Il
capitello votivo nel "sotopòrtego" de la Madonna.
A Santa Margherita.
Questi luoghi sono compresi tra il campiello dei Squelini (da squela,
scodella, i fabbricatori di scodelle ed altri manufatti in terracotta),
vicino a ca' Foscari, e Santa Margherita.
In calle de la Madonna, il monastero di Santa Maria della Celestia
possedeva numerose case e probabilmente fu questo il motivo del nome.
Tuttavia proseguendo verso la corte, in direzione di Santa Margherita, si
incontra un sotopòrtego (entrambi questi luoghi sono ugualmente
chiamati "de la Madonna") nel quale è collocata un'edicola
votiva dedicata alla Madonna del Carmine: non è da escludere quindi che
questo toponimo possa riferirsi anche all'immagine mariana di questo
altarino devozionale.
Era abbastanza comune mettere in luoghi bui delle immagini di santi: fin
dal XII secolo esisteva addirittura l'obbligo per i parroci di mantenerle
illuminate di notte ottenendo così una sorta di illuminazione pubblica
della città, come raccontiamo in
questa pagina.
Il sotopòrtego, per chi proviene da Santa Margherita, conduce
nella corte de la Madonna.
Sopra i due ingressi al sotopòrtego sono collocati altrettanti stemmi,
databili probabilmente tra il XIV ed il XV secolo, illustranti armi (forse)
della famiglia Nadàl.
Lo
stemma all'imboccatura del "sotopòrtego" sul lato
verso Santa Margherita.
Al centro della corte de la Madonna è collocata una vera da pozzo in
pietra d'Istria che assicurava l'approvvigionamento idrico per gli abitanti
delle case attorno.
Sulla vera è ripetuta quattro volte la figura di un'anfora: era una cosa
piuttosto frequente a Venezia adornare in questo modo i pozzi: l'anfora
aveva il significato di indicare che l'acqua di quel pozzo era buona e
potabile. Poteva essere raccolta e non doveva venire inquinata quella
contenuta nella cisterna.
Nella calle de la Madonna c'è una breve diramazione (ramo de la Madonna)
verso la fine della quale si può scorgere, scolpita ad altorilievo
sull'architrave di una porta,una piccola significativa rappresentazione del
XIV secolo illustrante San Giovanni Battista che battesima Cristo: probabile
segno della presenza religiosa del monastero di santa Maria della Celestia.
Lo
stemma sopra il "sotopòrtego" sul lato che sfocia
in corte de la Madonna.
Un gruppo di case su un lato di calle de la Madonna, quelle in testa che si
affacciano sul campiello dei Squelini ed alcune che si affacciano sulla
calle del Cappeller, sono più recenti delle altre.
Infatti vennero erette su un'area ridotta a sterpaglia ed orti a seguito
della demolizione della casa di Veneranda Porta, condannata con la pena
capitale per un orrendo delitto che commise destando, per la sua ferocia
ed efferatezza, molta impressione nell'opinione pubblica veneziana.
Sull'argomento furono anche scritte diverse opere: "La Barbarie
punita, ossia vera descrizione de' misfatti che fecero Veneranda Porta e
Stefano Fantini e la loro condanna di morte" (stampata a Treviso,
senza anno, ma è riferibile al 1780, il cui autore si firma con le
iniziale V. M.), un paio di drammi teatrali, "Leggende
Veneziane" e "Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy" (1855)
di Pasquale Negri (dove però l'episodio viene reso romanzesco),
"Veneranda Porta. Biagio Carnico" di Ruffo Ruccellini (Nerbini,
Firenze, s.d.). In tempi più recenti (2013) questo fatto di sangue è
stato ripreso in altri racconti di genere noir, come "I serial
killer della Serenissima" di Davide Busato e persino un fumetto!
Di
questo delitto sappiamo praticamente tutto, in quanto si sono conservati
integri tutti gli atti processuali.
Tutto ebbe inizio il 14 giugno 1779, con il ritrovamento di un busto
maschile con le braccia (ma con la testa e le gambe amputate) nel pozzo di
fronte alla porta laterale della chiesa di San Trovaso. Qualche ora dopo
nel pozzo della corte di ca' Fondi al Malcanton (corte non più esistente
a seguito dei rifacimenti urbanistici nella zona nel corso dei quali è
sparito anche il pozzo, ma che era posizionata dopo la calle
Berlendis) furono ritrovate due gambe complete dalle cosce ai piedi.
Il giorno dopo fu trovata una testa mozzata nel canale di Santa Chiara e,
davanti alla chiesa
dell'Umiltà, furono visti galleggiare dei resti di interiora umane.
Apparve subito evidente che si trattava di un unico corpo, di sesso
maschile, fatto orribilmente a pezzi.
Il cadavere venne in qualche modo ricomposto ed esposto al ponte della
Paglia, nel solito luogo dove venivano mostrati i corpi degli annegati per
il riconoscimento; trascorso inutilmente il tentativo, si dette luogo alla
sepoltura, tranne per la testa che venne imbalsamata e messa sopra due
panche davanti all'ufficio dell'Avogarìa per consentire un eventuale
tardivo riconoscimento.
L'uomo portava i capelli lunghi, arricciati ai lati della fronte; qui una
ciocca era ancora arrotolata attorno ad un rolò (un rotolino di
carta, antenato dei bigodini) formato da un pezzo di
lettera dove si poteva intravedere una firma fatta di iniziali: «V.F.G.C.».
La
corte de la Madonna, in fondo il "sotopòrtego".
L'accaduto
trovò spazio nelle gazzette che si pubblicavano; fu così che Giovanni
Cestonaro, un vicentino che abitava ad Este per amministrare gli affari
dei nobili Leonardo Nadal e Roberto Boldù, lesse la notizia riconoscendo
il testo di una lettera che aveva scritto al fratello Francesco.
Il 26 giugno 1779 riconobbe nell'ufficio dell'Avogarìa la testa del
fratello: spiegò che la sigla era composta brevemente dalle iniziali «Vostro
Fratello Giovanni Cestonaro»; che suo fratello aveva svolto vari
mestieri in diversi luoghi, anche il parrucchiere; che a Corfù aveva
sposato una vedova, Veneranda Porta, trentenne, un po' zoppa e bruttina,
madre di due figlie avute dal precedente matrimonio. Ne teneva con sé una
mentre l'altra era stata affidata a dei parenti a Sacile, sua città
originaria. Aveva avuto anche una terza figlia dal matrimonio con
Francesco Cestonaro, che però stava con uno zio ad Este.
Veneranda, con il suo secondo marito Francesco, abitava da quattro anni in
calle de la Madonna; intratteneva però una relazione amorosa con Stefano
Fantini, originario di Udine, che era alle dipendenze del nobile Angelo IV
Antonio Dolfin.
In quello stesso giorno i magistrati dell'Avogarìa interrogarono Veneranda
che, messa alle stretta, cominciò a confessare implorando pietà «Pietà!
... Misericordia! ... Raccomando le mie creature! ... Chiedo impunità!
... Parlerò tutto!...».
Raccontò che c'era stato un alterco con il marito che voleva ammazzare
lei ed il Fantini; quest'ultimo lo uccise a colpi di mazza la notte del 12
giugno e poi, con un coltello, tagliò a pezzi il poveretto nascondendoli il
giorno dopo in vari luoghi della città.
Alla fine dell'interrogatorio, le venne mostrata la testa imbalsamata del
poveretto, di fronte alla quale esclamò: «Nol gha più de la so
somiglianza!» (non gli somiglia più) e cadde svenuta.
Il
pozzo in corte de la Madonna, non troppo dissimile dai pozzi in cui
Stefano Fantini nascose i resti fatti a pezzi di Francesco Cestonaro.
Il
piccolo altorilievo del XIV secolo su uno stipite di porta in ramo
de la Madonna rappresentante il battesimo di Gesù.
Dopo
circa cinque mesi, il 27 novembre, venne catturato in una casa vuota di
rio Marin l'amante Stefano Fantini.
Interrogato, ammise il delitto, incolpando la compagna dalla quale sarebbe
stato soggiogato che si sarebbe scagliata contro il marito tappandogli la
bocca con la gonna per soffocarne le grida e che con un sol colpo di
rasoio lo aveva ferito alla gola e poi, volendo essere sicura della sua
morte, lo induceva ad infierire sul corpo: «Per l'amor de Dio! deghene
ancora! No sentì cossa ch'el ziga?». Inoltre sarebbe stata lei a
suggerire di far sparire il corpo facendolo a pezzi: «Ma bisogna farse
coragio, e scomenzar perché vien tardi, e distrigarse!».
Venne sentita anche la figlia Vittoria che era stata innocente testimone
del crimine e con altre prove fu chiaro che Veneranda Porta e Stefano
Fantini erano complici ed avevano agito assieme per portare a termine il
loro piano; anzi, venne appurato che per tre volte nel passato avevano cercato di
avvelenare Francesco Cestonaro per potersi sposare.
La Quarantìa Criminale emise la sentenza il 10 gennaio 1780 more
veneto (1781) con la condanna alla decapitazione dei due amanti
diabolici e, per il Fantini, con la pena accessoria di essere squartato
dopo la morte.
Accompagnati sul patibolo, Veneranda Porta chiese di essere la prima a
subire l'esecuzione, ma questo non le venne concesso.
«12 Gennaro 1780. Stefano di Andrea Fantini da Udine d'anni 30 fu
decapitato e squartato, ed apesi li quarti nei soliti luoghi d'ordine
dell'Eccelso Consiglio di quaranta al Criminal.
Veneranda Porta rel.ta del q.m Fran.co Cestonari da Sacil d'anni 37 fu
decapitata d'ord.e dell'Ecc.o Cons.o di 40 al Criminal - S. Marco».
La casa in calle de la Madonna, teatro del delitto, venne demolita e la sua area ridotta per
tutto l'Ottocento ad orti e sterpaglia.