L'altarino
all'interno della biglietteria all'ingresso del sito di Chichén Itzá
(DIA365).
Lasciatoci alle spalle il mare dei
Caraibi, prima di Valladolid ci fermiamo per una sosta a Tikuch e poi si
prosegue, senza fermarci più, per Chichén Itzá.
La
chiesetta coloniale del pueblo di Tikuch (DIA358).
Arriviamo dopo circa 200 chilometri verso le sei di sera e montiamo le
nostre tende al campeggio del Piramide Inn, proprio ad un passo dalle
rovine. Poi tutti usufruiamo delle docce calde e pulite del Piramide Inn e
della piscina inserita in un bel giardino molto curato.
Alla sera ceniamo al ristorante dell'albergo: una cena squisita a base di
carne di cervo.
Alla mattina ci rechiamo al sito archeologico che è attraversato dalla
strada Cancún-Mérida che lo divide in due.
Nel baracchino della biglietteria il personale ha ricavato in un angolo un
piccolo altarino: ci sono le statue della Madonna e di Gesù, una Sacra
Famiglia, forse anche un S. Giuseppe mentre non siamo riusciti ad
individuare di chi sia la statua più grande, messa al centro.
"El
Castillo", o Piramide di Kukulcan, a Chichén Itzá.
Davanti, in segno di devozione,
utilizzando vasi e barattoli riciclati, sono posti fiori, incensi e profumi.
Finalmente siamo nell'area delle rovine ed il nostro sguardo è attratto
dall'imponente Piramide di Kukulcan (detta anche el Castillo).
Kukulan è il nome con cui veniva chiamato in questa regione Quetzalcoatl
con l'identico significato: il serpente con le piume di quetzal (kuk =
quetzal, ul = piume, can = serpente). Chichén Itzá infatti
ebbe diverse fondazioni della città: la prima ad opera degli Itzá nel V
secolo. Il nome Chichén Itzá significa infatti "vicino ai pozzi
degli Itzá", e qui ci sono almeno due profondi pozzi naturali, i cenote,
uno sacro riservato ai sacrifici rituali, l'altro civile usato come
serbatoio per il rifornimento idrico.
Poi vi furono profondi avvicendamenti di popolazioni prima del 900 d. Cr.
A seguito della caduta di Teotihuacán e del declino delle città maya ci
fu una dispersione di popoli. Chichén Itzá rimase vuota fino a quando
gli Itzá, integratisi con i Maya (ai quali probabilmente appartenevano)
costruirono dopo il 900 d. Cr. la prima piramide.
Il
trono del giaguaro con gli occhi di giada nascosto all'interno della
Piramide di Kukulcan.
Intorno all'XI secolo ci fu un ritorno dei Toltechi con
Quetzalcoatl-Kukulcan. Forse non si trattò di una migrazione fisica, forse
fu piuttosto una migrazione culturale e di idee, forse il signore Kukulcan
non era neppure il medesimo eroe di Tula (non corrisponde il periodo
temporale), forse era un omonimo che aveva assunto quel nome o ormai
Quetzalcoatl-Kukulcan era divenuto un titolo onorifico, fatto sta che, al di
là di tutti i dubbi storici che si possono avere, nell'XI secolo Chichén
Itzá ricrebbe introducendo nella propria architettura impostazioni,
strutture e simboli prettamente toltechi.
Così tolteco è el Castillo, cioè la Piramide di Kukulcan, chiamata el Castillo ai tempi in cui, sopra di essa, gli spagnoli
avevano messo il loro quartiere generale difeso da un cannone. Quella che
noi vediamo è la seconda piramide perché la prima, la più antica, si
trova nel suo interno da quando essa venne inglobata nella costruzione più
tarda.
I resti della precedente piramide furono scoperti solo nel 1937. Per mezzo
di una galleria riusciamo ad entrare praticamente sulla sommità della
vecchia piramide, dove ci sono le stanze anguste dell'edificio che la
sovrastava.
In una di queste stanze ammiriamo il trono del giaguaro dagli occhi di
giada, un trono zoomorfo che rappresenta l'animale in rosso con le fauci
spalancate mentre il suo corpo è incrostato di giade e pezzi di madreperla.
Ci troviamo, in sostanza, all'interno della piramide che oggi è visibile
dall'esterno.
L'ambiente è angusto, entriamo pochi alla volta anche per via del caldo
umido e della mancanza di ossigeno: sulle pareti ci sono numerosi
affioramenti di muffa verde e tracce di umidità.
Il
Chacmool sulla piattaforma del Tempio dei Guerrieri di Chichén Itzá.
Saliamo poi in cima alla piramide per una delle quattro scalinate poste su
ciascun lato. C'è una catena stesa al centro alla quale ci si può
aggrappare agevolando la salita, ma noi non c'è ne serviamo: ormai abbiamo
imparato il trucco, quello di salire i gradini lateralmente percorrendo una
specie di zig zag.
Alla base della scalinata principale sono poste delle enormi teste di
serpente piumato. Al tramonto del sole negli equinozi d'estate e d'inverno
lo spigolo della piramide proietta la propria ombra sulla scalinata: l'ombra
assume una forma ondulata, a somiglianza del corpo di un rettile, che si
congiunge con la testa del serpente piumato e per gli antichi abitanti
questo prodigio rappresentava la discesa dal cielo di Kukulcan tra il suo
popolo.
Ci spostiamo verso il Tempio dei Guerrieri con il Gruppo delle Mille
Colonne: saliti sulla piattaforma del tempio veniamo accolti da un Chacmool
con il suo volto inespressivo rivolto verso di noi. Sembra in attesa di
ricevere sul piatto che regge sul ventre i sacrifici per gli dei. Proseguendo sulla piattaforma, tra colonne serpentiformi, raggiungiamo una
botola in ferro attraverso la quale scendiamo all'interno del Tempio dei
Guerrieri percorrendo una scala. L'ambiente è relativamente ampio, in relazione
a quanto riusciva a fare la tecnica costruttiva maya-tolteca: le colonne
quadrate dell'interno reggono degli architravi sui quali poggiano delle
volte a mensola. Bassorilievi sulle colonne e sulle pareti rappresentano
aquile, giaguari, serpenti con in bocca teschi o teste umane.
A Chichén
Itzá troviamo ovunque il motivo del Serpente Piumato: qui è posta a
decorazione sul Tempio dei Giaguari.
Da qui, passando accanto a delle rovine invase dalla vegetazione e ad
alcune piattaforme, percorriamo un viale che ci porta al cenote
sacro dei sacrifici: si tratta di un enorme pozzo naturale di sessanta
metri di diametro. Ci avviciniamo al suo bordo, facendoci largo tra i
cespugli. Quello dei cenote è un fenomeno geologico comune nello
Yucatán: si tratta di collassamenti del suolo sopra delle voragini
sotterranee carsiche che così vengono portate all'aperto. Queste si riempiono
d'acqua e per le antiche popolazioni costituirono un formidabile serbatoio idrico.
In questo cenote furono fatte delle ricognizioni con sommozzatori
che recuperarono, nel corso di diverse campagne, molti scheletri umani
appartenuti a giovinetti e ragazze che erano stati sacrificati al Dio
della Pioggia, oltre a monili d'oro, pietre dure, giade, frammenti di
stoffa ed altri oggetti.
Ritorniamo sui nostri passi ed incontriamo una piattaforma sulla cui base
sono scolpiti centinaia di teschi sinistramente ghignanti: è lo
Tzompantli con la sua macabra danza di morte.
Tzompantli
Giungiamo al Tempio dei Giaguari, dietro al quale si trova lo sferisterio,
il più grande fra quelli conosciuti. Le decorazioni ripetono in modo
ossessivo la figura del Serpente Piumato, con la testa e le fauci
spalancate.
Le pareti che delimitano il campo del gioco della pelota mostrano
le scene conclusive di uno di questi incontri rituali: il vinto,
inginocchiato, è decapitato dal vincitore ritto in piedi che con una mano
regge la testa mozzata e con l'altra brandisce il coltello sacrificale. Dalla testa e dal collo zampillano fiotti di sangue che si trasformano in
serpenti. Al centro della scena, tra il vincitore ed il vinto, un teschio
ghignante rappresenta il dio della morte.
La nostra visita continua
spostandoci verso la zona meridionale delle rovine, la zona più vecchia
di Chichén Itzá.
Qui c'è uno degli edifici più singolari dell'arte precolombiana della
Mesoamerica: el Caracol. Si tratta di un osservatorio astronomico e
la costruzione, vagamente a forma di fungo, ricorda i moderni osservatori
astronomici.
Le osservazioni venivano fatte dalle finestre, angolate in modo da
ottenere dei riferimenti astronomici significativi.
Il
"Caracol" (chiocciola) deve il suo nome alla scala a
chiocciola posta all'interno per salirvi: era un osservatorio
astronomico maya.
La
Fifth Avenue e L'Empire State Building.
Saliamo attraverso una scala a chiocciola che dà il nome con cui è
conosciuto il complesso: caracol significa chiocciola. Dalla scala
possiamo accedere ai piani superiori composti da due ambienti circolari
concentrici.
Più in fondo c'è il Complesso Est, con Las Monjas (che non era un
convento di monache, ma più probabilmente la corte del sovrano), un
piccolo tempietto in stile Puuc, quasi barocco, chiamato Iglesia ed
altri edifici.
E' l'ultima visita del nostro viaggio: ci attende solo il ritorno.
Riprendiamo per l'ultima volta i nostri pulmini diretti a Mérida.
A Mérida giriamo liberamente per la città attorno alla zona centrale del
Zócalo, o Plaza Mayor, sulla quale si affaccia il Palacio Montejo e la
cattedrale.
Cena d'addio lussuosa in un ristorante tipico con uno squisito Poc Chuc
(un piatto particolare a base di maiale).
Alla mattina del giorno dopo siamo all'aeroporto: scaricati i nostri due
fedeli pulmini Volkswagen (salvo errori, abbiamo percorso con loro circa
3.500 chilometri), li riconsegniamo all'autonoleggio. Non fanno troppe
obiezioni sulla mancanza delle due marmitte perse nella foresta del
Petén, tanto sono assicurati.
Abbiamo una serie di voli per il ritorno: il primo, che parte in ritardo
alle 11 locali, è il volo MX 301 della Mexicana per Miami, il quale però
fa uno scalo intermedio di mezz'ora a Cozumel a raccogliere un po' di
turisti americani.
A Miami dobbiamo fare solo il controllo dei passaporti ed il check-in:
infatti i bagagli sono già stati spediti direttamente a Roma: l'aeroporto
di Miami è proprio carino, con moquette e pareti in tonalità diverse di
viola, tono su tono. Quindi abbiamo il volo interno 26 della Eastern:
anche questo parte con mezz'ora di ritardo alle 17.30 (ora locale) ed
arriva a New York alle 19.40.
All'aeroporto salutiamo Millo e la sua ragazza che si fermeranno una
settimana a New York.
Ci spostiamo quindi al terminal Pan Am per il volo internazionale su Roma
che parte (in ritardo) alle 22.45.
Dopo una decina di minuti di volo il comandante, invece di segnalare che
si possono slacciare le cinture di sicurezza, invita i passeggeri a
tenerle perché deve rientrare all'aeroporto di New York.
Ci si chiede il motivo di questo rientro. Giancarlo parla con hostess
e steward. Poi sparisce. Sentiamo la sua voce all'altoparlante: per
un piccolo problema tecnico, il comandante preferisce atterrare a New York
per un controllo. Poi Giancarlo si viene a sedere tra noi e ci spiega che
l'equipaggio, vista l'alta presenza di italiani a bordo, gli ha chiesto di
ripetere l'annuncio in inglese del comandante anche in italiano.
A noi Giancarlo spiega che il carrello anteriore non sarebbe rientrato
nella fusoliera, restando bloccato fuori. Adesso l'apparecchio si porterà
al largo dell'Atlantico per scaricare il carburante e quindi rientrerà
all'aeroporto: durante l'ultima fase dell'atterraggio vediamo un gran
numero di mezzi ai bordi della pista con le luci lampeggianti.
L'aeroplano, un Boeing 727-200, tocca dolcemente il suolo, senza il minimo
sussulto, con i carrelli posteriori; poi, sempre molto dolcemente, quando
ha già rallentato, anche con quello anteriore.
Ci fermiamo verso la fine della pista.
Siamo invitati a restare seduti mentre sopraggiungono i mezzi di soccorso.
Dai finestrini vediamo gente che guarda sotto l'apparecchio.
Intanto le hostess passano con il carrello delle bevande: questa
volta sono tutte gratuite, anche gli alcolici.
L'attesa si fa lunga, più di un'ora.
L'aereo ha un sussulto: viene agganciato ad un grosso mezzo, una specie di
gigantesco trattore in grado di trainarlo.
I passeggeri devono restare a bordo mantenendo sempre le cinture di
sicurezza. Finalmente, lentissimamente, il Boeing comincia a muoversi: è
il trattore che lo rimorchia.
E' indescrivibile la lentezza con cui questo gigante comincia a percorrere
la pista: un uomo, camminando normalmente a passo di passeggiata, sarebbe
molto più veloce.
Alle due di notte arriviamo al terminal e finalmente possiamo uscire.
Al terminal la Pan Am ha organizzato dei banchi di assistenza per i propri
viaggiatori. Avremo il volo alle 19.30; nel frattempo riceviamo un voucher
per delle stanze all'International Hotel dell'aeroporto, dove arriviamo con
dei minibus navetta.
Abbiamo così la possibilità di avere un assaggio di New York.
Dormiamo il minimo indispensabile, cinque ore, poi facciamo colazione e
cerchiamo un autobus che ci porti al centro di New York.
L'autobus navetta dovrebbe passare vicino all'albergo. Siamo tutti in
strada e cerchiamo di orientarci per capire dov'è la fermata; c'è un
distributore di benzina ed andiamo a chiedere in inglese all'addetto dov'è
la fermata dell'autobus per il centro. Ci risponde: «Lo vedi dove ci sta
scritto onne vai? Là c'è il busse stoppe.»
Incredibile!
Arriviamo al Central Terminal da dove comincia la nostra breve passeggiata
lungo la Fifth Avenue, catturando purtroppo troppo brevi immagini sotto
una leggera pioggia della Public Library, dell'Empire State Building, giù
fino al Madison Square Park e risalendo poi per Broadway, l'Herald Square,
Times Square e tagliando per il Rockefeller Center ritorniamo verso la
stazione dei bus.
Broadway
all'incrocio con la West 47th Street.
Il
Rockefeller Center.
All'aeroporto ci aspetta un Boeing 747 che effettua il volo Pan Am mancato
di questa notte.
Alle 9.40 (ora locale) terminiamo il nostro intenso viaggio a Roma.