A Rialto.
In linea di massima le rive, a Venezia, sono chiamate fondamente: il termine "riva" si riferisce invece ad un manufatto
progettato e costruito sull'acqua per favorire l'imbarco e lo sbarco di
persone o cose.
Abbiamo precisato "in linea di massima", perché a Venezia le fondamente
prospicienti il Canal Grande o specchi lagunari più ampi vengono chiamate
"rive".
Particolarità di Venezia!
Marco Antonio Coccio (circa1436-1506), più noto come Sabellico, nel suo
"De situ urbis Venetae" riferendosi a questa fondamenta la
chiama riva del Ferro: «Tota ripa ab ipso mercium genere ferraria
nuncupata est».
La riva del Vin una volta era quella sul lato opposto del Canal Grande,
dalla parte di San Bortolomio. Infatti sappiamo dalle cronache che quando
Bajamonte Tiepolo, con i suoi complici, il 15 giugno 1310 si diede alla fuga
precipitosa dopo il fallito
tentativo di colpo di Stato, tagliò, dandoci fuoco, il ponte di Rialto
facendo ritirare le barche da vino lì ormeggiate perché non potessero
essere usate dagli inseguitori per attraversare il canale.
Successivamente il commercio del ferro si spostò sulla riva opposta,
ancor oggi chiamata riva del Ferro nelle cui vicinanze si erano stanziate
molte botteghe di fabbri (e la non lontana calle dei Fabbri ce lo
ricorda).
Conseguentemente le barche cariche di vino cominciarono a scaricare le
loro botti da questo lato del Canal Grande, dove esisteva una
concentrazione di magazzini di vino e osterie; alle spalle di Rialto,
quasi parallela a questa riva, esiste la calle dei Bottèri che deve il
suo nome alla presenza di bottai, fabbricanti di botti. A San Silvestro,
inoltre, esisteva dal 1565 la sede della Scuola dei Venditori di Vino, la
cui confraternita era stata istituita nel 1505.
Attorno al commercio del vino ruotavano altre professioni, come quella dei
Travasadori e Portadori de Vin, anche questi riuniti in confraternita, che
si occupavano del trasporto e della distribuzione del vino, con altare
votivo e due arche tombali nella chiesa di San Bortolomio, vicino a quella
riva del Ferro che, come abbiamo visto, prima si chiamava del Vin.
Il
Canal Grande con a sinistra la Riva del Vin (Francesco Guardi,
1712-1793, National Gallery of Art, Widener Collection,
Washington).
Gaetano Zompini
(1700-1778), i "Travasadori de vin":
«El vin dele Casade, e dei Marcanti
Nu travasemo ala stagion, che và,
E lo portemo a vender per contanti.»
I tavasadori e i portadori
de vin erano gli unici autorizzati a trasportare il vino con le loro
barche sulle quali era vietato tenere cani che, abbaiando, avrebbero
potuto allarmare i barcaioli sull'arrivo dei controlli degli ufficiali addetti
alla repressione del contrabbando e delle frodi.
I travasadori ricevevano in dono una bareta di vino per ogni
botte scaricata: si trattava di una piccola quantità di vino che
corrispondeva al cucchiaione di legno con cui si raccoglieva l'ultimo vino
rimasto in fondo dei barili.
Il diritto alla bareta ha origine antiche: risale a quando nel 1117
Papa Alessandro III (circa 1100-1181) giunse in incognito a Venezia per
incontrare Federico I Barbarossa (1122-1190): dovendo attraversare il
Canal Grande all'altezza di San Silvestro, dopo aver trascorso la notte
(secondo la tradizione) nel sotopòrtego de la Madonna a Sant'Aponal,
i barcaioli del traghetto si rifiutarono di portare sulla riva opposta
quel pellegrino (ricordiamo che il Papa era in incognito) mentre i
travasadori de vin si offrirono di farlo loro.
Per questo gesto il Papa promise la ricompensa di una piccola quantità di
vino (la bareta) per ogni botte scaricata.
La vendita del vino era vietata nelle domeniche e nei giorni festivi:
tuttavia per un'antica consuetudine era permessa sulle rive di Rialto e di
San Marco. Restavano escluse le festività di Natale, Pasqua, Pentecoste,
Corpus Domini, Ascensione ed Annunciazione, nonché della Madonna della
Salute e del Redentore.
Ai piedi del ponte di Rialto, sulla riva del Vin, si affaccia sul Canal
Grande il lato corto del lungo palazzo dei Dieci Savi alle Decime che
sovrintendevano a tutto quanto riguardava questa imposta: il rilevamento
della base imponibile, la commisurazione dell'imposta, la regolazione del
debito derivante dall'imposizione della tassa, eccetera.
La decima era un'imposta corrispondente, come fa intendere lo stesso nome,
alla decima parte delle rendite dei beni immobili posseduti in qualsiasi
luogo dello Stato dagli abitanti della Città e del Dogado ed anche dagli
abitanti delle Province dello Stato se i beni esistevano nella Città o
nel Dogado (in particolari condizioni la decima colpiva anche beni situati
in altri determinati territori, ma in questa sede non ci pare sia il caso
di addentrarci in questi dettagli).
Con l'incendio occorso a Rialto il 10 gennaio 1514, gli archivi di questa
magistratura sono andati distrutti, quindi la prima decima della quale
abbiamo documentazione è quella relativa a quell'anno di imposizione.
Il
leone sul palazzo dei Dieci Savi.
Alla
caduta della Repubblica, per qualche tempo continuò ad essere applicato
questo tipo di tassazione, fino all'entrata in vigore degli estimi
napoleonici. Quindi il meccanismo instaurato dalla Repubblica continuò a
funzionare ancora per qualche anno sotto i nuovi governi.
Il palazzo dei Dieci Savi, dopo l'incendio, venne ricostruito ad opera di
Antonio Abbondi detto lo Scarpagnino (circa1465/70-1549).
Originariamente era una costruzione isolata, il ponte di Rialto era ancora
in legno.
Quando alla fine del XVI secolo venne rifabbricato in pietra nella sua
forma attuale, vennero inglobate e modificate parte delle quattro arcate
laterali; la lunga facciata sulla ruga dei Oresi conta invece 37 arcate.
Sul lato che vediamo sopra la riva del Vin si scorge una specie di borchia
a forma di testa di leone che regge tra i denti il leone marciano in moleca
da cui pende una targa lapidea su cui sono scolpite le parole:
«PRINCIPATVS
LEONARDI
LAVREDANI
INCLYTI · DVCIS
M · D · XXI»
a testimoniare l'anno di
ricostruzione del palazzo dopo l'incendio, sotto il dogado di Leonardo
Loredan (1436-1521).
La moleca è il granchio in
un momento particolare della sua vita (quando muta il carapace). Dicesi
leone in moleca quando il leone di S. Marco è raffigurato frontalmente,
inscritto in un tondo, con le ali che possono ricordare un granchio con le
sue chele. In questo caso non è il classico leone in moleca, ma viene
definito così per essere frontale e inscritto in un tondo.
Il leone del palazzo dei Dieci Savi che oggi vediamo è piuttosto raro per
una sua particolarità mentre è unica la sua storia.
Non si tratta del leone di San Marco originale: è noto come con la
caduta della Repubblica, ai tempi della municipalità francese, siano
stati scalpellati tutti i simboli del vecchio regime al motto di «liberté,
égalité, fraternité».
Vennero
scalpellati tutti gli stemmi e, naturalmente, anche il simbolo ufficiale
della Repubblica: il leone di San Marco.
Un certo Girardon aveva vinto l'appalto per scalpellare nella sola Venezia
mille leoni di San Marco, mentre si valuta che in tutto lo Stato da Terra
ne siano stati obliterati diecimila!
Tra tutti i leoni cancellati, venne eliminato anche quello in moleca del
palazzo dei Dieci Savi.
Quando ai francesi subentrarono gli austriaci, ai quali era stato assegnato
il Lombardo Veneto, questi vi collocarono l'asburgica aquila bicipite.
Nel 1848 Venezia si ribellò alla dominazione austriaca con l'insurrezione
legata al nome di Daniele Manin (1804-1857). Il governo provvisorio di Manin rimosse
lo stemma asburgico e fece predisporre un nuovo medaglione con il leone
marciano, a somiglianza di quello che esisteva originariamente.
Dopo 17 mesi, il 27 agosto 1849, Venezia assediata dagli austriaci e
stremata dal colera, si arrese.
A seguito di questo, il leone marmoreo del palazzo dei Dieci Savi venne
rimosso: rimase la cicatrice vuota sulla facciata.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento a Venezia, ormai divenuta italiana, si
cominciarono ad integrare i leoni marciani scalpellati dai precedenti
regimi. Ad esempio, quello sulla Porta della Carta di palazzo Ducale,
opera quattrocentesca di Bartolomeo Bono, o Bon (circa1405/10-1464/67) è
oggi la copia eseguita nel 1895 da Luigi Ferrari (1810-1894) in
sostituzione di quella andata distrutta dai francesi nel 1797.
Quando si stava decidendo il rifacimento di questo leone sulla facciata
del palazzo dei Dieci Savi, ad un anziano muratore venne in mente che
quello dei tempi di Daniele Manin non era stato distrutto, ma riposto in
un magazzino a San Giovanni Evangelista. Ed è questo, che risale al
breve periodo della Repubblica provvisoria di Manin del 1848-49, che
vediamo oggi.
Palazzo
Barbarigo sulla riva del Vin che ospitò per un certo tempo i
Mercanti da Vin.
Due
stemmi con l'arma della famiglia Morosini in corrispondenza
dei numeri civici 723 e 725.
Dopo il palazzo dei Dieci Savi si incontra un edificio sulla cui facciata
sono collocati due stemmi, sorretti da altrettanti angeli, con l'arma
della famiglia Morosini.
L'edificio da anni è stato riconvertito ad uso alberghiero anche se
attualmente (2017) non è utilizzato.
Superata la calle
del Gàmbaro si incontra la palazzina Barbarigo, un
edificio cinquecentesco pesantemente rimaneggiato nell'Ottocento e nei
primi anni del Novecento, come furono rimaneggiati o ricostruiti quasi
tutti gli edifici che seguono.
Questo palazzo ospitò nel passato la Scuola dei Mercanti de Vin:
un'annotazione su un inventario del 1800 ci fa sapere che la confraternita
dei Venditori, Travasadori e Portadori de Vin era inizialmente ospitata in
alcuni locali di un palazzo privato, che viene identificato con questo, e
per i quali pagavano un affitto.
Più tardi (1609) questa confraternita, o Scuola, confluì in quella dei
Mercanti de Vin con i quali occuparono l'intero edificio.
Nel 1807, a seguito degli editti napoleonici, la scuola venne soppressa.
Due
immagini di San Adriano, patrono della Scuola dei Mercanti de
Vin.
Sul pilastro d'angolo di questa palazzina, tra la riva del Vin e la calle
del Gàmbaro, è riportato due volte in bassorilievo San Adriano, con la
spada con la quale venne finito e la palma del martirio. Il santo, che
indossa una corta tunica con mantellina, è inscritto in un ovale, nel
lato della calle del Gàmbaro, ed in una cornice quadrata nel lato sulla
riva; in quest'ultima immagine è presente anche la scritta, su due righe:
«ADRE
ANVS»
Sant'Adriano di Cesarea era il patrono riconosciuto della confraternita
dei Mercanti de Vin.
Lo
stemma Loredan, seminascosto dalle candele di una
"applique".
Proseguendo ancora, sulla facciata sotto la scritta Hotel Marconi,
seminascosta da una applique a tre bracci, si scorge uno scudo
rotondo con cornicetta e con l'arma della famiglia Loredan collocabile nel
XVI secolo.
Continuando si incontra, tra il secondo ed il terzo piano, un elegante
scudo quattrocentesco a targa, sormontato da un elmo a becco con sopra una
testa di grifone con le armi della famiglia Minotto.
Il tutto è circondato da fogliame e racchiuso da una cornicetta
dentellata.
Lo
stemma Minotto.
Si
giunge così al sotopòrtego
dei Cinque: sul pilastro d'angolo di pietra d'Istria sono
visibili scolpiti due scudi sagomati con l'arma della famiglia Salomon (XVI
secolo).
Due
stemmi con l'arma Salomon all'angolo con il sotopòrtego dei
Cinque.
Successivamente si incontra il luogo dove esisteva la Dogana da Terra che
interessava tutte le merci che giungevano dalla terraferma veneziana.
Marin Sanudo (1466-1536) ci racconta che nel 1511 l'edificio della dogana
subì un incendio che lo distrusse: «...in questa notte [la notte
tra il 18 ed il 19 dicembre 1511 - N.d.R.] a hore 8 se impiò fuogo,
non si sa il modo, perché lì non vi sta niuno, in la doana di terra, et
brusòe quella, et alcune volte [...] appresso il dazio del vin in
Rialto, et fo gran fuogo [...]. Si dixe à principià il fuogo in
un magazen dove li provedidori di comun tenevano la munitione per il fuogo...».
Il
palo con carrucola sporgente dalla facciata della Dogana da Terra in
un dipinto del Canaletto.
L'edificio
ottocentesco che sorge ove una volta c'era la Dogana da Terra.
Dopo l'incendio, l'edificio della dogana venne rifabbricato nel 1531 e
successivamente fu più volte restaurato.
La facciata è raffigurata in una veduta del Canaletto (Antonio Canal,
1697-1768).
In questa veduta è interessante osservare sulla facciata infisso un palo
sporgente con una carrucola. Secondo le interpretazioni date dai più, sarebbe stato
il mezzo per punire, esponendo in pubblico, coloro che si fossero
macchiati di qualche colpa nei confronti del pagamento del dazio.
Non avendo documentazione in proposito, noi ipotizziamo che potesse
trattarsi di una carrucola per sollevare le merci, o anche -vista
l'altezza- una carrucola per eventuali lavori edilizi in corso. Ricordiamo
che il Canaletto registrava tutti questi particolari, come si trattasse di
un'istantanea: non a caso si serviva di una camera ottica per riprendere i
suoi schizzi dal vero, per poi trasformarli in dipinti.
Il
"nizioleto" che ricorda il rio che è stato interrato.
Nel
1842 la Dogana de Terra venne demolita e su quel luogo venne costruito,
per opera dell'architetto Lorenzo Santi e dell'ingegnere G. B. Benvenuti,
un palazzetto che al tempo ospitava la Direzione del Lotto.
Come si è detto, quasi tutti gli edifici sulla riva del Vin sono
costruzioni ottocentesche o pesanti ristrutturazioni di edifici più
vecchi.
Superata la calle
del Sturiòn, possiamo osservare, alzando lo sguardo, alcuni doccioni
antropomorfi sotto altrettante finestre.
Tre
teste/doccioni sotto le finestre di un edificio di riva del
Vin.
Nel procedere, siamo giunti praticamente alla fine della riva del Vin,
provenendo come abbiamo fatto noi dal ponte di Rialto.
Infatti dove oggi incrociamo il rio terà San Silvestro, che una volta
aveva anche il nome alternativo "o del Fontego", la riva cessava
perché interrotta dal rio di Sant'Aponal, come possiamo anche vedere
nella veduta di Venezia "a volo d'uccello" di Jacopo de' Barbari
del 1500, interrato poi negli anni 1842-45
Patera
sopra l'ingresso al "sotopòrtego" del tragheto di San
Silvestro, dove termina oggi la riva del Vin.
La
riva del Vin nel 1500 nella veduta di Venezia "a volo
d'uccello" di Jacopo de' Barbari: a sinistra il rio di
Sant'Aponal che interrompeva la riva del Vin, a destra la
rampa del ponte di Rialto che era ancora in legno.
A seguito dell'interramento del rio e di altri interventi edilizi, la riva
del Vin si è prolungata fino all'attuale sotopòrtego del Tragheto di San
Silvestro all'ingresso del quale (ma formalmente siamo ancora sulla riva del
Vin) si trova una pàtera con un motivo bizantino rappresentante due
trampolieri con i colli intrecciati.
A chiudere definitivamente la riva del Vin troviamo il giardino del palazzo
Ravà: una costruzione neogotica di tre piani che risale appena al 1906, opera
dell'architetto Giovanni Sardi (1863-1913), autore tra l'altro
dell'eclettica architettura dell'Hotel Excelsior al Lido. Su quel posto
esisteva un vecchio fabbricato di scarso pregio risalente al XVI-XVII
secolo.