Alcuni
pappagalli appollaiati sulla recinzione del campo sportivo di Copán.
Al risveglio del mattino ci ritroviamo tutti a fare la processione verso
il fiume per lavarci nelle sue acque.
Con la luce, scopriamo che sulla recinzione del campo di gioco stanno
appollaiati quattro splendidi pappagalli, che sembrano volersi mettere in
mostra per le nostre macchine fotografiche esibendo il loro colorato
piumaggio.
Poi giunge il momento di smontare l'accampamento e, fatta colazione, (c'è
anche il solito che, invidiato da molti, si è portato la moka da casa per
prepararsi il caffè) raggiungiamo la zona archeologica di Copán nella
foresta.
La giornata è senza sole: il cielo è coperto e basse nuvole incombono
sulla selva, forse prodotte dalla sua stessa umidità. Copán è la più meridionale delle città maya. La zona era abitata
due o tre millenni prima della nostra era, ma per un lungo periodo
rimase poi disabitata. Si ritiene che la città sia stata fondata nel 436 d.C.
sulle rive del Rio Copán, un affluente del Rio Motagua.
Durante i tre secoli e mezzo durante i quali restò una città viva, i
suoi abitanti vi costruirono l'Acropoli principale, numerose piazze poste
a differenti livelli, piramidi, scalinate, edifici, viali.
Nel tempo le piramidi, le piazze, gli edifici, vennero migliorati,
modificati, ingranditi ed abbelliti.
Qui a Copán lo sviluppo culturale fu molto vivace e portò a raggiungere
grandi successi nell'astronomia e nel computo del tempo. A Copán i
sacerdoti-astronomi arrivarono a calcolare con incredibile esattezza la
durata dell'anno tropicale, fissando la durata di un anno solare come nessun
altro al mondo era riuscito a fare all'epoca.
Molti edifici venivano costruiti per ricordare questi traguardi astronomici:
così ad esempio il Tempio 11 venne terminato nel 763 d. Cr. per celebrare la
scoperta della previsione delle eclissi.
In
cinquecento anni la natura si è ripresa lo spazio che l'uomo aveva
cercato di sottrarle.
A Copán gli artisti si misurarono con l'arte decorativa, raggiungendo
altissimi risultati: tutti gli edifici sono ricoperti di diverse decorazioni
scolpite in profondità (originariamente dipinte di colori brillanti),
ricche di dettagli e baroccheggianti. Probabilmente la possibilità di
produrre sculture così a rilievo, quasi a tutto tondo, era agevolata dal
poter disporre di una qualità di roccia che si prestava bene ad essere
lavorata.
A queste decorazioni si aggiunsero le stele scolpite, monoliti dedicati ad
una divinità o ad un personaggio, collocate sulle piazze e davanti ai
templi. Inizialmente venivano erette ogni vent'anni, poi ogni dieci anni
circa ed infine, forse per l'abilità ormai acquisita dagli esecutori, una
ogni cinque anni.
Nel momento in cui l'arte di Copán era riuscita a produrre capolavori di
pietra, con motivi floreali, zoomorfi, religiosi, ricche decorazioni
barocche, dando prova di saper plasmare la materia assoggettandola alle
proprie esigenze espressive, proprio in quel momento nel quale la materia
sembrava domata e vinta, Copán innalzò il suo ultimo edificio attorno
all'810 d. Cr.
Poi si fermò.
Elie Faure scriveva: «I popoli sono come gli uomini. Quando scompaiono
non rimane più nulla di loro, a meno che non abbiano avuto l'avvertenza di
lasciare la propria impronta sulle pietre della vita.». La natura
riprese il suo posto: dopo essere stata scacciata dall'uomo, la foresta si
riappropriò del proprio territorio. Gli alberi ripresero a gettare le loro
radici in quelle pietre sconquassandole, spaccandole, devastandole.
Nel giro di cento anni Copán venne cancellata dalla natura e dalla memoria
dell'uomo: così restò nascosta all'archeologia per mille anni.
Effettivamente ci fu chi, forse, qualcosa vide e lasciò scritto.
Si tratta di un giudice dell'Audiencia Real de Guatemala, Diego García de
Palacio che, nel 1576, fu a Copán. Così scrisse a Filippo II: «Si dice
che nei tempi antichi un grande signore della provincia dello Yucatán venne
qui, costruì questi edifici (...) ritornò nel suo paese e li
lasciò deserti (...) Sembra che nei tempi antichi un popolo
proveniente dallo Yucatán abbia conquistato queste province...».
Ma bisognerà attendere il 1839 per l'arrivo di due esploratori, John Lloyd
Stephens e Frederick Catherwood perché Copán, da mille anni abitata da
scimmie e soffocata dalle radici, si svelasse nuovamente.
I due esploratori la raggiunsero dal Rio Copán: «...sulla sponda opposta,
scorgemmo una muraglia di pietra alta forse una trentina di metri (...)
Aveva un carattere strutturalmente più definito di qualsiasi altra
costruzione attribuita agli aborigeni americani (...) Gli storici sostengono
che l'America era popolata da selvaggi, ma i selvaggi non avrebbero lasciato
sculture come queste...»
Nel vicino villaggio di Copán i due esploratori non furono bene accolti.
Soprattutto incontrarono un problema, il señor José Maria Acevedo: era lui
il legittimo proprietario di quel terreno pieno di idoli e di sassi per
terra e nessuno avrebbe potuto mettervi piede senza la sua autorizzazione.
John L. Stephens ebbe un'idea: perché non acquistare lui stesso le rovine di Copán?
E già sognava «...di spostare i monumenti d'un popolo scomparso dalla
regione disabitata in cui erano seppelliti, ricostruirli a New York e
fondare un'istituzione che sarebbe stata il nucleo d'un grande museo
nazionale delle antichità americane (...) Con visioni di gloria e
indistinte fantasie di cerimonie di ringraziamento da parte del municipio di
New York che mi passavano davanti agli occhi (...) finii con
l'addormentarmi.»
Naturalmente Stephens non aveva la minima idea sul come effettuare il
trasporto: via terra era impossibile per la mancanza di strade ed il Rio Copán,
pur essendo abbastanza profondo, era pieno di rapide.
D'altra parte il señor José Maria Acevedo era tentato a vendere: la tenuta
era improduttiva, ingombra per ettari di idoli di pietra e piena di ruderi
troppo grandi da poter essere spostati o frantumati.
Quando mai gli si sarebbe ripresentata un'altra occasione come quella?
Stephens offrì cinquanta dollari.
Il señor Acevedo dovette pensare che solo uno stupido poteva buttare via
cinquanta dollari per una tenuta piena di vecchie rovine e non
coltivabile.
Ed accettò.
Così il 17 novembre 1839 può essere ricordato come una data memorabile
nella storia dell'archeologia mesoamericana: da quel giorno cominciò la
prima ricerca sistematica su una città maya.
La
Scala dei Geroglifici di Copán.
La
stele "M" davanti alla Scala dei geroglifici.
L'ingresso al parco archeologico di Copán è situato presso il piccolo
aeroporto. Noi ci portiamo subito davanti alla Scala dei
Geroglifici, che altro non sarebbe che una gradinata che conduce alla
piattaforma di un tempio a oltre venti metri d'altezza. E' uno dei monumenti
più famosi di Copán, anche se molti altri sono ugualmente importanti.
La scala, larga circa 10 metri, è composta da 63 gradini con una
straordinaria bellezza di bassorilievi che la decorano: uccelli, serpenti,
maschere. Ma la fama è dovuta soprattutto dai circa 2.500 glifi che la
ricoprono, che rappresentano la più lunga iscrizione maya finora
conosciuta.
Davanti alla costruzione sono posti un altare (datato 756 d. Cr.) con una
figura zoomorfa ed una stele.
A sinistra, verso nord, la grande piazza è chiusa su tre lati quasi come un
anfiteatro, di carattere probabilmente cerimoniale, mentre un tumulo, o
altare, delimita gli spazi di questa vasta piattaforma.
Numerose sono le stele e gli altari disseminati per l'area, anticamente
dipinti di rosso, scolpiti con un forte effetto di altorilievo: molti di
questi non sono nella loro originaria posizione.
Immediatamente a fianco della Scala dei Geroglifici, a nord, c'è lo
sferisterio per il gioco della pelota, con la caratteristica forma ad
"H" schiacciata (o ad "I" con i trattini allungati): non
è di grandi dimensioni, misurando circa 28 metri per 7 di larghezza, ma
venne costruito evidentemente in una posizione privilegiata con delle
decorazioni molto raffinate. In particolare sono da segnalare i sei marcadores
a forma di testa di guacamayo (pappagallo).
La
grande piazza vista dal Tempio "11": a destra la Scala
dei Geroglifici ed a chiudere in fondo lo sferisterio per il
gioco della "pelota".
Figura
grottesca con maschera di scimmia e con sonaglio sulla Tribuna degli Spettatori a Copán.
A destra la Scala dei Geroglifici confina con l'imponente fronte
dell'Acropoli, la cui scalinata, datata 711 d. Cr., oltre che dare l'accesso
alle piattaforme superiori ed al Tempio "11", costituiva un'altra
immensa tribuna lunga oltre 16 metri, tanto è vero che è chiamata dagli
archeologi Tribuna degli Spettatori. Nella parte posteriore ci sono alcune
enormi conchiglie marine scolpite ed una serie di nicchie. I gradini veri e
propri della Tribuna hanno ai lati, nella parte superiore, due grandi sculture
sporgenti che rappresentano figure umane con maschere di scimmia che reggono
un sonaglio, mentre un serpentello esce dalla bocca.
Queste decorazioni si integrano perfettamente con l'architettura che si
adegua a queste rappresentazioni collocandole in una serie di piani diversi
con un elegante effetto di dinamicità alla parete.
Il Tempio "11", in origine a due piani, venne costruito nel 763 d.
Cr. per celebrare, sembra, la scoperta del calcolo per prevedere le eclissi.
Percorriamo l'Acropoli verso sud, passando davanti al famoso Altare
"Q" datato 776 d. Cr., che ricorda l'invenzione di un nuovo metodo
per il computo delle fasi lunari che consentì di mettere in relazione il
calendario lunare con quello solare.
Maschera
rappresentante il dio del Sole sulla Scalinata dei Giaguari a Copán.
Mostra sedici figure umane ed è chiamato anche Altare degli Astronomi,
ipotizzando che rappresenti appunto i sedici sacerdoti-astronomi che si
sarebbero riuniti proprio qui a Copán.
Dietro a questo altare si eleva la Piramide "16", detta anche
Piramide dei Sacrifici, la più alta di tutta l'Acropoli. Resta parte della
scala con i gradini decorati da bassorilievi di teschi.
Giriamo attorno a questa piramide e sbuchiamo nella Piazza Orientale.
Anche questa è circondata da scalinate, la più notevole (e famosa) delle
quali è la Scalinata dei Giaguari, le cui gradinate occupano tutto un lato
di questa piazza.
L'elemento ornamentale, che dà il nome all'edificio, consiste in due grandi
giaguari scolpiti ai lati: le macchie del mantello sono ottenute scolpendo
delle profonde cavità.
Uno
dei giaguari della Scalinata dei Giaguari di Copán.
Al centro, in alto, c'è un enorme mascherone del dio del Sole che si
distacca tra due strette rampe di scala.
E'
frequente passeggiando per Copán imbattersi in frammenti, pietre
spezzate
dalla forza della natura che danno fisicamente l'idea della foresta
che si è ripresa i propri spazi.
La Scalinata dei Giaguari si incontra con la gradinata d'accesso alla
piattaforma del Tempio "22". Agli angoli dell'edificio sono posti
dei grandi mascheroni di Chac, il dio della Pioggia, caratterizzato, come
nell'architettura Puuc dello Yucatán, dal naso ricurvo fatto a proboscide.
La grande porta d'ingresso conserva resti scultorei che rappresentano delle
enormi fauci mostruose, come negli stili del Rio Bec, Chenes e Puuc.
La porta è profilata da una serie di glifi bordati da una grossa
modanatura; due figure, sedute sopra enormi teschi, sembrano sostenere tutta
la parte superiore della decorazione.
Scorcio
sull'ingresso al Tempio "22".
Anche questo tempio ha una relazione astronomica: pare sia stato costruito
(nel 765 d. Cr.) per commemorare alcune osservazioni sull'orbita del pianeta
Venere.
Dalla piattaforma del tempio "22", attraverso un passaggio,
arriviamo sopra la Scala dei Geroglifici, ai piedi della quale avevamo
iniziato la nostra visita. da quassù abbiamo una visione completa sulla
piazza e sullo sferisterio.
Comincia ad essere il momento di rimetterci in viaggio.
Sulla
strada verso la frontiera con il Guatemala.
Raggiungiamo i nostri pulmini e,
lasciandoci le meraviglie di Copán alle spalle, ripercorriamo la strada
che avevamo fatto ieri, compresi i guadi.
Alla frontiera si ripete l'operazione di disinfestazione dei pulmini:
all'andata
erano stati gli honduregni a voler essere sicuri che non
potessimo trasportare qualche parassita dannoso alle loro coltivazioni ed
oggi, al ritorno, sono i guatemaltechi che ci disinfestano i pulmini con
un prodotto simile, ma più puzzolente.
Ci ricongiungiamo alla carretera al Atlantico che unisce Ciudad de Guatemala con l'oceano
Atlantico e che ormai
corre affiancata al Rio Motagua. Attraversiamo una piantagione di banane di incredibile
vastità della United Fruit Company. C'è tutta una rete di rotaie
sopraelevate che corre all'interno di questa piantagione: a queste rotaie
sono appesi, su dei carrelli scorrevoli, cespi di banane che in questo
modo dal luogo di raccolta raggiungono -immagino- un centro di raccolta e
smistamento. Più volte questa monorotaia delle banane attraversa, ad una
certa altezza, la strada che noi percorriamo. Non è una monorotaia che
corre diritta, ma oltre a curve vediamo scambi ed incroci. Dopo una decina
di chilometri di attraversamento di questo enorme bananeto, giungiamo ad
un altro sita archeologico: Quiriguá.
Tumuli
coperti di vegetazione a Quiriguá: nascondono piramidi, edifici,
costruzioni, ma ancora non sono stati esplorati.
Il centro cerimoniale di Quiriguá
è in gran parte inesplorato: vediamo infatti nella foresta emergere dei
tumuli, verdi perché ricoperti da vegetazione, ma la loro forma dimostra
inequivocabilmente che sono opera dell'uomo. Sicuramente scavando in
questi tumuli emergerebbero piramidi, edifici, templi.
Quiriguá, nella valle del Rio Motagua, è cresciuta sotto l'influenza di
Copán, con la quale mostra molte affinità, a cominciare dal tracciato
urbano.
Al momento attuale gli scavi, che a differenza di Copán dove abbiamo
visto che erano ancora in corso, qui ci sembrano fermi da tempo. L'importanza di Quiriguá è data dalle sculture monolitiche che si trovano
sul posto: sono monoliti di grandi dimensioni, con bassorilievi di
concezione bizzarra e capricciosa.
Nella grande piazza si trovano nove stele. Interessante è la stele
"F" con i suoi glifi che rappresentano figure a corpo intero:
sono considerati i più belli della scrittura maya. La stele più grande
è però la stele "E", alta 10,67 metri, che rappresenta un
sacerdote con sopra un mascherone: si stima che pesi 75 tonnellate.
La
"Grande Tartaruga" di Quiriguá, un altare zoomorfo
che rappresenta, su di un lato, un personaggio seduto tra le
fauci di un mostro.
Tra gli altari uno dei più belli
è l'altare zoomorfo "P", largo tre metri e mezzo, chiamato
anche la Grande Tartaruga. Da un lato rappresenta un elegante personaggio
seduto a gambe incrociate dentro le fauci di un mostro; dal lato opposto
c'è la figura di un mascherone. Tutta la superficie dell'altare è
occupata da fitti bassorilievi: si tratta di decorazioni e di glifi.
Come centro satellite di Copán anche Quiriguá, che ha goduto il massimo
della sua espansione nel tardo periodo classico, declina rapidamente nel
primo decennio del IX secolo.