Un
campo qualunque di Venezia, ed anche poco noto.
Eppure, come tanti altri luoghi poco conosciuti, anche in questo caso basta
saper leggere le pietre, saperle ascoltare, e si scoprono tante storie...
La
chiesa di S. Agostin divide il territorio in due parti: il campiello
davanti alla facciata ed il campo dalla parte dell'abside con, al
centro, il pozzo. Il particolare è tratto dalla grande veduta
prospettica "a volo d'uccello" della città di Venezia
incisa da Jacopo de Barbari su sei tavole di legno di pero. La
xilografia offre una dettagliata rappresentazione della città
nell'anno 1500.
Le indicazioni stradali a
Venezia sono del tutto particolari: sono chiamate "ninzioleti"
(pronuncia "ninsioleti"), cioè "piccole
lenzuola" (il lenzuolo infatti, in veneziano, si dice "ninziolo").
Sono dei riquadri rettangolari in malta, tinteggiati di bianco
(originariamente in calcina) con una cornice dipinta in nero, con
pennello a mano libera con l'aiuto di un asse di legno.
I caratteri sono dipinti con l'aiuto di forme di latta in cui sono
sagomati (dime) e l'abile dipintore sa disporli "ad
occhio" in modo da centrare le scritte e riempire
simmetricamente il "ninzioleto".
Perché scrivere di campo Sant'Agostin a Venezia?
La risposta più facile da dare sarebbe: «Perché ci abito io!»
Ma in realtà parlare di campo S. Agostin è come parlare di uno dei
numerosissimi campi di Venezia che possono sembrare anonimi, poco
conosciuti, senza particolari pregi architettonici e artistici.
E' dunque un campo "normale" di Venezia, non appartiene ai campi
più famosi.
Ma indagando nella sua normalità si possono trovare delle tracce
interessanti, la maggior parte delle quali sfugge al passante frettoloso.
Così come tante altre tracce "da scoprire" esistono nel resto
della città, anche quella più "normale" ed anonima.
Questa potrebbe essere un'occasione emblematica: quante cose ci sono,
quante pietre possono raccontare una storia, e noi non le vediamo, non le
ascoltiamo?
A cominciare dal suo nome: campo S. Agostin.
Perché c'è un campo dedicato ad un santo (e Dottore della Chiesa)? A
Venezia la maggioranza dei campi prende il nome da un santo, ma la cosa è
comprensibile: infatti sono campi che in realtà prendono il nome della
chiesa che prospetta su di essi.
Ma in campo S. Agostin non c'è alcuna chiesa. Così veniamo a scoprire che una volta qui c'era una chiesa, ed ora non
c'è più e, a differenza di non poche altre chiese veneziane soppresse a
seguito dei decreti napoleonici del 28 luglio 1806 e successivi, questa
volta non per colpa di Napoleone: o almeno si trattò di una conseguenza
indiretta, quella della riforma dell'ordinamento della diocesi di Venezia
del 1808-1810 che portò, tra l'altro, prima alla riduzione delle
parrocchie a 32 e poi alla chiusura di quindici chiese tra le quali,
appunto, quella di S. Agostin.
La chiesa di S. Agostin era stata fondata attorno all'anno 959 dal vescovo
di Olivolo Pietro Marturio Quintavalle assieme a suo padre Teodosio.
Secondo Andrea Dandolo ("Chronica") essendo stata fabbricata con
i fondi del vescovado, il Marturio dispose per testamento che fosse
soggetta in perpetuo ai vescovi suoi successori.
Questa è probabilmente la
più antica raffigurazione (seppure schematica e simbolica) della
chiesa di S. Agostin: si trova sulla mappa di fra' Paolino (1270
circa-1344) ed è qui ripresa nella trascrizione che ne
fece l'architetto Tommaso Temanza.
Nel 1105 la chiesa venne distrutta da un incendio, a seguito del quale
venne rifabbricata alla metà del XII secolo: è incerta la notizia
riportata dallo studioso Giuseppe Tassini (1827-1899), ripresa ancora
oggi da altri autori, secondo la quale esse avrebbe subito un ulteriore
incendio nel 1149.
Se della prima chiesa del X secolo non abbiamo alcuna immagine, di questa
seconda chiesa (del 1160 circa) possiamo affidarci alla rappresentazione
che ne fa nel 1500 Jacopo de Barbari nella sua pianta prospettica di
Venezia, vista a volo d'uccello: essa si presenta apparentemente a tre
navate, con la facciata su un campiello (l'attuale campiello di S.
Agostin, una volta campiello della Chiesa) delimitato dal rio di S.
Agostin.
Una porta laterale si apre su quella che ancora oggi si chiama calle della
Chiesa mentre la parte absidale, orientata verso est, dava sul campo vero
e proprio dove possiamo notare il pozzo ancora esistente.
Il
pozzo di campo S. Agostin nella mappa di Jacopo de Barbari
(1500).
Un ulteriore incendio distrusse la chiesa di S. Agostin nel 1634, ma
anche in questa occasione venne ricostruita secondo il progetto
dell'architetto svizzero italiano Francesco Contin (Lugano 1585-Venezia
1654), il pavimento fu rifatto nel 1643 a spese di Girolama Lomellini ed
infine la chiesa venne consacrata nel 1691.
Federico Contin curò anche la costruzione della casa parrocchiale.
Emanuele Cicogna (1789-1868) autore di "Delle iscrizioni di
Venezia", per trascriverne tutte le lapidi riuscì a visitare la
chiesa secentesca e la descrisse come «...ad una sola navata...»;
tuttavia c'è chi invece la descrisse come «...a pianta centrale
articolata con elementi poco aggettanti e snelli, più affini al gusto del
Monopola che del Longhena.» (architetto Bartolomeo Manopola, attivo
tra la seconda metà del Cinquecento e gli inizi del Seicento, e
architetto Baldassare Longhena, 1598-1682).
C'erano cinque altari (probabilmente sbaglia l'unico autore che parla di
sei altari): sull'altare maggiore «...bello per disegni e per marmi, e
per ornamenti di figure d'intagli et altri lavori...» era collocata
una pala di Bernardino Prudenti (pittore del XVII secolo, operante a
Venezia circa tra il 1631 ed il 1694) rappresentante S. Agostino e S.
Monica con la Madonna e Gesù.
Fuori della cappella maggiore c'erano quattro quadri «...quasi tutti
del Molinari» (Antonio Molinari, 1665-1731 circa) che
rappresentavano episodi della vita di S. Agostino.
Molto bello doveva essere anche l'altro altare eretto dalla famiglia da
Lezze su cui era collocata una tavola con Gesù in Croce con S.
Francesco e altri Santi, opera di Pietro Libera (1605-1687). Un'altra
cappella era stata fatta erigere dalla ricca famiglia Zane che aveva il
palazzo qui vicino: iniziato da Baldassare Longhena (1598-1682) e
proseguito da Antonio Gaspari (1656-1723) e Domenico Rossi (1657-1737)
oggi è sede dell'Istituto Professionale per l'Industria e l'Artigianato
Livio Sanudo.
A destra della porta della chiesa vi era un Ecce Homo di Paris
Bordon (1500-1571) e poi una Madonna con un Santo «...della miglior
scuola di Tiziano...», infine un Martirio di S. Cristoforo di
Giuseppe Nogari (1699-1763) sull'altare dedicato a questo santo.
La
colonna d'infamia che indicava dove si trovavano a S. Agostin i
terreni di Bajamonte Tiepolo.
Fuori della chiesa era posto un capitello con una piccola pala di Pietro
Mera (Pieter van der Meyer), detto il Fiammingo (Bruxelles? 1574-Venezia
1644), che rappresentava la Beata Vergine con il Bambino ed
in basso i santi Agostino, Carlo, Francesco di Paola e Francesco d'Assisi. Nel campo, addossata alla parte absidale, era collocata una colonna
d'infamia, che indicava originariamente il luogo dove si trovavano le case
di Bajamonte Tiepolo
che nel 1310, assieme ad altri congiurati,
architettò una congiura, fallita, contro la Repubblica di Venezia.
Il Tiepolo aveva il suo palazzo quasi a lato della chiesa di S. Agostin,
in quello che era il campiello del Remer ("remer" =
fabbricante di remi).
Dopo la sconfitta di Bajamonte e dei duoi complici, la sua casa venne
abbattuta ed al suo posto fu collocata nel 1364 una colonna d'infamia, che
recava la seguente iscrizione: «DE BAJAMONTE FO QUESTO TERENO E MO PER
LO SO INIQUO TRADIMENTO S'È POSTO IN CHOMUN PER ALTRUI SPAVENTO E PER
MOSTRAR A TUTI SEMPRE SENO» (ovvero: «Questo terreno fu di Bajamonte
Tiepolo ed ora per il suo iniquo tradimento è diventato pubblico e
[queste parole] siano sempre mostrate a tutti per monito agli altri»).
Poco dopo il suo innalzamento la colonna venne danneggiata da un certo
Francesco Fantebon che era stato un complice di Bajamonte Tiepolo e per
questo condannato e poi anche graziato. A seguito del suo gesto di
spregio, il Fontebon venne punito con il taglio di una mano, la perdita
degli occhi e l'esilio.
La colonna venne tolta dal campiello del Remer e collocata dietro la
chiesa di S. Agostin, nel campo.
Nel 1785 il patrizio Angelo Maria Querini (1721-1796) la ottenne dal
governo per portarla nella sua villa ad Altichiero che era divenuto un
luogo di ritrovo per intellettuali e salotto culturale, dove egli stesso
si era ritirato.
Successivamente questa colonna andò a finire tra le mani dell'antiquario
Antonio Sanquirico che la vendette al duca Melzi il quale la destinò ad
abbellimento del giardino della sua villa di Bellagio, sul lago di Como.
Finalmente nel 1838 quello che restava di questa colonna d'infamia, con l'iscrizione
solo in parte leggibile, venne restituita a Venezia dall'ultima abitatrice della
villa, la duchessa Joséphine Melzi d'Eril Barbò. Oggi si conserva al Museo
Correr nel deposito lapideo presso il palazzo delle Prigioni.
Nel luogo dove, fino al 1785, si trovava la colonna, cioè dietro l'abside
della chiesa di S. Agostin, nel 1841 venne collocata sul lastricato una pietra bianca
con l'iscrizione: «LOC. COL. BAI. THE. MCCCX» (ovvero: «Luogo
della colonna di Bajamonte Tiepolo 1310»).
Durata
oltre due secoli, quanto potrà resistere ancora la lapide utilizzata
da una vicina pizzeria come appoggio per i fusti della birra?
La
lapide posta sul suolo nel 1785 ad indicare il luogo dove era
eretta la colonna d'infamia di Bajamonte Tiepolo.
Statua
policroma di
S. Agostino nella chiesa di S. Polo probabilmente proveniente dalla
vicina chiesa di
S. Agostin, non più esistente.
Come ricordato sopra, la chiesa di S. Agostin passò indenne
attraverso gli editti napoleonici rimanendo parrocchia fino al 1808, quando
ci furono le prime concentrazioni di parrocchie nella diocesi veneziana.
Fu così declassata a chiesa succursale e tale rimase per un paio d'anni
fino al 1810, quando venne chiusa.
Bene o male era restata in piedi, seppure indemaniata.
Nel 1812 Napoleone era segnato dalla disastrosa campagna di Russia. La
marina inglese cingeva d'assedio Venezia bloccandone il porto. Presto
sarebbero arrivati gli austriaci.
L'inverno del 1812 fu terribile per la popolazione avendo provocato una
carestia. Per giunta c'era stato anche un terremoto che aveva colpito il
Friuli occidentale.
La popolazione pativa la fame. Fu allora, nell'agosto 1813, che il podestà
Bartolomeo Girolamo Gradenigo scrisse una lettera riservatissima al
Direttore del Demanio Antonelli per chiedergli la temporanea consegna di sei
edifici, tra cui la chiesa di S. Agostin e quella di S.
Nicoletto della Lattuga, per trasformarli in mulini per le necessità
alimentari della popolazione, a seguito del blocco cui la città era
sottoposta.
Fu così che nel 1813 la chiesa di S. Agostin venne utilizzata come mulino
per affrontare la carestia di quegli anni.
In seguito, e fino al 1839, fu usata come deposito di materiali provenienti
da edifici demoliti ed infine, fino al 1872, fu destinata a magazzino di
legnami.
Le opere d'arte per lo più sparirono, senza lasciare traccia. In "Documente
über Bildersendungen von Venedig nach Wien" di Gustav Ludwig (1901)
leggiamo che nel 1852, con il settimo lotto, partì per l'impero d'Austria una tela proveniente
dalla chiesa di S. Agostin raffigurante Mosè che spezza le Tavole
attribuita ad un «...veneto moderno...» e destinata a Leopoli ad
uso delle chiese povere di Bucovina (l'attuale L'viv nell'Ucraina
occidentale, all'epoca capitale della Galizia absburgica).
Prima, il 18 settembre 1811, il mediocre pittore Lattanzio Querena
(1768-1853) aveva acquistato dal Demanio quattro vecchie tele, stimate
complessivamente 16 lire dal perito demaniale Baldassini.
La statua lignea policroma di Santo Vescovo perfettamente conservata nella
vicina chiesa di S. Polo, conosciuta come raffigurante S. Agostino, secondo
Elena Bassi potrebbe provenire proprio dalla vecchia chiesa parrocchiale di
S. Agostin, come pure la statua di vescovo benedicente (rappresentante S.
Agostino) sulla facciata di un'abitazione privata al civico n. 2022 della salizada
di S. Polo, una volta della famiglia Lippomano: l'abitazione venne distrutta
da una bomba durante la notte tra il 26 ed il 27 febbraio 1918 e fu
riedificata nel 1921: è possibile che la statua di S. Agostino, messa in
una nicchia probabilmente come ornamento alla facciata, provenisse dalla
soppressa chiesa di S. Agostin.
Statua
di Vescovo benedicente ad ornamento della facciata di una casa
in "salizada" di S. Polo, forse proveniente dalla
chiesa di S. Agostin.
Nel 1872, ormai in Regno d'Italia, il Municipio di Venezia, senza pensarci
troppo, decise di demolirla assieme al vecchio campanile, per costruire
sulla sua aerea delle abitazioni popolari che in parte poggiano ancora sullo
zoccolo della chiesa ed il cui portone d'accesso condominiale coincide con
la porta laterale della vecchia chiesa del XII secolo, raffigurata da Jacopo
de Barbari.
La costruzione dei quaranta appartamenti, che impegnò 18 mesi, fu opera
della Società Edificatrice di case per operai a Venezia.
La
secentesca chiesa di S. Agostin con il campanile vista dall'omonimo ponte in una stampa
dell'Ottocento.
La
stessa inquadratura dal ponte di S. Agostin: al posto della
chiesa le case popolari costruite nel 1873. Il luogo del
lampione dell'illuminazione è sempre lo stesso.
L'ingresso
di un'abitazione ed il suo giardino privato sono tutto ciò che resta
del sottoportico, calle e campiello del Remer a S. Agostin.
Nel 1889 alla calle, al sottoportico ed al campiello del Remer, dove erano
esistite le case di Bajamonte Tiepolo, venne dato il nome di Bajamonte
Tiepolo. Ma con la successiva demolizione di alcune case e la costruzione di un'altra
scomparvero il campiello (diventato giardino privato), la calle ed il
sottoportico (diventati ingresso con il civico n. 2297).
Resta oggi la calle Bajamonte Tiepolo, che altro non è che la vecchia
calle dei Preti, a fianco della chiesa di S. Agostin; l'antica attività
del "remer" (costruttore di remi) è sostituita da quella di un
barcaiolo che usa barche mosse da motore e non più da remi.
Il
"ninzioleto" che dà il nome di "calle
Bajamonte Tiepolo" alla vecchia "calle dei
Preti".
Le vicende della vecchia chiesa di S. Agostin non finiscono qui. Come un
fantasma che riemerge dal passato, ritornano nell'ottobre del 2000.
In quell'anno infatti, nel condominio che sorge sul luogo dove una volta
esisteva la chiesa, venivano effettuati dei lavori di restauri e manutenzioni.
Tra questi era prevista l'installazione di vasche di depurazione delle
acque fognarie.
A scavare la fossa erano impegnati due muratori macedoni, di etnia turca.
Il piano di calpestio del cortile condominiale era posto a +174 centimetri
sul livello medio del mare. Dopo aver scavato per più di un metro di
profondità, a +50 centimetri, i due muratori incontrarono (inaspettatamente
per loro, ma il fatto doveva essere ben prevedibile) le fondazioni della
chiesa secentesca.
Naturalmente intervenne la Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Veneto a fermare i lavori (che
resteranno bloccati per molti mesi) e furono compiute le indagini del caso.
Uno scorcio su campo S.
Agostin con il pozzo durante l'alluvione del 4 novembre 1966, quando
l'acqua raggiunse i 194 centimetri d'altezza sul livello medio del
mare.
Così sotto i resti della chiesa del XVII secolo, a quota di +15
centimetri, furono scoperti due basamenti dei pilastri della chiesa
del XII secolo.
Ma ancora una sorpresa doveva stupire i ricercatori: rimosso uno strato di
fango, oltre due metri sotto il piano di calpestio e quindi a 30
centimetri sotto il livello medio del mare, vennero alla luce quattro
tombe che appartenevano alla prima chiesa di S. Agostin, quella fondata
prima dell'anno 1000. Le tombe furono realizzate con mattoni
alto-medioevali, gli stessi che vennero impiegati anche per la costruzione
del campanile di Torcello (1008).
E' anche interessante notare che i diversi livelli di edificazione dimostrarono come l'insula di S. Agostin sia stata nel tempo via via
sopraelevata per contrastare l'altezza del mare: tutt'ora fa parte delle
zone più elevate della città scarsamente soggette all'acqua alta.
Due
delle quattro tombe messe alla luce durante gli scavi per
l'installazione di vasche di depurazione nel condominio che
sorge sul luogo della chiesa di S. Agostin. Appartenevano alla
prima chiesa, quella fondata attorno all'anno 960.
Le tombe si presentavano profanate, con le coperture mancanti e con le ossa
rimescolate appartenenti ad almeno 20 salme diverse. La profanazione
delle tombe avvenne all'epoca della costruzione della seconda chiesa: da
un lato vennero probabilmente riutilizzate come materiale le lastre delle vecchie
sepolture, dall'altro forse vi fu la ricerca, da parte delle antiche
manovalanze, di trovare la moneta che si usava mettere in bocca al defunto
al momento della sepoltura per pagare l'obolo a Caronte affinché lo
traghettasse nell'Aldilà.
In questa chiesa doveva venire sepolto anche lo storico e studioso
Giovanni Battista Gallicciolli (1733-1806), morto nella parrocchia di S.
Agostin. Leggiamo infatti nel necrologio parrocchiale: «1806, 12
maggio: il m. R. sig. D. Gio. Battista Gallicciolli q. Paolo veneto di
anni 73, da nove giorni colto da emiplegia dal lato sinistro con febbre
continua, remittente, mista a sintomi di lenta nervosa, questa mattina
alle ore 11 circa fini di vivere per stasi cerebrale. Il suo cadavere
dovrà essere tumulato al mezzo giorno circa. Santo Bianchi medico».
Poi si legge un'aggiunta: «Fu portato in San Cassan». Infatti il
Gallicciolli era alunno della chiesa di S. Cassiano e qui venne sepolto,
altrimenti, se fosse stato seppellito nella chiesa di S. Agostin, le sue
spoglie sarebbe state disperse, con la fine della chiesa, nell'isola
ossario di S. Ariano.
Nel campo di S. Agostin c'è, naturalmente, un pozzo, che abbiamo già
visto raffigurato nell'identica posizione da Jacopo de Barbari nella sua
veduta prospettica del 1500.
Il problema dell'acqua potabile ha avuto sempre enorme importanza, se si
pensa che la città è circondata dall'acqua marina che entra in laguna.
In un censimento fatto sotto la dominazione austriaca, nel 1858, furono contati 6.046 pozzi privati, 180 pubblici e 556 interrati.
I pozzi attingevano ad una cisterna sotterranea che raccoglieva l'acqua
piovana: attorno al pozzo di campo S. Agostin ci sono ancora oggi quattro
caditoie che coprono i cassoni di decantazione. Tracimando, l'acqua veniva
assorbita e filtrata dalla sabbia silicea contenuta in una vasca
sotterranea. La vasca era sigillata lungo le pareti di mattoni con argilla
per impedire infiltrazioni di acqua salmastra. L'acqua piovana così
filtrata si raccoglieva nella parte centrale della cisterna, dove
"pescava" la canna del pozzo che poi, sopra il piano di
calpestio, terminava con la vera del pozzo, spesso sopraelevata da alcuni
gradini.
La
sezione verticale di un pozzo veneziano in uno schizzo di Egle
Renata Trincanato: si nota la lunga canna del pozzo che
intercetta l'acqua raccolta nella cisterna dopo essere stata
filtrata dalla sabbia.
La vera da pozzo di campo S. Agostin si presenta rotonda con otto
sfaccettature: su due di queste è rappresentata la mitria ed il pastorale
del vescovo Agostino. E' stata restaurata nell'anno 1984.
Particolare
della vera da pozzo in campo S. Agostin, con la mitria ed il
pastorale simboli del vescovo Agostino.
Campo S.
Agostin con il pozzo durante la nevicata del 19 dicembre 2009. La
porta in fondo al campo, appena visibile oltre il pozzo, è quella che
chiude la vecchia "calle del magazen".
Sul lato settentrionale del campo una porta, al numero civico 2295, chiude
quella che una volta era la calle del magazen (magazzino),
documentata già nella veduta prospettica che fece nel 1500 Jacopo de
Barbari.
A
sinistra la veduta prospettica di Jacopo de Barbari (1500)
mostra la "calle del magazen in fondo a campo S. Agostin.
A destra la calle è ancora indicata in una mappa ottocentesca
con il numero 16.
La calle venne privatizzata verso la metà dell'Ottocento con la
costruzione di un piccolo muro sul quale si apre una porta. Quello che
resta oggi della calle, oltre la porta, condurrebbe, al di là di alcune
trasformazioni interne successive, al cortile privato di un'abitazione.
L'ingresso a questa abitazione si trova nel rio terà primo, una
calle che deve il suo nome al fatto che una volta era un rio che venne
interrato ("terà"): ed infatti Jacopo de Barbari lo
tratteggiò come canale.
Una
pietra bianca in mezzo ai "masegni" grigi di trachite in
campo S. Agostin: serviva per sostenere i pali per i fili del bucato.
Sopra la porta che sbarra la vecchia calle del magazen è collocata
una patera che reca un monogramma mariano.
Un'analoga patera è collocata sopra la porta d'ingresso al cortile
interno ed all'abitazione in rio terà primo. Una volta, prima
delle trasformazioni nel cortile, lo spazio interno con ogni probabilità
comunicava tanto con il campo, quanto con il rio terà.
Le
due patere ottocentesche: a sinistra quella mariana in campo
S. Agostin, a destra quella della Scuola del Santissimo
Sacramento che probabilmente aveva sede qui.
La patera nel rio terà reca le insegne della Scuola del Santissimo
Sacramento che esisteva nella parrocchia di S. Agostin.
Davanti a quello che doveva essere l'ingresso alla calle del magazen,
si nota una strana pietra bianca sul selciato grigio formato da masegni
di trachite.
Non sono rare a Venezia, ma pochi vi fanno attenzione e ancora meno sono
quelli che sanno a cosa servivano.
Soprattutto nei campi soleggiati veniva steso il bucato ad asciugare. Ma
se la corda che reggeva i panni fosse stata stesa sui muri delle case,
questi sarebbero andati a sbattere sul muro sporcandosi e non
arieggiandosi bene. Era quindi necessario distanziare la corda della
biancheria e distanziandola di molto dalla casa si poteva raddoppiarne la
lunghezza. Ecco quindi che venivano messi dei pali di legno, tre o quattro
metri davanti (in genere) alla porta di casa. La corda della biancheria
quindi era più lunga, dovendo coprire la distanza muro-palo-muro, e
poteva ospitare un numero maggiore di capi da asciugare.
Ma il palo non poteva sostenersi da solo, seppure legato alla corda che
partiva dal muro: ecco quindi che veniva collocata per terra una pietra
che aveva una specie di occhiello in ferro dove veniva ancorato il
palo.
Palazzo
Morosini a S. Agostin aveva degli affreschi settecenteschi sulle due
facciate (quella sul rio e quella sul campiello): oggi restano scarsamente leggibili
alcuni a tema allegorico sulle lunette delle finestre.
Sul campiello prospiciente la chiesa di S. Agostin, una volta chiamato
campiello della Chiesa ed oggi campiello S. Agostin, sorge uno dei palazzi
dei Morosini.
Sulle lunette delle finestre delle due facciate, quella sul campiello e
quella sul rio, si intravedono appena degli affreschi allegorici
settecenteschi che meriterebbero un restauro.
Alla famiglia Morosini apparteneva quel Domenico Morosini che nel 1204, al
comando di una galea, portò a Venezia come bottino di guerra della quarta crociata i quattro cavalli realizzati in fusione a cera persa
e ricoperti da una doratura che si ipotizza provengano dall'ippodromo di
Costantinopoli.
Rimasero per oltre cinquant'anni nell'Arsenale di Venezia e furono collocati sulla
basilica di S. Marco dopo il 1261, dopo la caduta del cosiddetto impero
latino d'oriente, come simbolo oltre che religioso (la "quadriga
Domini" come allegoria della diffusione del Vangelo dei quattro
evangelisti) anche politico: la continuità con il potere imperiale di
Bisanzio. Il mosaico marciano, sulla lunetta del portale di S. Alipio,
risalente al 1265 circa, già ci mostra i quattro cavalli sulla facciata
della basilica nella posizione che occupano ancora oggi. Invece la prima
documentazione scritta sulla loro presenza è data da una citazione di
Francesco Petrarca di un secolo dopo (1364).
La
lapide posta nel 1871 sopra la porta d'ingresso della casa natale di
Daniele Manin in ramo Astori, a S. Agostin.
Durante il trasporto da
Costantinopoli a Venezia, accidentalmente si ruppe la zampa di uno dei
quattro cavalli (che venne rifatta in Arsenale prima della loro collocazione
sulla basilica). La zampa originale, che si era staccata, restò in mano
ai Morosini che la collocarono sulla facciata del loro palazzo di S.
Agostin. La casa
passò poi di proprietà ai Contarini e ancora nei secoli XV e XVI questo
cimelio continuava ad essere esposto. Poi si persero le sue tracce e non
se ne seppe più nulla.
A S. Agostin esisteva anche un ridotto, ovvero un locale dove la nobiltà
poteva ritrovarsi per distrarsi dopo le fatiche della giornata. Funzionò
almeno fino al 1638, quando venne aperto il ridotto di S. Moisè.
Appena dietro al campo S. Agostin c'è il palazzo Soranzo Pisani: sotto il
balcone d'angolo c'è un bel bassorilievo della prima metà del Trecento.
Lo
stemma bipartito con le armi dei Soranzo e dei Pisani al
centro del bassorilievo del XIV secolo con le due virtù
cardinali, la Temperanza e la Giustizia.
Un angelo benedicente con un globo in mano è posto sopra uno scudo su cui
sono collocati gli stemmi delle due famiglie: Soranzo a sinistra e a
destra il leone rampante dei Pisani che sorregge una croce. Ai lati ci
sono due figure femminili in trono, due virtù cardinali: a sinistra la Temperanza che versa del
liquido da un'anfora in un vaso, mentre nell'altra mano presenta un
calice. E' la migrazione di ciò che è sostanza naturale e scorre in
immortalità e salvezza, rissurezione.
A destra la Giustizia che regge nelle mani la bilancia e la spada.
Proprio di fronte al bassorilievo c'è una breve calle chiusa (per questo
motivo chiamata "ramo"): ramo Astori.
La famiglia Astori, che aveva la propria tomba di famiglia nella chiesa di
S. Aponal (S. Apollinare), teneva una bottega di zucchero e droghe
nella Corderia a Rialto ed una raffineria di zucchero alle Carampane.
In questa calle già nel 1740 possedevano una casa «in due soleri»,
cioè di due piani, che davano in affitto. In questa casa andò ad abitare
Carlo Astori, che aveva sposato nel 1751 Cecilia Buffetti: il 2 maggio
1754 infatti risulta a lui intestata.
In fondo alla calle venne posta nel 1871 una lapide che ricorda la casa
dove nacque, il 13 maggio 1804, Daniele Manin (1804-1857).
Daniele Manin proveniva da una famiglia ebrea ed era stato registrato alla
nascita come Daniele Medina. In seguito si convertì al cattolicesimo e,
come era d'uso, assunse il cognome Manin che era quello del suo padrino,
un fratello di Lodovico Manin che era stato l'ultimo doge della Repubblica
di Venezia.
Nel 1821 si laureò in giurisprudenza a Padova e divenne avvocato.
Aveva idee antiaustriache e per questo fu imprigionato. Il 13 marzo 1848
scoppiarono dei moti rivoluzionari a Vienna; la notizia arrivò a Venezia
quattro giorni dopo, il 17 marzo, portata da una nave proveniente da
Trieste. Venezia insorse immediatamente e Daniele Manin (assieme ad un
altro patriota famoso, Niccolò Tommaseo) venne liberato ed il 22 marzo
posto a capo della neonata Repubblica di Venezia che riuscì a tenere a
bada gli austriaci per più di 17 mesi.
La
casa identificata dalla tradizione come il luogo della tipografia di
Aldo Pio Manuzio.
La storia ci racconta come
andarono a finire gli eventi, con un Daniele Manin costretto all'esilio a
Parigi dove morì il 22 settembre 1857. Poté tornare a Venezia solo da
morto e solo dopo che Venezia era divenuta parte del Regno d'Italia, in un
giorno simbolico, il 22 marzo 1868, vent'anni esatti dopo la proclamazione
di quella Repubblica di Venezia che aveva tenuto in scacco gli austriaci.
La sua tomba venne collocata a fianco della basilica di S. Marco, sul lato
settentrionale, quello della piazzetta dei Leoncini.
Un lato del ramo Astori delimita una bella palazzina che la tradizione
vorrebbe identificare con la casa del famoso stampatore Aldo Pio Manuzio (Sermoneta, 1449
circa-Venezia1515).
Dopo aver studiato latino a Roma, il greco a Ferrara, essere stato a
Mirandola, scelse Venezia (nel 1490 circa) come luogo dove realizzare il suo progetto: la
conservazione e la diffusione delle grandi opere delle letteratura e della
filosofia.
A Venezia, e proprio a S. Agostin, installò la sua tipografia e studiò
con accuratezza la forma del libro: non più stampato "in folio"
o "in quarto", ma un libro "in ottavo", maneggevole e
trasportabile facilmente. Anche i caratteri di stampa erano stati scelti
con cura e ne inventò uno che divenne famoso: ad imitazione della
scrittura manuale inventò il corsivo, inciso dal bolognese Francesco
Griffo (o Griffi), che venne chiamato "aldino" e che divenne
tanto famoso da essere chiamato da tutti, fuori dei confini,
"italico". Aldo Manuzio stabilì anche le regole della
punteggiatura editoriale, come il punto di chiusura del periodo, il punto
e virgola, l'apostrofo e l'accento; inoltre numerò le pagine su entrambi
i lati e curò l'accuratezza della rilegatura..
"Aldine" sono chiamate le sue edizioni che presentano
l'inconfondibile marchio di un'ancora con un delfino ed il suo nome,
"Aldus".
La
"marca tipografica" dei Manuzio (in un'edizione
stampata dal figlio Paolo nel 1458).
La sua tipografia continuò dopo la sua morte, dapprima seguita dal
suocero, Andrea Torresani (o Torresano, 1451-1528), che già aveva
rilevato la stamperia veneziana di Nicholas Jenson, poi dal figlio Paolo
Manuzio, terzogenito, che mantenne tutte le innovazioni che aveva
apportato il padre nelle sue edizioni. Infine cessò l'attività con il
nipote Aldo Manuzio il Giovane.
La lapide fatta apporre nel
1828 dall'abate Vincenzo Zenier: «MANUCIA GENS ERUDITUR NEM IGNOTA
HOC LOCI ARTE TIPOGRAPHICA EXCELLUIT».
Sappiamo che sicuramente il figlio ed il nipote avevano la tipografia
a S. Paterniano, che forse era quella Torresani. Forse lì si era
trasferito anche il fondatore: infatti
Aldo Manuzio ebbe i funerali nella chiesa di S. Paterniano e lì fu anche
sepolto.
La
vecchia sede della Cassa di Risparmio di Venezia occupava
l'area della demolita chiesa di S. Paterniano con il suo
campanile (caso più unico che raro: pentagonale all'esterno,
circolare all'interno) che era stato eretto nel 999 (ed era
quindi, dopo quello di S. Marco, il più antico di Venezia).
Nel 1881 la Cassa di Risparmio pose una lapide a ricordare che
in quel luogo era attiva la famiglia Manuzio. Sulla nuova
sede, costruita agli inizi degli anni Settanta da Pier Luigi
Nervi e Angelo Scattolin, venne riportato il testo di quella
vecchia lapide del XIX secolo.
Comunque a S. Agostin iniziò la sua attività.
A ricordarlo, l'abate Vincenzo Zenier
(della chiesa di S. Tomà, ovvero S. Tommaso Apostolo) fece
collocare nel 1828 una lapide sulla facciata di questa palazzina, che riteneva
essere il luogo dove la «Manucia gens..» eccelse nell'«...arte
tipographica...». Come abbiamo visto questo non è esatto, perché se
è vero che Aldo Manuzio teneva qui la sua tipografia (almeno
inizialmente), certo non è vero per il figlio Paolo ed il nipote Aldo il
Giovane che l'avevano a S. Paterniano (la lapide parla di «Manucia
gens» e non del solo Aldo).
Resta ancora da stabilire se questa palazzina fosse effettivamente il
luogo esatto dove nascevano le "edizioni aldine".
A proposito viene osservato che
nel libro di A. Firmin-Didot "Alde Manuce et l'hellénisme à Venise",
Parigi 1875, si trova una lettera di Zaccaria Calergi a Giovanni
Gregoropulo diretta alla stamperia «... de messer Aldo Romano sul campo de
Santo Agostino (...) el pestore.».
Quindi la stamperia si trovava in campo S. Agostin («...sul campo...»), anche se la palazzina
in realtà non ne è lontana più di venti metri.
Nella lettera del Calergi si fa riferimento a «el pestore»,
ovvero il fornaio. Ma quelle due parole sono precedute da un qualcosa che
non si è riusciti a leggere e che è stato sostituito da quei puntini «
(...) ».
A questo punto è abbastanza verosimile (e coerente con il contesto della
frase) ipotizzare che quello che era scritto al posto dei puntini e che
non si era potuto leggere fosse un «di sopra» o un «presso».
In questo modo la frase farebbe riferimento ad una stamperia sul campo S.
Agostin, presso il fornaio.
Ed un fornaio ("pestor" o "pistor" in
dialetto veneziano) era presente qui sul campo, almeno fin dal 1661, tanto
è vero che in quell'anno il catasto segnala davanti al campo S. Agostin
una calle del Pistor, calle che esiste tutt'ora con questo nome e che fa
angolo con un... negozio di fornaio!
Il
negozio di fornaio (a sinistra) durante l'alluvione del 4
novembre 1966: in questo luogo, o appena di fianco, poteva
esserci la tipografia di Aldo Manuzio a S. Agostin.
Quindi con ogni probabilità la stamperia di Aldo Manuzio si trovava
proprio in campo S. Agostin, vicino alla chiesa, vicino a quell'edificio
che ospita il fornaio di S. Agostin.
Sarebbe stato quello il luogo dove apporre la lapide.
Si sarebbe potuto rimediare cinquant'anni dopo, nel 1877, quando gli
studenti dell'anno accademico 1876-77 della Scuola di lettere greche dello
Studio di Padova vollero donare una nuova e più grande lapide a ricordo
di Aldo Manuzio.
Ma in quell'occasione ci si limitò a mettere la nuova lapide vicino a
quella dell'abate Zenier.
La lapide fatta apporre nel
1877: «IN QUESTA CASA CHE FU D' ALDO PIO MANUZIO L'ACCADEMIA ALDINA
S'ACCOLSE E DI QUI' TORNO' A SPLENDERE A' POPOLI CIVILI LA LUCE DELLE
LETTERE GRECHE / LA SCUOLA DI LETTERE GRECHE DELLO STUDIO DI PADOVA
DELL'ANNO MDCCCLXXVI LXXVII VOLLE DESIGNATO A' FUTURI IL LUOGO FAMOSO».
Allontanandosi solo un
po' da campo S. Agostin, si possono incontrare altre storie, altre
curiosità, nascoste magari dietro una casa, una pietra, una lapide. Ma
allora sarebbe tutta la città da raccontare. Qui ci siamo voluti limitare
strettamente al campo S. Agostin, senza allontanarci: qualche passo in
più, e ci sarebbe da scrivere di S. Boldo, della calle dello Scaleter, ed
il tutto senza fare un solo ponte, ma mantenendoci nell'insula di
S. Agostin. Ma ci siamo voluti fermare al campo.