Viaggio effettuato nel dicembre 1982 - gennaio 1983
La
fucina all'interno della casa del fabbro: un martello, qualche
attrezzo, degli anelli in ferro.
«La fucina è come una casa e come una persona la cui testa è il forno
e le cui braccia sono i condotti del mantice», spiegò Ogotemmeli a
Griaule.
Sul campo primordiale, del quale lo slargo su cui è costruito il togu-na
è il ricordo, la fucina venne installata all'estremo nord, al limite del
terreno che sarebbe stato dissodato dalle zappe. Per questo motivo ancora
oggi la fucina del villaggio dovrebbe trovarsi a nord.
L'Antenato Fabbro aveva con sé tutti gli attrezzi per organizzare la
fucina: il mantice, il maglio, l'incudine. Egli doveva donare agli uomini il
ferro con il quale, costruendo le zappe, sarebbe stata possibile la
coltivazione dei campi.
Ma gli mancava il fuoco. Così entrò di nascosto nell'officina dei Nommo,
fabbri del cielo, e rubò un pezzo di sole.
Per semplificare il racconto tralasciamo le varie peripezie che incontrò
l'Antenato Fabbro, ricordando solamente che in quell'età gli uomini non
avevano le articolazioni ma solo membra flessibili come serpenti; così
anche l'Antenato Fabbro che pur possedendo le qualità di Genio dell'acqua
aveva l'apparenza umana, trattandosi di un uomo rigenerato.
Quando l'Antenato Fabbro precipitò sulla terra aveva con sé il maglio e
l'incudine che, al momento dell'impatto con il suolo, gli spezzarono le
braccia e le gambe. In questo modo ebbe le articolazioni, i gomiti e le
ginocchia, che erano adatte al lavoro dell'uomo sulla terra.
Infatti le membra flessibili non erano adatte al lavoro nella fucina e sui
campi: per battere il ferro e dissodare la terra era necessaria la leva
dell'avambraccio.
Così l'Antenato Fabbro donò agli uomini le articolazioni per poter
lavorare, installò la sua fucina e nei mesi successivi consegnò agli
uomini la zappa di ferro che diede l'inizio ai lavori agricoli.
Il lavoro del fabbro è un lavoro diurno perché il fuoco della fucina altro
non è che un frammento di sole e dunque non potrebbe risplendere durante la
notte.
Nella fucina nasce anche il vasellame: si racconta che un giorno la moglie
del fabbro aveva modellato un vaso imitando la forma della sfera del mantice
e l'aveva posto ad asciugare al sole. Ma l'argilla era troppo bagnata, non
seccava, non si induriva. Così pensò di mettere il suo vaso vicino al
fuoco della fucina per farlo asciugare. In questo modo scoprì che l'argilla
cuoceva e diventava dura.
Oggi la casa del fabbro è un luogo nel quale non si può entrare: sono
ammessi, oltre al fabbro, solo i suoi aiutanti.
L'interno
della casa del fabbro, uno dei luoghi tabù del villaggio. Un
aiutante del fabbro controlla che non si stia fotografando, ma
io ho usato un trucco.
In realtà, più che in una casa, la fucina consiste in una piccola struttura
aperta con un tetto che poggia su colonne formate da pietre a secco e pali
di legno.
Sotto, sul suolo, sono sparpagliate pietre di diverse dimensioni: le rocce
più grandi formano come un muretto a secco.
Qua e là c'è qualche attrezzo: un martello, degli anelli di ferro e
qualche altro pezzo di metallo. Un paio di ragazzi, probabilmente aiutanti
del fabbro, se ne stanno all'interno controllando che noi non entriamo in
quello spazio.
Fotografare... neppure a pensare.
Allora mi piazzo poco lontano e, applicando al teleobiettivo un apposito prisma, fingo di fotografare il paesaggio della pianura sottostante: in
realtà sto inquadrando quanto sta a 90°sulla mia sinistra, cioè l'interno
della fucina.
Le foto non sono il massimo, anzi sono proprio scadenti, ma almeno c'è il
gusto di aver fotografato qualcosa di proibito.
Il
villaggio di Banani: in alto, quasi al centro sul margine nord, si
intravede un "togu-na".
Nell'immaginario corpo
umano in cui è disposto il villaggio, ad est ed a ovest verso
l'esterno, un po' isolate, le case dove le donne si ritirano durante il
periodo mestruale occupano il posto delle mani.
Al centro del villaggio, a rappresentare il petto ed il ventre della
figura umana, ci sono in genere le grandi case di famiglia mentre a sud, al
posto dei piedi, si trovano gli altari comuni, come quello
che avevamo visto a Yawa qualche giorno fa.
Trattandosi di un'immagine umana, non poteva mancare l'aspetto sessuale: si
trova al centro del villaggio ed è simboleggiato dal mortaio con le pietre
destinate a schiacciare i semi di lannea acida, una pianta della
famiglia delle anacardiacee: rappresenta il sesso femminile.
L'altare, o pietra, della fondazione del villaggio, il sesso maschile, dovrebbe
essere collocata là a fianco, ma per rispetto nei confronti delle
donne questo altare viene costruito fuori del recinto del villaggio.
Tutto questo sistema di costruzioni, con i quartieri, i granai, i muretti,
gli orti, le viuzze, visto dall'alto dovrebbe essere l'immagine della casa
dell'Antenato, anche se ai nostri occhi tutto sembra un ammasso di pietre,
tetti di paglia e pareti di fango.
Costeggiamo
la parete rocciosa sopra Banani sulla quale sono aggrappate
antiche costruzioni Tellem.
La
pista si inerpica dentro la parete rocciosa della falesia.
Tirelli... Ireli... Banani... i
villaggi si succedono a ridosso della parete della falesia quasi a mezza
costa. Con le loro "casette" arrampicate sulle prime pendici
dell'altopiano, sembra quasi uno scenario da presepio.
Una
costruzione Tellem incastrata nella roccia della falesia.
Banani è l'ultimo ed anche il più grande, formato da quattro quartieri:
Ammou, Kokoro, Na e Sirou. E' posto in una specie di anfiteatro roccioso
costellato di cavità ed anfratti, sopra materiali franati in epoca
antica.
Il sentiero ci porta a passare appena sotto le costruzioni Tellem ormai
adibite a magazzini o tombe.
Ci sono delle funi che penzolano dal costone di roccia: sono quelle con
cui i Dogon calano dall'alto i loro morti direttamente dentro la tomba.
Per agevolare il passaggio nei tratti più difficili qualcuno ha posto dei
tronchi. Mentre noi ci inerpichiamo maldestramente, ne scendono delle
donne, con passo aggraziato, tenendo in equilibrio sulla testa calebasse
piene d'acqua.
Infatti c'è una fonte qui vicino, una pozza tra le rocce che attira le
donne del villaggio nel loro compito quotidiano di approvvigionarsi
d'acqua.
Strette
e ripide gole attraversano la parete rocciosa della falesia.
Ci
troviamo all'improvviso davanti al piatto "plateau"
dell'altopiano di Bandiagara.
Entriamo in una gola profonda,
quasi un canyon, forse scavata da qualche torrente che si forma nella
stagione delle piogge del quale rimane adesso solo un piccolo rigagnolo, sufficiente
però ad alimentare la pozza dove le donne del villaggio vanno a prendere
l'acqua.
Finalmente arriviamo in alto sul plateau dell'altopiano: davanti a
noi è tracciata la pista quasi rettilinea che ci porterà a Sanga.
Abbiamo ormai terminato l'acqua delle nostre borracce e vogliamo riempirle dal borraccione collettivo che portano i ragazzi.
Scopriamo così che è vuoto! I portatori si sono bevuti tutta la nostra
riserva d'acqua! Inutile arrabbiarsi: è evidente che il loro gesto è
stato fatto per protesta per i
fatti di ieri, quando non abbiamo accolto le loro richieste. Comunque
facciamo loro ben capire che, con questo scherzo, si sono giocati un
possibile "extra" che avremo potuto pagare a loro.
Stringendo i denti, siamo veramente stremati, avvistiamo le prime case di
Sanga. I portatori considerano finito il loro compito e noi li liquidiamo
dopo aver controllato che ci restituiscano tutto il materiale che avevamo
affidato loro.
In realtà Sanga non è il nome di un preciso villaggio, ma di un'area che
comprende tredici villaggi disseminati su rilievi rocciosi dei quali i
più noti sono Ogol alto (Ogol-du-haut) e Ogol basso (Ogol bas).
Al primo edificio che ha l'apparenza di ospitare un bar, fuori c'è la
pubblicità di una birra, ci precipitiamo dentro.
Lasciati zaini e bagagli a terra, alla rinfusa, ci facciamo servire delle
birre ghiacciate. A qualcuno farà anche un po' male tracannare tutto quel
liquido ghiacciato, accaldato com'è; ma la disidratazione stasera si fa
veramente sentire. Per tutta la giornata abbiamo bevuto meno di un litro
d'acqua a testa, camminando sempre sotto un sole impietoso.
A
Sanga finalmente si riesce a mangiare seduti ad un tavolo dopo
esserci abbondantemente dissetati di birra.
Nel locale sono anche disponibili a prepararci qualcosa da mangiare; a
questo punto decidiamo di prolungare la nostra sosta.
Rinfrancati ci portiamo presso il posto di polizia: è lì che abbiamo
l'appuntamento con la macchina. I nostri autisti non sono arrivati con il
Peugeot, poco pratico su queste piste disastrate, ma con una più
funzionale Land Rover.
Arriviamo a Bandiagara quando comincia a fare buio ed ancora una volta
saremo ospitati dalla missione cattolica.
Inutile a dire che crolliamo tutti di stanchezza sui nostri materassini.
"Dio
d'acqua" di Marcel Griaule. In italiano esistono diverse
edizioni; quella presentata è dei "Tascabili Bompiani",
aprile 1978, traduzione di Giorgio Agamben.
Alcune riflessioni (postume) su un viaggio tra i Dogon.
Sicuramente un viaggio come quello che abbiamo fatto tra i villaggi dogon
della falesia di Bandiagara non è più ripetibile.
Basti dire che quando compimmo quel trekking non incontrammo alcun turista
occidentale od europeo.
Si stima che all'epoca i visitatori non arrivassero ad essere 6.000
all'anno, mentre alle soglie del 2000 si stimava che fossero raddoppiati;
oggi quelle cifre sono verosimilmente ancora aumentate con una crescita
esponenziale.
La fama dei Dogon è stata consacrata dagli studi di Marcel Griaule e dalle
pagine del suo libro che lo hanno reso celebre tra il pubblico non
specializzato, "Dieu d'eau" (Dio d'acqua), segnando anche in modo
decisivo il destino di questo popolo.
Le riviste di viaggio ed i cataloghi dei tour operator che propongono un'esperienza
tra i Dogon hanno attinto a piene mani dalle pagine di Griaule. Così come i
Masai sono definiti belli e fieri, i Tuareg liberi e misteriosi, i Dogon
oltre ad essere misteriosi, sono magici, esoterici, sono degli astronomi,
dei filosofi, hanno conoscenze cosmogoniche insospettabili.
Si è creato un binomio indissolubile tra Griaule ed i Dogon.
Il turista che decide di fare un viaggio nella falesia di Bandiagara è un
visitatore attento, non certo alle prime armi con i viaggi all'estero, che
cerca un'occasione di approfondimento e di conoscenza, un visitatore che
probabilmente ha già letto il "Dio d'acqua", la descrizione di un
catalogo o un articolo di viaggio che sempre, inesorabilmente, si rifanno
all'immagine del "Dio d'acqua" che diventa così uno stereotipo.
Il viaggiatore si attende di entrare in un mondo magico, fatto di
simboli cosmici, di incontrare gente che ordina la propria vita e la propria
società secondo mappe ancestrali che si rifanno all'universo ed all'origine
del mondo.
I Dogon non sono quelli che Griaule aveva descritto, oltretutto
francesizzandoli un po' troppo.
Se ai tempi di Griaule già metà aveva abbandonato la religione animista
per abbracciare la fede musulmana, oggi l'Islam ha aumentato la propria
presenza, sono sorte moschee ovunque.
La società dogon non si è congelata negli scritti di Marcel Griaule, ha
camminato nel bene e nel male: le coperture di paglia di tante costruzioni
sono state sostituite dalla più pratica lamiera; anche tanti muri sono
diventati di mattoni e cemento, salvo poi essere ricoperti dal tradizionale banco
che fa "più etnico"; in lamiera è anche la maggior parte delle
porticine dei granai, magari per essere sostituite, all'arrivo dei turisti,
da porte di legno costruite apposta per i visitatori che, acquistandole,
credono di avere un pezzo autentico solo perché è stata smontata dal
granaio sotto i loro occhi; i Dogon non sono isolati, impermeabili al
cammino del resto del mondo: infatti molti di loro hanno combattuto in
Europa nell'esercito francese nella prima e nella seconda guerra mondiale;
per spostarsi di villaggio in villaggio hanno scoperto che si può usare la
bicicletta e chi se lo può permettere usa moto "enduro"; nei
mercati i recipienti fatti con le zucche svuotate (calebasse) sono destinati
ai turisti: loro usano sempre più spesso i più pratici recipienti in
plastica.
Tutto questo contrasta con le aspettative di un turista che è rimasto alla
lettura del "Dio d'acqua".
Ma i Dogon hanno capito che il visitatore cerca l'aspetto mistico del loro mondo,
quello che era stato raccontato da Griaule e dai cataloghi dei tour
operator, e lo mettono in evidenza per soddisfare le sue attese. Non a
caso molte guide dogon, che oggi pullulano sull'altopiano di Bandiagara e
sono organizzate in associazione, per prepararsi professionalmente al
mestiere hanno letto il "Dio d'acqua" di Griaule ed è questo che
trasmettono al turista: alla fine la guida ed il turista hanno letto lo
stesso libro, tutto concorda, la tradizione si perpetua ed il turista può
concludere che qui nulla è cambiato.
Il
disegno di un bambino dogon che raffigura danzatori che indossano
le tradizionali maschere. Sembrano disegni fatti sui quaderni per
la scuola, ma in realtà sono fatti esclusivamente per essere
venduti ai turisti (immagine
dal Corriere della Sera del 7 aprile 2002).
Ma qualcosa, e neppure poco, è cambiato.
Dal 1989 la falaise di Bandiagara è entrata a far parte del
patrimonio mondiale dell'umanità tutelato dall'Unesco come "Sanctuaire
Naturel et Culturel de la Falaise de Bandiagara".
Appare quanto meno discutibile quanto si legge nelle motivazioni: «...una
delle culle della cultura animista da preservare in un contesto minacciato
dalla modernità e dal monoteismo...»: in genere l'Unesco è più
incline a porre la propria tutela ai monumenti piuttosto che a popolazioni
umane!
Leggendo i rapporti preparatori all'ammissione della falesia di Bandiagara
tra i beni del patrimonio mondiale dell'umanità, sembra di essere davanti
alle descrizioni di Griaule: si assiste alla pretesa di congelare la cultura
dogon, ma in realtà quello che si congela non sono la cultura e la società
dogon (che, nonostante tutto, come abbiamo visto, si trasforma in un
processo continuo) ma l'immagine scritta di tale cultura, come fosse un bene
archeologico da conservare immutabile nel tempo.
Così ogni intervento internazionale o maliano sull'area dogon finisce per
rafforzare l'immagine "etnografica", descritta da Griaule, degli
abitanti della falesia. In altre parole, i Dogon sono "condannati"
a rimanere "etnici" per forza, agli occhi delle istituzioni (maliane
o internazionali) e dei visitatori.
Ed i Dogon si adeguano al gioco: indossano a pagamento maschere delle quali
hanno perso il significato per danzare e farsi fotografare davanti ai
turisti, costruiscono copie di statuette, di serrature, di porte dei granai
uguali a quelle che sono finite in qualche museo europeo o americano.
Al turista che cerca un souvenir autentico viene mostrata la
fotocopia di un libro, di un catalogo di un museo che la raffigura: per il
Dogon quella statuina è "autentica" perché è nei libri europei,
è "autentica" perché è "lontana nello spazio" (ad
esempio in un museo parigino). Per il visitatore è vera, è autentica,
perché è "lontana nel tempo", ed i Dogon hanno imparato
benissimo ad "antichizzare" i loro manufatti.
Manufatti che a volte, come le porticine dei granai, sono troppo voluminosi
per essere trasportati in aereo dal turista: ed allora i Dogon hanno
imparato a farli un po' più piccoli, nella misura giusta che può entrare
in una Samsonite!
In pratica si tratta dell'incontro di due culture: quella del visitatore che
confina la cultura dogon nel proprio tempo libero e quella della guida che
deve garantire stupore al visitatore, non uno stupore qualunque, ma quello
che il visitatore si aspetta di trovare dopo aver letto i cataloghi di
viaggio.
E' un gioco degli specchi continuo, durante il quale una cultura si riflette
nell'altra.
Non è niente di grave.
Basta essere consapevoli che si sta svolgendo un gioco delle parti.
(Estate 2009)
"Diario
Dogon" di Marco Aime, Bollati Boringhieri, marzo 2000.