hanno a fianco una differente
annotazione che indica che la morte è avvenuta presso case
"sequestrate", cioè case isolate a causa della peste, ed in
questo caso il cadavere non poteva essere tumulato in chiesa, ma seppellito
con tutti gli accorgimenti in fosse comuni cosparso di calce.
Quindi Tiziano non morì di peste.
C'è un'altra leggenda: quella secondo cui assieme a Tiziano sarebbe morto
di peste anche il figlio Orazio. Ma il "Registro dei Defunti"
della parrocchia di S. Canciano, sotto la quale abitavano, non nomina il
figlio del pittore.
I parenti presenti avrebbero dettato al parroco l'età di Tiziano: «...de
anni cento e tre...». A tal proposito bisogna ricordare che Tiziano,
ancora in vita, amava circondarsi quasi di una leggenda di longevità
tenendo nascosta la sua vera età. Probabilmente Tiziano nacque nel 1490, e
comunque non prima del 1488; quindi morì attorno agli 88-90 anni (il
contemporaneo Lodovico Dolce in "Dialogo della pittura intitolato
L'Aretino... nel fine si fa mentione delle virtù e delle opere del divin
Titiano", Venezia,
1557 scriveva che quando Tiziano affrescava il fondaco dei Tedeschi nel 1508
aveva «a pena venti anni»).
Ma Tiziano fu sepolto ai Frari, come aveva chiesto?
A soli cinque anni dalla sua morte, Francesco Sansovino ci dice di sì:
citando la seconda cappella di destra, la cappella del Crocifisso, scrive
che «...vi si honora (...) il Christo miracoloso a mezza chiesa, a'
cui piedi è sepolto quel Titiano, che fu celebre nella pittura, fra tutti
gli altri del tempo nostro».
Esiste anche una dichiarazione del 27 giugno 1585 (quindi posteriore di
quattro anni rispetto a quello che aveva scritto il Sansovino) del parroco
di S. Canciano indirizzata agli "Avogadori de Comun" ed a
qualsiasi altro magistrato competente con la quale attesta che Tiziano
abitava nella sua contrada «in biri grando» (campo dei Birri) e che
fu sepolto presso i frati minori: «1585, 27 giugno. Alli Chiaris.
(Chiarissimi) sig. Avvog. (Avogadori) et a qualunque Magist.
(Magistrato) Faccio fede io pre' Domenego Thomasini piovan della giesa di
S. Cancian qualmente nel 1576, 27 agosto, morse il mag. m. (messer) Tizian
Vecelio pitor, qual stava in biri grando nella mia contrada, come apar per
nota B. livro appresso di me, e fu sepolti ali fra minori. In q. fidem. Di
giesa ali 27 zugnio 585. Idem presbiter ut supra scripsi et sigillavi.»
Nel 1792 viene pubblicata a Venezia una guida alla città: "Il Forestiero
Illuminato intorno le cose più rare e curiose, antiche e moderne della
Città di Venezia e dell'isole circonvicine". La guida segnala che
sul pavimento della cappella del Crocifisso c'è questa iscrizione: «Qui
Giace il Gran Tiziano de' Vecelli / Emulator de' Zeusi e degli Apelli».
Intanto, attorno a quegli anni, molti pensano di innalzare a Tiziano un
monumento. Viene incaricato Antonio Canova, che prepara pure il progetto.
Tuttavia per mancanza di fondi e per la caduta della Repubblica di Venezia
il progetto del Canova non viene realizzato.
Curioso è il destino di quel progetto, per il quale Canova realizzò anche
un modello, oggi esposto nelle sale del Museo Correr a Venezia: non
realizzato per Tiziano, viene proposto con degli adattamenti per il
monumento a Maria Cristina d'Austria nella chiesa degli Agostiniani a
Vienna.
Non solo: questo modello servirà nel 1827 per erigere ai Frari il monumento
allo stesso Canova (morto nel 1822), che si trova nella navata di sinistra,
proprio di fronte a quello che verrà eretto a Tiziano.
L'idea di un monumento in onore di Tiziano ai Frari non venne accantonata e
nel 1838, in occasione della visita a Venezia dell'imperatore d'Austria
Ferdinando I, l'idea venne ripresa: l'imperatore ammirava molto l'opera di
Tiziano, che aveva lavorato per i suoi antenati, venendo nominato da Carlo
V, tra l'altro, pittore di corte.
Venne indetto un concorso a seguito del quale venne scelto il progetto di
Luigi Zandomeneghi: il monumento che vediamo oggi, al posto della vecchia
cappella del Crocifisso, venne realizzato tra il 1843 ed il 1852 e si deve a
lui ed a suo figlio Pietro.
Durante il lavori per la realizzazione dell'opera, furono eseguiti degli
scavi per ricercare i resti del pittore nel sottosuolo della cappella, ma
non si trovò nulla.
D'altra parte bisogna ricordare che già nel 1672, quasi un secolo dopo la
morte del Tiziano, quel sottosuolo era stato scavato e manomesso per erigere
l'altare barocco del Crocifisso di Giusto Le Court; quindi non c'è nulla di
cui meravigliarsi se, per incuria od ignoranza, quelle ossa possano essere
andate disperse già da allora.
Alla conclusione dei lavori per il monumento a Tiziano, accanto all'antica
iscrizione che segnalava la presenza della sepoltura di Tiziano «...Emulator
de' Zeusi e degli Apelli», ne venne collocata nel 1852 un'altra: «Lapide
antica / qui ritrovata e qui ricollocata / benché senza traccia / della mortale
spoglia del pittore / MDCCCLII».
Le
casette ottocentesche dietro le absidi dei Frari (Archivio
Fotografico della Basilica dei Frari).
Le
absidi dopo la demolizioni delle casette, circa 1905
(Archivio Fotografico della Basilica dei Frari).
Le "casette" di S. Rocco
Passando per campo S. Rocco si può ammirare l'imponente struttura delle
nove absidi che "chiudono" il complesso della Basilica dei Frari.
Una volta, fino al 1808, sotto quelle absidi si stendeva parte del
cimitero dei Frari, poi abolito a seguito del decreto napoleonico del 7
dicembre 1807 (Bollettino delle Leggi, Parte III, 1188) che istituiva un «cimitero
generale» nel quale dovevano essere sepolti tutti i morti che in
precedenza venivano inumati nelle chiese.
Pochi forse sono a conoscenza che in quel terreno reso libero, attorno al
1826, il Demanio fece costruire alcune modeste casette a ridosso di tre
absidi e della sacrestia.
Le
casupole a ridosso delle absidi della Basilica dei Frari viste
da campo S. Rocco in una stampa del 1856 di Moro-Brizeghel
(particolare).
Si trattava di un vero e proprio sgorbio architettonico giustificato dal
fatto che l'Archivio di Stato aveva bisogno di nuovi spazi ed aveva
sfrattato il parroco dell'epoca, don Pietro Pernion, ed i fabbriceri per poter occupare altri
locali ed in cambio aveva realizzato per loro queste casupole.
Fortunatamente vennero demolite negli anni 1901-02.
Gli affreschi nascosti della cappella dei Milanesi
I
lavori di restauro degli anni 1902-12 diretti dall'ing. Scolari che,
in quell'occasione, riferì di aver visto delle pitture nella soffitta
del tetto della chiesa (Archivio
Fotografico della Basilica dei Frari).
Nel 1990, durante dei lavori generali di restauro della Basilica dei Frari,
approfittando dei ponteggi allestiti per il ripasso e la sistemazione del
tetto, fu possibile andare alla ricerca dei dipinti che l'ing. Scolari aveva
detto di aver visto in occasione dei lavori di restauro diretti da lui ai
Frari all'inizio del Novecento.
Vennero così alla luce queste pitture, rimaste nascoste ai più per circa
cinque secoli e mezzo.
Si tratta di quello che resta della decorazione absidale esterna della
chiesa.
La scuola dei Milanesi aveva fatto delle importanti donazioni ai frati per
l'edificazione della terza chiesa
, soprattutto per le absidi che erano in parte crollate durante la
costruzione.
Avevano quindi costruito questa cappella absidale (la prima a sinistra del
transetto) che era stata concessa per le loro celebrazioni il 1°
agosto 1361.
Per rivendicare la propria potestà sulla cappella, avevano fatto dipingere
all'esterno questi affreschi, come fecero anche i Fiorentini che all'esterno
della loro cappella avevano fatto collocare dei
gigli di Firenze.
Gli affreschi sono da collocarsi molto vicini a questa data (1361) dal
momento che la costruzione della terza chiesa era cominciata attorno al 1330
proprio dalle absidi. A quell'epoca prima di smantellare i ponteggi per
continuare la costruzione, quello che era stato costruito era completo fino
ai minimi dettagli, rifiniture comprese.
La decorazione era stata eseguita tra gli archetti di mattoni costruiti in
alto, subito sotto il filo di gronda del tetto.
Tuttavia restarono visibili solo per circa cinquant'anni, fino a quando non
venne aggiunta la cappella Corner, iniziata nel 1417 e terminata nel 1420, e
la connessione fra i due tetti, della cappella Corner e dei Milanesi, non
nascose la decorazione all'interno del sottotetto.
Come
doveva apparire la parte absidale della Basilica prima della
costruzione della cappella Corner (aggiunta successivamente come è
stato fatto in questo fotomontaggio). Per accedere al sottotetto da
dove sono visibili gli affreschi bisogna scendere dal tetto della
Basilica a quello delle cappelle absidali e penetrarvi per un abbaino.
Questi
affreschi furono dipinti su quello che era il muro esterno della
chiesa, immediatamente sotto il filo di gronda del tetto. Furono
visibili all'esterno per circa mezzo secolo, fino a quando venne
costruita, addossandola al corpo della chiesa, la cappella Corner: da
allora restano imprigionati e nascosti nel sottotetto della cappella.
Sulla
lunetta di sinistra, parzialmente ricoperto da un pilastro aggiunto
per l'edificazione della cappella Corner, è raffigurato Giovanni
Battista, in quella di destra S. Ambrogio: sono due santi protettori
della Scuola dei Milanesi, la cui cappella è dietro quel muro.
Sotto
l'archetto centrale, tra i due santi, una Madonna con il Bambino
benedicente: le lettere greche le attribuiscono il titolo di
"Madre di Dio".
La conservazione di quello che è restato è molto buona, essendo restati
nascosti e protetti praticamente subito, dopo poco più di cinquant'anni la
loro realizzazione.
Sotto una fascia continua con un motivo geometrico sono rappresentati due
santi protettori la scuola dei Milanesi, presenti anche nel gonfalone della
scuola, e la Madonna con il Bambino.
A sinistra troviamo Giovanni Battista, purtroppo visibile solo parzialmente:
infatti dovendo innalzare un pilastro di sostegno del tetto per la cappella
Corner che stava sorgendo al di sotto, i costruttori non guardarono troppo
per il sottile e lo addossarono all'affresco.
Giovanni Battista regge un cartiglio con una citazione del Vangelo di
Giovanni (1, 29) ancora leggibile: «ECCE AGNUS DEI ECCE QUI TOLLIT
PECCATA».
Manca la parte inferiore del cartiglio con il resto della
citazione.
Sotto l'archetto centrale troviamo una Madonna designata, secondo la
tradizione bizantina, con delle lettere greche «Madre di Dio».
La Madonna regge il Bambino che benedice l'osservatore con entrambe le mani.
Sotto il terzo archetto, quello di destra, c'è l'altro santo protettore
della scuola dei Milanesi: S. Ambrogio.
S. Ambrogio è raffigurato con la mitria, in una mano il pastorale e
nell'altra il flagello, a memoria della sua lotta contro l'eresia degli
ariani.
Questi affreschi sono un raro esempio, ben conservato, di rifiniture esterne
delle fabbriche gotiche, che improvvisamente si sono ritrovati inseriti
all'interno, a seguito della successiva costruzione di una cappella a
ridosso del corpo principale su cui erano stati dipinti.
Queste decorazioni finora erano conosciute per lo più grazie a minimi e
residuali frammenti.
Nell'ambiente lagunare della seconda metà del Trecento è raro imbattersi
in un esempio di affresco: questi sono riferibili ad un artista locale
legato, nell'immagine della Madonna, a formule bizantine secondo il gusto
neoellenistico, tipico della pittura veneziana dell'epoca.
Il fatto che questi affreschi siano stati nascosti nella zona del sottotetto
ha fatto sì che siano risultati difesi dalle aggressioni dirette degli
agenti atmosferici: tuttavia infiltrazioni di acqua piovana dal tetto,
depositi di guano responsabili della presenza di sali nitrati e attacchi di
flora batterica avevano provocato delle corrosioni e delle muffe
nell'intonaco.
L'intervento di restauro, finanziato dal Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali, è consistito in una pulitura con impacchi basici, la
desalinizzazione ed il consolidamento dei distacchi dell'intonaco con il
ripristino delle lacune.
Successivamente, con il contributo del comitato austriaco "Venedig
lebt", nell'ambito del programma U.N.E.S.C.O. - Comitati Privati
per la Salvaguardia di Venezia, venne eseguito il ritocco pittorico in
abbassamento cromatico delle stuccature, senza integrazioni dell'immagine.