Venezia: di questa città sono noti i suoi ponti, i suoi canali, i suoi
campi e campielli, le sue calli. E' nota anche la sua curiosa toponomastica
indicata con insegne particolari: i "ninzioleti" (pronuncia
"ninsioleti"), cioè "piccole lenzuola" (il lenzuolo
infatti in
veneziano si chiama "ninziolo").
Si tratta di riquadri in malta tinteggiati di bianco con una cornice dipinta
in nero a mano libera con l'aiuto di un'asse di legno.
I caratteri sono dipinti con forme di latta nelle quali sono intagliate le
sagome delle lettere (dime), centrate "ad occhio" in modo da ottenere una
certa simmetria.
Sono toponimi che possono trovare origine in nomi di santi (campo "San
Zan Degolà" per "San Giovanni Decapitato", campo "San
Trovaso" per "Santi Gervasio e Protasio"), di
famiglie (ponte "Foscarini" dall'antica famiglia Foscarini
che qui aveva un palazzo, calle "dei Amai" dalla famiglia
Amai), di artigiani (campiello "del remer" dove esisteva un
fabbricante di remi, calle "dei saoneri" dove c'erano dei
fabbricanti di saponi), di altri avvenimenti (campiello delle "Chiovere"
dove si asciugavano i panni, ponte "dell'arzene" dove c'era
un argine) e così via. Sempre comunque toponimi veneziani (a Venezia hanno
avuto scarso successo i tentativi di intitolare calli o campi ad eroi del
Risorgimento oppure ad altre personalità).
A Venezia esistono anche due calli chiamate con l'identico nome: "Calle
del Tabacco".
Perché questo nome?
Giuseppe Tassini, uno studioso di fatti veneziani vissuto nell'Ottocento,
ricordandoci che il nome di una di queste calli è citato in un documento
del 1661, lo giustifica così: «Da uno spaccio di tabacco, che esisteva
all'imboccatura di questa calle».
Da questa piccola notiziola ho ricevuto lo spunto per approfondire
l'argomento del tabacco nella Repubblica di Venezia.
Quando i sovrani europei, e non solo loro, si resero conto di non poter più
nulla fare contro la diffusione del fumo e del tabacco tra i propri sudditi
(pensiamo agli editti ed agli anatemi scagliati da Luigi XIII di Francia, da
Giacomo I in Inghilterra, da Abbas il Grande di Persia ed alle scomuniche di
Urbano VIII e di Innocenzo XII), quando dunque fu chiaro che tutte le misure restrittive, le
condanne e le minacce non avevano sortito alcun apprezzabile risultato,
molti governi, per non dire tutti, preferirono trasformare «questa
abitudine disgustosa alla vista, pericolosa al cervello e malsana per il
petto» in una sorgente di profitti per le loro casse sempre esauste,
assicurandosene il monopolio.
La Repubblica di Venezia non fu da meno, e con impensabile impegno curò,
fino alla sua caduta avvenuta nel 1797, il "partito del tabacco",
combattendo il contrabbando e sopprimendo gli abusi.
Non si può indicare una data precisa a partire dalla quale il tabacco venne
introdotto a Venezia, ma certamente a causa dei traffici mercantili che
questa città intratteneva con gli altri Stati, ciò dovette avvenire non
molto più tardi che altrove.
Verso la metà del XVII secolo il Senato veneziano si preoccupava di trovare
il modo con cui regolamentare il commercio del tabacco, ed il nobile
veneziano Paolo Vendramin, Residente della Repubblica a Napoli, mandava una
relazione a Venezia illustrando come si era risolto il problema nel Regno di
Napoli, allegando un editto nel quale era disposta una certa gabella sul
tabacco. La relazione e l'editto furono inoltrati ai "Savi alla
Mercanzia" (una sorta di Ministero per il Commercio) con l'incarico di
studiare se quelle regole potevano essere applicate anche nei territori
della Repubblica.
Troviamo "in Pregadi", filza numero 564, sotto la data del 18
febbraio 1650: «E da mo sia preso, che mandandosi al Magistrato di
Cinque Savi l'editto in istampa, venuto in lettere del Residente in Napoli,
intorno a certa gravezza quivi impostasi sopra il tabacco, siano essi
efficacemente incaricati a bene riflettervi, per consierare e raccordare poi
quali mezzi potrebbero tenersi per porre in pratica anco in questa città e
Stato nostro l'imposizione medesima...»
Studiata la proposta, il Magistrato dei "Cinque Savi" riferì al
Senato che, il 29 aprile 1651, stabilì di prendere ulteriori informazioni..
Il 24 dicembre 1653, un certo Bortolo Boneri, che era lettore del Collegio,
fa una proposta al Serenissimo Principe «... che ha un modo sicuro di
accrescere alle pubbliche rendite di Vostra Signoria 40 o 50000 ducati
all'anno; il metodo investigato da un'esatta applicazione, posto in pratica,
sormonerà d'anno in anno ai segni di maggiore utilità, senza aggravare per
immaginazione chi si sia...».
Il Senato si interessa alla cosa ed il 5 gennaio 1654 così si pronuncia: «merita
particolar riflesso la proposta di Bortolo Boneri d'appaltar il tabaco grezo
per il profitto e vantaggio (...) che si può ricavare».
Contemporaneamente, nella stessa data, il Senato però delibera anche di
incaricare i "Deputati sopra la provvision del denaro" di definire
un capitolato e «...per maturare l'affare con maggiori fondamenti
scrivere ai Residenti nostri in Fiorenza e Napoli, per la norma del modo che
si stila in questi Stati, per valersene, occorrendo...».
Proclama
dei Cinque Savi alla Mercanzia "sopra l'introduttion de'
tabachi" del 20 settembre 1693.
Il Boneri spiega nel dettaglio il suo progetto, concludendo «...quanto
grande sia per riuscire l'utile di questo negozio in considerare che il
tabacco grezzo di prima compreda costerà intorno ai 6 grossi la libra che
esitandosi a 12 verrà a raddoppiarsi il danaro (...) E' giunta così
ad eccesso la dilettazione di esso tabacco, e si è fatto così comune
l'uso, che l'anno passato a forza di spese gagliarde se n'è fatto venire da
Fiandra per via di terra una gran quantità, e ne capita in questa città
più di libre 200000 all'anno come si può vedere dai libri di dazi di
Levante e Ponente; e tutto resta smaltito, perché è passato in uso così
dilettevole, che si è reso quasi connaturale a chi ne prende, mentre da una
certa incognita violenza pare sai costretto a preservarlo».
Ed i "Deputati sopra la provvision del denaro" compilando il
capitolato per l'appalto del tabacco osservano «...se questa imposizione
di grossi 6 per libra possa apportare pregiudizio al dazio dell'entrata; ma
non si può dubitare di alcun discapito, mentre l'aggravio non sarà sopra
il tabacco che si condurrà, ma solamente sopra il consumo, e cadrà semplicemente
sopra quelli che si dilettano di usarlo; quelli però comprandolo ad onza ad
onza non possono risentire in così poca quantità, un pagamento si leggero
ed impossibile che, per così dire, niente nocerà al suddito e molto
gioverà al Principe, non appartenendo questa cosa al vitto e sostentamento
umano come cibo nutritivo o come salutifero; ma di una sola soddisfatione di
chi lo prende e nello Stato del Re Cattolico ed altri Principi, come dalle
stampe si legge, viene chiamata regalia specialissima e propria di Sua
Maestà; da che crederemmo cessati anche gli obbietti che riguardano il
pubblico decoro...»
Il 13 febbraio 1654 il Senato approva il capitolato dell'appalto della
condotta del tabacco affidandolo a Bortolo Boneri «...per dar forma all'affare
e ridurlo in stato di portar alla cassa pubblica non spezzabile profitto».
Tuttavia la grande prudenza del Governo Veneto fa consigliare che il Boneri
debba provvedervi con soldi suoi, in modo che l'erario pubblico, senza
accollarsi rischi, non abbia a subire alcun danno, ma possa godere solo dei
benefici promessi: «...fosse il negozio incaminato con il danaro del
raccordante Boneri, cosicché la Serenissima Signoria non avesse a capitare
ad alcuno esborso, accordandogli la condotta per anno uno di fermo e due di
rispetto, e che quei di rispetto fossero a pubblico beneplacito».
Solo un mese più tardi, il 14 marzo 1654, il Senato dimostra la sua
riconoscenza e la sua generosità: se la proposta del Boneri, che dovrebbe
fare accrescere le entrate pubbliche di 40 o 50 mila ducati, dimostrerà la
sua genialità ed originalità, la Repubblica corrisponderà per tutta la
sua vita la rendita del tre per cento del denaro che grazie a lui entrerà
nelle casse e, dopo la sua morte, ai suoi discendenti per la durata di
vent'anni: se è vero quanto «...esibisce raccordare Bortolo Boneri (...) e
non sia da altri stato raccordato né si attrovi nei pubblici libri
descritto (...) posto in effetto tale suo raccordo, di tutto il danaro
che per esso capiterà in cassa pubblica siano ad esso a tempi debiti
corrisposti tre per cento sua vita durante ed ai suoi discendenti o chi
avrà causa da lui per l'istessa utilità per anni venti dopo la sua morte,
dovendo spiegare il raccordo predetto al Magistrato dei Cinque Deputati alla
provvisione del danaro».
Abbiamo scoperto un documento interessantissimo: il certificato di morte di
Bortolo Boneri, che si trova nel "Libro dei Morti" della Chiesa di
San Provolo: «A dì 5 marzo 1690: morto Bortolo Boneri, de anni 80
incirca, da catarro, per due mesi e cinque giorni in letto da febre e mal
pettoral...»; la Repubblica di Venezia dovette quindi pagare per ben 56
anni la rendita del tre per cento (come dire che dovette rinunciare alle
entrate sul tabacco di quasi due anni).
Il 26 febbraio 167 viene deliberato a pubblico incanto il partito del
tabacco per 9.200 ducati all'anno.
E ad ulteriore dimostrazione di quanto fosse ritenuto importante l'affare
tabacco basta ricordare che dal 13 febbraio 1654 al 10 dicembre 1712 si
trovano oltre duecento decreti emanati per la buona condotta del partito del
tabacco.
Venezia nel XVII secolo è impegnata in continue guerre contro i Turchi per
difendere i propri confini orientali dalle loro rivendicazioni sempre più
pressanti e minacciose; guerre che avevano comportato ingenti spese mettendo
in ginocchio l'economia della Repubblica.
Venne svalutata la moneta e venne aumentata la pressione fiscale, dalla
quale non sfuggì neppure il tabacco.
Subito si levarono le proteste dei piccoli subappaltatori, di coloro cioè
che rilevavano dall'appaltatore generale il commercio del tabacco in una
data zona, sui quali maggiormente gravava l'aumento dei dazi: infatti da un
lato dovevano pagare all'appaltatore un canone molto elevato e dall'altro
una tassa di un "bezzo" moneta di rame del valore di mezzo
soldo) per ogni libbra di tabacco.
Verso la fine del Seicento molti di loro si trovavano in difficoltà; ne è
testimone una supplica rivolta alle autorità da uno di questi
subappaltatori: un certo Giacomo Fava aveva preso in affitto la vendita dei
tabacchi nella città di Crema e territorio, contro il pagamento di 1900
ducati all'anno. Con la supplica, datata 18 febbraio 1697, dopo aver
descritto tutti gli altri dazi, oneri e gabelle che è tenuto a pagare,
chiede un intervento del governo che gli riduca le spese, perché «...in
caso diverso io non potrò che rinunziare l'affittanza per il restante tempo,
com'incapace di poter reggere peso superio alle mie forze e che porterebbe
il mio sicuro esterminio. Grazie!»
Non sappiamo quale esito abbia avuto questa richiesta di grazia, ma è certo
che la dogana dei tabacchi non cessò, come non cessarono le preoccupazioni
per non permettere che venisse elusa: in materia di contrabbando venne anche
enunciata una teoria curiosa, della quale troviamo traccia in una lettera
del 5 maggio 1694 del nobile Alvise Foscarini. Questi, in una città
straniera che purtroppo non viene nominata nella lettera («In questa
fortezza, ove mi trovo per la visita...»), osserva come il
tabacco venisse lavorato alla perfezione, in modo tale che i commercianti «...hanno
veramente di molto accresciuto lo stazzo (= bottega) per la buona
qualità de' tabacchi che vendono, e si sono di molto diminuiti li
contrabandi, che prima infuriando pregiudicavano in questo paese questa
pubblica rendita». Il rimedio pareva semplice: per evitare il
contrabbando, si doveva produrre tabacco migliore; così i consumatori
avrebbero disdegnato quello peggiore, proveniente dal contrabbando.
Qualcosa fu fatto anche in questo senso, perché fu permesso di mischiare al
tabacco i più vari aromi e di prepararlo «con gli odori dei fiori»
perché riuscisse più gradito ai consumatori; troviamo così vari tipi di
tabacchi aromatizzati (o «odorati», come era detto allora), al punto che
ne esistevano non meno d'un centinaio di sorti: tra i più apprezzati
c'erano il tabacco d'ambra, il tabacco di muschio, il tabacco d'acqua degli
angeli (che fosse un tabacco purgativo? L'acqua angelica, un infuso di
foglie di sena, con manna e sciroppo, avrebbe appunto questa proprietà), il
tabacco di radica odorata, il tabacco fino mielato ed infiniti altri ancora.
La soluzione di rendere migliori i tabacchi per evitare il contrabbando non
dovette sortire risultati apprezzabili: un mese dopo la proposta del
Foscarini, l'8 giugno 1694, un certo Attilio Alborghetti, di Andrea,
bergamasco, è condannato per contrabbando di tabacco; e non fu l'unico.
D'altra parte a volte capitava che qualche commerciante poco scrupoloso
mettesse in vendita dei tabacchi che dovevano essere certamente poco
alettanti, se suscitarono delle denunce come questa, del 10 febbraio 1705: «...per
la pessima qualità di tabacco in polvere e da fumo che viene esitato dalla
bottega in questa fortezza (Marano) costrettomi veggo per parte dei
reclamanti portarne al riverito Tribunale RRVV per mezzo di queste
riveritissime mie le lor giuste doglianze fondamentate dalla vista et odore del tabacco medesimo:
sopra di che,
siccome è giusto l'accudire alla salute de' popoli, venga esercitata la
giustizia del RRVV...»
A
Capodistria (l'attuale Koper, in Slovenia) è ancora visibile la buca
per le «Denontie Secrete» (denunce segrete) «in materia di semina e
di contrabbandi di Tabacchi e contro li contraffattori in questa
Provincia».
Il rapporto tra tabacco e salute era sempre stato tenuto presente a Venezia:
il 20 giugno 1651, «essendo introdotto l'abuso di prendersi il tabacco
in fumo», dubitando che «possi l'uso del tabacco così frequente
ceder
a pregiuditio grave alla salute» il Senato Veneto decise «...che sia
commesso al Mag.to alla Sanità di prender dai medici li più fondati
pareri».
Tre secoli dopo sarebbe arrivato il rapporto del
dott. Terry del Surgeon General americano.
In tema di qualità del tabacco, ci pare sia da ricordare un episodio
curioso, accaduto l'11 marzo 1744: si scoprirono degli indizi che facevano
sospettare l'esistenza a Capodistria (l'attuale Koper, in Slovenia) di una «...fabrica di tabacco in
polvere con foglie di viti di moscato». Le autorità arrestarono un
paio di contadini, colpevoli di questa sofisticazione, tuttavia «...non
essendo tal malizia con alcun pubblico divieto, per non esser stata
dalla legge preveduta, non crede questa carica poter devenire ad alcun
castigo contro gli scoperti fabbricatori, senza una previa pubblica
proibizione.»
Il governo veneziano si preoccupò immediatamente dell'insolita vicenda ed
inviò un proprio inquisitore a Capodistria, perché compisse delle
indagini; questi spedì il suo rapporto il 23 marzo dello stesso anno
(appena 12 giorni dopo, da quando si era avuta la prima notizia della frode)
ed accertò come effettivamente «...in quel territorio foglie d'uva
moscatella si macinassero, altre unite a poche balle di ginepro et altre
con foglie d'erba regina...» (l'erba regina, sappiamo, è uno degli
antichi nomi con cui era chiamato il tabacco, in onore di Caterina de'
Medici, regina di Francia, che ne ricevette in dono attorno al 1560 dal suo
ambasciatore a Lisbona, Jean Nicot, per curare le sue emicranie).
L'inquisitore compì anche delle perquisizioni con l'aiuto di soldati presso
le botteghe che vendevano tabacco, per verificare fino a che punto fosse
diffusa la sofisticazione, e sequestrò dei campioni che, sigillati, vennero
inviati a Venezia assieme a delle foglie di uva moscatella. L'inquisitore
comunque fece un sommario esame sui campioni, non rilevando traccia di adulterazioni:
«...infatti la foglia di vite quando è divenuta secca
rende mal odore di secchino, e fresca non da colore e l'odor suo è d'erba, né
fresca né secca tiene in alcun spirito o altra buona qualità». La
sofisticazione era dunque limitata: «Può darsi che alcuni poveri non
avendo modo di mantenere altrimenti l'assuefazione, si voglino d'esse, e d'altre foglie». Nonostante il fenomeno sia circoscritto
«...io avrei
pensato ad un proclama prohibito anco sotto specie della salute».
Chiede comunque il parere dei magistrati veneziani, ricordando però che
spesso questi divieti producono l'effetto opposto, quello d'invogliare a
compiere nuove frodi e a diffonderle.
Dieci anni più tardi, il 10 aprile 1754, sarà il conte di Collalto ad
emettere un «Proclama in materia di semenza di frassino per le
giurisdizioni di Collalto e S. Salvatore» nel trevigiano. Il conte
infatti «...non può più oltre soffrire l'abuso di fresco introdotto in
queste sue Giurisdizioni di ridurre in polvere il Frutto o sia Semenza di Frassino per sostituirlo ad uso di tabacco. Fatte le maggiori osservazioni
dalli migliori Proffessori, ed eseguite le più esate perizie, viene di rillevarsi riuscire coll'uso certamente pregiudiciale alla salute questa
polvere fauta dal frutto del frassino antedetto...».
Inutile a dire che il conte ordinò che fosse severamente proibita questa
abitudine.