Viaggio effettuato nel dicembre 1982 - gennaio 1983
Uno
dei tanti passaggi difficili, per la nostra Peugeot: siamo costretti a
scendere per aiutarla con una spinta.
Dopo una breve sosta a Dourou per rinfrancarci un po', arriviamo a
Bandiagara.
Abbiamo un po' di tempo per noi ed io ne approfitto per acquistare una
maschera dogon, del tipo walu, che dovrebbe simboleggiare
un'antilope: anche nella decorazione della maschera vediamo l'alternarsi di
quadrati bicolori, rossi e neri. Si tratta di maschere che erano impiegate
dai Dogon in occasioni importanti, celebrazioni e feste. Oggi credo che
siano indossate solo per esibirsi a pagamento davanti ai turisti.
La
pista sul "plateau" di Bandiagara verso il villaggio
il villaggio di Sokolo.
Ripartiamo alla volta di Mopti ma, essendo presto, decidiamo di fare una
deviazione per raggiungere un vicino villaggio, Sokolo, che disterà meno di
dieci chilometri da Bandiagara.
La pista è puramente simbolica: essendo sull'altopiano, non c'è altro che
una distesa piatta di arenaria sulla quale crescono rari arbusti che lottano
contro l'arsura.
Più di una volta dobbiamo scendere dalla macchina per alleggerirla durante
alcuni passaggi difficili, come quando deve attraversare un wadi
asciutto, oppure come quando deve superare un dosso roccioso o addirittura una
specie di scalino tra due strati di arenaria. A volte ci può essere una
piccola salita che richiede l'aiuto di una spinta alla macchina che proprio
non sarebbe la più adatta per questi percorsi, più adatti ad una Land
Rover piuttosto che ad una tranquilla Peugeot.
Case
a Sokolo.
Arriviamo a Sokolo. Il piccolo
villaggio si presenta con le abitazioni ben distanziate: essendo su un
terreno piano non ha bisogno di sfruttare al massimo lo spazio addossando
una costruzione all'altra.
I nuclei familiari sono abbastanza ben riconoscibili: si tratta di piccoli
agglomerati racchiusi da muretti di pietra che comprendono tanto le
abitazioni, quanto i magazzini ed i granai.
Soprattutto questi ultimi, ma spesso anche i magazzini, sono sollevati da
terra con un duplice scopo: isolare le granaglie dall'acqua (piove non
spesso, ma quando piove , piove davvero ed il suolo attorno si riempie
d'acqua che potrebbe compromettere la conservazione dei cereali e dei cibi
conservati all'interno) e dai topi ed altri animaletti che così hanno
più difficoltà ad entrare.
La
semplice decorazione di questo granaio conferisce alla
facciata un'espressione "sorridente".
Forme
plastiche ottenute con il "pisé" ed il "banco"
per la moschea di Sokolo.
Anche le viuzze interne non sono
strette e tortuose come quelle dei villaggi a ridosso della falesia: sono
relativamente ampie, delimitate per lo più dalle mura degli agglomerati
familiari e non sono quegli stretti budelli tra casa e casa che abbiamo
visto e percorso nei giorni scorsi e stamattina.
Nel villaggio finalmente vediamo gente: ci sono le donne, gli anziani,
tanti ma tanti ragazzini e qualche adulto. Forse gli altri sono fuori nei
campi.
Vediamo anche le famose porticine dei granai e le serrature.
Le porte sono tutte piuttosto semplici e viene da pensare che quelle più
belle, antiche o semplicemente vecchie, da qualche decennio siano già
andate ad abbellire la collezione di qualche museo europeo o di qualche
collezione privata.
Anche le serrature sono abbastanza semplici: riesco ad
individuare su un granaio una sola serratura zoomorfa: rappresenta una
lucertola, o un ramarro. Altre portano incisi dei disegni geometrici.
Trovandosi così vicino a Bandiagara questo villaggio ha probabilmente
perso il significato di certi simboli, di certe tradizioni. D'altra parte
è stato islamizzato: lo dimostra la moschea costruita con pisé e banco,
cioè con mattoni crudi di paglia e fango ricoperti di intonaco di fango.
La moschea ha una specie di merlatura fatta a forma di pan di zucchero. In
cima al piccolo torrione che funge da minareto per il muezzin è
posto un uovo di struzzo. Stanno riponendo della legna in un magazzino. Vediamo così che la
porticina d'ingresso è posta in alto: vi si accede con una scala formata
da un tronco nel quale sono stati sagomati i gradini.
Una donna inserisce
della legna dentro il granaio...
...mentre all'interno il suo
uomo la riceve e la sistema.
Poi dall'interno si scende in
qualche modo al piano inferiore: è lì infatti che si trova l'uomo che
riceve la legna che una donna porge dall'esterno.
Anche qui, come a Kani Kombole, abbiamo occasione di vedere un granaio in
costruzione.
E' in uno stadio più avanzato rispetto a quello che abbiamo visto due
giorni fa, ed oltre a osservare meglio la ripartizione degli spazi
interni, del tutto analoga a quello già visto, in questo caso è già
stato collocato al centro un cesto dogon destinato a contenere i semi e
gli oggetti preziosi della famiglia.
Un
granaio in costruzione a Sokolo.
Altra gente è intenta in diverse occupazioni. C'è chi si sta facendo
pazientemente spulciare i cappelli da un altro uomo, un vecchio dolcissimo
nonno all'ombra di una casa che tiene in braccio un neonato coccolandolo,
un contadino in arrivo dai campi con la sua zappa posata sulla spalla
dalla parte della lama, una giovane ragazza che si fa pettinare.
Alla
nostra partenza tutti i bambini di Sokolo ci inseguono salutandoci
mentre noi ci allontaniamo sulla macchina.
E bambini... tantissimi bambini
che da quando siamo arrivati ci sono stati sempre attorno, scrutando
attentissimi con curiosità ogni nostro gesto, anche il più banale.
Inutile a dire che alla nostra partenza erano tutti lì, a salutarci
un po' dispiaciuti e correndo dietro alla nostra macchina in una specie di
gara fatta a chi resisteva di più a correre.
Si sarebbe raggiunto volentieri un altro villaggio sul plateau ed
effettivamente è verso lì che ci dirigiamo. Tuttavia la strada si fa
sempre più impossibile, soprattutto perché non abbiamo una macchina
adatta al fuori strada. Ci dobbiamo rassegnare e tornare indietro.
Sulla strada accidentata il nostro pick-up dà segni di sofferenza:
gli autisti scendono un paio di volte per controllare le ruote e sotto il
pianale. Sembra che ci siano dei problemi meccanici, anche se non ne
abbiamo capito la natura.
Dopo pochi chilometri, mentre ci troviamo a percorrere un'ampia pista di
terra rossa, sentiamo un rumore sordo ed un sussulto tremendo della
macchina: non è una buca o un sasso, ed infatti gli autisti si fermano
subito.
Questa volta quello che si è rotto sembra essere il semiasse posteriore
della vettura.
La
rottura del semiasse posteriore della nostra macchina.
I
nostri autisti alzano la macchina: attorno a noi non c'è nessuno.
Non c'è possibilità di proseguire ed attorno non si vede anima viva.
I nostri accompagnatori non sembrano perdersi d'animo, all'incontrario di
quello che sarebbe potuto succedere a noi che andiamo in fibrillazione se ci
troviamo senza benzina in un'autostrada trafficata.
Dopo aver sollevato alla meglio il retrotreno della macchina poggiandolo su
alcune pietre, gli autisti si mettono a frugare tra i cespugli e staccano,
usando uno dei nostri coltellini multiuso tipo "svizzero" con
seghetto, alcuni rami di un certo spessore.
A questo punto ricompongono la "frattura" del semiasse legandoci
attorno i rami con degli stracci ed una vecchia cinghia. La "steccatura"
viene rinforzata inserendovi anche una chiave inglese.
La riparazione di
emergenza al semiasse spezzato: ricorda le steccature che si
fanno alle fratture!
Alla
biglietteria di Mopti per acquistare i biglietti per Djenné.
Sembra incredibile ma, posata la
macchina a terra, la riparazione sembra resistere.
Gli autisti ci dicono che è necessario fermarci a Bandiagara dove c'è un
meccanico che sistemerà la macchina lavorando anche durante la notte, se
occorre.
A Bandiagara, ad una decina di metri dal piazzale di quella che dovrebbe
essere l'officina meccanica, con un colpo la macchina rumorosamente si
accascia: la riparazione del semiasse ha ceduto durando esattamente per i
chilometri necessari a coprire la distanza fino a Bandiagara!
A Bandiagara troviamo ospitalità presso la missione cattolica dove ci
sistemiamo con i sacchi a pelo in un grande stanzone.
Alla mattina pare che la macchina sia stata sistemata: vi carichiamo i
bagagli e si parte per Djenné. Ma quando arriviamo a Mopti gli autisti ci
dicono che non sono in grado di proseguire, anche se noi non ci siamo
accorti di nulla di anomalo.
Non ci resta che andare tutti, portandoci i nostri bagagli, al piazzale da
dove partono bus e taxi per tutte le direzioni.
Alla biglietteria acquistiamo i biglietti per Djenné.
La
strada termina davanti al fiume Bani: siamo in attesa del traghetto
per attraversarlo.
Il pick-up non è molto diverso da quello che abbiamo avuto finora,
d'altra parte appartiene alla stessa cooperativa di trasporto: stesso
modello, stesse panchette di legno, stesso spazio assai angusto.
La differenza principale consiste nel fatto che prima avevamo affittato un
pick-up tutto per noi, questo invece fa un servizio di linea: ci sembrava di
averlo riempito tutto con noi da soli ed invece salgono altri passeggeri con
i loro bagagli ed altri ancora ne raccoglie lungo il percorso. Non so come,
ma ci stiamo tutti, anche se stretti.
Stretti
stretti sulle panchette del "pick-up" in questa foto
fatta con il "fish-eye".
Percorriamo almeno un centinaio di chilometri quando la strada si interrompe
bruscamente davanti al fiume Bani. Anzi, la strada sembra proseguire
entrando dentro il fiume!
Per attraversarlo c'è in funzione una vecchia chiatta galleggiante che fa da spola
tra le due rive del fiume.
Il traghetto è appena partito e così noi siamo costretti ad attendere;
abbiamo tutto il tempo per sgranchirci le gambe dopo la scomoda posizione in
cui erano state costrette. Vediamo sul fiume qualche imbarcazione dei
pescatori bozo, qualche capanna sull'altra riva con le immancabili reti da
pesca messe ad asciugare assieme a biancheria e panni.
Quando la chiatta comincia a muoversi verso di noi, ci rendiamo conto del
perché del suo lento procedere: non ha motore, è sospinta solo dalle
pertiche manovrate da quattro uomini che si sono messi ai quattro angoli del
galleggiante.
La
nostra macchina trasborda sulla chiatta che ci porterà verso
Djenné.
Riesce a trasportare in tutto un pick-up, un'automobile, qualche
bicicletta ed una ventina di persone.
Il
traghetto per attraversare il fiume Bani consiste in una vecchia
chiatta di ferro sospinta dalla forza di quattro marinai che, ai
quattro angoli, si servono di lunghe pertiche per sospingerla
Sbarcati tutti, è la nostra macchina a salire servendosi di qualche grossa
asse di legno messa di traverso. Oltre a noi trovano posto anche alcuni
ciclisti con i loro mezzi.
Durante la stagione di acqua bassa si può riuscire ad attraversare il Bani
al guado, mentre nei periodi di acque medie o alte Djenné diventa un'isola.
Superato il fiume, prima di arrivare a Djenné, vediamo alcuni agglomerati
di abitazioni: ci pare esagerato chiamarli villaggi! Sono costruiti su dei
leggeri rilievi del suolo, immagino per sfuggire all'esondazione del fiume. Un ponte ci conduce alla città.
Proprio grazie al fiume Bani, Djennè si trova in comunicazione con le
altre città del delta.
Come se non bastasse la sua particolare posizione geografica che
ciclicamente la trasforma in isola, è circondata da delle mura alte
quattro metri che si sviluppano per due chilometri e mezzo con 11 porte di
accesso.
La
grande moschea di Djenné, considerata il più grande edificio al
mondo costruito con mattoni d'argilla cruda.
Djenné esisteva già in tempi antichi come dimostrano diversi resti
archeologici risalenti al III secolo avanti Cristo di agglomerati che
possono essere riconducibili ad una Djenné primitiva. Anteriormente al
Mille fu fondata da un gruppo di Soninké, o Sarakolé, che poi in
prossimità del Senegal sono chiamati anche Marka, vincitori dei Bozo. Ai
tempi dell'impero del Mali si mantenne indipendente, come una sorta di
città-stato, protetta dalla sua posizione.
Si sviluppò successivamente sotto l'impero del Songhai e la troviamo citata
come centro agricolo e commerciale nel XV secolo dal geografo ed
esploratore arabo al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi (1485-1554),
conosciuto anche con il nome di Leone l'Africano che gli venne dato dopo
la sua conversione al cristianesimo.
Djenné divenne una città ricca e prosperosa: qui l'oro della regione del
Bourè veniva fuso in lingotti prima di prendere la strada verso Timbuctù
per via fluviale.
Nel XIX secolo iniziò il declino, a causa dei conflitti con i Tuareg e
con i Peul e la quasi contemporanea penetrazione francese che fece deviare
i commerci verso le vie marittime giudicate più sicure delle carovaniere
sahariane.
Oggi restano i segni di quel glorioso passato: oltre alle mura che
circondano la città ed i quartieri civili rimasti quasi intatti a
mostrare una malinconica opulenza, nel centro si eleva una importante
moschea, riedificata più volte tra la fine del XII secolo e gli inizi del
XIV secolo e rimaneggiata più o meno radicalmente almeno una volta.
Una
parete laterale della grande moschea di Djennè: i legni sono
sporgenti per non sprecare preziosi tronchi di legno tagliandoli a
misura; inoltre servono come ponteggi naturali quando si devono
riparare le pareti.
Venne smantellata nel 1830 da Cheikou Amadou che voleva ricondurre la
popolazione a pratiche musulmane più severe e rigorose e ricostruita
secondo un nuovo progetto sotto la direzione di suo figlio nel lato
nord-orientale dell'odierna piazza del mercato.
Nel 1907 la vecchia moschea venne ricostruita seguendo il modello originale
per ordine (secondo Jacques Méniaud, 1877-1938) del governatore generale
dell'Africa Occidentale Francese William Merlaud-Ponty (1866-1915), mentre
sull'edificio voluto da Cheikou Amadou fu costruita una scuola.
Osserviamo tuttavia che il Ponty fu nominato governatore generale solo nel
1908, quando la ricostruzione della moschea era già avvenuta.
Il
minareto centrale della moschea di Djenné.
La mosche di Djenné è costruita con pisé e banco, in
sostanza fango, argilla e paglia, ed è per questo considerato il più
grande edificio al mondo fatto con mattoni crudi.
Delle finte colonne decorano la facciata: qui si innalzano tre torrette,
con quella centrale che sovrasta in altezza le due laterali; sono i
minareti sormontati ciascuno da uova di struzzo.
I tronchi di legno che sostengono i solai sono lasciati sporgere dalle
pareti intonacate di fango: è un caratteristica di tutta l'area del Sahel.
Questo avviene per un duplice motivo, la preziosità del legno e la
manutenzione dell'edificio: infatti avere lunghi tronchi d'albero in
questa zona africana non è facile. I lunghi tronchi sono ricercati e se
sono più lunghi di quanto serve sarebbe uno spreco tagliarli per portarli
alla giusta misura. L'argilla cruda è più deteriorabile del legno,
potrebbe essere necessario ricostruire un muro ed il nuovo muro, un
domani, potrebbe essere collocato spostato per ampliare gli spazi interni
della costruzione. In questo caso il tronco più lungo può ancora essere
usato, mentre non potrebbe esserlo se fosse stato segato a misura.
Ma c'è anche un aspetto pratico: i tronchi sporgenti consentono di poter
effettuare la manutenzione delle pareti di fango senza dover circondare di
impalcature e scale l'edificio. Gli operai possono salirvi utilizzando,
come sostegni, questi legni sporgenti.
Sopra
il tetto della grande moschea di Djenné: i piccoli monticelli,
coperti da elementi di terracotta, sono i camini dei condotti di
aerazione.
E' così che accade anche alla moschea di Djenné dove, una volta
all'anno, il muezzin chiama a raccolta la popolazione per la
manutenzione delle pareti. E' un avvenimento importante che unisce gli
abitanti della città in un lavoro comune per far bella la propria
moschea.
Un
passaggio tra le massicce colonne all'interno della moschea di
Djenné.
Entriamo dunque nella moschea, dopo esserci tolte le scarpe: ci ritroviamo
in un ampio cortile circondato da un loggiato sorretto da massicce colonne
a sezione quadrangolare che reggono degli archi.
Le colonne continuano anche all'interno e la galleria superiore ci appare
come un matroneo riservato alle donne.
Attraverso delle scale interne si possono raggiungere alcune terrazze,
disposte a differenti livelli, che si affacciano sulla piazza principale e
sugli altri lati del complesso; alcuni muretti circondano le tombe di
marabutti.
Arriviamo fino sul tetto della moschea, dove possiamo ammirare da vicino i
particolari delle decorazioni, come la parte terminale delle finte colonne
della facciata che finiscono a pan di zucchero.
La
piazza con il mercato in svolgimento vista dall'alto della moschea
di Djenné..
Sulla terrazza del tetto vediamo centinaia di monticelli di terra con la
parte centrale coperta da un elemento di terracotta a forma di ciotola
rovesciata.
Ci avviciniamo per osservare meglio: si tratta di camini, precisamente della
parte terminale dei condotti di aerazione della sala sottostante della
grande moschea.
Ci portiamo verso il bordo del tetto sul lato della piazza che possiamo
così ammirare dall'alto con tutto il suo brulichio di gente, di colori, di
grida, di rumori e di suoni.
Il
mercato di Djenné visto dal tetto della moschea.
Dall'alto possiamo vedere anche i tetti di Djenné e ci colpisce il fatto
che manchino edifici più alti di altri: i tetti sembrano tutti, più o
meno, della stessa altezza.
L'importante
cappello di un mercante Peul al mercato di Djenné.
E' il momento di scendere e di
raggiungere anche noi il mercato che si svolge nella piazza principale,
all'ombra della grande moschea. Tanta ombra ormai non c'è più, d'altra
parte siamo arrivati un po' tardi a causa delle disavventure meccaniche di
ieri e di questa mattina.
Il
mercato del lunedì di Djenné
Ma anche se il mercato forse non è più al suo culmine di venditori, acquirenti
e gente che lo animano, resta pur sempre una bella esperienza da vivere.
Tra l'altro ci dicono, ma evidentemente noi non possiamo verificare, che
oggi ricorrerebbe una festa particolare per il profeta Maometto.
Su un lato della piazza, ma anche nelle vie laterali, sono parcheggiati
camioncini, furgoni, carri e carretti che sono serviti ai venditori per
portare le loro mercanzie.
Sulla piazza si sono sistemati per terra, qualcuno sotto improvvisate
tettoie di legno e stuoie per proteggersi dal sole ormai alto e, come in
tutti i mercati, si vende di tutto: riso, miglio, pesce secco o fritto,
anche pesce "fresco", ma quanto fresco possa essere con questo
caldo non saprei proprio dire; e poi carne, ortaggi, una strana crema
brodosa, forse di arachidi, giornali a fumetti, pile, chincaglieria...
In realtà il lunedì non è
atteso solo per il mercato, ma è visto anche come un'occasione per
incontrarsi, socializzare, parlare, mostrarsi.
Per questa occasione le donne esibiscono raffinate acconciature, gioielli
appariscenti, vestiti dai colori sgargianti.
I gioielli, soprattutto gli orecchini, sono come un simbolo del loro stato
sociale: quanto più grandi sono, tanto maggiore è la ricchezza della
loro famiglia. Gli orecchini delle donne Peul a volte raggiungono delle
dimensioni incredibili.
Magari qualche donna è qui anche per cercare marito...
Al
mercato di Djenné le ragazze volentieri esibiscono le loro
complesse acconciature.
Il
mercato del lunedì di Djenné è anche occasione di incontri,
magari per cercare marito.
Mercato come
luogo d'incontro anche
delle diverse etnie della zona: riconosciamo i Bambara, i Peul con il loro
caratteristico copricapo, i Bozo, i Mossi, i Tuareg.
Nella piazza, ma anche nei quartieri attorno, hanno sede diverse "madrasa",
le scuole coraniche. Infatti incontriamo, seduti a terra su una stuoia
all'ombra dell'edificio, soprattutto dei giovani, alcuni sono addirittura
bambini, che si esercitano nella lettura del Corano. Altri scrivono: non
abbiamo capito se stiano facendo delle trascrizioni o offrano i loro
servigi di scrivani agli analfabeti.
Ci addentriamo così nei vecchi quartieri racchiusi entro le mura della
città, risalenti al XIV-XV secolo, i secoli che segnarono il massimo
splendore di Djenné. I quartieri sono tredici, ma evidentemente non li
visitiamo tutti: ci accontentiamo di passeggiare per le tortuose e strette
viuzze che all'improvviso si aprono in spiazzi e piccole piazzette.
Una
casa monumentale in uno dei quartieri vecchi di Djenné.
Anche qui molte case, come la grande moschea, sono costruite a secco con
mattoni di fango, argilla e paglia ricoperti di un intonaco di fango con
il quale, a volte, sono fatte delle decorazioni più o meno elaborate.
Alcuni edifici dimostrano una certa ricercatezza architettonica della
facciata, un particolare gusto per i dettagli nonostante la semplicità e
la povertà del materiale usato: si tratta di palazzetti in genere ben
tenuti anche se non mancano quelli che sono solo un ricordo di tempi
migliori.
Una caratteristica comune è quella di avere un'unica porta d'ingresso,
evidentemente per motivi di sicurezza e difensivi. Gli edifici possono
raggiungere anche i due piani: quello superiore è destinato ai padroni di
casa, il pianoterra in genere ospita i magazzini delle merci e raramente
è dotato di fineste; se ci sono, esse sono piccole per assicurare un
minimo di aerazione.
Se la costruzione raggiunge i due piani, il primo è riservato alla
servitù ed il secondo alla famiglia.
Anche le finestre sono da ammirare: tutte diverse, decorate, spesso protette
da grate in legno scolpite in stile moresco.
Casa
monumentale in uno dei vecchi quartieri di Djenné.
Casa
monumentale in uno dei vecchi quartieri di Djenné.
Ormai siamo arrivati all'orario di
partenza della corsa per Mopti e torniamo sui nostri passi. Rifacciamo
all'incontrario la strada di stamattina, compreso il passaggio con la
chiatta sul fiume Bani.
Arriviamo a Mopti che è sera. Nel piazzale delle partenze dei mezzi
pubblici ci informiamo cosa c'è che ci possa portare a Bandiagara: pare ci
sia un mezzo più tardi.
Intanto mangiamo qualcosa in uno dei tanti baracchini presenti,
rimpiangendo la terrazza sul fiume del "Restaurant Bozo" ed il buon pesce capitaines.
E' buio quando finalmente partiamo e non saprei raccontare nulla del
viaggio se non che sul pick-up faceva veramente freddo. E'
mezzanotte in punto quando ci sistemiamo per la notte in un locale della
missione cattolica di Bandiagara dove crolliamo per il sonno e per la
stanchezza.