Torniamo sulla carretera automovil CA-9, la carretera al
Atlantico. A Quiriguá avevamo avuto un po' di sole ed ora sulla strada
incontriamo la pioggia.
Poco dopo la deviazione per Morales, che non ci interessa, c'è un'altra
deviazione a sinistra, a Franceses, che noi prendiamo; adesso possiamo
dimenticare l'asfalto: stiamo per avvicinarci alla pista che
percorreremo domani all'interno della foresta del Petén.
Alla nostra destra c'è l'oceano Atlantico, con il golfo dell'Honduras che
si insinua nella costa formando la baia di Amatique sulla quale si
affaccia Puerto Barrios. A sinistra invece c'è il lago Izabal, formato
principalmente dai due immissari, il Rio Polochic ed il Rio Tunico: il
lago Izabal diventa anche una specie di foce per questi fiumi: è il Rio
Dulce che fa da emissario al lago portando le sue acque nella baia di
Amatique ed all'oceano.
Sulla riva opposta c'è il Castillo San Felipe, fatto costruire dagli
spagnoli alla metà del XVIII secolo così interno per sfuggire agli
assalti dei pirati: ma questi riuscirono a trovarlo ugualmente.
La nostra strada terminerebbe sulla riva del Rio Dulce se non fosse per un
brutto ponte in ferro (sembra nuovo) che attraversa l'emissario del lago
Izabal.
Su una sponda e sull'altra del fiume è sorto un agglomerato di baracche e
catapecchie: è questo l'inizio della pista del Petén. Oltre, passato il
ponte, ci sono lunghe fila di camion fermi lungo la strada fangosa. E' una
tappa obbligata prima di affrontare la pista.
Il sole è già tramontato: non è un problema trovare da mangiare, i
baracchini che offrono cibo sono in abbondanza, basta scegliere il meno
sozzo. Piuttosto dobbiamo trovare da dormire perché è impensabile
cercare un posto per le nostre tende in questo luogo, con questo fango e
questa pioggia.
C'è un ufficio postale in ristrutturazione: parlando con un presunto
responsabile possiamo dormire là dentro.
Trovato il letto, troviamo anche un ristorantino che ci possa accogliere tutti
all'interno. E' una cena povera, una minestra di frijoles e del
pesce arrostito. Il conto non ci convince: qualcuno si arrabbia, è
evidente che hanno cercato di fare la "cresta", ma non vale la
pena scaldarsi troppo per quelle che (al cambio) sono solo qualche
centinaia di lire.
Raggiungiamo l'ufficio postale: chi ci accompagna si raccomanda che non tocchiamo
nulla e dovremo andarcene prima delle 7, quando arriveranno gli operai.
L'interno è un po' in subbuglio, per via di certi lavori di muratura che
stanno facendo. Tuttavia ci sono tutti i mobili, le cassettiere e
l'arredamento, raggruppati e spostati su un lato.
Lo spazio per terra non è molto, ma incastrando per bene i materassini ci
stiamo tutti.
Sentiamo la pioggia rimbombare sul tetto di lamiera ed il rumore
scrosciante come di
una cascata: è la grondaia che, da un lato, scarica direttamente a terra,
in quanto manca il tubo di discesa dell'acqua. Non c'è bisogno della
sveglia: la mancanza di imposte alle finestre fa entrare direttamente la
luce nello stanzone ai primi chiarori del giorno. Non c'è il sole, ma
almeno non piove più.
Si fa il pieno di benzina e si riempiono anche due taniche: non sappiamo
quando potremo rifornire ancora. Alle sette in punto si parte.
All'attraversamento
dei ponti dobbiamo scendere dai pulmini per spostare le tavole e
portarle alla distanza giusta per le ruote.
La pista è veramente mal ridotta: alle larghe pozzanghere si aggiungono i
profondi solchi scavati dalle ruote dei pesanti camion.
Lo scenario però è molto suggestivo: a destra ed a sinistra c'è solo e
semplicemente la foresta dalla quale si levano basse e grigie nuvole cariche
di umidità. Si va piano, certo non si corre: i nostri sono dei pulmini
Volkswagen e non delle Land Rover. Alle dieci, dopo tre ore dalla partenza,
abbiamo percorso solo settanta chilometri.
La pista taglia dei fiumi ed al primo ponte si presenta subito un problema
per noi: è un ponte di legno, alto su un fiume che scorre abbastanza
profondo. Il piano del ponte è costituito da traversine di legno gettate di
traverso, come avviene per quelle delle rotaie. Di lungo sono posate delle
tavole in due file parallele: la fila destra per le ruote di destra, la fila
di sinistra per le ruote di sinistra. Insomma, è come fossero delle rotaie
di legno sulle quali dobbiamo andare.
Il problema è che la distanza tra le due file di tavole va bene per i
camion, che hanno gli assi più lunghi e le ruote più distanziate di quelle
di un pulmino Volkswagen: sarebbe come dire, usando il linguaggio ferroviario,
che le due file di tronchi hanno uno scartamento ben maggiore di quanto
richiedono le nostre ruote.
Allora scendiamo tutti dai pulmini (lasciando ovviamente i nostri autisti
alla guida) e dobbiamo spostare decine e decine di tavole per ravvicinarle,
in modo che i nostri Volkswagen possano salirci sopra.
Si
evita di attraversare un ponte scegliendo di guadare il corso d'acqua.
Ci succede un paio di volte, fin
tanto che non scopriamo il trucco: a fianco dei ponti spesso c'è una
pista battuta che scende verso il fiume in modo da poterlo guadare. A
volte si resta impantanati e si deve spingere il pulmino per uscire fuori,
ma almeno è meglio di dover spostare centinaia di pesanti tavole.
Lo scenario cambia frequentemente: la pista ora attraversa tratti di fitta
foresta, ora tratti di bassa vegetazione. Ogni tanto c'è anche qualche
capanna abitata. Viene da chiedersi di cosa vive questa gente.
Di
tanto in tanto si incrocia qualche camion e si vede qualche
capanna abitata ai bordi della pista..
La
pista nella foresta del Petén si fa più larga nell'ultimo tratto
prima di arrivare a Tikal.
Foriamo anche una gomma, ma con quello che passiamo questo è il minore dei
mali;
più che altro speriamo di non forare una seconda volta, altrimenti dopo
resteremmo senza ruote di scorta. C'è anche qualcosa che non va su una
sospensione, forse si è scaricata. Stiamo pretendendo forse troppo dai due
Volkswagen. Alle due del pomeriggio sono sette ore di viaggio quasi
ininterrotto ed abbiamo percorso 180 chilometri.
Il pulmino dietro al nostro ci fa segnali con i fanali: è restato un po'
indietro e ci fermiamo ad aspettarlo. Ci raggiunge: Millo sta reggendo con
uno straccio la marmitta ormai staccata. Resta un pezzo di tubo a penzoloni
che riusciamo a staccare prendendola a calci: i due pezzi fanno un volo al
bordo della pista.
Alle tre e mezza (dopo 205 chilometri) arriviamo a Flores, punto di
passaggio obbligatorio per il nostro viaggio. Flores si trova su un isolotto
vicino ad una riva del lago Petén Itzá ed è unito alla terraferma da un
terrapieno su cui corre la strada, trasformando di fatto l'isolotto in
penisola.
Scendiamo per il tempo minimo indispensabile per mangiare qualcosa e muovere
i muscoli intorpiditi. Qui ci sarebbero i modesti ruderi archeologici di
Tayasal, ma nessuno ha interesse di andarli a vedere (e non ci sarebbe
neppure il tempo).
La pista ora gira attorno al lago di Petén Itzá: infatti Tikal è a nord
del lago. Si prende la strada al bivio di El Remate, ma noi qui ci fermiamo:
infatti passeremo la notte al Camping El Gringo Perdido. E' di un americano,
un personaggio che sembra uscito da un film western. Siamo gli unici
clienti del suo camping (a parte i mosquitos) e sinceramente non
abbiamo idea di quanti clienti vengano fin qui a piantare le tende.
Le toilette sono all'aperto: sono in pratica delle cabine con le
pareti costruite con un intreccio di canne. Si sente un urlo provenire da
una toilette: è Lorena che ha trovato, alla luce della sua torcia
elettrica, un grosso rospo che, senza esagerazione, è lungo almeno un
venti, venticinque centimetri, in posizione accovacciata. Se ne sta tutto
tremante in un angolo: probabilmente è lui ad essere inorridito per la
nostra presenza.
Alla mattina presto ripartiamo: la pista verso Tikal si fa più larga, ma
adesso tocca a noi perdere la marmitta. Sentiamo qualcosa che si trascina
per terra con un gran baccano. Non c'è neppure il tempo di fermarci, che la
marmitta si è già distaccata da sola.
La
stele "16" di Tikal.
Intanto siamo arrivati a Tikal, nel cuore della foresta del Petén, qui
dominata da alberi ad alto fusto: ficus, cedri, mogani, palme...
Proprio in questo luogo così inospitale i Maya, con una tecnologia
primitiva, costruirono la loro più grande città inventando degli
elementi architettonici che poi si sarebbero irradiati in altri centri.
Dobbiamo considerare Tikal come un centro urbano: per i Maya, in genere,
ogni città era un centro cerimoniale, dedicato al culto ed abitata dai
principi-sacerdoti. A Tikal invece non solo i templi ed i palazzi, ma anche le scuole, le
abitazioni, i laboratori, le officine facevano parte della città.
Complessivamente Tikal si estendeva per circa 123 chilometri quadrati con
una popolazione di 45 mila abitanti.
Nei primi tre secoli della nostra era a Tikal si cominciarono a costruire
monumenti commemorativi, soprattutto stele; la più antica finora
ritrovata è la stele "29" del 292 d. Cr. Come è noto l'usanza
delle stele commemorative divenne molto diffusa tra i Maya.
Le stele a Tikal hanno il lato principale in genere arrotondato sulla
parte superiore e spesso la parte inferiore è più stretta. Di solito rappresentano
un sacerdote elegantemente abbigliato che regge con le mani il bastone
cerimoniale. In relazione con la stele è posto anche un altare, ovvero
una sorta di grosso tamburo in pietra.
Queste sculture, secondo Paul Westheim, avevano lo scopo di commemorare
una data, un periodo (come, ad esempio, la fine di un katun, o
ciclo di 7.200 giorni) o celebrare lo halach uinic, il grande
sacerdote onnipresente.
A Tikal nascono le volte a mensola. Forse in origine fu la necessità di
trovare un sistema per coprire le tombe e poi l'espediente passò
all'architettura dei templi espandendosi in un paio di secoli a tutta
l'area maya.
Giancarlo
ed io saliamo sulla piramide del Tempio V di Tikal, invasa dalla
foresta.
Mentre gli altri popoli mesoamericani contemporanei di Tikal (i Teotihuacani
e gli Zapotechi) usavano tetti piani sostenti da una trabeazione di legno
che poggiava su muri o colonne, l'uso della volta a mensola limitò la
possibilità di avere ampi spazi interni. Ma qui a Tikal non ci si
preoccupò di questo, prevalendo l'interesse per l'aspetto esterno degli
edifici, tanto è vero che quanto più grandi ed imponenti diventavano le
costruzioni, tanto più piccolo diventava lo spazio interno.
I templi, sulla cima delle piramidi, diventarono dei "tabernacoli"
che contenevano la divinità. Le celebrazioni religiose avvenivano all'aria
aperta con i sacerdoti posti in alto, inaccessibili ai fedeli, sulla cima
delle piramidi. Così i sacerdoti enfatizzavano la loro superiorità sulla
massa che partecipava ai piedi delle piramidi, sulle piazze o sulle
gradinate.
Un altro elemento architettonico che nasce qui a Tikal è la
"cresta" che sovrasta i templi. Aveva una funzione simbolica:
tutto l'interesse si concentra sulla facciata del tempio. Oggi di queste
"creste" resta solo una parte: in un millennio di completo
abbandono la foresta si è impadronita dei propri spazi, spingendosi ad
invadere di piante anche la cima delle piramidi. Ma ai tempi dello splendore
di Tikal, alcune di queste "creste" erano ancora più alte,
riccamente adornate (sul Tempio II doveva esserci un enorme mascherone di
divinità, oggi perduto): da un punto di vista formale queste
"creste" rappresentavano un'aggiunta al complesso piramide-tempio
che ne esaltava la verticalità ed aumentava lo stupore del popolo nei
confronti del sacerdote che lassù officiava i riti.
C'è da ricordare un altro elemento tipico di Tikal che si è sviluppato tra
il VII ed il IX secolo d. Cr., quello dei templi gemelli. La loro struttura
è sempre la stessa: c'è una spianata artificiale a base rettangolare con gli angoli
arrotondati sulla quale, alle estremità opposte volte ad est ed ovest, sono
costruiti due basamenti gemelli, ciascuno con quattro scalinate poste ai
quattro lati. Le due piattaforme superiori delle due costruzioni erano
libere, non c'erano templi; forse erano destinate a sacrifici o a
danze. Invariabilmente, di fronte al basamento posto ad ovest, c'erano nove
stele con altrettanti altari privi di sculture. Completava la struttura un
edificio basso ed allungano con nove porte rivolte all'interno della
spianata ed un recinto che racchiudeva una stele ed un altare, questa volta
scolpiti, con incisa una data, probabilmente quella inaugurale del
complesso.
Le rovine di Tikal sono solo in minima parte liberate dalla foresta che le
ha invase.
Con
cautela scendiamo dalla piramide del tempio V.
Appena arrivati ci imbattiamo nella piramide del tempio V, nascosta dalla
vegetazione.
Giancarlo ed io cominciamo a scalarla: i ripidi gradini sono sconquassati,
spostati o rovesciati dalla forza di enorme radici che vi sono penetrate
aprendo fenditure nella pietra. La salita è resa difficile anche per la
scivolosità di dove camminiamo e dall'opprimente caldo umido che proviene
dalla selva.
Arriviamo finalmente in cima alla piattaforma dove è collocato il tempio.
Sembrano
alberi che crescono attorno ai cespugli: ma siamo ad una
cinquantina di metri d'altezza: i cespugli in realtà sono le
chiome di alberi che nascono cinquanta metri più sotto.
Guardandoci attorno, a prima vista, non sembra di essere così in alto ma
piuttosto di trovarci tra i cespugli, solo che quei cespugli altro non sono
che chiome di alberi alti cinquanta metri sui quali svolazzano degli
uccelli con il becco giallo che costruiscono degli strani nidi che pendono
dai rami.
Entriamo nel tempio attraverso l'unica porta. Dentro c'è solo una piccola
ed angusta stanzetta.
La
foresta del Petén ed alcuni templi di Tikal visti dal Tempio
V sulla cima della piramide.
Nessuno del gruppo ci ha seguiti e siamo soli ad osservare il mare di
verde davanti a noi: è la foresta del Petén. Scorgiamo anche gli edifici
più alti che si affacciano sull'Acropoli.
La
piramide del Tempio I e la Plaza Mayor di Tikal visti dall'alto del
Tempio II.
La
piramide del Tempio I di Tikal vista dall'alto del Tempio II.
Con cautela, ancora maggiore di quella che abbiamo usato per salire,
Giancarlo ed io scendiamo dal Tempio V facendo bene attenzione a dove mettiamo
i piedi.
Scesi ci dirigiamo verso il cuore di Tikal, la Plaza Mayor, dove troviamo
il resto del gruppo che non aveva voluto affrontare la fatica (ed anche un
po' di rischio) di salire sulla piramide V.
Le piramidi principali che si affacciano sulla piazza sono quella del
Tempio I, detto anche del Grande Giaguaro, dedicato ad un sovrano maya,
Ah-Cacau, e quella del Tempio II, detto delle Maschere, costruito per sua
moglie Douze Ara. Su di un lato c'è la gradinata della Terrazza Nord ed i
templi dell'Acropoli Nord.
La salita al Tempio II è molto più agevole di quella al Tempio V, almeno
per me e Giancarlo che l'avevamo provata. In alto, ai lati della scala
centrale, fanno la guardia due mascheroni, da cui il nome che viene anche
dato a questo tempio: Tempio delle Maschere.
Il tempio sulla sommità ha tre anguste stanze che comunicano tra loro. Da
qui godiamo di una bella panoramica sulla Plaza Mayor con l'Acropoli Nord
e, di fronte, il Tempio I, o del Grande Giaguaro.
Scendiamo sulla piazza e giriamo attorno alle stele ed agli altari
(nessuno nella posizione originaria per la quale erano stati scolpiti) e
passeggiamo tra gli edifici circostanti.
Ora è la volta di salire sul Tempio I: la scalata è un po' più faticosa
di quella che abbiamo fatto per raggiungere il Tempio II.
Anche qui il tempio ha tre stanzette con la tipica volta a mensola.
La
piramide del Tempio II sulla Plaza Mayor di Tikal vista dal
Tempio I.
La
piramide del tempio IV con i suoi 65 metri è la più alta di Tikal.
Chicca, in particolare, resta in contemplazione di quello che si vede da
quassù: la Plaza Mayor, il Tempio II di fronte e dietro la foresta
impenetrabile. Dalle chiome degli alberi svettano le "creste"
dei templi V, III e IV.
Chicca non fa fotografie come noi: vuole starsene seduta là in alto, in
silenzio, a contemplare questo spettacolo e "fotografarlo" nella
propria mente.
Ci disperdiamo tra gli altri monumenti di Tikal: io faccio un percorso che
mi porta a raggiungere il Tempio III e poi il Tempio IV, passando per i
templi gemelli, ammirando una delle più belle stele, la numero 16, ed
altri gruppi.
Il Tempio IV è uno dei più alti di Tikal (65 metri) e la sua piramide è
ricoperta di vegetazione, radici, cespugli ed alberi. La tentazione di
fare la scalata anche di questa piramide è grande: essendo più alto, la
vista panoramica sarà certamente più ampia.
Così mi appresto a salirla, sempre con Giancarlo: ci sembra di essere gli
unici due temerari del gruppo.
Prestando la dovuta attenzione, non troviamo maggiori difficoltà di
quante ne abbiamo incontrate sulla piramide del Tempio V.
La piattaforma è occupata dal solito tempio: la vista sulla foresta è
fantastica, nonostante la luce un po' strana , a causa del cielo grigio.
Giriamo attorno al tempio per godere del panorama a 360 gradi e qui,
dietro il tempio, vediamo che si può osare di più: sulla parte
posteriore, infissa nella parete, c'è una scala a pioli in ferro che può
portarci ancora più in alto.
Dall'alto
del Tempio IV sovrastiamo le chiome degli alberi della foresta del
Petén sulla quale svettano le "creste" degli altri templi
maggiori.
La
complicata firma del delegato della Delegación de Migración di
Melchor de Mencos sui visti d'uscita dal Guatemala.
Il primo a salire è Giancarlo il quale, arrivato sopra, mi incoraggia a
raggiungerlo.
Sperando di non soffrire troppo di vertigini e che la scaletta regga, con
un certo timore, salgo anche io: ci troviamo ben più alti delle chiome
degli alberi della foresta ed a sovrastare il verde vediamo le
"creste" dei templi III, II e I.
Uno spettacolo veramente mozzafiato al quale nessuna foto può riuscire a
rendere ragione.
Con altrettanta cautela ridiscendiamo per i pioli di ferro e poi, piano
pano, per i gradini in pietra invasi da vegetazione e radici.
Abbiamo ancora un po' di tempo per un veloce spuntino e poi, alle 14,
l'appuntamento per tutti è alle macchine.
Si ripercorre la stessa pista nella foresta del Petén che avevamo
percorso questa mattina, poi oltrepassato di una decina di chilometri El
Remate, dove avevamo campeggiato, a El Cruce imbocchiamo una pista a
sinistra che porta verso il Belize.
L'eccitazione nel pulmino è massima per raccontarci quello che abbiamo
visto e quello che ci ha impressionato di più.
La pista è più scorrevole di quella di ieri e per fortuna non abbiamo da
attraversare più guadi, che ci farebbero perdere molto tempo. Intanto il
sole tramonta velocemente.
Dobbiamo essere alla frontiera prima che questa chiuda: queste frontiere
non sono aperte tutto il giorno ed ognuna ha i propri orari; in genere
chiudono verso le sei o sette di sera.
Arriviamo in tempo a Ciudad Melchor de Mencos, il posto di frontiera
guatemalteco con il Belize, quando è già buio, ma sono ancora aperti.
Un impettito capitano della Delegación de Migración appone sul
visto d'uscita dei nostri passaporti la propria arzigogolata e complessa
firma: credo che possa permettersi di perdere tanto tempo per fare una
firma così complicata solo perché non ci deve essere molto traffico in
questo posto di frontiera!
Mentre stiamo completando le operazioni, qualcuno del gruppo
insinua il seme del dubbio: «Il Belize, fino a qualche anno fa, era
una colonia inglese. Non sarà per caso che conservano la regola della
guida a sinistra, come è avvenuto per l'India?»
C'è un attimo di panico fra chi deve guidare i pulmini. Come si fa a
saperlo? Giancarlo e Massimo decidono allora che, entrati in Belize, non
terranno né la destra né la sinistra: si manterranno verso il centro della
strada, poi osservando le altre macchine si capirà se in Belize c'è la
guida a destra o a sinistra!
Il problema è che non c'è traffico, ci siamo solo noi che, imperterriti,
viaggiamo al centro della strada. Sono lunghi rettilinei senza curve quelli
che percorriamo. Poi, finalmente, dopo qualche chilometro vediamo in
lontananza i fari di un'altra macchina che si avvicina; diventati più
vicini quell'autista ci fa delle segnalazioni con le luci abbaglianti
affinché noi ci scostiamo dal centro della strada: è un camion e sta tenendo
la sua destra! Giancarlo e Massimo dietro di lui si adeguano immediatamente:
abbiamo capito che in Belize, nonostante nel passato sia stato
l'Honduras Britannico, oggi si tiene la guida a destra!