Un po’ di storia della privativa postale – Dal Forum di F&F

Un po’ di storia della privativa postale – Dal Forum di F&F

Questo piccolo studio affronta il tema della privativa postale in periodo prefilatelico, nello Stato Pontificio e nell’Italia settentrionale (periodo ducale e francese).
Il diritto di privativa fu più volte ribadito nel corso degli anni da vari editti e bandi, il primo dei quali dovrebbe risalire al maggio 1606.

Come si legge, il divieto era limitato alle lettere sigillate, tanto che a seguito di <<questa proibizione si sviluppò un livello di comunicazione, caratteristica delle classi subalterne, su fogli lasciati aperti o comunque privi di quegli elementi estrinseci delle lettere dei ricchi>>, così come testualmente scrivono gli autori Fedele-Gallenga nella loro opera (vedi bibliografia in calce).

Sempre attingendo alla bibliografia utilizzata e questa volta citando il Melillo, apprendiamo che il 31 dicembre 1803 fu pubblicato il <<Bando Generale delle Poste di Roma e Stato Ecclesiastico sul “buon Regolamento delle Poste” per “ovviare insieme gl’inconvenienti avvenuti in pregiudizio del pubblico”.
Per ordine espresso di S.S. “dato a bocca, e con l’autorità dell’Ufficio di Camerlengato”, si rinnovano “tutti i bandi ed Editti dei predecessori sopra il buon regolamento delle suddette Poste in quelle parti però non contrarie a quanto si dispone nel presente Bando”.
(…)
A tutti, inclusa l’Impresa del Lotto di Roma, era proibito “costituire Procacci, corrieri, né Incetta di ricevere, o mandar lettere”. Neppure i corrieri di poste estere esistenti a Roma potevano “levar gruppi, né fagotti, né qualsivoglia altra cosa dove corrono ordinariamente li corrieri ordinarj, e Cavalcate di S.S.”. Ai “Mulattieri, Carrozzieri, Vetturini, Barcaioli, Lettighieri, Pedoni, Albergatori” si permetteva soltanto “di portar le Lettere di avviso per accompagnamento delle mercanzie, aperte, sotto pena di scudi 200, di tre tratti di corda, ecc.” (Nota: Questa disposizione venne riportata dall’Istrumento d’appalto e Dichiarazione, stampati il 13 settembre 1728).
(…)
Questo bando dopo la restaurazione fu nel 1816 (24 agosto) ripubblicato dal camerlengo con diverse aggiunte e modificazioni che tenevano conto del mutato contesto, pur rispettando le basi fondamentali della normativa precedente l’occupazione francese. Furono meglio organizzate le multe per gli abusi alle privative del trasporto, chiamando a soddisfarle, in caso d’insolvenza dei contravventori, quelle persone che spedirono o scrissero le lettere e pieghi sequestrati. Di tali multe una terza parte spettava agli “Esecutori ed Accusatori”, altra terza parte per “usi pii”, il resto all’amministrazione, oltre tale ammenda il “portatore” poteva essere detenuto per giorni 15.>>

Come si vede nel bando del 1803, e così in quello del 1816, il divieto fa riferimento a “lettere”, in generale, senza specificare se chiuse o aperte.

E’ invece del 2 novembre 1844 la “Notificazione Tosti”, molto importante perché le nuove tariffe che stabiliva rimasero valide con l’introduzione dei francobolli nel 1852 e, per la parte riguardante le lettere per l’interno, fino al 31 dicembre 1863.
Come riporta il Fedele-Gallenga, <<il 2 novembre 1844 il Tesoriere Card. Tosti pubblicò una Notificazione sulle nuove tariffe postali a valere dal 15 novembre. Veniva stabilito:
a) che solo il Governo teneva gli Uffici Postali
b) che le Distribuzioni Comunali dovevano essere approvate dal Governo
c) che nessun privato o vetturale poteva portare e distribuire lettere
d) veniva confermata la Notificazione del 24-8-1839 relativa alle corrispondenze per “via di mare”
e) se qualcuno voleva provvedere da se stesso al recapito di una lettera sia nello stato che per l’estero, doveva portarla all’Ufficio Postale, pagare la tassa e ritirare una bolletta di permesso da tenere unita alla lettera.
ecc…>>

Successivamente, il 29 novembre del 1851, viene promulgato l’Editto del Cardinal Antonelli istitutivo dei francobolli nello Stato Pontificio che, tra l’altro, recita:
– al paragrafo 3:
“Ai viaggiatori, vetturali, pedoni, conduttori di vetture, di merci e di genti, è permesso portare lettere o pieghi purché muniti di bollo franco in ragione della distanza e del peso.
Rimane inoltre ferma la facoltà di portare, anche senza bollo franco, le lettere esenti dalla tassa postale a forma degli Art. 4 e 5 della Notificazione del 2 novembre 1844.”
– al paragrafo 4:
“Incorrono nella multa e penalità stabilite nell’Art. 11 della citata Notificazione coloro che portano lettere non esenti dalla tassa postale se non munite del bollo franco, come pure se il bollo o i bolli hanno un valore inferiore alla tassa dovuta con le norme del paragrafo 2.”

Evidentemente gli articoli 4 e 5 a cui si fa riferimento nella Notificazione dell’Antonelli del 1851 riportavano una lista delle personalità e della tipologia di lettere che avevano diritto alla franchigia.

E veniamo adesso a quanto accadeva nel settentrione.

Nel 1730 venne pubblicato a Milano un editto con il quale il governatore dello Stato, Lorenzo Thiano conte di Daun, rendeva noto che la posta tornava ad essere di privativa regia, cioè gestita direttamente dallo Stato (avocazione della regalia) dopo essere stata in mano per secoli prima ai Tasso poi ai genovesi Serra.

L’editto era l’occasione per ribadire che nessuno tra “Corrieri, Messaggieri, Pedoni, Barcaruoli” avrebbe più potuto fare “raccolta di lettere per approfittarsene” senza il dovuto permesso del Corriere Maggiore.
E’ importante notare che sia questo documento della Lombardia austriaca che la “prohibitione” pontificia del 1606 erano rivolte a categorie (mulattieri, vetturini, corrieri, messaggeri, pedoni) che traevano da vivere dal metodico (periodico) trasporto di persone e merci e che, quindi, si prestavano per questo al trasporto di corrispondenza.

Mentre il documento pontificio pone subito una distinzione tra lettere aperte e sigillate (fin dal medioevo veniva definita “lettera” l’invio chiuso e sigillato) il documento milanese tace su questo argomento, mentre chiarisce subito che il trasporto di singole missive o comunque un trasporto casuale non a fine di lucro continuava ad essere permesso.

Le stesse analogie si trovano in un discorso del 1851 (un secolo dopo!) di Cavour il quale nominerà le stesse categorie e ribadirà ”tollerate le corrispondenze accidentali, quelle cioè che si fanno per mezzo di individui privati… La legge ha voluto colpire il trasporto abituale per mezzo di vetture pubbliche, per mezzo dei carrettieri, per mezzo dei barcaioli; la legge ha voluto impedire che accanto al servizio pubblico si stabilisse un servizio privato e regolare”.

Tornando all’editto milanese, si confermava che le suddette categorie di persone avrebbero potuto continuare la loro attività di trasporto della corrispondenza solo dopo presentazione presso gli uffici del Corriere Maggiore il quale, dietro pagamento di un canone annuale, avrebbe rilasciato la licenza. A Milano tutto questo sfociò nel 1762 nell’apertura dell’Ufficio de’ Pedoni che sulla carta avrebbe dovuto gestire tutto il traffico locale, anche se poi non tutto andò in questo senso, dato che il sistema postale non arrivava ancora a coprire l’intero territorio e, in molte zone, la posta arrivava (quando arrivava) solo una volta la settimana.

Tra persone di ceto medio-basso residenti in località rurali per forza di cose era necessario ricorrere a canali extrapostali che, se da una parte non davano garanzia di velocità (magari neppure richiesta) offrivano comunque un servizio più economico e adatto alle proprie esigenze di lavoro e commercio. Caratteristiche di questa tipologia di traffico furono le missive aperte, cioè non sigillate, che negli anni seguenti furono sempre al centro di discussioni riguardanti l’essere definite o meno “lettere” e quindi ricadere nel diritto di privativa statale.

Altre missive che sfuggivano alla rete postale erano le lettere bianche (o morte), cioè i fogli che non portavano sul frontespizio l’indirizzo del destinatario e che quindi difficilmente erano definibili “lettere”.

Nel 1796 i francesi appena giunti in Italia adottarono subito la linea dura: in un’editto del 4 novembre venne ribadito che il trasporto di una o più lettere anche aperte, non recanti il bollo di posta che ufficializzava il versamento del porto, fosse un abuso da stroncare (art.VII “La pratica di portare una, due, o più lettere sciolte, senza temere veruna inquisizione si dichiara introdotta per mero abuso, ed ella deve onninamente cessare”).

La successiva legge 5 NEVOSO IX (26/12/1800), sulla carta, affidava tutto il traffico postale ai canali ufficiali per ”facilitare il più pronto servigio del Governo, la corrispondenza dei cittadini, e la prosperità dell’interno, ed esterno commercio”.

L’art. XV recitava difatti che “chiunque non autorizzato con patente dall’Ufficio postale porta più di una lettera, eccettuate quelle attaccate alle mercanzie, incorre in una pena di lire tre per ogni lettera a pronto per metà all’ufficio postale, e per metà a beneficio dell’Inventore” (Inventore è un termine postale arcaico che può essere riferito sia alle lettere fermate, sequestrate [“invenzionate”] che alle persone che fermano o vengono fermate [“inventori”]).

Questa legge mai modificata, pur rimanendo un baluardo del sistema postale francese in Italia, finì con l’essere solo un ideale a cui appellarsi in caso di controversie dato che ci si accorse presto dell’impossibilità della sua applicazione integrale.

La linea dura contro il contrabbando epistolare venne riservata solo ai momenti critici e/o quando proprio risultava evidente che i canali extrapostali erano divenuti una fonte di perdita per l’erario: Napoleone era infatti molto sensibile a questo discorso e si aspettava dal Prina, ministro delle finanze da cui la posta dipendeva, bilanci sempre più in attivo. Cosa che successe spesso, anche grazie alle tariffe in costante aumento.

Era ormai chiaro che il governo mirava ad avere il monopolio del traffico a lunga distanza che era fonte di maggiori guadagni (a discapito dei corrieri e con la possibilità, inoltre, di effettuare un’opera di censura sulla corrispondenza estera) piuttosto che perdersi in beghe locali che non avevano una soluzione definitiva e dove gli interventi risultavano essere solo dei palliativi.
In conseguenza di ciò le autorità non infierirono mai contro le persone sorprese occasionalmente a trasportare lettere, suggellate o meno, visto che spesso si trattava di poveracci o pellegrini che si guadagnavano da vivere con questi piccoli servizi occasionali. Sebbene la legge 5 NEVOSO riservasse pene pecuniarie a chi veniva sorpreso in flagranza di contrabbando epistolare, ci si limitò al “cicchetto”, alla notte in cella e/o al sequestro delle lettere più che altro per un controllo del testo: se palesemente riguardava argomenti di natura familiare le lettere “invenzionate” venivano restituite.
Queste operazioni di polizia non erano comunque svolte da agenti postali dato che la posta non disponeva di un proprio organo di polizia, bensì dalla Guardia di Finanza.

Oltretutto si fece notare come il reprimere il traffico locale extrapostale non solo era impossibile e poco remunerativo, ma risultava perfino controproducente dato che andava a colpire i ceti medio-bassi i quali non mancavano di farsi sentire: rimproveravano al governo il fatto che ad essi venisse preclusa qualsiasi forma di spedizione di lettere, anche aperte, mentre ai facoltosi aristocratici veniva concesso dall’editto del 1796 di spedire tramite i loro servi lettere solo bollate in posta, lettere che dirette all’estero potevano contenere notizie contrarie alla sicurezza della nazione (per inciso ricordiamo che queste spedizioni “in corso particolare” vennero poi definitivamente vietate nel 1828 da una circolare a stampa della direzione postale della Lombardia).

Alcuni, un po’ più su nella scala sociale, facevano invece notare come un controllo della corrispondenza non fosse in linea con quanto stabilito dalla recente Costituzione francese, la quale garantiva l’inviolabilità del segreto epistolare, altri evidenziavano invece le difficoltà di commercio e lavoro a cui si andava incontro affidando le lettere solo ai canali ufficiali.

Comunque la consuetudine di trasportare lettere aperte su percorsi extrapostali in contrasto con la legge proseguì nel tempo, e solo nel 1838 il nuovo regolamento postale del Lombardo Veneto stabilì definitivamente che erano escluse dal monopolio statale le lettere e gli scritti periodici quando non suggellati, e le lettere, ovviamente non bollate, spedite con propri servi o espressi (cioè persone che si prestavano ad un trasporto ad hoc) sempre a patto però che non avvenisse “raccolta” o “incetta” a fini di lucro.

Nel 1862 la riforma postale del Regno d’Italia ribadiva l’esclusione dal monopolio statale “le lettere aperte quando sieno trasportate da individui che non ne facciano professione”.

FONTI:
– Fedele: “La voce della posta…ecc.”
– Fedele-Gallenga: “Strade, corrieri e poste dei papi dal medioevo al 1870”
– Vollmeier: “Bolli prefilatelici di Milano dalle origini al 1850”
– Bugatti: “1796-1850 Cenni storici di prefilatelia in Lombardia”
– Caizzi: “Dalla posta dei Re alla posta di tutti…ecc.”
– Melillo: “Ordinamenti postali e telegrafici degli antichi Stati italiani e del Regno d’Italia”

Dal vecchio e nuovo Forum di F&F 2006/2007
Contributi di Erik, Giuliano** e Francesco Luraschi.
Elaborazione e adattamento: Luca Boldrini

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