La Repubblica di Venezia, nei
secoli XVII e XVIII, si provvedeva del tabacco necessario sia
importandolo, sia producendolo direttamente. Gran parte del tabacco
importato proveniva dall'Albania ed era tra i più apprezzati, altro
invece dalla Turchia.
Di questi commerci si trova ampia documentazione negli archivi veneziani,
dove si possono rinvenire numerosi documenti e contratti dell'epoca,
stipulati o dal governo, o direttamente dai mercanti, con le autorità
turche e albanesi.
Molti di questi contratti sono scritti in turco, lingua che era ben
conosciuta dai commercianti veneziani, come quelli turchi conoscevano
assai bene il veneziano.
A volte, seppure più raramente, venivano redatti in forma bilingue, come
il contratto di Mamut Bengheli, «Pascià Governatorale di Scuttari e
Albania», del 21 settembre 1786, con cui il Pascià si impegnava a
vendere ai mercanti di Venezia 3.000 balle di tabacco «al solito
prezzo»; presumibilmente il prezzo era di 3 para per oncia.
Oltre al tabacco importato dall'estero, altro tabacco era prodotto
direttamente entro i territori della Repubblica: esisteva tra l'altro una
grande fabbrica di tabacco
a Nona (l'attuale Nin, in Croazia).
Tra le varie località ove si coltivava il tabacco, erano molto conosciute
la zona dei Sette Comuni (nei pressi dell'altopiano di Asiago) e quella
vicino a Bassano del Grappa: sono da ricordare tra gli altri, come
produttori di tabacco, i comuni della Valstagna, di Campolongo, di
Campese. In particolare nel comune di Campese, presso Bassano, esistevano
47 campi coltivati a tabacco, la cui qualità prendeva appunto questo
nome: «tabacco campese».
Il Partitante generale,
che aveva preso in appalto il "Partito del
tabacco", cioè la ferma del dazio del tabacco, concludeva dei
contratti con i capi di questi comuni, i quali si impegnavano a fornire un
certo quantitativo di tabacco coltivato in determinati terreni secondo
certe regole.
Le regole per la coltivazione dei tabacchi venivano dettate da ciascun
impresario e pubblicate periodicamente. Ad esempio per il territorio dei
Sette Comuni, l'appaltatore Mangilli fece pubblicare il 1° marzo 1763 un
fascicoletto a stampa (di otto pagine) intitolato «Regole e metodi per
seminare, coltivare o raccogliere li Tabacchi ad uso nostrano».
Il testo è diviso in quattro capitoli, ognuno dedicato ad una fase della
coltivazione: «Per le semine», «Per traspiantar e coltivar»,
«Per far la Raccolta» e «Semenze». Le istruzioni sono
tutte dettagliatissime. Alla fine sono aggiunte alcune istruzioni
particolari per alcune semenze di tabacchi che andranno coltivati non
secondo le regole generali, ma secondo quanto si usa nei rispettivi paesi
di cui sono originari: «Per le Semenze d'Albania, Salonicco, Caradà e
Perrisè doveranno queste esser procurate da quelli che prenderanno
l'impegno di seminar li campi 20 per territorio. S'averte che per
quest'impianti, colture, raccolti e imballadure, potranno esser osservate
le regole che si usano nei rispettivi Paesi.»
I rapporti tra l'Impresario del tabacco a Venezia ed i Sette Comuni non
erano sempre tranquilli, per la difficoltà di far rispettare le clausole
contenute nei contratti. Anzi, ad un certo momento i rapporti erano
piuttosto tesi, come dimostrano alcuni documenti del 1765.
In uno di questi (forse del 13 settembre) l'Impresario esponeva ai capi
dei comuni le ragioni del proprio malcontento: i contadini non seminavano
il tabacco nei campi stabiliti, ma in campi diversi, dove prima era stato
coltivato il frumento, per cui le piante non crescevano bene, perché la
terra non era stata ben concimata e lavorata. Inoltre con il contratto si
era stabilito che i contadini potessero tenere poche foglie di tabacco per
loro uso personale, mentre invece se ne appropriavano di grandi quantità,
più del consentito, per contrabbandarlo. L'Impresario così continuava: «Sono
state pratticate le semine de tabachi così fisse che non può mai riuscir
buono il tabacco, mancandolo quella distanza ch'è necessaria da una
pianta all'altra per poter aver il beneffizio del Sole e dell'Aria, onde
riesca perfetto...» Infine l'Impresario si lagnava del fatto che la
produzione di quell'anno era talmente cattiva che non riusciva neppure a
venderla: «Per motivo della mala qualità de tabachi avuti (...) tutti
ricusano di volerli...»
Con un altro documento del 1765 i capi dei comuni rispondevano alle accuse
loro rivolte: in primo luogo non c'era niente di male coltivare il tabacco
nei campi dove prima era stato coltivato il frumento; non era poi vero che
i contadini sottraessero tabacco per contrabbandarlo: se lo facevano non
era per mala fede, ma solo a causa dell'ignoranza di quella povera gente;
i capi dei comuni smentivano anche la terza accusa: «Non conoscono
verità neppure nel terzo capo di querela, che le piantagioni si facciano
troppo folte: giacchè (...) ha coltivato coi metodi del paese senza
alcuna maliziosa novità: anzi gl'impianti di quest'anno sono alquanto
più larghi del solito.»
Infine i comuni negavano che il raccolto di quell'anno fosse riuscito
cattivo: infatti gli ispettori che controllavano periodicamente la
crescita del tabacco per coto dell'Impresario non avevano avuto nulla da
ridire sulla qualità.
L'impresa del tabacco non dovette però essere convinta delle risposte dei
comuni, perché adottò delle misure più severe: pose a sorveglianza dei
campi di tabacco dei propri ispettori, che restavano sempre sul luogo, anziché
visitare periodicamente le coltivazioni come faceano prima. I risultati
non furono però soddisfacenti, dal momento che questi uomini, che
dovevano essere fidati, abitando sul luogo, spesso facevano amicizia con i
contadini, divenendone complici nel contrabbando. Fu proprio in questo
periodo che con pubblico proclama vennero allora disposte «Per ordine
del Serenissimo Principe» pene ancora più severe a carico dei
contrabbandieri.
Si parla di tabacco. Ma di che tabacco si trattava?
Gran parte di questo tabacco era usato da fiuto oppure da masticare, e
solo una parte per essere fumato (nelle pipe).
A Venezia i tabacchi si presentavano con almeno quattro differenti
lavorazioni: potevano essere venduti in polvere (ed erano detti «da
naso», cioè da fiuto), oppure «in foglia» (per essere
masticato o fumati), c'erano tabacchi «in corda», quando venivano
ritorti a formare delle specie di corde, o di "salami", che
potevano essere affettati in dischetti (come l'attuale tabacco
"Escudo"). Infine esisteva il tabacco «a pila» che
equivale a quello che chiamiamo oggi "flake" (tabacchi
pressati).
Secondo la lavorazione cui era sottoposto, il tabacco poteva essere «schietto»,
cioè naturale, oppure «odorato», cioè trattato con gli aromi
più vari; tra i tabacchi «odorati» (generalmente in polvere da
fiuto) c'era il tabacco d'ambra, di muschio, di radica odorato, il tabacco
fino mielato e tanti altri.
Tra i tabacchi «schietti» si trovano citati in un inventario
fatto a alma il 20 febbraio 1683 presso il negozio di un mercante, sotto
la voce «tabacco in scatole di diverse sorti», il tabacco
d'Albania, di Salonicco, d'Ungheria, d'Inghilterra, Padovan e il tabacco
Brasil. Poi ci sono da ricordare alcuni nomi di tabacchi esclusivamente da
fumo: tra i vari tabacchi «nostrani», oltre al già citato «Campese»,
esistevano l'«Ordinario tagliato» (una specie di Trinciato), il «Tacchia»,
il tabacco «in foglia Segadino», i «Gramoni» ed il «Coston
da fumo»: era quest'ultimo un tabacco di pessima qualità, venduto al
prezzo più basso, estremamente popolare, ricavato soprattutto dalle
nervature della foglia. Si presentava con un aspetto legnoso e molto
spesso vi erano mescolati anche il gambo della foglia e parti del fusto
della pianta, la qual cosa suscitava le giuste proteste dei fumatori
dell'epoca.
Tra i tabacchi che potevano essere tanto da fumo che da masticare c'erano
il «Perrisè» ed il «Carradà»; di quest'ultimo si
conoscevano almeno due qualità: il «Carradà fiore» ed il «Carradà
foglietta».
A questi tabacchi si devono aggiungere almeno cento o centocinquanta
qualità che differivano per particolarità di taglio o di concia. C'è
anche da osservare che nel corso dei secoli lo stesso tabacco poteva avere
avuto differenti denominazioni.
Il prezzo del tabacco per la vendita al minuto era determinato in un primo
tempo dalle autorità dei diversi comuni. Solo in tempi successivi fu
l'Impresario generale a fissarli per le varie province, ma ciò avvenne
quando l'appalto del tabacco assunse forme più complesse, quasi
industrializzate.
Il 24 agosto 1696 questi erano, ad esempio, i prezzi dei vari tipi di
tabacco venduti a Treviso: «tabacco schietto saccato soldi 36 la
libbra; tabacco ordinario soldi 31 la libbra; tabacco di maccina (cioè in
polvere) lire 2 la libbra; tabacco odorato soldi 50 la libbra». Nello
stesso anno diverso era il prezzo a Verona, prezzo che per le stesse qualità
era compreso tra i 30 ed i 40 soldi per libbra, dando così origine a non
infrequenti contrabbandi.
I prezzi stabiliti dalle autorità dovevano essere rispettati e non
potevano essere variati a piacimento. In un proclama del 1722 era
stabilito «che sia vietato tanto ai Partitanti Generali, quanto agli
Affittuali, Postieri e altri, il poter alterare, o abassare i prezzi dei
tabacchi; dovendo continuar i prezzi soliti e consueti...»; sei anni
dopo, i 10 marzo 1728, venne ribadito che era vietato «...vender tabacco
a minor prezzo del prescritto» ed inoltre era vietato venderlo a «meno
quantità a libbra o mezza libbra».
Negli anni successivi fu ripetuto l'obbligo «...di vendere il tabacco
senza apportare modifica alcuna, né di peso, né di prezzo, né di
qualità. ma di continuare a venderlo alle stesse condizioni...».
Inoltre il tabacco nella Repubblica di Venezia non doveva essere venduto
in quantità inferiori alla libbra o alla mezza libbra ed a garanzia
dell'esattezza del peso, per evitare le frodi, il 3 ottobre 1720 venne
ordinato «...che in avvenire a rimotione delle fraudi e pregiudicij a
compratori, non vi sia chi ardisca vender tabacco a misura di qualunque
sorte ne in poca ne in molta quantità, ma solo a peso con bilancie e pesi
marcati con il bollo del sudetto eccelentissimo Magistrato» (cioè i
Cinque Savi alla Mercanzia).