Si
tratta di una "galoppata" di tre settimane molto intense che ci
porta a visitare i principali e più importanti centri della civiltà Maya
in Messico, Guatemala, Honduras e Belize.
Alla fine resterà una gran voglia di ritornare per approfondire qualcuno
dei tanti temi che questo viaggio offre.
Viaggio effettuato nell'aprile 1980
In
ricordo di Giancarlo De Sanctis, "Papero".
Il nostro volo Pan Am 111 parte da Roma con un'ora di ritardo.
Sono le 16.45 (ora locale) quando giungiamo a New York. Avevamo già
indirizzato i bagagli su Città del Messico, tuttavia noi non possiamo
restare in transito, in quanto abbiamo la connessione con un domestic
flight, e quindi siamo costretti a passare attraverso il controllo
passaporti dell'immigrazione e quello doganale per poi trasferirci di gran
corsa al terminale da dove parte il nostro volo successivo.
Lungo il percorso di trasferimento all'interno dell'aeroporto veniamo
fermati da un anziano, abbastanza malconcio e male in arnese, che si rivolge
a noi con delle parole incomprensibili.
Ci mostra un bigliettino tutto spiegazzato che tiene in mano: c'è scritto
qualcosa che non riusciamo a capire. E' scritto in una lingua per noi
sconosciuta, probabilmente la stessa con cui cerca di comunicare. La
nostra impressione è che si sia smarrito all'interno dell'aeroporto di New
York e che non sappia più da che parte andare. Purtroppo anche noi non
sappiamo come comprenderlo ed aiutarlo, anche perché abbiamo poco tempo per
il nostro volo Pan Am 001 per Houston.
Sono solo due ore di volo, ma quando arriviamo abbiamo veramente i minuti
contati (appena un'ora) per raggiungere l'area dei voli internazionali dove
dobbiamo prendere il Pan Am 51 per Città del Messico che, per fortuna,
parte con un quarto d'ora di ritardo, forse proprio per attendere il nostro
gruppo, visto che si tratta della stessa compagnia.
Finalmente, quando ormai è quasi l'una di notte, atterriamo a Città del
Messico: in origine l'aeroporto si trovava fuori della città, ma la
crescita vertiginosa di questa megalopoli lo ha conglobato entro le sue
strade ed i suoi edifici della periferia. Così sembra di atterrare in
città, tante sono le luci che vediamo nelle strade, con il traffico ancora
sostenuto nelle arterie principali.
Un
altare all'interno della Cattedrale di Città del Messico.
Un
lustrascarpe su un marciapiede nel centro di Città del Messico.
Sono ormai le 3 di notte quando riusciamo a stenderci nei nostri letti dell'Hotel del
Valle in Indipendencia 35, una posizione centrale rispetto al cuore della
città.
La sveglia è libera: oggi è il giorno di Pasqua ed alle 9, dopo colazione,
ci ritroviamo
con alcuni (altri sono stati più mattinieri e sono già usciti) a fare una
passeggiata d'orientamento al Zócalo, dove una volta c'era il
recinto sacro di Tenochtitlan, la più grande città azteca, capitale
dell'impero.
Qui non resta più traccia degli antichi palazzi, degli edifici, dei luoghi
di culto della precedente civiltà: vennero distrutti con violenza
sistematica dai conquistadores, quasi ad esorcizzare il passato.
Ma si verificò un fatto curioso (seppure usuale quando il vincitore occupa
le città dei vinti): dopo essere stato devastato e spogliato di tutto, ogni
vecchio edificio fu raso al suolo per ricostruire un altro monumento della
nuova capitale.
In questo modo i templi principali di Tenochtitlan quasi dettarono
l'ubicazione delle chiese che venivano erette dai conquistadores: un
modo per rovesciare il simbolismo religioso. Le divinità azteche
diventarono demoni ed i luoghi che avevano visto i sacrifici umani venivano
consacrati da santuari per riscattare il male fatto in nome degli idoli.
La
Cattedrale di Città del Messico.
Così la cattedrale di Città del Messico è costruita dove una volta si
ergeva lo tzompantli, il recinto dove si raccoglievano i crani delle
vittime sacrificate sulla cima del grande Teocalli (o "casa degli
dei"), che si elevava appena più avanti.
Anche il grande Palacio Nacional che vediamo sull'altro lato della
piazza è stato costruito sul luogo dove prima c'erano le «Casas Nuevas»
dell'imperatore Moteczoma Xocoyótzin (Moctezuma II o, come si dice anche
più semplicemente, Montezuma II): «Montezuma aveva nella città il suo
palazzo, il quale era così meraviglioso che mi sembra quasi impossibile
descriverne la bellezza e la grandiosità. Mi limiterò a dichiarare che non
vi è nulla di simile in Spagna.» ("Cartas de relación de Hernán
Cortés al Emperador Carlos V. Segunda Relación, 30 de octubre de
1520").
L'appuntamento per tutti è a mezzogiorno, al museo antropologico che
raggiungiamo con la metropolitana: alla stazione del Zócalo un
display mostra le cifre (in rapidissimo vertiginoso aggiornamento) relative
al numero dei viaggiatori che entrano nella metropolitana.
Scendendo per raggiungere i binari vediamo esposti, in un'apposita vetrina
inserita abilmente nella moderna architettura della stazione, alcuni
reperti archeologici aztechi dell'antica Tenochtitlan (dove oggi sorge
Città del Messico) trovati (da quello che abbiamo capito) durante i
lavori di costruzione della metropolitana.
La
stele 50 proveniente da Izapa al Museo Nacional de Antropología di Città del Messico.
Ci ritroviamo dunque tutti a mezzogiorno davanti al Museo Nacional de
Antropología nel Bosque de Chapultepec, una tappa obbligata per
orientarci prima di iniziare il nostro viaggio nel mondo delle culture
precolombiane.
Si tratta di un museo scientifico che non si limita ad esporre, in modo
ordinato, vestigia del passato appartenute a differenti civiltà
mesoamericane precolombiane, ma riesce ad essere estremamente didattico,
aiutando il visitatore a dipanare il filo della storia, ad orizzontarsi in
una matassa complessa che vede l'intrecciarsi ed il sovrapporsi di antichi
popoli.
Per far questo si serve di numerosi pannelli esplicativi e di
ricostruzioni tridimensionali, tipo diorama: si passa da una sala di
orientamento ad altre sale, disposte quasi a ferro di cavallo attorno ad
un patio centrale coperto, ciascuna dedicata ad una cultura.
"El Paraguas",
la fontana-colonna che sorregge la copertura del patio interno
del Museo Nacional de Antropología di Città del Messico.
Al piano superiore altrettante sale sono dedicate alle etnie che sono
raccontate con le loro abitazioni, le usanze, gli indumenti, gli utensili
da lavoro di tutti i giorni.
Alla sera è d'obbligo andare tutti in Plaza Garibaldi, dove si
esibiscono gruppi di mariachi con le loro caramellose storie
d'amore, spesso tristissime e sempre struggenti.
Qui in Plaza Garibaldi c'è un grande mercato coperto, il Mercado
dos alimentos San Camilito, dove baracchini e ristorantini sono
specializzati soprattutto nel cucinare enormi porzioni di carne alla
griglia che viene arrostita a vista.
La
"Ciudadela" di Teotihuacán.
Particolari
del tempio di Quetzalcoatl a Teotihuacán.
La
Piramide del Sole a Teotihacán.
Aggirandoci per questo inusuale
mercato, scegliamo quello tra i ristorantini che ci sembra più simpatico
e "sfizioso".
Subito ci preparano una tavolata in grado di accoglierci tutti e sedici:
tutti ordiniamo delle bisteccone alla brace, chi la chiede cotta "a
termine medio", chi "tres cuartos". Di contorno arriveranno frijoles, i fagioli
neri messicani e naturalmente birre e tacos. Ci sono dei grandi barattoloni
in vetro che contengono una specie di salsa di pomodori a pezzetti con
cipolla. Inganniamo l'attesa mettendo grandi cucchiaiate di questa verdura
sui tacos... ma non consideriamo che in realtà molto del rosso di
quella salsa non apparteneva ai pomodori, ma a tantissimi peperoncini
rossi: è piccantissima, vero fuoco in bocca anche per chi è abituato ai
cibi piccanti! E tutto questo non fa che aumentare i giri di birre.
La serata continua tranquilla con l'arrivo delle bistecche che dobbiamo
imparare a mangiare senza coltello e forchetta, ma aiutandoci solo con i tacos
che ci serviranno anche per mangiare i fagiolini neri.
Dedichiamo l'indomani ad una visita più ordinata agli edifici che si
affacciano sulla Plaza de la Constitución, entrando così
all'interno del Palacio Nacional per vedere i drammatici murales
di Diego Rivera che ripercorrono sommariamente la storia della
civilizzazione messicana dall'arrivo di Quetzalcóatl, il
dio-serpente-piumato, alla rivoluzione del 1910, e poi nella cattedrale
metropolitana, el Sagrario, il Museo de las Culturas.
Dopo uno spuntino mangiato al volo, ci imbarchiamo sull'autobus che ci
porterà a Teotihuacán, «el lugar donde los hombres se convierten en
dioses».
Attraversiamo chilometri e chilometri di periferia degradata costituita
dai sobborghi di Città del Messico: baracche in lamiera, plastica e
cartone e solo qualche muro di mattoni.
Non possiamo restare indifferenti quando vediamo su uno di questi miseri
muri, tra le catapecchie, una pubblicità dipinta con un elegante caballero
ed una altrettanto elegante dama con lo slogan: «Felicidad por la votra
familia».
Nella pianura di Teotihuácan, quando mancano ancora diversi chilometri,
cominciamo a scorgere il profilo delle due grandi piramidi che
inizialmente si confondono con la sagoma dei monti più lontani.
Pensando che al tempo del suo massimo splendore quest'area era densamente
popolata per almeno trenta chilometri quadrati, dobbiamo immaginare che
quelle due piramidi, visibili così da lontano, rappresentassero il polo
d'attrazione per tutti gli abitanti della zona: e se sopra queste piramidi
erano presenti le divinità, allora si capisce che nessuna azione umana
poteva passare inosservata agli occhi degli dei, che da lassù tutto
vedevano, tutto controllavano.
Giunti all'ingresso del complesso archeologico di Teotihuacán, compiamo
una visita superficiale al museo locale: l'eccitazione di trovarci in
questo luogo mitico è troppo grande, come la voglia di cominciare ad
esplorarlo subito. E si comincia dal complesso più vicino, la Ciudadela
(cittadella), un ampio recinto che comprende anche il famoso tempio di
Quetzalcoatl, il "serpente piumato", caratterizzato dalla
sequenza di teste di serpente piumato che si alternano con la maschera
stilizzata di Tlaloc, il dio della pioggia, e con una serie di vari tipi i
conchiglie marine, mettendo così in relazione Quetzalcoatl con il mondo
acquatico.
Da qui percorriamo la "via dei morti" che, nonostante il nome,
non aveva alcuna relazione con il culto dei defunti. Il nome di "via
dei morti" pare sia stato dato dagli aztechi, che ormai già
ignoravano a cosa si riferissero quelle rovine, e credettero fossero
tombe.
Lunga oltre due chilometri, ma in origine misurava oltre cinque chilometri
terminando a sud a fianco delle colline, è fiancheggiata da numerosi
edifici, piattaforme, costruzioni, fra le quali emerge per le sue
spettacolari dimensioni la piramide del Sole, che forma il centro del
complesso sacro di Teotihuacán: base quasi quadrata di 225 metri per 220
metri che occupa una superficie di quasi cinquantamila metri quadrati, con
l'ultima terrazza, sulla quale era collocato il tempio, a 63 metri
d'altezza. In tutto un milione di metri cubi riempiti da più di due
milioni e mezzo di tonnellate di materiali.
Durante la nostra passeggiata siamo assaliti frequentemente da ragazzini
che ci propongono l'acquisto di oggettini in pietra ossidiana. Anche
anticamente, al tempo del suo massimo splendore, Teotihuacán aveva il
controllo delle vicine miniere di ossidiana e con questo materiale i suoi
abili artigiani costruivano oggetti e strumenti per l'uso interno alla
città, ma anche per esportarli alle vicine popolazioni.
In fondo alla "via dei morti" troviamo l'altra grande piramide,
quella della Luna, il secondo edificio di Teotihuacán.
Più piccola di quella del Sole (base di soli metri 150 x 140, altezza di 42
metri) domina la sottostante Piazza della Luna sulla quale è collocata
una piattaforma con numerosi altari. Non riusciamo a visitare l'interno di
edifici vicini, forse palazzi destinati a dignitari e sacerdoti, in quanto
tutta l'area è sottoposta interventi di scavo o di restauro.
Restiamo ancora un po' a passeggiare tra le rovine fino al tramonto, prima
di riprendere la strada che ci riporta a Città del Messico.
La piazza principale
della cittadina di Tula, a tre chilometri dalle rovine.
Un
posto di ristoro a Tula, dove ci fermiamo per mangiare
qualcosa prima di visitare il sito archeologico.
Si
vede da lontano la Piramide di Tlahuizcalpantecuhtli di Tula
L'indomani il pulmino che ci aveva
accompagnato a Teotihuacán ci viene a prendere in albergo per un'altra
vicina escursione alle rovine di un altro importante centro: Tula,
l'antica capitale e cuore della civiltà tolteca, fondata nell'856 d. Cr.
Veramente questa attribuzione non fu così scontata nel passato, quando
l'antica capitale dei Toltechi veniva identificata addirittura con
Teotihuacán: fu Desiré Charnay il primo a sostenere nel 1863 di aver
scoperto qui le rovine dell'antica Tula, ma non venne subito creduto.
Trent'anni dopo uno studioso tedesco confermò la teoria di Charnay, ma
occorsero ulteriori scavi (e anni) fino a quando nel 1940 l'archeologo
messicano Wigberto Jiménez Moreno poté provare che ci si trovava
veramente davanti alle rovine della leggendaria capitale dei Toltechi.
Non sono rovine così vaste come quelle di Teotihuacán, ma per questo non sono meno interessanti.
Il complesso più famoso di Tula è dato dalla Piramide "B", o
Piramide di Tlahuizcalpantecuhtli, la divinità della stella del mattino.
La stella del mattino si intreccia con la figura di un personaggio famoso
nella mitologia mesoamericana, Quetzalcoatl, il serpente con le piume di quetzal.
Molte sono le leggende che sono fiorite attorno a lui, tra cui quella
secondo la quale si trasformò in una fiammeggiante stella, quella che per
la sua lucentezza brilla anche quando il sole comincia ad albeggiare: la
stella del mattino, appunto.
Su questa piramide sono collocate quattro colonne antropomorfe, dette
"atlanti", che sorreggevano assieme ad altre il tetto del tempio
eretto sulla piattaforma.
Per tanti anni sono restate abbandonate ai piedi della costruzione, poi
con i lavori di restauro alla piramide di Tlahuizcalpantecuhtli sono state
ricollocate sul luogo originario.
I
quattro "atlanti" sulla piattaforma della Piramide
di Tlahuizcalpantecuhtli a Tula.
Un
primo piano degli "atlanti": l'ultimo è una
copia che sostituisce l'originale conservato al Museo
Nacional de Antropología di Città del Messico.
Un
particolare del "Coatepantli", o "Muro dei
Serpenti", che separa l'area sacra dal resto della città: oggi
ne restano una quarantina di metri.
Si tratta di quattro sculture a
tutto tondo in basalto che rappresentano altrettanti guerrieri toltechi
(quella di sinistra è una copia, in quanto l'originale è esposto al
Museo Nacional de Antropología di Città del Messico).
Gli "atlanti", alti metri 4,60, non sono monolitici, ma composti
ciascuno di quattro pezzi separati. Portano un copricapo piumato ed un
pettorale a forma di farfalla.
Non vorremo abbandonare questo luogo, ma è d'obbligo completare la
visita, anche perché troviamo i prototipi di una statuaria che verrà diffusa
fino nello Yucatán e che ritroveremo nel corso del nostro viaggio.
Uno di questi è il Chacmool: un personaggio scolpito a tutto tondo, steso
all'indietro ed appoggiato sui gomiti con la testa sollevata rivolta da un
lato, mentre le mani sorreggono un piatto scolpito sul ventre. Su questo
piatto venivano poste dai sacerdoti toltechi le offerte, ed a volte anche
i cuori ancora palpitanti delle vittime umane sacrificate.
Un altro elemento che ritroveremo ricorrente nello Yucatán, seppure
elaborato con maggiore finezza ed eleganza, è la colonna con il serpente
con la testa poggiata a terra ed il corpo, con la coda, proteso in alto a
sorreggere l'architrave del tempio.
Ritroviamo qui il serpente piumato su una parete lunga una quarantina di
metri (il Coatepantli, o Muro dei Serpenti) che separa la piramide dalla corte nord, quella con lo sferisterio
per il gioco della pelota n. 1. Qui file di serpenti divorano
teschi umani.
Continuiamo ad aggirarci tra le rovine; a fianco della piramide c'è una
serie di cortili e patii con alcuni bassorilievi: probabilmente erano usati
per cerimonie. Di fronte invece c'è la piazza principale con, al centro,
una piattaforma cerimoniale, forse un altare. Su un lato si eleva la Piramide "C" che tuttavia non è stata ancora recuperata;
sull'altro lato un grande sferisterio per il gioco della pelota
(detto n. 2 per distinguerlo dall'altro) lungo più di cento metri.
Conclusa la visita riprendiamo la strada per la capitale, dove ciascuno
avrà qualche ora a disposizione per girare, fare spese, riposare.
Proprio in una laterale di Calle Indipendencia, a pochi minuti dal nostro
albergo, scopro uno strano ristorante vegetariano. E' organizzato a self
service, con i vassoi: si passa davanti alle varie specialità
vegetariane, si sceglie questo o quello e poi si paga. Segnalo un paté di
patate americane con uva sultanina, un paté di frijoles (fagioli) e
da bere succo di banana e succo di fagioli!
Una volta pagato si avanza con il vassoio pieno superando una libreria
fornita di volumi e riviste su cibi macrobiotici, vegetariani, proprietà
dei vari cereali, eccetera e si cerca posto in un ambiente nel quale sono
state riprodotte (in scala) piramidi egiziane: si mangia seduti su cuscini a
terra, sotto una di queste piramide "aperta", della quale ci sono
solo gli spigoli mentre il vertice in alto racchiude una piccola piramide
con le pareti di rame.
Non so se ci sono stati degli influssi particolari per via del "potere
della piramide", comunque il cibo, sicuramente per me non consueto, era
gradevole.
Fatte le ultime spese e ricomposti i bagagli, il gruppo si ritrova davanti
all'Hotel del Valle per raggiungere l'aeroporto.