Maya 80

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Melchor de Mencos
Belmopán, Belize City,
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Cozumel, Isla Mujeres
Chichén Itzá, Mérida,
New York
 
Viaggio effettuato nell'aprile 1980
 
L'inizio della pista per la foresta del Petén.
Torniamo sulla carretera automovil CA-9, la carretera al Atlantico. A Quiriguá avevamo avuto un po' di sole ed ora sulla strada incontriamo la pioggia.
Poco dopo la deviazione per Morales, che non ci interessa, c'è un'altra deviazione a sinistra, a Franceses, che noi prendiamo; adesso possiamo dimenticare l'asfalto: stiamo per avvicinarci alla pista che percorreremo domani all'interno della foresta del Petén.
Alla nostra destra c'è l'oceano Atlantico, con il golfo dell'Honduras che si insinua nella costa formando la baia di Amatique sulla quale si affaccia Puerto Barrios. A sinistra invece c'è il lago Izabal, formato principalmente dai due immissari, il Rio Polochic ed il Rio Tunico: il lago Izabal diventa anche una specie di foce per questi fiumi: è il Rio Dulce che fa da emissario al lago portando le sue acque nella baia di Amatique ed all'oceano.
Sulla riva opposta c'è il Castillo San Felipe, fatto costruire dagli spagnoli alla metà del XVIII secolo così interno per sfuggire agli assalti dei pirati: ma questi riuscirono a trovarlo ugualmente.
La nostra strada terminerebbe sulla riva del Rio Dulce se non fosse per un brutto ponte in ferro (sembra nuovo) che attraversa l'emissario del lago Izabal.
Su una sponda e sull'altra del fiume è sorto un agglomerato di baracche e catapecchie: è questo l'inizio della pista del Petén. Oltre, passato il ponte, ci sono lunghe fila di camion fermi lungo la strada fangosa. E' una tappa obbligata prima di affrontare la pista.
Il sole è già tramontato: non è un problema trovare da mangiare, i baracchini che offrono cibo sono in abbondanza, basta scegliere il meno sozzo. Piuttosto dobbiamo trovare da dormire perché è impensabile cercare un posto per le nostre tende in questo luogo, con questo fango e questa pioggia.
C'è un ufficio postale in ristrutturazione: parlando con un presunto responsabile possiamo dormire là dentro.
Trovato il letto, troviamo anche un ristorantino che ci possa accogliere tutti all'interno. E' una cena povera, una minestra di frijoles e del pesce arrostito. Il conto non ci convince: qualcuno si arrabbia, è evidente che hanno cercato di fare la "cresta", ma non vale la pena scaldarsi troppo per quelle che (al cambio) sono solo qualche centinaia di lire.
Raggiungiamo l'ufficio postale: chi ci accompagna si raccomanda che non tocchiamo nulla e dovremo andarcene prima delle 7, quando arriveranno gli operai.
L'interno è un po' in subbuglio, per via di certi lavori di muratura che stanno facendo. Tuttavia ci sono tutti i mobili, le cassettiere e l'arredamento, raggruppati e spostati su un lato.
Lo spazio per terra non è molto, ma incastrando per bene i materassini ci stiamo tutti.
Sentiamo la pioggia rimbombare sul tetto di lamiera ed il rumore scrosciante come di una cascata: è la grondaia che, da un lato, scarica direttamente a terra, in quanto manca il tubo di discesa dell'acqua. Non c'è bisogno della sveglia: la mancanza di imposte alle finestre fa entrare direttamente la luce nello stanzone ai primi chiarori del giorno. Non c'è il sole, ma almeno non piove più.
Si fa il pieno di benzina e si riempiono anche due taniche: non sappiamo quando potremo rifornire ancora. Alle sette in punto si parte.
All'attraversamento dei ponti dobbiamo scendere dai pulmini per spostare le tavole e portarle alla distanza giusta per le ruote.
La pista è veramente mal ridotta: alle larghe pozzanghere si aggiungono i profondi solchi scavati dalle ruote dei pesanti camion.
Lo scenario però è molto suggestivo: a destra ed a sinistra c'è solo e semplicemente la foresta dalla quale si levano basse e grigie nuvole cariche di umidità. Si va piano, certo non si corre: i nostri sono dei pulmini Volkswagen e non delle Land Rover. Alle dieci, dopo tre ore dalla partenza, abbiamo percorso solo settanta chilometri.
La pista taglia dei fiumi ed al primo ponte si presenta subito un problema per noi: è un ponte di legno, alto su un fiume che scorre abbastanza profondo. Il piano del ponte è costituito da traversine di legno gettate di traverso, come avviene per quelle delle rotaie. Di lungo sono posate delle tavole in due file parallele: la fila destra per le ruote di destra, la fila di sinistra per le ruote di sinistra. Insomma, è come fossero delle rotaie di legno sulle quali dobbiamo andare.
Il problema è che la distanza tra le due file di tavole va bene per i camion, che hanno gli assi più lunghi e le ruote più distanziate di quelle di un pulmino Volkswagen: sarebbe come dire, usando il linguaggio ferroviario, che le due file di tronchi hanno uno scartamento ben maggiore di quanto richiedono le nostre ruote.
Allora scendiamo tutti dai pulmini (lasciando ovviamente i nostri autisti alla guida) e dobbiamo spostare decine e decine di tavole per ravvicinarle, in modo che i nostri Volkswagen possano salirci sopra.
Si evita di attraversare un ponte scegliendo di guadare il corso d'acqua.
Ci succede un paio di volte, fin tanto che non scopriamo il trucco: a fianco dei ponti spesso c'è una pista battuta che scende verso il fiume in modo da poterlo guadare. A volte si resta impantanati e si deve spingere il pulmino per uscire fuori, ma almeno è meglio di dover spostare centinaia di pesanti tavole.
Lo scenario cambia frequentemente: la pista ora attraversa tratti di fitta foresta, ora tratti di bassa vegetazione. Ogni tanto c'è anche qualche capanna abitata. Viene da chiedersi di cosa vive questa gente.
 
Di tanto in tanto si incrocia qualche camion e si vede qualche capanna abitata ai bordi della pista..
   
La pista nella foresta del Petén si fa più larga nell'ultimo tratto prima di arrivare a Tikal.
Foriamo anche una gomma, ma con quello che passiamo questo è il minore dei mali; più che altro speriamo di non forare una seconda volta, altrimenti dopo resteremmo senza ruote di scorta. C'è anche qualcosa che non va su una sospensione, forse si è scaricata. Stiamo pretendendo forse troppo dai due Volkswagen. Alle due del pomeriggio sono sette ore di viaggio quasi ininterrotto ed abbiamo percorso 180 chilometri.
Il pulmino dietro al nostro ci fa segnali con i fanali: è restato un po' indietro e ci fermiamo ad aspettarlo. Ci raggiunge: Millo sta reggendo con uno straccio la marmitta ormai staccata. Resta un pezzo di tubo a penzoloni che riusciamo a staccare prendendola a calci: i due pezzi fanno un volo al bordo della pista.
Alle tre e mezza (dopo 205 chilometri) arriviamo a Flores, punto di passaggio obbligatorio per il nostro viaggio. Flores si trova su un isolotto vicino ad una riva del lago Petén Itzá ed è unito alla terraferma da un terrapieno su cui corre la strada, trasformando di fatto l'isolotto in penisola.
Scendiamo per il tempo minimo indispensabile per mangiare qualcosa e muovere i muscoli intorpiditi. Qui ci sarebbero i modesti ruderi archeologici di Tayasal, ma nessuno ha interesse di andarli a vedere (e non ci sarebbe neppure il tempo).
La pista ora gira attorno al lago di Petén Itzá: infatti Tikal è a nord del lago. Si prende la strada al bivio di El Remate, ma noi qui ci fermiamo: infatti passeremo la notte al Camping El Gringo Perdido. E' di un americano, un personaggio che sembra uscito da un film western. Siamo gli unici clienti del suo camping (a parte i mosquitos) e sinceramente non abbiamo idea di quanti clienti vengano fin qui a piantare le tende.
Le toilette sono all'aperto: sono in pratica delle cabine con le pareti costruite con un intreccio di canne. Si sente un urlo provenire da una toilette: è Lorena che ha trovato, alla luce della sua torcia elettrica, un grosso rospo che, senza esagerazione, è lungo almeno un venti, venticinque centimetri, in posizione accovacciata. Se ne sta tutto tremante in un angolo: probabilmente è lui ad essere inorridito per la nostra presenza.
Alla mattina presto ripartiamo: la pista verso Tikal si fa più larga, ma adesso tocca a noi perdere la marmitta. Sentiamo qualcosa che si trascina per terra con un gran baccano. Non c'è neppure il tempo di fermarci, che la marmitta si è già distaccata da sola.
La stele "16" di Tikal.
Intanto siamo arrivati a Tikal, nel cuore della foresta del Petén, qui dominata da alberi ad alto fusto: ficus, cedri, mogani, palme...
Proprio in questo luogo così inospitale i Maya, con una tecnologia primitiva, costruirono la loro più grande città inventando degli elementi architettonici che poi si sarebbero irradiati in altri centri.
Dobbiamo considerare Tikal come un centro urbano: per i Maya, in genere, ogni città era un centro cerimoniale, dedicato al culto ed abitata dai principi-sacerdoti.
A Tikal invece non solo i templi ed i palazzi, ma anche le scuole, le abitazioni, i laboratori, le officine facevano parte della città.
Complessivamente Tikal si estendeva per circa 123 chilometri quadrati con una popolazione di 45 mila abitanti.
Nei primi tre secoli della nostra era a Tikal si cominciarono a costruire monumenti commemorativi, soprattutto stele; la più antica finora ritrovata è la stele "29" del 292 d. Cr. Come è noto l'usanza delle stele commemorative divenne molto diffusa tra i Maya.
Le stele a Tikal hanno il lato principale in genere arrotondato sulla parte superiore e spesso la parte inferiore è più stretta. Di solito rappresentano un sacerdote elegantemente abbigliato che regge con le mani il bastone cerimoniale. In relazione con la stele è posto anche un altare, ovvero una sorta di grosso tamburo in pietra.
Queste sculture, secondo Paul Westheim, avevano lo scopo di commemorare una data, un periodo (come, ad esempio, la fine di un katun, o ciclo di 7.200 giorni) o celebrare lo halach uinic, il grande sacerdote onnipresente.
A Tikal nascono le volte a mensola. Forse in origine fu la necessità di trovare un sistema per coprire le tombe e poi l'espediente passò all'architettura dei templi espandendosi in un paio di secoli a tutta l'area maya.
Giancarlo ed io saliamo sulla piramide del Tempio V di Tikal, invasa dalla foresta.
Mentre gli altri popoli mesoamericani contemporanei di Tikal (i Teotihuacani e gli Zapotechi) usavano tetti piani sostenti da una trabeazione di legno che poggiava su muri o colonne, l'uso della volta a mensola limitò la possibilità di avere ampi spazi interni. Ma qui a Tikal non ci si preoccupò di questo, prevalendo l'interesse per l'aspetto esterno degli edifici, tanto è vero che quanto più grandi ed imponenti diventavano le costruzioni, tanto più piccolo diventava lo spazio interno.
I templi, sulla cima delle piramidi, diventarono dei "tabernacoli" che contenevano la divinità. Le celebrazioni religiose avvenivano all'aria aperta con i sacerdoti posti in alto, inaccessibili ai fedeli, sulla cima delle piramidi. Così i sacerdoti enfatizzavano la loro superiorità sulla massa che partecipava ai piedi delle piramidi, sulle piazze o sulle gradinate.
Un altro elemento architettonico che nasce qui a Tikal è la "cresta" che sovrasta i templi. Aveva una funzione simbolica: tutto l'interesse si concentra sulla facciata del tempio. Oggi di queste "creste" resta solo una parte: in un millennio di completo abbandono la foresta si è impadronita dei propri spazi, spingendosi ad invadere di piante anche la cima delle piramidi. Ma ai tempi dello splendore di Tikal, alcune di queste "creste" erano ancora più alte, riccamente adornate (sul Tempio II doveva esserci un enorme mascherone di divinità, oggi perduto): da un punto di vista formale queste "creste" rappresentavano un'aggiunta al complesso piramide-tempio che ne esaltava la verticalità ed aumentava lo stupore del popolo nei confronti del sacerdote che lassù officiava i riti.
C'è da ricordare un altro elemento tipico di Tikal che si è sviluppato tra il VII ed il IX secolo d. Cr., quello dei templi gemelli. La loro struttura è sempre la stessa: c'è una spianata artificiale a base rettangolare con gli angoli arrotondati sulla quale, alle estremità opposte volte ad est ed ovest, sono costruiti due basamenti gemelli, ciascuno con quattro scalinate poste ai quattro lati. Le due piattaforme superiori delle due costruzioni erano libere, non c'erano templi; forse erano destinate a sacrifici o a danze. Invariabilmente, di fronte al basamento posto ad ovest, c'erano nove stele con altrettanti altari privi di sculture. Completava la struttura un edificio basso ed allungano con nove porte rivolte all'interno della spianata ed un recinto che racchiudeva una stele ed un altare, questa volta scolpiti, con incisa una data, probabilmente quella inaugurale del complesso.
Le rovine di Tikal sono solo in minima parte liberate dalla foresta che le ha invase.
Con cautela scendiamo dalla piramide del tempio V.
Appena arrivati ci imbattiamo nella piramide del tempio V, nascosta dalla vegetazione.
Giancarlo ed io cominciamo a scalarla: i ripidi gradini sono sconquassati, spostati o rovesciati dalla forza di enorme radici che vi sono penetrate aprendo fenditure nella pietra. La salita è resa difficile anche per la scivolosità di dove camminiamo e dall'opprimente caldo umido che proviene dalla selva.
Arriviamo finalmente in cima alla piattaforma dove è collocato il tempio.
  
Sembrano alberi che crescono attorno ai cespugli: ma siamo ad una cinquantina di metri d'altezza: i cespugli in realtà sono le chiome di alberi che nascono cinquanta metri più sotto.
 
Guardandoci attorno, a prima vista, non sembra di essere così in alto ma piuttosto di trovarci tra i cespugli, solo che quei cespugli altro non sono che chiome di alberi alti cinquanta metri sui quali svolazzano degli uccelli con il becco giallo che costruiscono degli strani nidi che pendono dai rami.
Entriamo nel tempio attraverso l'unica porta. Dentro c'è solo una piccola ed angusta stanzetta.
 
La foresta del Petén ed alcuni templi di Tikal visti dal Tempio V sulla cima della piramide.
 
Nessuno del gruppo ci ha seguiti e siamo soli ad osservare il mare di verde davanti a noi: è la foresta del Petén. Scorgiamo anche gli edifici più alti che si affacciano sull'Acropoli.
 
La piramide del Tempio I e la Plaza Mayor di Tikal visti dall'alto del Tempio II.
 
La piramide del Tempio I di Tikal vista dall'alto del Tempio II.
Con cautela, ancora maggiore di quella che abbiamo usato per salire, Giancarlo ed io scendiamo dal Tempio V facendo bene attenzione a dove mettiamo i piedi.
Scesi ci dirigiamo verso il cuore di Tikal, la Plaza Mayor, dove troviamo il resto del gruppo che non aveva voluto affrontare la fatica (ed anche un po' di rischio) di salire sulla piramide V.
Le piramidi principali che si affacciano sulla piazza sono quella del Tempio I, detto anche del Grande Giaguaro, dedicato ad un sovrano maya, Ah-Cacau, e quella del Tempio II, detto delle Maschere, costruito per sua moglie Douze Ara. Su di un lato c'è la gradinata della Terrazza Nord ed i templi dell'Acropoli Nord.
La salita al Tempio II è molto più agevole di quella al Tempio V, almeno per me e Giancarlo che l'avevamo provata. In alto, ai lati della scala centrale, fanno la guardia due mascheroni, da cui il nome che viene anche dato a questo tempio: Tempio delle Maschere.
Il tempio sulla sommità ha tre anguste stanze che comunicano tra loro. Da qui godiamo di una bella panoramica sulla Plaza Mayor con l'Acropoli Nord e, di fronte, il Tempio I, o del Grande Giaguaro.
Scendiamo sulla piazza e giriamo attorno alle stele ed agli altari (nessuno nella posizione originaria per la quale erano stati scolpiti) e passeggiamo tra gli edifici circostanti.
Ora è la volta di salire sul Tempio I: la scalata è un po' più faticosa di quella che abbiamo fatto per raggiungere il Tempio II.
Anche qui il tempio ha tre stanzette con la tipica volta a mensola.
 
La piramide del Tempio II sulla Plaza Mayor di Tikal vista dal Tempio I.
La piramide del tempio IV con i suoi 65 metri è la più alta di Tikal.
 
Chicca, in particolare, resta in contemplazione di quello che si vede da quassù: la Plaza Mayor, il Tempio II di fronte e dietro la foresta impenetrabile. Dalle chiome degli alberi svettano le "creste" dei templi V, III e IV.
Chicca non fa fotografie come noi: vuole starsene seduta là in alto, in silenzio, a contemplare questo spettacolo e "fotografarlo" nella propria mente.
Ci disperdiamo tra gli altri monumenti di Tikal: io faccio un percorso che mi porta a raggiungere il Tempio III e poi il Tempio IV, passando per i templi gemelli, ammirando una delle più belle stele, la numero 16, ed altri gruppi.
Il Tempio IV è uno dei più alti di Tikal (65 metri) e la sua piramide è ricoperta di vegetazione, radici, cespugli ed alberi. La tentazione di fare la scalata anche di questa piramide è grande: essendo più alto, la vista panoramica sarà certamente più ampia.
Così mi appresto a salirla, sempre con Giancarlo: ci sembra di essere gli unici due temerari del gruppo.
Prestando la dovuta attenzione, non troviamo maggiori difficoltà di quante ne abbiamo incontrate sulla piramide del Tempio V.
La piattaforma è occupata dal solito tempio: la vista sulla foresta è fantastica, nonostante la luce un po' strana , a causa del cielo grigio.
Giriamo attorno al tempio per godere del panorama a 360 gradi e qui, dietro il tempio, vediamo che si può osare di più: sulla parte posteriore, infissa nella parete, c'è una scala a pioli in ferro che può portarci ancora più in alto.
 
Dall'alto del Tempio IV sovrastiamo le chiome degli alberi della foresta del Petén sulla quale svettano le "creste" degli altri templi maggiori.
La complicata firma del delegato della Delegación de Migración  di Melchor de Mencos sui visti d'uscita dal Guatemala.
 
Il primo a salire è Giancarlo il quale, arrivato sopra, mi incoraggia a raggiungerlo.
Sperando di non soffrire troppo di vertigini e che la scaletta regga, con un certo timore, salgo anche io: ci troviamo ben più alti delle chiome degli alberi della foresta ed a sovrastare il verde vediamo le "creste" dei templi III, II e I.
Uno spettacolo veramente mozzafiato al quale nessuna foto può riuscire a rendere ragione.
Con altrettanta cautela ridiscendiamo per i pioli di ferro e poi, piano pano, per i gradini in pietra invasi da vegetazione e radici.
Abbiamo ancora un po' di tempo per un veloce spuntino e poi, alle 14, l'appuntamento per tutti è alle macchine.
Si ripercorre la stessa pista nella foresta del Petén che avevamo percorso questa mattina, poi oltrepassato di una decina di chilometri El Remate, dove avevamo campeggiato, a El Cruce imbocchiamo una pista a sinistra che porta verso il Belize.
L'eccitazione nel pulmino è massima per raccontarci quello che abbiamo visto e quello che ci ha impressionato di più.
La pista è più scorrevole di quella di ieri e per fortuna non abbiamo da attraversare più guadi, che ci farebbero perdere molto tempo. Intanto il sole tramonta velocemente.
Dobbiamo essere alla frontiera prima che questa chiuda: queste frontiere non sono aperte tutto il giorno ed ognuna ha i propri orari; in genere chiudono verso le sei o sette di sera.
Arriviamo in tempo a Ciudad Melchor de Mencos, il posto di frontiera guatemalteco con il Belize, quando è già buio, ma sono ancora aperti.
Un impettito capitano della Delegación de Migración appone sul visto d'uscita dei nostri passaporti la propria arzigogolata e complessa firma: credo che possa permettersi di perdere tanto tempo per fare una firma così complicata solo perché non ci deve essere molto traffico in questo posto di frontiera!
Mentre stiamo completando le operazioni, qualcuno del gruppo insinua il seme del dubbio: «Il Belize, fino a qualche anno fa, era una colonia inglese. Non sarà per caso che conservano la regola della guida a sinistra, come è avvenuto per l'India?»
C'è un attimo di panico fra chi deve guidare i pulmini. Come si fa a saperlo? Giancarlo e Massimo decidono allora che, entrati in Belize, non terranno né la destra né la sinistra: si manterranno verso il centro della strada, poi osservando le altre macchine si capirà se in Belize c'è la guida a destra o a sinistra!
Il problema è che non c'è traffico, ci siamo solo noi che, imperterriti, viaggiamo al centro della strada. Sono lunghi rettilinei senza curve quelli che percorriamo. Poi, finalmente, dopo qualche chilometro vediamo in lontananza i fari di un'altra macchina che si avvicina; diventati più vicini quell'autista ci fa delle segnalazioni con le luci abbaglianti affinché noi ci scostiamo dal centro della strada: è un camion e sta tenendo la sua destra! Giancarlo e Massimo dietro di lui si adeguano immediatamente: abbiamo capito che in Belize, nonostante nel passato sia stato l'Honduras Britannico, oggi si tiene la guida a destra!
 
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Pagina aggiornata il 17 novembre 2017. Io ho fatto molti importanti viaggi con Avventure nel Mondo