Vita di tutti i giorni lungo le
sponde del lago Atitlán.
Il
lago Atitlán, presso San Lucas Tolimán che si scorge sulla sponda a
sinistra.
Alla mattina salutiamo
Chichicastnango e ripartiamo. Con qualche difficoltà nel trovare la
strada, arrivati all'incrocio di Las Pilas proseguiamo diritti per qualche
chilometro per poi girare a sinistra in direzione di Cotzol. Proseguendo
verso Panajachel abbiamo la prima visione dall'alto del lago Atitlán,
dominato dai vulcani San Pedro (3.020 metri), Tolimán (3.158 metri) e
Atitlán (3.535 metri, la cui ultima eruzione risale al 1853).
Scendiamo verso il lago fino a Panajachel e da qui cominciamo il nostro
giro attorno al lago. Ci sono tredici villaggi abitati da indios di
discendenza Maya, molti dei quali parlano ancora la lingua dei loro
antenati, mantenendo la propria cultura e le proprie tradizioni.
Ci fermiamo in alcuni di essi: scene di vita comune, come le donne che
lavano i panni sulle sponde del lago ed i ragazzini che vi si tuffano
sguazzando nell'acqua.
Vicino a San Lucas Tolimán è mezzogiorno quando facciamo un'altra sosta
per comperare da mangiare qualcosa. Su una specie di duna di fronte al
lago c'è anche un baracchino di legno ad uso di toilette pubblica. C'è
chi ne approfitta: in sostanza dietro una porta sgangherata di legno c'è
solo una profonda buca che emana un odore nauseabondo, ricettacolo di
migliaia di insetti e mosche schifose. C'è chi rinuncia ad ogni
successiva operazione e va a cercarsi qualche discreto (e più igienico) cespuglio appartato
nei dintorni.
E' qui che Chicca si accorge di non avere più il borsellino con il
passaporto (e ad un'altra compagna di viaggio è sparito il K-Way). Le
ricerche sul pulmino e a terra, ripercorrendo i luoghi dove siamo stati,
danno esito negativo e nessuno tra noi si è accorto di nulla, neppure di
estranei che si fossero avvicinati a noi.
Giancarlo, sospettando che comunque la sparizione sia stata opera di
qualcuno del luogo che abbia approfittato di un nostro momento di
disattenzione, ha un'idea: quella di cercare qualcuno che possa mettere in
giro la voce del furto del passaporto, magari promettendo una ricompensa.
Questo qualcuno potrebbe essere un sacerdote della chiesa del paese.
Andiamo così a San Lucas. In chiesa il sacerdote non c'è, ma ci indicano
dove è la sua casa: comunque è fuori, rientrerà verso le cinque di
sera.
Noi intanto ci sparpagliamo per il paese o per le rive del lago.
Alle cinque raggiungiamo la casa del prete fuori del paese: si tratta di
un basso villino, moderno, con ampie vetrate ed un piccolo giardino ben
curato. Ci accoglie la perpetua che ci fa accomodare nello studio. E' un
sacerdote missionario americano. Siamo nel suo studio, pieno di libri e
pubblicazioni ordinate in moderne e funzionali librerie, con un
divano e delle poltrone per gli ospiti dove prendiamo posto. Accanto
a lui un cane pastore tedesco che alterna il suo sguardo attento su di noi
a delle occhiate interrogative al suo padrone; come dire: che faccio? li
sbrano?
Il missionario è molto ospitale e cordiale, ci offre del whisky, ci parla
dei problemi della sua comunità e dei progetti che, con fatica, cerca di
avviare. Noi gli raccontiamo quanto ci è accaduto. Ci assicura che
metterà in giro la voce: la sua gente è per la maggioranza poverissima,
ma un passaporto italiano per loro non vale nulla, nel borsellino cercava
i soldi. Inviterà chi ne sa qualcosa a farsi sentire e chi lo può fare a
restituire a lui, anche in forma anonima, il passaporto. Noi però
dobbiamo aspettare qui.
Ci chiede se abbiamo un posto dove andare a dormire. Gli facciamo presente
che abbiamo tutti la tenda e ci basta uno spiazzo dove montarle. Il
sacerdote allora ci offre da dormire in una sala adiacente alla
chiesa, dove possiamo usufruire anche di docce e servizi.
Passiamo la serata in questa sala, prepariamo la cena con i nostri
fornelli e poi dormiremo sui materassini, nei nostri sacchi a pelo.
La
chiesa di San Lucas Tolimán.
La mattina dopo ci sembra doveroso
farci vedere alla Messa celebrata in chiesa dal sacerdote missionario. E'
una normale celebrazione eucaristica, ma abbiamo notato alcune cose che
non sono usuali nelle nostre chiese: per tutta la durata della Messa il cane pastore
tedesco è sempre restato fedelmente a fianco del sacerdote, seguendolo ad
ogni suo passo, come neppure una guardia del corpo saprebbe fare. Poi c'è
il popolo dei fedeli, un'assemblea coloratissima di persone che vanno e
vengono, entrano ed escono dalla chiesa con le loro sporte, le loro
bisacce; in chiesa entrano anche galline e capre, nessuno ci bada. Infatti
la porta della chiesa resta spalancata.
Il nostro missionario non ha notizie sul passaporto e noi lo ringraziamo
comunque per l'ospitalità lasciando un'offerta per la missione e
ripromettendoci di passare da lui prima di lasciare la zona con l'ultima
speranza di buon notizie.
Continuiamo dunque il nostro giro attorno al lago Atitlán. E' un giro
ridotto, perché dobbiamo recuperare il tempo perso per la disavventura del
passaporto. Ci limitiamo pertanto a proseguire solo fino a Santiago, un
dei paesini caratteristici sulle sponde del lago dove incontriamo indios
vestiti con i loro costumi tradizionali.
Anche a Santiago gli indios tzotziles hanno mantenuto la cultura
dei loro antenati, i Maya, elaborando in campo religioso una religione
tutta loro, intrecciando usanze e credenze antiche con la nuova religione
portata dai missionari. Qui c'è il centro del culto di una divinità molto temuta dai connotati
negativi, chiamata Maximón.
Ci sono tante storie circa l'origine di questo personaggio.
La più antica è quella che ci riporta all'origine del mondo: a causa
delle relazioni adulterine tra gli antenati, la terra stava attraversando
un periodo di disordine e dissolutezza. Fu così deciso di creare una
figura che doveva «...mantenere l'ordine sulla terra».
Gli antenati cominciarono a cercare un albero dal quale trarre la statua
del nuovo idolo. Durante la ricerca si imbatterono in un albero che rivelò
di essere lui stesso la divinità che cercavano.
Una volta scavata la statua dall'albero, questa cominciò ad assumere le
sembianze ora delle donne adultere, ora degli uomini traditori,
intrattenendo rapporti sessuali con ambedue i sessi facendo ricadere il
mondo nel disordine.
Allora gli antenati distrussero la statua per renderla impotente. Tuttavia
non riuscirono a distruggere Maximón, che sarebbe sopravvissuto fino ai
nostri giorni ancora abbastanza forte e potente, in grado di provocare
negli uomini febbri, malattie ed anche follie.
A volte Maximón è raffigurato come una persona dissoluta e godereccia,
gran bevitore e fumatore: per questo a volte viene raffigurato con un
sigaro in bocca!
Santiago è anche il paese dove un artista locale ha scolpito una statua
con l'ingresso di Gesù a Gerusalemme raffigurandolo come un cow boy
americano, con tanto di stivali e speroni!
Dobbiamo accontentarci di essere arrivati fin qui, perché il tempo
stringe e dobbiamo proseguire, percorrendo sempre la strada sul lago Atitlán
dove sono sistemati, nei punti più panoramici, dei miradores per
godere di scorci sempre diversi su insenature e piccole baie sul lago.
Ripassiamo per San Lucas con l'esile speranza che il passaporto sia stato
ritrovato, ma effettivamente la speranza era troppo esile perché potesse
realizzarsi.
Necessariamente dovremo fermarci a Ciudad de Guatemala per ottenere dall'Ambasciata italiana un duplicato del passaporto di
Chicca.
Quando passiamo per Antigua, siamo
così di corsa che la minima sosta che riusciamo a fare non ce la fa
apprezzare (sempre che ci sia qualcuno al quale piaccia questo stile
spagnolo fortemente barocco). Fondata nel 1542 con il nome di Santiago de los Caballeros, fu
il cuore della colonia spagnola che comprendeva, in pratica, tutto il
Centro America. Quello che resta di questa antica capitale coloniale è
una serie di pesanti facciate barocche. La Plaza de Armas, la
piazza principale, il cuore della città, è circondata da edifici in
stile coloniale tra i quali spicca il Palacio de los Capitanes
Generales.
La città fu vittima di vari terremoti, il più potente dei quali la mise
in ginocchio nel 1773. Proprio a seguito di questo cataclisma i suoi
abitanti furono costretti ad emigrare in terre più sicure.
Gli edifici di Antigua vennero più volte ricostruiti, sempre a seguito
del succedersi di terremoti, cosicché quello che vediamo oggi è il
risultato di molte ricostruzioni che si sono succedute nei secoli.
Ripartiamo dunque per arrivare alle prime ore della sera a Ciudad de
Guatemala, la capitale del paese, fondata nel 1776 su ordine del Re di
Spagna Carlo III su un altopiano della Sierra Madre chiamato La Ermita,
proprio per sostituire la distrutta Santiago de los Caballeros.
Grazie alle indicazioni in
possesso di Giancarlo, troviamo abbastanza presto posto in un albergo che
occupa il secondo ed il terzo piano di un vecchio squallido
edificio, servito da un ascensore che sembra ancora più antico.
Alla sera si fa appena il giro dell'isolato e ci fermiamo in un poco
significativo ristorantino nei paraggi.
La mattina dopo è una giornata impegnativa per Giancarlo e Chicca: lei
dovrà farsi delle foto per il passaporto e lui dovrà accompagnarla a
presentare la denuncia di furto del passaporto alla polizia e poi, con
questa denuncia in mano, recarsi all'Ambasciata Italiana per ottenere un
duplicato del passaporto o un passaporto provvisorio. Forse non basterà:
potrebbe essere necessario ottenere il visto di ingresso in Guatemala,
altrimenti lei potrebbe risultare entrata clandestinamente nel paese.
Nel frattempo noi, che abbiamo fatto un giro di orientamento per la città
che non ci pare abbia grandi spunti da offrire, pensiamo di dedicare il
nostro tempo al Museo del Popol Vuh ed a sbirciare, ed eventualmente fare
acquisti, al Mercado Colón.
Decidiamo di non usare i pulmini per muoverci: ci perderemmo sicuramente
nel grigiore delle strade tutte uguali di questa città. Così, con le
informazioni avute in albergo, prendiamo un autobus urbano di linea.
L'autista è veramente un factotum: oltre a guidare, riceve i soldi
dai passeggeri, consegna i biglietti e l'eventuale resto. Non solo: non
c'è il pulsante per la prenotazione della fermata. Chi deve scendere si
avvicina all'autista, gli tocca la spalla ed in questo modo questi sa che
la prossima fermata è stata prenotata!
Raggiungiamo così il Museo del Popol Vuh. Nel giardino d'ingresso sono
poste alcune sculture appartenenti alla cultura Cotzumalguapa, provenienti
per lo più dalla costa del Pacifico, ed altre dall'Altopiano Centrale del
Guatemala. Vediamo immagini del dio della pioggia, del giaguaro, del
serpente piumato, un coccodrillo, teschi, un altare antropomorfo. Alcune
sono pietre che facevano da bersagli per il gioco della pelota.
All'interno il museo accoglie in vetrine un po' datate altre sculture, ma
anche ceramiche e terrecotte varie, che provengono da siti archeologici
guatemaltechi, che coprono un periodo che va dall'800 a. Cr. al 900 d. Cr.
C'è poi tutta una sezione dedicata all'arte coloniale a soggetto
religioso, nella quale gli artigiani guatemaltechi rivaleggiavano con quelli
di Quito e del Messico. Erano famose soprattutto le loro Vergini ed i gruppi
con la Sacra Famiglia, che al tempo in cui Santiago de los Caballeros
(Antigua) era fiorente, venivano esportate in tutta l'America Latina per la
loro qualità e finezza di lavorazione. Qui c'è anche la ricostruzione di
una cappella (naturalmente barocca) con statue della Madonna, della
Trinità, dell'Arcangelo Michele (in legno di cedro rivestita da abiti
d'argento), con un dipinto dedicato a due Dottori della Chiesa, e poi
lampade d'argento, candelieri in bronzo, ecc...
Nel museo sono presenti anche oggetti legati alle feste popolari
guatemalteche, come costumi e maschere che appartenevano a congregazioni
locali che si radunavano attorno ad un santo, o ad un'immagine di santo,
che si impegnavano ad onorare. Queste congregazioni, o confraternite, a
turno animavano le celebrazioni ed a certe feste più solenni
partecipavano tutte assieme.
Venivano eseguite anche particolari danze per le quali gli artigiani erano
chiamati a preparare magnifici costumi, maschere, copricapo, oggetti, per
i personaggi interpretati dai danzatori: c'era la Danza della Conquista (che rappresentava la sottomissione degli indigeni all'esercito spagnolo),
la Danza dei Diavoli (che veniva eseguita nel giorno dedicato
all'Immacolata Concezione), la Danza del Cervo (che simbolicamente
rappresenta la lotta tra l'uomo e gli animali e veniva eseguita all'inizio
della stagione delle semine) e tante altre.
Il museo ha una sezione
archeologica con sale dedicate al Petén (quasi la totalità degli oggetti
proviene dal Periodo Classico), alla zona della valle del Rio Motagua (con
figure in terracotta che altro non sono che zufoli) ed al Quiché (con
ventiquattro urne funerarie comprese tra il 600 ed il 1100 d. Cr., tra cui
una in eccellente stato di conservazione e di grande finezza artistica).
Conclusa la visita al museo, ci dedichiamo al Mercado Colón, dove giriamo
a curiosare, e qualcuno fa anche acquisti di oggetti in cuoio.
Ciudad de Guatemala non è l'unico posto dove ho visto circolare per le
strade le biciclette con la targa, ma è la prima volta che vedo la targa
applicata anche a normali e semplici carriole, quelle tradizionali con una
ruota ed i due manici per spingerle. Evidentemente qualsiasi cosa che ha
le ruote, per poter circolare per le strade, deve avere una targa di
identificazione.
Nel tardo pomeriggio rientriamo in albergo ed un po' più tardi sono di
ritorno Giancarlo e Chicca: hanno fatto tutto, il passaporto è già
materialmente pronto, ma manca la firma del funzionario che era assente.
Hanno avuto assicurazione che domani mattina sarà firmato e potrà essere
consegnato.
Infatti l'indomani alle nove siamo tutti nei due pulmini sotto la sede
dell'Ambasciata Italiana di Ciudad de Guatemala. Finalmente escono
Giancarlo e Chicca che sventola il suo nuovo passaporto (che ha validità
di tre mesi).
Quando
mancano i ponti, a volte le deviazioni ci costringono a dei guadi.
Si può dunque partire per riprendere il nostro tour, percorrendo la carretera
automóvil n. 9 che collega Ciudad de Guatemala con l'oceano Atlantico a
Puerto Barrios, un'arteria che costeggia un gran tratto del Rio Motagua.
E' una strada molto trafficata, soprattutto da camion: in teoria dovrebbe
essere asfaltata, ma a causa dei tanti mezzi pesanti che la percorrono
scavando buche anche profonde ed a causa di frequenti lavori di
manutenzione, è assai mal ridotta. A volte siamo costretti a transitare per
deviazioni provvisorie in terra battuta ed alcuni ponti non percorribili ci
costringono a passare dei guadi, non difficili, ma sempre molto d'effetto e
suggestivi, suggerendo l'idea dell'avventura.
Al bivio di Rio Hondo prendiamo la strada CA-10 a destra ed oltrepassato di
qualche chilometro Chiquimula deviamo a sinistra per una strada sterrata in
un panorama collinoso ricoperto dalla foresta. Sono quasi una cinquantina di
chilometri di pista abbastanza accidentata, con molte curve, saliscendi e
guadi dove l'acqua rischia di entrare dentro i nostri Volkswagen.
Sembra che siamo i soli "matti" a percorrerla: per tutto il
percorso non incontriamo nessuno e ci troviamo soli in questo paesaggio
fantastico.
Uno
dei nostri pulmini vicino alla frontiera tra Guatemala ed Honduras.
La
disinfestazione dei nostri pulmini alla frontiera tra Guatemala ed
Honduras.
Finalmente, ormai è quasi sera, arriviamo a El Florido, il posto di
frontiera guatemalteco con l'Honduras. In pratica ci sono solo un paio di
case, quelle dei doganieri, e nulla di più.
Quasi ci fanno festa quando ci vedono arrivare: non deve essere molto il
traffico in questo posto. C'è il solito controllo dei passaporti, mentre
l'ispezione doganale è molto accurata. Non abbiamo ancora imparato la lezione, e così i doganieri honduregni ci
sequestrano dei pomodori che avevamo con noi e che ci eravamo dimenticati di
mangiare prima di arrivare alla frontiera.
Fatto questo comincia la disinfestazione dei pulmini: aperte le portiere
vengono riempiti di insetticida che viene "sparato" dentro con
un'apposita pompa portatile, poi le portiere ed i finestrini vengono chiusi.
Sentita la puzza piuttosto forte, noi tentiamo di spalancare le portiere ed
abbassare i finestrini per arieggiare i mezzi, ma ne siamo impediti dai
disinfestatori. Infatti più tempo il veleno rimane nel mezzo, più effetto
ha nei confronti dei possibili insetti.
Speriamo che non debba fare effetto anche su di noi!
C'è un grosso timore che insetti dannosi alle loro piantagioni, come ad
esempio la mosca dell'albero da frutta, possano entrare nel loro territorio:
come se questi parassiti, per oltrepassare la frontiera, abbiano bisogno del
nostro pulmino!
Dobbiamo percorrere ancora una dozzina di chilometri prima di arrivare a
Copán.
Nel paese, in piazza, cerchiamo informazioni per sapere dove possiamo
accampare: ci viene segnalato il campo sportivo, appena fuori il paese. Lo
raggiungiamo ed il custode ci indica uno spiazzo dove possiamo montare le
tende. Avremo la possibilità di utilizzare i servizi annessi al campo di
gioco, ma poi scopriremo che sono tutti chiusi con pesanti lucchetti.
Il posto è bello, nel terreno morbido i picchetti delle tende entrano
senza difficoltà; vicino scorre un piccolo fiume fiancheggiato da alberi
e cespugli. I fari dei nostri Volkswagen ci aiutano a far luce per montare
le tende e, più tardi, mentre prepariamo da mangiare.