La
congiura di Bajamonte Tiepolo e di Marco Querini rappresentò l'ultimo
tentativo di instaurare a Venezia un governo di tipo personalistico o
dinastico, sul genere delle Signorie.
La repressione della congiura consentì di rafforzare un atteggiamento che
già esisteva tra i veneziani: quello del "dovere di patria",
fondato sul principio di sovranità, che avrebbe permesso alla Repubblica
di Venezia di continuare la sua esistenza per quasi altri cinque secoli.
In questa paginetta si prova a raccontare quella congiura e quei segni,
ancora visibili, che ha lasciato in alcuni luoghi della città.
Con la legge votata il 28 febbraio 1297, chiamata anche della Serrata
del Maggior Consiglio, Venezia aveva trovato il suo definitivo assetto
costituzionale: in realtà si apriva la strada verso un sistema vitalizio,
riconoscendo il diritto a sedere nel Maggior Consiglio a chi già ne aveva
fatto parte (seppure sottoponendo l'elezione a convalida della Quarantia)
e lasciando aperta la possibilità di accogliere nuovi membri su
designazione di tre elettori (sempre con la ratifica finale della
Quarantia).
In evoluzione si tendeva ad affermare il principio dell'appartenenza
ereditaria, anche se formalmente non si pregiudicava la possibilità
all'ingresso di nuovi membri appartenenti al ceto popolare, che di fatto
era già escluso dalla partecipazione agli atti di governo.
Infatti questo primo provvedimento impediva l'ingresso in Maggior
Consiglio di forze avversarie. Tuttavia era necessario salvaguardarsi
dalla possibilità di infiltrazioni indirette di forze nuove negli altri
organi di governo.
Così, senza fretta, gradualmente, l'aristocrazia portò avanti il suo
programma, senza provocare scontri o lotte tra le classi.
Se ci furono alcuni episodi di forza, questi vanno visti come
sopravvivenza di un vecchio spirito di fazione piuttosto che come una
contrapposizione fra classi.
In questo senso va inserito l'episodio di Marino Bocconio e
dei suoi complici, del quale per altro si sa molto poco (anche l'anno in
cui avvenne è incerto: 1299 o 1300).
Intanto la Repubblica si trovava ad affrontare una serie di criticità.
Tra il 1303 ed il 1305 Venezia dovette occuparsi di varie questioni con
Padova, per via delle proprie saline alle foci del Brenta, per i tagli e
gli scavi con cui i padovani cercavano di modificare l'alveo del fiume,
per una questione di dazi ed altre piccole schermaglie.
Più lontano, ad oriente, si profilavano problemi con i traffici
mercantili e Venezia fu costretta ad inviare delle navi sul Bosforo per
contrastare l'imperatore Andronico. Inoltre nell'Egeo e anche nel Bosforo
scorazzavano le bande catalane.
A questo si deve aggiungere la guerra di Ferrara, con quello che ne
seguì.
Venezia aveva degli interessi commerciali molto forti con quella città:
era un punto strategico per il controllo della navigazione sul Po e sulla
rete di canali che collegavano la Lombardia e l'Emilia; era vicina alle
valli di Comacchio ed alle saline di Cervia.
Il papa Clemente V (Bertrand de Gouth,
nato a Villandraut 1264, morto a Roquemaure nel 1314, papa dal 1305).
Ritratto da Battista Platina «Delle vite de Pontefici»,
Venezia 1643.
Nel 1308 morì Azzo VIII d'Este, marchese di Ferrara, con il quale Venezia
teneva dei buoni rapporti, lasciando dietro di sé una difficile successione
che vide i due pretendenti Folco (con suo padre Fresco d'Este) e Francesco
d'Este cercare alleati rispettivamente nel doge Pietro Gradenigo e nel papa
Clemente V, al tempo residente ad Avignone.
Lo scontro fra i due pretendenti si trasformò nello scontro fra i
rispettivi alleati e costò a Venezia una scomunica, il 25 ottobre 1308,
ed un interdetto, il 27 marzo 1309.
Le censure canoniche toglievano alla Repubblica di Venezia ogni potere e
dignità, consentendo a chiunque di impadronirsene; autorizzavano la
confisca di tutti i beni che la città ed i suoi abitanti possedevano,
ovunque si trovassero; diventavano nulli tutti i trattati da chiunque
stipulati con Venezia; veniva fatto divieto, sotto pena di scomunica,
portare merci e viveri alla città.
Il doge Pietro Gradenigo accolse con sprezzo i provvedimenti papali,
esclamando «I putti si lasciano spaventare dalle parole, gli uomini non
devono temere nemmeno le punte delle spade!»
Il
doge Pietro Gradenigo (1250-1311, doge dal 1289) in un
ritratto da Francisco Macedo «Elogia poetica in Serenissimam
Rempublicam Venetam», Padova 1680.
Ma se le censure pontificie non ebbero alcun effetto diretto a Venezia,
fuori dai confini scatenarono dure reazioni contro la Serenissima ed i
veneziani. Fu una specie di ribellione di tutte le città, ad eccezione di
Treviso, che in questo modo, con la benedizione papale, sfogarono le loro
gelosie, i loro rancori sopiti, perpetuarono le loro vendette.
Venezia venne sanguinosamente sconfitta a Castel Tedaldo: le truppe
veneziane furono letteralmente macellate, mentre il loro comandante, Marco
Querini, che le aveva abbandonate al loro destino, riparò
precipitosamente mettendosi in salvo.
Alla fine ci volle tutta l'abilità diplomatica degli ambasciatori Carlo
Querini e Francesco Dandolo (1258-1339) per ricomporre i rapporti che si
erano guastati ed a recuperare i precedenti privilegi, anche versando al
papa Clemente V la non indifferente cifra di 50mila fiorini d'oro.
Tutto questo contesto, se da un lato non aveva lasciato profonde tracce in
città, aveva però rinfocolato vecchi odi ed inimicizie in quella fazione
dell'aristocrazia che ancora esisteva e che vedeva nel doge Pietro
Gradenigo un formidabile avversario.
Marco Querini della Ca' Granda era stato maltrattato dal doge che, senza nasconderlo, lo
aveva accusato di viltà per aver abbandonato al loro destino le truppe a
Castel Tedaldo e di essere responsabile della sconfitta.
Bajamonte Tiepolo, che era stato podestà a Ferrara nel 1300, era figlio
di quel Jacopo Tiepolo che, capo della fazione popolare, aveva cercato di
farsi nominare doge nel 1289 contendendo il dogado proprio a Pietro
Gradenigo. Era anche nipote di altri due dogi, Jacopo Tiepolo (1229-1249)
e Lorenzo Tiepolo (1268-1275).
La famiglia Tiepolo durante il XIII secolo aveva sempre
cercato di assurgere al ruolo di famiglia dinastica dominante ed
instaurare un governo personalistico, con la trasformazione della
Repubblica in Signoria, e si era scontrata più volte con la parte più
aristocratica, alla quale apparteneva il doge Pietro Gradenigo, fino a
subirne una "sconfitta" morale con la Serrata
del Maggior Consiglio.
Senza dimenticare che Bajamonte Tiepolo, che nel luglio 1309 era anche
stato multato per appropriazione indebita mentre era reggente delle
piazzeforti di Corone (Korone) e Modone (Methoni) nel Peloponneso, aveva
come suocero proprio Marco Querini, avendone sposato la figlia.
Attorno alla figura di Marco Querini andavano a coagularsi varie famiglie
che per un motivo o l'altro nutrivano dei risentimenti nei confronti della
Repubblica e del doge Gradenigo, come i Barozzi, i Doro e i Badoer, o che
erano restate fuori dalla nobiltà per qualche colpa commessa, come Marco
Donato (o Donà) a causa di una bancarotta del padre Pietro.
L'occasione per passare ai fatti fu data dalla prova di forza del doge
che, con i Giustinian, i Michiel ed altri ancora, impose l'ammissione nel
Maggior Consiglio del conte Doimo di Veglia.
Particolare
del cippo portabandiera in campo S. Luca: l'anno 1310 è quello della
sventata congiura tiepolesca-queriniana.
Gli
stemmi della Scuola Grande della Carità (in alto) e della Scuola dei
Pittori (in basso): quest'ultimo raffigura S. Luca, patrono dei
pittori, mentre redige il Vangelo con il bue. Furono gli uomini armati
di queste due Scuole a sconfiggere gli armigeri di Marco Querini in
campo S. Luca.
Marco Querini fece tornare subito dal volontario esilio nel quale si era
ritirato nei propri possedimenti di Marocco il genero Bajamonte Tiepolo e
probabilmente nella sua Ca' Granda a S. Mattia di Rialto i congiurati fecero
il punto, come leggiamo nella "Cronaca Veneta attribuita a Daniele
Barbaro" (c. 25v.): «Havudo che havè Baiamonte l'aviso del socero se
ne venne a Venetia, et subito poi redutto in casa del Querini tutti li amisi
et parenti et partesani, se comenzò un'altra volta a trattar dei molti
desordeni et del tristo governo della città; et dette e proposte molte
cose, fu concluso che vivendo il dose non se podeva far operation alcuna che
fosse bona et che podesse proseguir l'effetto che volevano, ma troncado et
tolto via quel capo, facile cosa saria introdur nova forma di governo che
fosse più gratta et più accetta all'universal, anzi reintrodur e tornar
un'altra volta la vechia con la qual s'haveva governado la città dal suo
principio fin ai tempi presenti.»
Il piano fu presto fatto: si sarebbero divisi in tre gruppi: due avrebbero
attaccato piazza S. Marco da due posizioni per assalire il palazzo ducale ed
uccidere il doge; il terzo gruppo, comandato da Badoero Badoer, avrebbe
dovuto raccogliere gente da Padova e dalla terraferma, attraversare la
laguna e raggiungere Venezia.
Il giorno stabilito fu il 15 giugno 1310 (anche se alcuni autori indicano il
14).
La sorpresa in realtà non ci fu: infatti uno dei congiurati, Marco Donato
(o Donà), forse nella speranza di riacquistare il titolo che il padre
aveva perso e forse anche per non perdere la vita, denunciò la congiura.
Così il doge poté prepararsi per accogliere e contrastare i rivoltosi.
Nella notte che precedette il giorno dell'assalto Marco Querini e Bajamonte
Tiepolo si erano dati convegno alla Ca' Granda dei Querini, alle Beccarie di
S. Mattia di Rialto. Radunati i rivoltosi che si erano aggregati, sotto una pioggia
torrenziale, attraversarono il ponte di Rialto: di là si divisero in due
colonne armate, una probabilmente percorse la calle dei Fabbri, l'altra le
Mercerie. Badoero Badoer, con i propri armati e con gli uomini che aveva
reclutato nella campagna padovana, forse attardato dal cattivo tempo, cercava di raggiungere Fusina, da dove
si sarebbe dovuto imbarcare per arrivare a Venezia.
Ma il piano era stato scoperto.
Contro il Badoer il doge Gradenigo inviò Ugolino Giustinian, podestà di
Chioggia, che lo catturò e lo portò prigioniero a Venezia.
Intanto a S. Marco i congiurati non si aspettavano di trovare gli uomini fedeli al doge
Gradenigo con quelli di Marco Giustinian, di Baldovino Dolfin, Antonio
Dandolo ed altri, pronti ad accoglierli.
La colonna del Querini, sbucata in piazza dal lato nord-occidentale dove
c'è il ponte dei Dai, presa di sorpresa ripiegò e gli uomini si diedero
alla fuga verso campo S. Luca.
Qui ci fu lo scontro finale con gli uomini della Scuola Grande della Carità
e della Scuola dei Pittori che erano accorsi in difesa della Repubblica.
Restarono uccisi anche Marco Querini e suo figlio Benedetto: non è chiaro
se già durante il primo assalto a S. Marco o successivamente qui, in campo
S. Luca.
Per ricordare lo scontro fu posto un cippo portabandiera: lo stendardo
veniva issato nei giorni di festa e soprattutto il 15 giugno, nel giorno di
S. Vio (S. Vito), quando si ricordava solennemente lo sventato
pericolo.
Il cippo venne rifatto, a somiglianza di quello originario, nel 1791, ma non
durò a lungo: infatti sei anni dopo, alla caduta della Repubblica di
Venezia, nel clima di generale gazzarra giacobina che ne era seguito, la
Municipalità provvisoria decise, il 17 giugno 1797, di esecrare la figura
del doge Pietro Gradenigo e di onorare la memoria di Bajamonte Tiepolo, rimovendo
il pilo celebrativo, erigendogli un busto e celebrando annualmente le
esequie a S. Marco.
Solo nel 1913 venne posto nuovamente un cippo portastendardo a cura del
Comune di Venezia: sulla pietra portabandiera è inciso l'anno 1310, quello della battaglia,
con gli stemmi della Scuola Grande della Carità e di quella dei Pittori,
che avevano contribuito proprio qui a sconfiggere i congiurati di Marco
Querini.
Inoltre l'attuale cippo, che come detto è del 1913, ha aggiunti lo stemma
del Comune di Venezia e le date 1310 (quella originaria), del 1791 (quella
del secondo cippo) e 1913 (la costruzione del presente pilo), tutte incise
in numeri romani.
Il
pilo portabandiera in campo S. Luca ricorda la vittoria degli
uomini delle Scuole della Carità e dei Pittori sui ribelli di
Marco Querini. Venne rifatto nel 1913 dopo che quello precedente
era stato rimosso nel 1797 quando il nuovo clima instauratosi
guardava a Bajamonte Tiepolo come una vittima della vendetta
aristocratica.
Intanto gli uomini del Tiepolo, ancora prima di entrare in piazza S.
Marco, probabilmente quando si trovavano all'altezza di S. Zulian,
sentirono da lontano le urla e le
grida ancora provenire dalla piazza.
La
battaglia in piazza S. Marco in un'incisione del 1794-1797 di
Francesco del Pedro tratta dall'opera «Fasti Veneti».
L'opera, iniziata nel 1794, voleva illustrare i principali
episodi della storia di Venezia dalla fondazione di Rivoalto
fino al primo decennio del XIV secolo. L'opera vide però la
luce nel 1797, dopo che la Repubblica di Venezia era caduta,
in pieno fervore giacobino: in tutta fretta venne aggiunta,
alle 29 tavole previste, una trentesima illustrante l'«Erezione
dell'Albero della Libertà in Piazza S. Marco». Venne anche
cambiata la didascalia della tavola 29 (che si mostra qui
sopra): il ribelle Bajamonte Tiepolo, che in origine era visto
come un traditore, sotto la Municipalità provvisoria diventa
un eroe, una vittima della vendetta aristocratica, simbolo
dell'oppressione nobiliare.
Dopo qualche momento di esitazione, si divisero in due gruppi, forse per
tentare una disperata manovra a tenaglia: un gruppo si diresse direttamente
in piazza lungo le Mercerie, l'altro cercò di raggiungere la piazzetta
passando per S. Basso.
Ma tutto fu vano, essendo mancato il fattore sorpresa sul quale contavano.
Ad aspettarli c'erano gli uomini del doge: durante il parapiglia che seguì,
accorse gente del popolo fedele al doge.
In questa battaglia si inserisce un episodio che sconfina quasi con la
leggenda: quello detto della "vecia col mortèr" (vecchia
con il mortaio).
Si dà anche un nome a questa vecchina: Giustina o Lucia Rossi, commerciante
in specchi, che abitava in un piano ammezzato sulle Mercerie, nell'ultimo
tratto dove sboccano in piazza S. Marco.
Questa donna sarebbe accorsa alla finestra all'udire le grida e gli strepiti
che provenivano da sotto casa: era la battaglia che infuriava tra i
congiurati del Tiepolo e gli armigeri del doge. Allora avrebbe preso un
mortaio di pietra che stava sul davanzale e lo avrebbe scagliato contro i
rivoltosi uccidendone (o ferendone) uno. L'uomo colpito sarebbe stato
proprio quello che reggeva lo stendardo del Tiepolo, che cadde al suolo.
Ne sarebbe seguito un momento di smarrimento che avrebbe consentito alle
truppe del doge di prendere il sopravvento.
Questo
dipinto di Gabriel Bella (1730-1799) rappresenta la battaglia
tra i rivoltosi comandati da Bajamonte Tiepolo, gli armigeri del
doge PietroGradenigo e di Marco Giustinian ed il popolo fedele
al dogado. E' mostrato anche l'episodio della «vecia del morter»:
la donna è mostrata alla finestra dell'ultima casa delle
Mercerie, sul lato destro. In primo piano si vede il rivoltoso
esanime al suolo ed il mortaio a terra alla sua destra. A terra
c'è anche il tricorno del congiurato. Gli abiti sono
anacronistici, ma forse raffigurando dei paludamenti classici si
pensava che fossero adeguati all'epoca dei fatti. Anacronistica
è anche la Torre dell'Orologio alla fine delle Mercerie, che
venne edificata solo due secoli dopo la congiura di Bajamonte
Tiepolo. Il dipinto, che riprende un anonimo secentesco
conservato al Museo Correr o una stampa oggi perduta dalla quale
entrambi hanno trovato ispirazione, fu probabilmente
commissionato dalla famiglia Giustinian, avendo preso parte allo
scontro Marco Giustinian, schierato con il doge.
Una
pietra di marmo bianco, con la semplice data 15 giugno 1310, collocata
sul suolo delle Mercerie dove sarebbe accaduto l'episodio della "vecia
col mortér".
Se le cose siano andate effettivamente così, non lo sappiamo. La storia
probabilmente è stata anche molto enfatizzata per esaltare la
partecipazione popolare alla difesa delle istituzioni repubblicane.
Giustina (o Lucia) Rossi ottenne dalla
Repubblica (dai Procuratori "de supra") per sé e per i
propri discendenti di continuare a pagare in perpetuo il canone d'affitto di
15 ducati, per la casa e la bottega che teneva sotto.
Il 10 maggio 1468 Nicolò Rossi, venditore di specchi e nipote di Giustina
(o Lucia) Rossi, rivolse una supplica al Consiglio di Dieci per chiedere
giustizia per un torto subito.
Raccontò come lui «...fidelissimo citadin...» fosse partito da
Venezia al seguito dell'armata di Jacopo Loredan lasciando la casa e la
bottega alla zia paterna. Era ritornato alla morte della zia scoprendo che
nel frattempo la Procuratia "de supra", nella persona dei
Procuratori di San Marco, aveva aumentato l'affitto da 15 a 28 ducati.
Questo era un abuso perché quelle erano la casa e la bottega della "vecia
col mortèr" e dal 1310 fino alla sua partenza tutti i suoi
antenati avevano pagato 15 ducati.
Ma la Procuratoria di San Marco, un organo dello Stato al quale si era
rivolto, pretendeva di vedere la scrittura con la quale sarebbe stato
concesso questo privilegio.
Al povero Nicolò non restò altro che chiedere giustizia ad un altro organo
dello Stato, il Consiglio di Dieci.
Nella sua denuncia ricordò tutti i fatti: la congiura, l'assalto dei
congiurati, la donna che con il mortaio colpì la groppa del cavallo, gli
strepiti, la confusione, la fuga precipitosa, il Doge che volle conoscere
quella donna che, come ricompensa, chiese per sé e le sue figlie di restare
in quella casa allo stesso affitto ottenendo questa "grazia"
anche per tutti i suoi discendenti («Non solo a ti e to fie ma a quanti
insira de ti e de quelle fina che mai ne sera semenza...»).
Al Consiglio di Dieci Nicolò Rossi disse che non aveva carte o contratti da
esibire, come invece pretendevano i Procuratori di San Marco, ma che
esisteva una prova più potente e più vera di ogni carta scritta: «...
tuto el popolo de veniexia i qual tuti grandi, mezani e picoli uno ore
("ad una sola voce" - N.d.R.) dicono... » di conoscere
quei fatti.
Una seconda prova era nei libri contabili della Procuratia: gli affitti di
tutte le case e botteghe erano stati aumentati molte volte «excepto la
botega de i spechi della fidelissima venetiana (...) la qual chaxa e botega
pagava duc. XV e cussi paga fino dal 1310...».
Il Consiglio di Dieci, davanti alla supplica di Nicolò, l'11 maggio 1468 non
potè far altro che smentire l'altra magistratura, i Procuratori di San
Marco della Procuratia "de supra", confermando le ragioni
del Rossi e ordinando che l'affitto venisse riportato a 15 ducati e tale
rimanesse per sempre («...XV in anno sicuti per antea semper solvebatur.»).
Così l'affitto di 15 ducati restò nei secoli nonostante, per effetto delle
successioni e della cessione di quote, il numero degli aventi diritto fosse
aumentato. Nel 1703 ad esempio troviamo un affittuario, Giovanni Zanetti,
che divise il canone in 24 quote.
Ormai la proprietà veniva ufficialmente chiamata negli atti la «...
casa e bottega di ragione della Grazia del morter...» ricordando la
"grazia" concessa dal Doge. I beneficiari di questo diritto si
trovavano anche fuori Venezia: a Bassano ne esisteva un certo numero.
Dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797) la "grazia del
mortèr" continuò a sopravvivere attraversando il periodo delle
occupazioni francese ed austriaca: i 15 ducati erano stati esattamente
convertiti in 54,70 lire austriache!
Nel 1836 la proprietà era divisa tra 39 soggetti, a loro volta suddivisi in
oltre cinquanta azionisti sparsi, oltre che a Venezia, nella terraferma
veneziana, in altre città e persino nell'isola di Corfù.
Nel 1841 Giovanni Battista Colferai di Asolo, il maggiore azionista, era
riuscito a concentrare tutte le quote disperse e così con atto del 9 marzo
di quell'anno presso il notaio Giulio Bisacco cedette la proprietà ad Elia
Vivante Mussati, di Mosè da Corfù, il quale si assunse l'obbligo di pagare
alla Fabbriceria di San Marco (erede della antica Procuratoria "de
supra" e dei Procuratori di San Marco) il canone annuo perpetuo.
Nel 1861 Elia Vivante Mussati commissionò allo scultore A. Lovandini una
lapide che rappresenta l'avvenimento: si trova proprio sulla presunta casa
di Giustina (o Lucia) Rossi sulle Mercerie, vicino alla Torre dell'Orologio.
Inoltre una lapide in marmo indica sul selciato, con una semplice data «XV
. VI . MCCCX», il luogo del fatto.
Dai primi anni del 1500 si era aggiunto anche il diritto di esporre il
vessillo di San Marco ogni 15 giugno, festa di S. Vio (S. Vito). durante la
quale si ricordava la sventata congiura.
Noi sappiamo che lo stendardo originale venne rifatto almeno una volta, nel
1740, e costò cento ducati veneti: era di seta rossa e mostrava l'arco
della Torre dell'Orologio (per altro non ancora esistente) con figure
armate.
Questa bandiera sventolò per l'ultima volta da uno dei balconi del secondo
piano della "casa della Grazia del mortèr" il 15 giugno
1797 con le truppe francesi in città ormai da un mese.
Ai tempi della Repubblica i locatori consegnavano all'affittuario il
vessillo «... che dovrà essere esposto ogni volta vedranno esposti quelli
in Piazza di san Marco ...».
Nel 1830, quando affittuaria era Catterina Benvenuti, vedova di Giovanni
Maria Velo, la bandiera era conservata in un sacco di tela appeso al
soffitto di una delle stanze tra una trave e l'altra.
Gli eredi della Benvenuti nel 1839 vendettero il vessillo all'antiquario
Sanquirico che teneva il suo magazzino a San Teodoro. Da quest'ultimo venne
acquistato da Domenico Zoppetti. Attualmente è conservato nei depositi del
Museo Correr.
Sia merito o meno l'episodio della "vecia col mortèr", il Tiepolo
con i suoi uomini si diede alla fuga ed attraversando le Mercerie raggiunse
il ponte di Rialto.
La
"vecia col mortèr" immortalata dalla scultura di A.
Lovandini, posta nel 1861 sulla casa delle Mercerie dove la
tradizione colloca l'episodio.
Il ponte di Rialto in legno,
levatoio nella parte centrale per consentire il passaggio di navi con
alberatura, come lo ha raffigurato Vittore Carpaccio nel suo dipinto "Miracolo
della Reliquia della Santa Croce", attorno al 1494. Per vedere il
dipinto completo, cliccare qui.
A quel tempo il ponte di Rialto era costituito da un ponte levatoio in legno, come si può vedere nel celebre dipinto
Miracolo
della Reliquia della Santa Croce di Vittore Carpaccio e nella
xilografia di Jacopo de' Barbari che rappresenta la veduta di Venezia
"a volo d'uccello"; per
assicurarsi la fuga il Tiepolo
non esitò a rendere inservibile il ponte, chi dice
tagliando le funi che lo reggevano a colpi di spada, chi dice dandogli
fuoco, per bloccare gli inseguitori.
Con i suoi si asserragliò nella zona di Rialto, dove c'era la Ca'
Granda del Querini.
Quello
che restava della Ca' Granda dei Querini in una fotografia
anteriore al 1884 (particolare
tratto da una fotografia dell'Archivio Böhm - Venezia).
In pratica un intero settore della città, quello mercantile e dei ricchi
commerci, era in mano ai rivoltosi che devastarono alcuni edifici di
magistrature pubbliche, come l'ufficio del frumento e dei magistrati alla
pace.
L'assedio ai ribelli durò alcuni giorni, con ripetute offerte di resa che
venivano sdegnosamente rifiutate.
Occorse tutta la dote di diplomazia di Filippo Berlengo, consigliere
ducale, a convincere Bajamonte Tiepolo ad arrendersi garantendo a lui ed
agli altri caporioni della congiura di avere salva la vita, potendosi
salvare con l'esilio di quattro anni al di là di Zara, in Slavonia (oggi
regione della Croazia orientale), dove aveva dei possedimenti da parte
della nonna paterna oltre a varie relazioni parentali.
La
colonna d'infamia che indicava dove si trovavano a S. Agostin i
terreni di Bajamonte Tiepolo. Per saperne di più, anche della sua
storia e che fine ha fatto, cliccare
qui.
Parte dei rivoltosi, quelli di secondo piano, furono graziati a condizione
che prestassero atto di sottomissione al doge ed alla Repubblica.
Badoero Badoer invece fu condannato a morte per decapitazione: la sentenza
venne eseguita il 22 giugno 1310.
Il giorno dopo fu la volta di altri congiurati: Saggino d'Este, Cecco d'Este,
Giovanni Candidi, Jacopo da Conegliano, Giovanni e Gerardo d'Este. A
questi venne tagliata la testa, altri ancora furono impiccati tra le
colonne di Marco e Todaro in piazzetta.
Nella
veduta di Venezia "a volo d'uccello" di Jacopo de'
Barbari, tra le colonne di Marco e Todaro, è visibile il
luogo delle esecuzioni capitali: i fori che servivano per
innalzare la forca sono stati ritrovati oltre cinque secoli
dopo questa immagine durante alcuni lavori alla pavimentazione
della piazzetta di S. Marco nel marzo 2003.
La giustizia della Repubblica non si fermò qui: in luglio anche le mogli
dei condannati subirono varie pene: chi fu obbligata a seguire la sorte
del marito in esilio, chi venne rinchiusa in un qualche monastero, isolate
anche dagli affetti delle famiglie di appartenenza.
Gli altri membri delle famiglie Querini e Tiepolo vennero obbligati anche
a cambiare i propri stemmi ed a cancellare la vecchia versione, presente
nei vari luoghi della città.
Inoltre venne ordinata la demolizione della casa di Bajamonte Tiepolo, in
campo S. Agostin
e quella dei Querini a Rialto.
Sul luogo dove sorgeva la casa del Tiepolo fu eretta nel 1364 una
colonna
d'infamia che recava una scritta a monito di tutti che spiegava che, a
causa del suo tradimento, quel terreno che una volta gli apparteneva era
diventato pubblico: «DE BAJAMONTE FO QUESTO TERENO E MO PER LO SO INIQUO
TRADIMENTO S'È POSTO IN CHOMUN PER ALTRUI SPAVENTO E PER MOSTRAR A TUTI
SEMPRE SENO».
Poiché a Venezia, come altrove, non si buttava via mai niente, soprattutto
il materiale edilizio, parte delle macerie della casa demolita di
Bajamonte Tiepolo a S. Agostin ebbe un uso particolare, che ricorda la
legge del contrappasso.
In quegli anni era assai malridotta la chiesa dei Ss. Vito e Modesto (vulgo
S. Vio) a Dorsoduro, la cui fondazione si fa risalire alla fine del X
secolo. Uno sprofondamento del terreno l'aveva resa pericolante
Il Senato veneziano pensò bene di provvedere al restauro, anche per
ricordare con gratitudine lo scampato pericolo della rivolta che accadde
appunto il 15 giugno, giorno dedicato dal calendario a S. Vito.
La chiesa venne dunque ricostruita assieme al campanile a spese della
Repubblica tra il 1310 ed il 1315 e venne largamente impiegato il
materiale edile ricavato dalla demolizione della casa di Bajamonte Tiepolo,
al punto che i pilastri del portale d'ingresso della chiesa altro non
erano che quelli della porta principale del palazzo del Tiepolo!
A ricordo della repressione della congiura, il 15 giugno di ogni anno il doge visitava con gratitudine
la chiesa dei Ss. Vito e Modesto, accompagnato
dai confratelli delle Scuole Grandi, dalle Congregazioni del Clero e dal
Capitolo della cattedrale di S. Pietro di Castello.
Il
piccolo oratorio dedicato ai Ss Vito e Modesto, voluto
dall'imprenditore edile Pietro Crovato sull'area una volta
occupata dalla chiesa. Costruito in parte con materiale edile
proveniente in origine dal demolito palazzo di Bajamonte
Tiepolo a S. Agostin, reca sull'arco sotto il piccolo protiro
l'iscrizione «A DIO ONNIPOTENTE IN ONORE DEI SS. MM. VITO
MODESTO».
Ancora
dopo quasi cinque secoli, il Doge continuava a rendere grazie
a S. Vito recandosi ogni 15 giugno alla chiesa dei Ss. Vito e
Modesto (S. Vio) come dimostra questo stralcio de «La Temi
Veneta per l'anno 1793».
Dopo
le soppressioni napoleoniche del 1806, la chiesa venne indemaniata e
venduta a pezzi: il pavimento in marmo, un altare ed una pila per l'acqua
santa furono acquistati da un certo Gerolamo Padoan per arredare una
chiesetta di campagna; l'altar maggiore fu acquistato da tale Gioacchino
Vaerini.
Alla fine venne messa all'asta come materiale da costruzione al prezzo di
1.400 lire e fu acquistata dall'imprenditore edile Pietro Crovato.
La chiesa venne quindi demolita nel 1813. Il Crovato, morendo nel 1817,
espresse alla famiglia il desiderio di far costruire una piccola cappella,
o oratorio, dove prima sorgeva la chiesa.
Il genero del Crovato, il capomastro Gaspare Biondetti, riuscì ad
esaudire il desiderio del suocero solo nel 1865, dopo aver ottenuto l'anno
prima i necessari permessi dal Comune e dal Patriarcato.
Il piccolo oratorio, inaugurato il 25 giugno 1865, che ancora oggi si vede
in campo S. Vio, è costruito con il materiale che in origine era del
palazzo di Bajamonte Tiepolo: in particolare il contorno in marmo rosso
della porta del palazzo si trova ora collocato all'interno del portone
della cappella.
Anche la Ca' Granda dei Querini, a Rialto, doveva essere abbattuta, ma qui
ci furono dei problemi in quanto il palazzo era di proprietà di Marco e
Pietro Querini, ma per un terzo era anche di Giacomo Querini che era
restato completamente estraneo alla congiura.
La
sala del Consiglio di Dieci in Palazzo Ducale a Venezia, dipinto,
probabilmente tra il 1779 ed il 1792, da Gabriel Bella (1730-1799). Il
Consiglio di Dieci era formato da dieci consiglieri nominati dal
Maggior Consiglio, dal Doge e da suoi sei consiglieri ducali.
Le cronache sono contraddittorie: alcune riferiscono che sarebbe stata
demolita solo la parte di proprietà dei due congiurati, altre invece
raccontano che non fu possibile farlo, in quanto alcune parti del palazzo
erano in comune e non era possibile demolirle. La Repubblica avrebbe
dunque confiscato due terzi dell'immobile acquistando poi il resto della
proprietà da Giovanni Querini.
Comunque sia stato, qui nel 1339 vennero spostate le "beccarie"
(macellerie, o pubblico macello) che precedentemente si trovavano sempre a
Rialto, ma vicino a S. Giovanni Elemosinario. Per questo il fabbricato, o
quello che restava di esso, nell'Ottocento era ancora chiamato
"Stallone".
Alla fine del 1884 davanti a quello che restava delle "beccarie"
e dell'antica Ca' Granda dei Querini venne collocata la prima struttura
metallica della nuova "pescaria" (pescheria, ovvero
mercato al minuto del pesce): struttura subito vivacemente contestata.
Nel 1907 quel poco che ancora esisteva venne totalmente demolito per
permettere la costruzione dell'attuale mercato del pesce in stile gotico,
opera degli architetti Domenico Rupolo e Cesare Lamberti.
Un paio di archi del mercato del pesce appartenevano alla demolita Ca' Granda dei
Querini come anche la bellissima polifora del XIII secolo (una delle più
antiche esistenti a Venezia) che si affaccia sul campo delle Beccarie..
A conclusione di questo racconto, c'è ancora qualcosa da aggiungere:
abbiamo visto la fine dei protagonisti principali della congiura: Marco
Querini morto durante il tentativo di dare l'assalto a S. Marco al palazzo
del doge e Badoero Badoer condannato a morte e decapitato.
Abbiamo pure visto l'uomo forte della congiura, Bajamonte Tiepolo, spedito
in esilio dopo una difficile trattativa: ma che ne fu di lui?
In realtà il Tiepolo, fra i suoi vari obblighi, aveva anche quello di non
recarsi in alcun paese ostile alla Repubblica. Tuttavia non rinunciò mai
a tramare contro la patria: contravvenendo all'esilio, cercò di scaldare
gli animi dei Da Camino, dei Carraresi, dei Camposampiero ed anche di
alcuni suoi fedelissimi che aveva lasciato a Venezia.
Ma le spie della Repubblica lo seguirono ovunque: dopo Padova, dove si era
rifugiato per essere più vicino a Venezia, si nascose a Treviso, ma le
pressioni degli emissari della Serenissima costrinsero quella città ad
allontanarlo nel 1318.
Nel 1325 il Tiepolo risultò eletto a Bologna, dal consiglio degli
anziani, guardiano del popolo; ma anche qui le pressioni della Repubblica
gli impedirono di assumere l'incarico.
Poi lo troviamo in contrasto con i signorotti di Bosnia e di Rascia (o Raška,
o Sandžac, in Serbia); nel 1328 tentò una nuova azione contro Venezia,
ancora con un membro della famiglia Querini e con la famiglia Barozzi, ma
anche questa congiura si risolse con un nulla di fatto.
Dal 1330 non si sentì più parlare di lui: è possibile che dei sicari
della Repubblica lo abbiano ucciso, forse in Slavonia (oggi regione della
Croazia orientale), nel 1329 o nella prima metà del 1330.
E per Venezia cosa significò?
Lo stato, il potere comunque legittimo, trionfò.
Il doge poté accreditarsi come tutore ed estremo difensore della legalità
costituzionale minacciata da un ristretto gruppo di sediziosi, animati
dalla propria ambizione e dalla fame di potere.
Dalla congiura l'ordinamento istituzionale uscì rinnovato e più forte:
il 10 luglio venne istituito il Consiglio di Dieci (questo il suo nome, e
non Consiglio "dei" Dieci come si legge spesso): si trattava di
una magistratura eccezionale di polizia dotata di poteri straordinari,
poco definiti, che apparivano necessari per poter agire in segretezza,
velocemente e con decisione per assicurare l'ordine costituzionale. «Baiamontem etiam Teupolo pessimum proditorem cum suis complicibus
conantes domini tunicam inconsultilem scindere et dominium de manibus
communiter regentium hostiliter arripere, de patria cum rebellibus et
proditoribus exulavit, et consilium de decem contra ipsos et reliquos
statum patriae turbare volentes tun instituit.» ("Cronica"
di Andrea Dandolo).
Inizialmente istituito per pochi mesi (fino al giorno di S. Michele, 29
settembre 1310) poi confermato di mese in mese, poi di anno in anno ed
infine, il 20 luglio 1335, fu trasformato in una magistratura ordinaria
permanente.