Dopo un'ora e mezza di guida,
percorrendo la strada per San Cristóbal, prendiamo una deviazione sulla
destra che ci porta alla località di Agua Azul.
Qui c'è tutta una serie di laghetti collegati tra loro da molte cascate e
cascatelle. L'acqua è veramente azul, di un azzurro intenso, un
turchese chiaro e luminosissimo sotto i raggi di un bel sole.
Anche le cascatelle fanno vari giochi d'acqua, goccioline che brillano al
sole. Tutto attorno c'è il paesaggio di una selva incontaminata.
Percorriamo un sentiero che risale, fiancheggiandole, queste cascate:
qualche ramo tocca l'acqua, si sente solo il rumore delle cascate e
qualche strillo provenire da scimmie e uccelli nascosti nella selva.
E' un'atmosfera di piena immersione nella natura, una natura lussureggiante
e prorompente. Non a caso questo luogo è considerato sotto l'aspetto
naturalistico uno dei più belli e suggestivi del Messico.
Volendo si può fare anche il bagno e in molti ne approfittiamo nuotando
in una piscina naturale che si allarga a monte, prima delle cascate:
l'acqua sembra liscia e tranquilla, anche se bisogna prestare un po'
d'attenzione alla corrente, non forte ma che si fa sentire, che scorre
sotto la superficie.
Le
cascate di Agua Azul restano sempre belle anche se la giornata è
grigia e senza sole.
La
fitta vegetazione della selva attorno alle cascate di Agua Azul.
Ed
ora la benzina entra nel serbatoio del nostro pulmino sotto lo
sguardo attento di Giancarlo.
Si resterebbe qui molto
volentieri, ma la strada ci aspetta: per arrivare a San Cristóbal de las
Casas è ancora lunga. Lunga non tanto come numero di chilometri (alla
fine da Palenque a San Cristóbal i nostri contachilometri ci segnalano
220 chilometri), ma come condizioni della strada: è una strada tutta in
salita che ci deve portare ai 2.100 metri di San Cristóbal.
Il paesaggio sembra essere bello, ma noi ne possiamo godere solo per poco perché
il sole tramonta presto. Si continua a guidare nella notte. Abbiamo necessità di benzina,
sopratutto per uno dei due pulmini, ma non vediamo distributori aperti.
Anzi, a dire il vero non vediamo proprio distributori, nemmeno chiusi! Ci
fermiamo in un paese e cominciamo a chiedere per la benzina. Pare che si
possa trovare presso un certo meccanico.
Chiedendo ancora troviamo l'officina meccanica: il titolare ci affida a
due ragazzi (i suoi figli?) che avranno 12 o 14 anni.
Portiamo le macchine in un cortile interno ed i ragazzi vanno in un
magazzino dove ci sono fusti di olio lubrificante, nafta e, naturalmente,
anche benzina.
Come si fa da noi per travasare il vino da una damigiana, infilano un tubo
in un fusto di benzina e aspirano con la bocca finché il liquido non
scende giù, in un recipiente approssimativamente graduato. Poi travasano
la benzina in due secchi, uno per ciascun pulmino, e per finire con una
specie di imbuto autocostruito (ricavato da un altro secchio) riempiono di
benzina il serbatoio dei pulmini.
Il
travaso della benzina, come si fa con il vino in damigiana,
per un rifornimento notturno d'emergenza.
Neppure a dire che paghiamo la benzina praticamente al doppio di quanto
costa in un distributore regolare della Pemex. Ma non avevamo altre
alternative.
Mercato
tra le strade di San Cristóbal.
Ci rimettiamo in marcia e
finalmente alle 10 di sera (è notte fonda) arriviamo a San Cristóbal de
las Casas.
Adesso si tratta di trovare un posto per dormire. Giancarlo ha un elenco
di indirizzi e prova ad andare diretto alla centrale Posada Real. Non ci
sono molte alternative, vista l'ora e la nostra stanchezza: così
dormiremo tutti sedici in un'unica camera, chi sui letti, chi sui
materassini e nei sacchi a pelo, dal momento che è anche piuttosto
freddo.
Abbiamo parcheggiato i due pulmini all'interno della posada, che ha un
cortile privato, una specie di patio.
Alla mattina ci accorgiamo che uno dei due pulmini ha una gomma a terra:
si deve essere sgonfiata durante la notte. Millo e Massimo smontano la
ruota e con l'altro pulmino vanno alla ricerca di un gommista per la
riparazione. Intanto noi ci facciamo un giro per San Cristóbal.
San Cristóbal si trova su una vallata dell'Altopiano Centrale
del Chiapas, Los Altos, al centro di una zona popolata da indios di
lingua tzotzil, l'antica lingua dei Maya. Questi indios
giungono qui quasi ogni giorno dai loro villaggi a vendere le loro
mercanzie e riempiono molte strade di San Cristóbal con i loro ortaggi,
il mais, i pomodori, ma anche utensili fabbricati da loro, cinture e borse
di cuoio e soprattutto stoffe: stoffe coloratissime come sono colorati i
loro costumi.
Passeggiamo tra di loro non allontanandoci troppo dalla posada, ed
infatti vediamo tornare Millo e Massimo con la ruota riparata.
E' stata cambiata la camera d'aria e rimontiamo la ruota sul pulmino.
La
piazza di Teopisca.
Sono quasi le nove quando lasciamo San Cristóbal, imboccando la
Panamericana, la lunghissima unica arteria che attraversa tutto il
continente americano, dall'Alaska alla Tierra del Fuego.
Dopo un'ora facciamo una sosta a Teopisca, un piccolo pueblo dove ci
fermiamo a fare acquisti di qualcosa da mangiare.
Non troviamo molto, in compenso troviamo una piazza molto carina, tutta
impiastrellata con le panchine ugualmente ricoperte di piastrelle
multicolori.
Ci fermiamo una mezz'oretta, approfittando delle panchine per fare uno
spuntino, poi continuiamo il nostro viaggio verso sud.
Le
curiose panchine ricoperte di piastrelle multicolori sulla
piazza di Teopisca.
Cimitero presso Comitán
A Comitán ci fermiamo per chiedere la strada: vorremmo infatti fare una
deviazione verso le Lagunas de Montebello, che lagune non sono ma laghi, ma non riusciamo a trovarla. Marta
ne approfitta per comperare pellicole fotografiche, a caro prezzo! Sta già
finendo la scorta portata dall'Italia e non abbiamo ancora terminato la
prima settimana di viaggio!
Donna
con fiori sulla strada a Comitán.
La deviazione per i laghi è a sei chilometri oltre Comitán. Passiamo
accanto ad un desolato cimitero di povere tombe; qualcuna è anche decorata
con piastrelle: deve essere una cosa che piace molto nella zona.
Finalmente giungiamo alla deviazione: la strada attraversa un paesaggio con
vaste spianate verdi, che poi diventa collinoso. Ci sono dei lavori in
corso: stanno asfaltando la strada... a mano! Non ci sono macchinari
particolari, ma tutto è fatto a mano: il bitume che viene scaldato in un
bidone a fuoco di legna, le donne che lavorano con rastrelli e badili il
ghiaino ed il pietrisco. Non c'è neppure un compressore stradale per
spianare l'asfaltatura, ma solo un rullo a mano, poco più grande di quelli
che usiamo sui campi di bocce.
Poi la strada non è più asfaltata.
Dopo una ventina di chilometri la strada entra in una serie di boschi e
cominciamo a vedere il primo lago.
Guatemaltechi
vicino al confine Messico-Guatemala percorrono la Panamericana a
piedi.
Sono
una sessantina i laghi di
Montebello, ognuno con il proprio nome. Noi compiamo un giro, vedendone
alcuni da qualche mirador posto lungo la strada. Sinceramente,
sarà colpa del tempo grigio che si riflette nelle acque dei laghi, non ne
rimaniamo entusiasti.
Facciamo una sosta per uno spuntino. Millo e Massimo ne approfittano per
regolare il carburatore dei due Volkswagen: non ne sono molto soddisfatti
ed hanno la sensazione, maturata già dalla partenza da San Cristóbal,
che i motori non siano ben carburati e danno la colpa all'altitudine.
Infatti quando ne abbiamo preso possesso a Mérida andavano bene, ma eravamo quasi
al livello del mare, mentre qui siamo sull'altopiano (San Cristóbal è a
2.100 metri).
Alle tre del pomeriggio ritorniamo, percorrendo la stessa strada
accidentata e semiasfaltata dell'andata, sulla Panamericana.
Ormai siamo vicini al confine con il Guatemala e per strada incrociamo
gruppi di guatemaltechi con i loro vestiti colorati.
Alle cinque del pomeriggio siamo a Ciudad Cuauhtémoc, al confine con il
Guatemala. Noi non abbiamo problemi con i visti, semmai un piccolo
problema c'è per i pulmini. Per evitare un possibile commercio illegale
di autoveicoli, bisogna registrarli sul passaporto di qualcuno. Così uno
viene registrato sul passaporto di Giancarlo, l'altro su quello di
Massimo, trascrivendo anche gli estremi della patente di guida.
Naturalmente viene fatto anche il controllo sui bagagli che portiamo con
noi ed il controllo sanitario: così ci viene sequestrata una papaia ed
altra frutta, perché è vietata l'importazione di frutta fresca in quanto
potrebbe portare con sé parassiti delle piante, dannosi all'agricoltura
del paese nel quale entriamo.
Alla fine sono due le ore che perdiamo alla frontiera, che lasciamo quando
è ormai buio.
La
distillazione della canna da zucchero per ricavare la "caña",
un liquore di bassa qualità molto popolare.
Dopo una quindicina di chilometri, proprio sulla strada, troviamo l'Hotel El
Reposo, dove ci fermiamo per la notte.
Il giorno dopo, alle 7.30, siamo pronti per partire, ma i nostri pulmini non
sono d'accordo: fanno qualche scoppiettio con il motore e poi si spengono.
Vicino all'albergo c'è un distributore di benzina con un'officina, ma
dobbiamo aspettare le 9 perché apra.
Un ragazzo dell'officina sentenzia subito che è un problema di
alimentazione, regola i carburatori dei due Volkswagen e questi ripartono
subito.
Millo e Massimo hanno imparato la lezione: questi pulmini sono così
scarburati che quando ci si mette le mani per regolarli a puntino, come loro
hanno fatto ieri, non ci sono più abituati e non ne vogliono sapere di
partire!
Alle nove e mezza siamo in strada ed in ogni piccolo pueblo che
attraversiamo vediamo un festival di colori per gli abiti e le stoffe
coloratissimi soprattutto delle donne guatemalteche.
Durante una breve sosta vediamo lungo la strada la preparazione della caña,
un distillato molto alcolico e di bassa qualità, che si ricava dalla canna
da zucchero.
Invece le piantagioni di agavi, che abbiamo visto soprattutto in Messico, invece
sono sfruttate per un altro distillato, la tequila.
L'edificio
(del 1933) del mercato di Huehuetenango.
Alle 11 siamo a Huehuetenango, una caratteristica cittadina guatemalteca,
con un proprio edificio per il mercato.
Nel mercato c'è un brulichio di gente e soprattutto ancora colori e colori,
colori che ritroviamo anche sui muri delle case, dipinti di tinte sgargianti
e solari.
Al mercato ci fermiamo non solo per respirare l'atmosfera del posto, per
curiosare, osservare, ma
anche per pranzare: non c'è da ordinare, è una specie di menù uguale per
tutti ed a tutti portano le stesse cose.
Alla fine, dopo il pranzo, arriva una scodella di brodo bollente e molto
gustoso, assieme ad un bicchiere di un liquido che sembra tequila, o
qualche altro alcolico.
Restiamo perplessi su cosa dobbiamo fare.
Allora da un altro tavolo un signore ci mostra come si fa: una sorsata di
brodo caldo ed una sorsata di tequila (o quello che è), e via così,
alternandole.
Noi, naturalmente, ci adeguiamo al costume locale.
Lasciamo Huehuetenango alle tre del pomeriggio. Stasera saremo a
Chicicastenango.
Huehuetenango, Chichicastenango, poi (ma non ci andremo) ci sono
Quetzaltenango, Chimaltenango, Mazatenango, ecc... La desinenza tenango
significa villaggio, luogo, paese, quindi avremo il luogo del quetzal (Quetzaltenango),
il luogo di difesa (Chimaltenango) e così via. Huehuetenango significa il villaggio degli anziani,
anche se alcuni ipotizzino che in realtà derivi dal nome di una conifera,
il Taxodium Macromatum, chiamato qui ahuehuetles.
Una
strada nel centro di Huehuetenango, a fianco del mercato.
Mattoni
di fango cotti al sole.
Lungo la strada ci fermiamo a vedere la fabbricazione dei mattoni. Sono dei
ragazzini che vi ci si dedicano.
I mattoni non sono cotti, ma essiccati all'aria sulle pendici maggiormente
esposte al sole di una collinetta.
Viene preparato un impasto di fango, terra argillosa e paglia: con questo
impasto viene riempita con le mani una forma di legno, poi viene premuto e
pressato con i piedi in modo che si compatti bene e perda l'eccedenza di
acqua.
A questo punto la forma viene tolta ed è pronta per un altro mattone.
I mattoni restano lì, sotto il sole, finché non si sono seccati ed
induriti. E' notte quando arriviamo a Chichicastenango e non è facile trovare posto.
Riusciamo a sistemarci all'Hotel Kotokok, quasi una casa privata che dispone
di qualche camera per gli ospiti.
Nessuno di noi ha mangiato, se non un po' di frutta e qualche biscotto.
Chiediamo se è possibile mangiare qualcosa. Nonostante l'ora, erano già
passate le dieci di sera, la famiglia del titolare al completo si mette ai
fornelli, alimentati da un fuoco a legna che viene acceso per noi, per
prepararci la cena.
Tutti
ai fornelli alle dieci di sera per preparaci la cena all'Hotel
Kotokok di Chichicastenango.
Scena di mercato
a Chichicastenango: qui si vende pesce essiccato al sole proveniente
dal lago Atitlán.
Le due ragazzine apparecchiano i tavoli di quello che chiamano el
restaurante, in pratica una stanza con quattro tavolini.
Alla mattina ci alziamo presto: è domenica, è il giorno del famoso
mercato di Chichicastenango.
Scendiamo in strada: le vie sono riempite di gente. Indios che
percorrono anche una cinquantina di chilometri a piedi per cercare di
vendere del pesce secco del lago Atitlán oppure qualche cintura
intrecciata, donne vestite di tutti i colori con la loro bisaccia appesa
alla schiena che può contenere indifferentemente legumi oppure un neonato, bancarelle alle
quali è appeso di tutto, tessuti, maschere borse, reste d'aglio...
Quasi non riusciamo a farci largo tra questa variegata tavolozza di
colori. Ci lasciamo trasportare dalla folla, ci fermiamo ai banchi del
mercato dove si trova veramente di tutto a prezzi interessanti,
soprattutto le stoffe ed i vestiti coloratissimi.
E' d'obbligo contrattare, insistere e stare al gioco. Se si riesce ad
ottenere un prezzo vicino a quello sperato, se ne esce contenti, senza
renderci conto che alla fine abbiamo strenuamente battagliato per ottenere
uno sconto di due o trecento lire su un paio di jeans con applicazioni di
stoffe colorate locali. Ma, dicevo, fa parte del gioco nel quale tutti
sappiamo immedesimarci molto bene.
Fedeli
davanti all'ingresso della chiesa di San Tomás di Chichicastenango:
a noi non è consentito fare fotografie all'interno.
Ma alla domenica Chichicastenango non è solo il mercato: c'è l'aspetto
religioso, c'è la chiesa.
Non dobbiamo aspettarci le funzioni domenicali alle quali siamo abituati:
qui il Cristianesimo è stato accettato, ma si è plasmato sugli antichi
riti e sulle antiche divinità maya.
Saliamo dunque gli scalini che portano al sagrato della chiesa di San Tomás
assieme a gruppi di penitenti che invece salgono i gradini in ginocchio: un
barattolo, una lattina di Coca Cola, diventano il turibolo improvvisato per
bruciare incensi e copale. Ed intanto recitano litanie salmodianti,
invocazioni ai santi.
Ci soffermiamo all'ingresso della chiesa: ci sembra di disturbare, di non
appartenere a loro.
E' una sensazione strana: il cattolico si trova a proprio agio in una chiesa
cattolica in ogni parte del mondo, ovunque sia, perché ci si riconosce in
un'unica grande comunità universale, ci si riconosce fratelli nella
medesima fede con altri. Qui invece siamo degli estranei e ci sentiamo tali.
Non sono questi forse dei cattolici come noi?
Sì, formalmente lo sono, ma percepiamo che qualcosa non quadra. Pregano i
santi, ma dietro quei santi ci sono altre figure: i santi in realtà
rappresentano altre divinità, quelle dei loro antenati, i Maya.
Fedeli
davanti alla scalinata della chiesa di San Tomás di
Chichicastenango.
E' una commistione di cattolicesimo e paganesimo: i riti magici, i riti
pagani, permangono sotto l'apparenza di quelli cristiani.
Abbagliati dalla luce del sole facciamo fatica a vedere dentro l'oscurità
della chiesa. Inizialmente vediamo solo centinaia di luci, forse migliaia:
sono le fiammelle delle candele accese dagli indios. Abituandoci alla
penombra vediamo che non c'è più posto sui supporti portacandele,
trasformati quasi in bracieri da tanto sono fitte. Allora le candele si
fissano per terra, con un po' di cera, e sono veramente tante.
Ci sono indios inginocchiati accanto alle candele con i loro barattoli
nei quali brucano incenso e profumi: l'odore dell'aria è tutta una
mescolanza di questi aromi. Non esagero se dico che all'interno della chiesa
c'è come una nebbiolina azzurrina.
Le preghiere sono individuali, sussurrate a mezza voce, ma c'è anche chi
improvvisamente si alza e rivolto alla statua di un santo improvvisa un
discorso o fa un'invocazione ad alta voce.
Scene sconcertanti.
In punta di piedi, cercando di non disturbare e di passare inosservati,
usciamo sul sagrato e mentre scendiamo i gradini vediamo un gruppo di
personaggi vestiti in un certo modo che portano croci ed altre insegna che
si appresta a salire alla chiesa. Probabilmente sono membri di una qualche
congregazione o confraternita che ha il compito di venerare qualche santo e
di animare la festa, ma non riusciamo a saperne di più.
Una
confraternita laica di devozione con reliquiari e costumi sta
per entrare nella chiesa di San Tomás di Chichicastenango.
Vogliamo visitare anche il cimitero di Chichicastenango; ne abbiamo sentito
parlare molto. Qui sulle tombe i parenti del defunto si portano da mangiare
e mangiano proprio sopra le tombe per far partecipare il defunto al loro
pranzo. Avevamo sentito parlare anche di una tomba dalla quale spunta la
cornetta di un telefono: un modo, per i parenti, di restare in contatto con
il morto, magari raccontandogli quello che è capitato alla famiglia ed i
loro affanni.
Chiediamo informazioni per raggiungere il cimitero; un ragazzino si offre di
accompagnarci.
Qui, oltre il cimitero, il ragazzino ci accompagna su una collinetta dove
possiamo assistere ad una particolare cerimonia: nella chiesa di San Tomás
i riti cristiani nascondono riti pagani, qui sulla collina fuori del paese
sono celebrati i riti degli antenati maya.
Ho raccontato l'esperienza in questa
paginetta.
Chichicastenango dovrebbe rappresentare un momento di immersione nell'autenticità
del popolo
guatemalteco, girare tra la sua gente, parlare ed avere dei contatti con
loro nelle bancarelle, nei posti che loro frequentano, cercare di capire, di
conoscere la realtà nella quale ci troviamo.
Noi almeno abbiamo cercato di fare così nella giornata che abbiamo trascorso
qui dove, arrivando ieri di notte, un'intera famiglia, padre, madre con le
due figlie adolescenti, all'Hotel Kotokok ha messo in moto la cucina,
accendendo il fuoco per farci mangiare ad un orario per loro impensabile.
Ma non tutti la pensano allo stesso modo ed alla sera, con il mercato che
ormai si è quasi del tutto svuotato, vediamo un hotel residenziale quasi al
centro del paese: è circondato da un alto muro dal quale spuntano alberi e
cespugli fioriti. Un'ampia ed elegante cancellata protegge l'ingresso ed
oltre scorgiamo una moderna e confortevole costruzione che assomiglia ad un
lussuoso ranch. C'è l'erba ben curata, una piscina, cespugli di
fiori e turisti, chiusi dentro a godere delle comodità della loro civiltà
che pretendono di trovare anche qui. A proteggerli dalla realtà che si vive
all'esterno del loro guscio incantato ci sono un paio di vigilantes
armati. Anche il loro è un modo di viaggiare, ma noi preferiamo il nostro
modo.