Viaggio effettuato nel dicembre 1982 - gennaio 1983
Dopo
i bagagli, saliamo anche noi nel cassone del camion.
La mattina dopo ci informiamo su dove trovare un mezzo pubblico che ci porti
a Dourou e da qui proseguire il nostro trekking.
Ci viene indicato il luogo della fermata alla periferia di Bandiagara dove
restiamo abbastanza perplessi: infatti non c'è strada, non c'è nulla che
apparentemente indichi una fermata di un autobus o di un altro mezzo di
linea.
Questa
sarebbe la fermata a Bandiagara del mezzo che ci dovrà portare
a Dourou.
Domandiamo ancora ed inevitabilmente ci confermano che è lì che si ferma
il mezzo di linea per Dourou.
Aspettiamo.
Alle 9 appare un rumoroso camion con le sponde del cassone assai alte che
vedendoci subito si ferma: è questo il nostro mezzo di linea!
Un aiutante dell'autista scende dalla cabina di guida ed apre il portellone
posteriore: scendono un paio di persone con i loro bagagli.
Adesso è il nostro turno di salire. Ci dividiamo i compiti e facciamo il passamano dei
bagagli tra alcuni di
noi saliti a bordo ed altri restati a terra .
Il
mezzo è semplicemente un camion sul quale carichiamo i bagagli.
Finalmente siamo tutti sul camion; il portellone viene rinchiuso e poco dopo
il veicolo riprende la marcia.
Tra sussulti vari ci guardiamo attorno per cercare di sistemarci in modo di
non cadere. Con noi ci saranno almeno una ventina di persone: uomini con
borse, donne con cesti, stoffe ed altri fagotti.
Noi riusciamo a guadagnarci qualche centimetro, giusto per posare
piedi: saremo costretti a rimanere in piedi cercando di aggraparci, per non
cadere, ai montanti che dovrebbero reggere il telo di copertura del cassone
che non è stato disteso.
Il
nostro arrivo a Dourou, appena scesi dal camion.
Il viaggio prosegue fra moltissimi
sobbalzi mentre la mancanza di copertura ci fa mangiare tantissima
polvere.
Ovviamente le alte sponde del cassone ci impediscono non solo di vedere il
paesaggio, ma anche di cercare di capire a che punto siamo del viaggio.
Il
viaggio verso Dourou nel cassone del camion cercando qualche
appiglio.
Finalmente dopo due ore e mezza di viaggio, durante le quali il camion si
è arrestato alcune volte per far scendere dei passeggeri e farne salire
altri, ci si ferma.
La gente che viaggia con noi ci fa segno che è la nostra fermata dove
dobbiamo scendere.
Quasi subito il portellone del cassone viene aperto dall'esterno dal
solito ragazzo che ci fa segno che siamo arrivati.
Immediatamente ci organizziamo in un nuovo passamano dei bagagli ed alla
fine, ancora con le gambe traballanti, siamo finalmente sulla solida terra
mentre il camion, caricati altri passeggeri, riparte non sappiamo per
dove.
Ci guardiamo attorno: siamo alla periferia di Dourou, di fronte alla
stazione di polizia, proprio accanto all'asta portabandiera.
C'è subito qualche curioso che si ferma ad osservarci seguito da una
frotta di rumorosi ragazzini.
Pubblicazioni
di matrimonio di due giovani maliani affisse alla stazione di polizia
di Dourou: le macchie sono le loro impronte digitali, in quanto
analfabeti.
Noi ci rechiamo al posto di
polizia: qui oltre al controllo dei passaporti e dei visti, compresa la
famosa autorizzazione a fotografare che ci eravamo procurati a Mopti, per
proseguire dobbiamo compilare individualmente un formulario dove,
dichiarando che siamo consapevoli di entrare in una zona fuori del
controllo delle forze dell'ordine e che lo facciamo a nostro rischio e
pericolo, dobbiamo indicare anche la persona che deve essere avvertita in
caso di incidente o di nostro decesso!
Mentre facciamo i debiti scongiuri, osservo un curioso foglio affisso alla
porta del Commissariato: si tratta di una pubblicazione di matrimonio tra
il signor Seydon Sagara, «...cultivateur..» (coltivatore) nato «...vers
1959...» (attorno al 1959) e la signorina Miribara Wagalan, «...menager...»
(casalinga, ovvero senza professione) nata «...vers 1964...» (attorno al 1964). Per la data di nascita è
usata la stessa formula che
avevo visto sul passaporto del mio vicino di posto sull'aereo che ci
portava a Bamako.
I due futuri sposi potrebbero avere dei legami di parentela, o comunque
appartenere allo stesso gruppo familiare, confrontando i cognomi dei loro
genitori.
Sull'atto seguono le generalità dei due testimoni presenti ed al posto
delle loro quattro firme compaiono, impresse con inchiostro nero, le loro
impronte digitali, essendo tutti analfabeti.
I due giovani, che celebreranno il loro matrimonio il 30 marzo, optano (è
indicato sulle pubblicazioni) «...pour la polygamie» e la dote è
stata concordata in 10.000 franchi maliani.
In un baracchino vicino al Commissariato vedo qualche cianfrusaglia
impolverata in vendita: tra queste un cappello peul usato ed un po'
malconcio, di diametro inferiore a certi cappelli giganteschi che
ostentavano i Peul più ricchi ai mercati. Lo acquisto, un po' per
souvenir, un po' per usarlo: se loro si riparano in quel modo dal sole,
riparerà anche me!
Ancora
con i bagagli a terra, davanti alla stazione di polizia di Dourou,
assaliti da aspiranti portatori.
Intanto è corsa voce che c'è un
gruppetto di visitatori che vuole scendere dal plateau alla falaise.
Questo ha fatto radunare un po' di curiosi attorno a noi e soprattutto
ragazzi che si offrono come portatori.
Definiamo con loro le nostre intenzioni e pattuiamo il prezzo.
Riprendiamo dunque il nostro trekking tra i villaggi dogon, dopo averlo
interrotto l'altro ieri per poter essere di lunedì al mercato di Djenné.
Inizialmente si tratta di una tranquilla camminata che ci fa attraversare
la periferia di Dourou: il paese è islamizzato, come dimostra la presenza
di una moschea della quale vediamo, di lontano, il caratteristico profilo
della sua architettura sudanese.
Ci troviamo ad attraversare anche qualche vecchio quartiere, del quale
vediamo ancora l'impronta dogon nei caratteristici magazzini e granai
quadrangolari con il tetto a cappello conico di paglia.
Passiamo di fronte ad alcune grandi case di famiglia dogon, molto
malridotte ed in parte distrutte dal tempo e dall'incuria.
Alla
periferia di Dourou una casa di famiglia in stile Dogon.
Un'altra
casa di famiglia dogon alla periferia di Dourou.
Nessuna di quelle che vediamo rispetta rigorosamente i canoni
architettonici e simbolici tradizionali dogon, così come sono stati
perpetuati negli scritti di Marcel Griaule che li aveva appresi dal
vecchio cacciatore Ogotemmeli: la facciata della grande casa di famiglia,
o ginna, dovrebbe possedere dieci file verticali di otto nicchie
quadrate che terminano in alto ciascuna con una nona nicchia rotonda,
chiamata "nido di rondine". A coronamento dell'edificio
dovrebbero esserci otto colonnette, ora slanciate, ora a forma di pan di
zucchero, ma le precarie condizioni in cui si trovano le case di questo
quartiere di Dourou non ci permettono di dire se ci fossero. Tuttavia
Griaule avverte che quando la casa è stretta, può anche avere solo due o
tre file verticali di nicchie al posto di dieci e le colonnine in alto
possono essere meno numerose, così come quando la casa invece è più
grande possono anche superare la decina: il numero tradizionale comunque
è quello di dieci file verticali di nicchie e di otto pinnacoli.
Le otto file orizzontali di dieci nicchie rappresenterebbero gli otto
Antenati dei Dogon e la loro discendenza, numerosa quanto le dita di una
mano. Le dieci colonne di nicchie sono separate dalla porta d'ingresso:
cinque file verticali di otto nicchie a sinistra ed altrettante a destra.
Guardando la facciata dovrebbe essere come vedere due mani con le dita
distese, a sinistra e a destra della porta della casa.
Tra
le persone che incontriamo lungo il cammino, sono frequenti i fumatori
di pipa.
Le nicchie rappresentano le abitazioni degli Antenati e non devono mai
essere chiuse, perché gli Antenati devono respirare.
Sulla porta dovrebbero essere scolpite le immagini degli uomini e delle
donne nati dai primi Antenati, la serratura della porta sarebbe l'altare
degli Antenati e spesso vi sono rappresentati due personaggi: il guardiano e
sua moglie.
A volte sopra il pannello può essere scolpita, più grande, un'altra
coppia: in questo caso si tratterebbe della coppia umana primordiale.
I buchi circolari sopra le nicchie sarebbero i pollai degli Antenati e le
colonnine poste in alto, a mo' di cresta della facciata, sarebbero gli
altari degli Antenati.
La facciata nel suo insieme si presenta come una scacchiera, con quadrati
scuri, le nicchie in ombra, e parti chiare, il muro pieno alla luce del
sole.
Questa alternanza di quadrati neri e bianchi è un elemento che troviamo
spesso tra i Dogon: simboleggia la coperta dei morti ottenuta cucendo
assieme otto strisce di tessuto fatto di quadrati bianche e neri, ci riporta
alla memoria la tessitura e
quindi la delimitazione del campo
coltivato, con la terra dissodata e delimitata da tanti quadrati che
contengono la pianticella.
Abbiamo ormai lasciato Dourou e ci stiamo incamminando verso il bordo del plateau.
Compagni
di cammino per un breve tratto sul sentiero del
"plateau": il loro passo era più spedito del nostro e
ci hanno presto superato.
Non siamo sempre soli durante il viaggio: a volte veniamo superati da uomini
e donne carichi di ceste, borse, fagotti, che tengono un passo più spedito
del nostro.
Forse ai loro occhi diamo l'impressione di essere un'armata Brancaleone allo
sbando, mentre loro stanno camminando perché hanno le loro cose da fare, i
loro commerci, le loro relazioni, i loro impegni. E' un po' come quando noi,
pendolari in automobile per lavoro, ci troviamo in mezzo ad automobili di
turisti che procedono a passo d'uomo per ammirare il paesaggio.
Più rari sono i viaggiatori che incrociamo, cioè quelli diretti verso
Dourou; con loro ci si saluta sempre, con ampi sorrisi ed inchini.
Con un viaggiatore locale che fuma una pipa di terra nera cerco anche di
avviare una piccola conversazione, ma senza troppo successo: lui si mette in
posa per farsi fotografare e dopo saluta e riprende il suo cammino.
La
strada per scendere alla base della falesia di Bandiagara presenta
suggestivi scorci di rocce.
Il sentiero che ci porterà a
Nombori si insinua in una profonda gola scavata forse da qualche
torrentello che non vediamo ma del quale notiamo una presenza indiretta
nella vegetazione un po' più abbondante.
Per
scendere percorriamo gole profonde. Sulle spalle porto il
cappello Peul che ripara certamente dal sole, ma è molto più
pesante del mio cappellino di cotone.
Su
certi passaggi bisogna prestare un po' d'attenzione.
La discesa si fa sempre più ripida ed anche un po' accidentata: per fortuna
la caviglia
che mi si era slogata scendendo verso Kani Kombole non mi dà più
dolori, anche se rimane ancora leggermente gonfia, ma devo tener conto che
sono passati appena quattro giorni durante i quali non la ho certamente
tenuta a riposo.
In qualche tratto sono stati posti dei tronchi per agevolare il superamento
di alcuni ripidi passaggi.
Poi, all'improvviso, la gola si affaccia sul vuoto sulla rossiccia pianura
di Seno e dobbiamo respirare a pieni polmoni: la visione è senz'altro
mozzafiato!
Poi
improvvisamente la gola si apre sulla pianura di Seno.
A
Nombori acquistiamo un agnello per la cena: il macellaio del villaggio
lo sta uccidendo per noi.
Continuiamo la discesa, ora più tranquilla e facile, sul sentiero che ormai
è uscito dall'altopiano e ci sta conducendo rapidamente ai piedi del plateau.
Quasi senza accorgerci, appena terminata la discesa, raggiungiamo il
villaggio di Nombori dove ci fermiamo un po' per rinfrancarci.
Complici i nostri portatori, ci viene proposto di acquistare un agnello per
la cena. Dopo un breve scambio di idee tra noi, decidiamo di accettare, ben
sapendo che l'offerta non è disinteressata. I portatori sicuramente
otterranno una piccola mancia per l'affare concluso e questa sera potranno
mangiare carne di agnello, fatto che non deve capitare loro molto di
frequente.
Saranno loro questa sera a prepararlo ed a cucinarlo. Intanto l'agnello
viene ucciso ed i portatori se ne fanno carico per il trasporto.
Riprende così il nostro camminare ai piedi della falesia che teniamo sempre
alla nostra sinistra.
All'altezza del villaggio di Idieli-Goudana, o Idieli basso, che
attraversiamo, notiamo arroccate al riparo della parete protettrice
dell'altopiano, che qui è ricca di successive stratificazioni, alcune
costruzioni Tellem,
gli antichi abitanti scacciati dall'arrivo dei Dogon.
Incastonate
nelle stratificazioni rocciose della parete della falesia ci
sono ancora le antiche costruzioni Tellem.
Sono i tipici granai a torre dell'architettura tellem, incastrati sotto una
roccia: sembrano aggrapparsi alla falesia per non scivolare giù.
Tra
Idieli e Komokani il sentiero sembra essere il letto asciutto di un
"wadi".
Alcune di queste costruzioni sono ancora oggi utilizzate dai Dogon per le
loro sepolture o anche semplicemente come magazzini.
Dopo Idieli il nostro peregrinare ci fa percorrere il letto asciutto di un
wadi giungendo così a Komokani quando la falesia proietta la sua
ombra sul villaggio sottostante.
Come sempre il nostro arrivo suscita la curiosità di tutto il villaggio.
Ci facciamo condurre dal capo villaggio per chiedere il permesso di
accamparci e di poter attingere l'acqua dal pozzo. Ci viene subito
accordato, senza chiedere nulla in cambio. I nostri portatori si fanno avanti protestando per i soldi che avevano
concordato con noi: sono troppo pochi, dicono. Forse si sono consigliati
con qualcuno del villaggio. Ma noi li paghiamo lo stesso prezzo che
avevamo pagato nei giorni scorsi agli altri, nella prima parte del
trekking. Inoltre facciamo notare che quel prezzo a loro andava bene
questa mattina e non possono metterlo in discussione adesso.
In conclusione, se a loro non va bene, possono tornare anche indietro: per
portare neppure tante cose, zaini personali e qualche bagaglio collettivo,
domani possiamo anche arrangiarci da soli, oppure chiedere a qualcuno di Idieli di accompagnarci per lo stesso prezzo.
Il
nostro accampamento a Komokani: abbiamo sempre spettatori interessati
a quello che stiamo facendo.
Le loro richieste sembrano al momento rientrare, così possiamo dedicarci a
preparare l'accampamento nel luogo che ci era stato indicato, uno spiazzo
appena fuori le case del villaggio sotto alcuni imponenti baobab.
Ormai abbiamo capito come disporre le tende in modo da evitare che i
ragazzini spinti dalla curiosità, girandoci attorno, inciampino sui tiranti
che le sorreggono: una specie di semicerchio che permette loro una comoda
visuale sul nostro campo; così soddisfiamo la loro naturale curiosità
senza costringerli ad insinuarsi tra tenda e tenda.
I portatori si danno da fare con l'agnello che abbiamo acquistato a
Nombori: lo preparano mentre c'è chi si occupa del fuoco.
E' buio quando, alla luce delle lampade a petrolio, cominciamo a mangiare
l'agnello: forse avrebbe avuto bisogno di una cottura migliore, la carne è
ancora troppo fresca essendo stato macellato poche ore fa, ma non guardiamo
troppo per il sottile. Naturalmente offriamo la carne al capo villaggio ed
anche ai nostri portatori che non si fanno pregare.
Non abbiamo difficoltà a crollare nelle nostre tende per il sonno e la
stanchezza dopo una giornata così intensa che era iniziata con un viaggio
di due ore e mezzo dentro il cassone di un camion.
I
tetti del villaggio di Tirelli (o Ireli?).
Il giorno dopo, alle prime luci dell'alba, siamo già in piedi per
smontare l'accampamento e riordinare le nostre cose. I nostri portatori
non sembrano dare segni d'irrequietezza dopo la protesta di ieri sera.
Alle sette e mezza la nostra carovana si muove ed appena in tre quarti d'ora
raggiungiamo Tirelli, un altro villaggio le cui case iniziano dove termina
la pianura e si inerpicano sulla base della falesia.
Durante il nostro camminare incrociamo altri viandanti con i quali ci si
scambia sempre un saluto. Se il nostro saluto è abbastanza formale, quello invece dei locali è
molto colloquiale, pieno di domande e di auguri di buona salute, come
quello di un anziano proveniente da Sanga che incrociamo tra Tirelli ed
Ireli: «Come stai?», «Come stanno i tuoi figli?», «Come
stanno le tue capre? e gli agnelli?», «Come stanno i tuoi
genitori?»; «Come stanno le tue mogli? e i cugini?», «Vai a
Sanga? non c'è ancora molta strada», «Oggi è buono il mercato di
Sanga, io ci sono appena stato», «Tu da dove vieni? dall'Italia? e
dov'è l'Italia, dopo Sanga? ci sono mercati in Italia? ci sono
capre?...».
Saluti molto cerimoniosi e mai frettolosi, segno di persone che vivono il
tempo a loro misura e non si fanno condizionare dalla misura del tempo.
Il
villaggio di Tirelli con in primo piano un albero di baobab.
Ormai, dopo Tirelli, è un susseguirsi di villaggi: Ireli, Banani...
E' sempre difficile distinguere dove ne termina uno e ne inizia un altro.
Non incontriamo molte persone nei villaggi: le donne, impegnate
soprattutto a trasportare acqua con grandi calebasse rotonde, una zucca
tagliata e svuotata usata come recipiente, bambini incuriositi dalla
nostra presenza che altrimenti se ne stanno a giocare tra la polvere nei
cortili delle case, qualche anziano seduto all'ombra immerso nei suoi
pensieri.
Passando tra le case vediamo sul muro di una di esse gli avanzi macabri di
un rito sacrificale: tenuti fermi da argilla ormai essiccata ci sono
decine di teste e di coppie di zampe di uccelli che in origine dovevano
avere il piumaggio nero.
Il
"togu-na", o casa della parola, dove gli uomini decidono le
sorti del villaggio.
Un
muro con i resti di offerte sacrificali ("gri-gri").
Si tratta di un gri-gri, un rito magico legato alla credenza
secondo la quale se una donna incinta sente cantare degli uccelli notturni
perderà il bambino che ha in grembo.
Noi vediamo questi villaggi come un ammasso caotico di costruzioni, case,
granai, magazzini, muretti di confine che delimitano piccoli fazzoletti di
terra destinati alla coltivazione, soprattutto delle cipolle, e forse è
proprio così. In realtà il villaggio dogon dovrebbe avere una struttura che segue
determinate regole, anche se è difficile trovarne uno fedele a causa
delle irregolarità di questo suolo tormentato, al quale i villaggio deve
adattarsi.
Il villaggio è concepito a immagine del cosmo del quale è la
proiezione terrestre. Esso dovrebbe riprodurre la forma del corpo del
Nommo,
il grande Antenato, steso supino da nord verso sud, dove la testa è
rappresentata dalla casa del consiglio, o casa della parola (togu-na),
costruita su una piccola piazza che simboleggia il campo primordiale
delimitato dall'Antenato.
Il togu-na, o casa della parola, è il luogo dove gli uomini si
riuniscono per appartarsi e discutere e dove gli anziani del consiglio
prendono le decisioni che riguardano la vita del villaggio ed esercitano
la giustizia.
Un
anziano del villaggio seduto davanti al "togu-na".
Esso consiste in uno spesso tetto orizzontale formato da strati successivi
di fascine di steli di miglio. Questo riparo poggia su un'armatura di
tronchi sostenuta da delle tozze colonne, di legno o di pietra, disposte su
tre file.
Il togu-na ricorda la struttura sotto la quale deliberavano gli otto
Antenati primordiali, quando avevano ancora forma umana, prima di
trasformarsi in Geni dell'acqua.
L'interno
di un "togu-na": non si può restare in posizione
eretta, ma solo accovacciati. Le decisioni devono essere prese
con saggezza e non sotto l'effetto dell'ira. Qui lo scatto d'ira
non è possibile perché non è possibile alzarsi.
Le case della parola dovrebbero essere orientate secondo i quattro punti
cardinali: le otto colonne non solo simboleggiano gli otto Antenati, ma sono
esse stesse gli otto Antenati: sono tozze come i loro busti; gli Antenati
stanno seduti a consiglio con le teste inserite nei tronchi della travatura
che sostiene le fascine di miglio.
Le colonne, formate di pietre a secco oppure ricoperte di argilla mista a
paglia, sono disposte su tre file orientate da nord a sud.
Le due file esterne dovrebbero avere tre colonne ciascuna, mentre quella
interna solo due.
Un
altro "togu-na": su una colonna c'è un motivo "kanaga".
Sedendosi all'interno del togu-na, stando rivolti a nord, la prima
colonna è quella in fondo a sinistra (all'angolo di nord-ovest), la seconda
al centro del lato di sinistra (ovest), la terza all'angolo di sud-ovest, la
quarta all'angolo di sud-est, la quinta a metà del lato di destra (est), la
sesta in fondo a destra (angolo di nord-est), la settima colonna, simbolo
del Settimo
Antenato, signore della parola, cioè colui che la insegna, è quella
centrale del lato nord e l'ottava
colonna, simbolo dell'Ottavo Antenato il Lebé, cioè la parola
stessa che viene insegnata dal Settimo è ancora centrale, ma verso il lato
sud.
In questo modo le otto colonne (otto antenati) sono disposte come un
serpente acciambellato, a spirale, in modo di abbracciare il Settimo
Antenato ed il Lebé.
Tutta la struttura del togu-na è bassa: non si riesce a starvi
dentro in posizione eretta, ma solo da seduti.
E' fatta così perché gli anziani, che devono prendere le decisioni che
riguardano gli affari del villaggio, non abbiano da adirarsi: l'ira infatti
non fa deliberare con saggezza, ma è impulsiva.
Nei momenti in cui l'uomo si arrabbia, si adira, d'impulso si alzerebbe per
sopraffare gli altri; ma qui, sotto il basso togu-na, non può
alzarsi. Già questo gli fa sbollire l'ira ed assumere con più ponderatezza
e saggezza le decisioni nel consiglio.
A nord del togu-na dovrebbe essere collocata la fucina, ovvero la
casa del fabbro.