"El
paròn de casa" (il padrone di casa): così è chiamato
affettuosamente dai veneziani il campanile di San Marco che da subito ha
assunto un valore simbolico rappresentativo di Venezia.
In questa pagina ripercorriamo la storia della sua costruzione che,
iniziata nel X secolo, si concluse nel XII.
Le
fortificazioni merlate attorno all'area marciana nella mappa di Fra'
Paolino (Venezia 1270 circa - Pozzuoli 1344) ridisegnata ed incisa
su rame dall'architetto Tommaso Temanza (Venezia 1705-1789) nel
1781.
Le
origini del campanile di San Marco sono raccontate più dalla
tradizione che dagli scarsi documenti storici che sono giunti fino a noi.
Probabilmente all'inizio la costruzione
non fu pensata come torre campanaria ma piuttosto come una torre di
vedetta e di difesa.
Le fondazioni iniziarono sotto il dogado di Pietro Tribuno, figlio di
Domenico e di Agnella, nipote del Doge Pietro Tradonico.
Viene tramandata anche la data di inizio dei lavori: il 1° giugno 912.
Pietro Tribuno, cui era stata conferita la dignità di Protospatario
dall'Imperatore Leone VI d'Oriente nel 901, si preoccupò di dare delle
opere di difesa alla città di Venezia che, proprio in quegli anni, si
stava consolidando in una struttura urbanistica complessa.
Il
Doge Pietro Tribuno (Doge dall'888 al 912).
Nonostante si dica che le mura di Venezia siano date dall'acqua che la
circonda, nel 906 il Doge Pietro pensò di far costruire delle mura per
prevenire eventuali assalti, come quello degli Ungari che avevano tentato
di invadere la laguna e che lui stesso aveva sconfitto il 29 giugno del
900.
La cinta muraria merlata si estendeva da Castello (tracce vennero
ritrovate a ridosso del rio dell'Arsenale) a Santa Maria del Giglio,
circondando la chiesa di San Marco e la piazza che si stava delineando in
quegli anni. Inoltre un sistema di catene consentiva di chiudere il Canal
Grande sbarrandolo tra Santa Maria del Giglio e San Gregorio.
Sebbene il Palazzo Ducale avesse all'epoca quattro torri d'avvistamento ai
quattro angoli del complesso (le tracce di una di queste sono ancora
visibili alla sinistra della Porta della Carta, dove poggia il gruppo dei
Tetrarchi) evidentemente si sentiva l'esigenza di innalzare una più alta
torre di vedetta.
Una ipotetica
ricostruzione dell'antico Palazzo Ducale come poteva apparire
attorno al X-XI secolo: un complesso quadrangolare circondato
dall'acqua al quale si accedeva attraversando un ponte
levatoio (approssimativamente dove oggi c'è la Porta della
Carta) con quattro torri agli angoli. (Illustrazione di Giorgio
Albertini ripresa dalla Fondazione
Musei Civici Venezia)
Si cominciò così con il predisporre le fondazioni, stabilizzando per prima
cosa il terreno impiantando centinaia di pali per costiparlo.
I pali furono conficcati partendo dal perimetro e poi continuando verso
l'interno con un andamento a spirale: un'operazione usuale nell'edilizia veneziana che era effettuata
esclusivamente con la forza umana: era il lavoro dei
"battipalo", manovalanza che con l'aiuto di un maglio e della
propria forza conficcava in profondità nel suolo pali lunghi 4
- 5 metri.
I "battipalo" seguivano un ritmo in modo da sincronizzare i loro
sforzi aiutandosi con dei canti che si sono tramandati, con numerose
varianti, nei secoli.
Spesso sono frasi che, messe assieme, non hanno un senso compiuto, ma è
il ritmo a dare la sincronia dei movimenti degli operai: «Oh issa, eh! Oh
issa, eh! Isselo in alto, ah! Isselo in alto, ah!....».
Proponiamo un testo dal repertorio del Coro
Marmolada:
«O issa eh
e isselo in alto, ah
ma in alto bene, eh
poiché conviene, eh
per 'sto lavoro, oh
che noi l'abbiamo, oh
ma incominciato, oh
ma se Dio vuole, eh
lo finiremo, oh
col santo aiuto, oh
viva San Marco, eh
repubblicano, oh
quello che tiene, eh
l'arma alla mano, oh
ma per distruggere, eh
el Turco cane, eh
fede di Cristo, oh
la xe cristiana, oh
quella dei Turchi, eh
la xe pagana!»
Il
lavoro dei "battipalo", maestranze che con la sola
propria forza conficcavano lunghi pali di legno nel terreno
per consolidarlo. (Disegno di Giovanni Grevenbroch, 1731-1807)
Per costipare al massimo il terreno, venivano inseriti negli interstizi
tra palo e palo cocci, pezzi di mattone, pietre e rottami impastati con
malta.
I pali venivano impiantati in modo che le teste fossero allo stesso
livello.
Su questa palificazione sarebbe poi stato costruito lo zatterone in legno di rovere che avrebbe fatto da base alle
fondazioni lapidee prevalentemente in pietra d'Istria.
Era da poco iniziata l'opera, quando il Doge Pietro Tribuno morì. Alla sua morte i lavori per le fondamenta della nuova torre rallentarono,
o proseguirono saltuariamente a singhiozzo.
Sembra che la causa di queste pause fosse principalmente la mancanza in
città di materiale da costruzione.
La ricerca di blocchi di pietra adatti, che spinse i veneziani a
cercarli tra le vicine rovine di Altino, ma anche lungo le coste
dell'Adriatico, si protrassero almeno per due decenni.
Si ritiene che verso la fine degli anni Trenta del X secolo sia stato
ultimato il masso di fondazione, su cui sarebbe dovuta sorgere la torre.
Proprio a causa delle differenti provenienze del materiale (vennero
utilizzate anche pietre tombali e lapide funerarie romane) ne risultarono
strati diversi per caratteristiche di resistenza e di qualità della
pietra, squadrati approssimativamente, sommariamente costipati, uniti da
una malta di qualità scadente.
Il
lato Est (quello che guarda verso la Porta della Carta del
Palazzo Ducale) dell'antico masso di fondazione: sopra una
selva di pali conficcati profondamente nel terreno vennero
stesi due strati incrociati di tavolati e quindi poste le
grosse pietre che costituivano (e costituiscono ancora oggi)
le fondamenta ipogee. Da qui iniziò poi la costruzione delle
muraglie di mattoni della torre campanaria.
Nei secoli successivi molte leggende erano sorte attorno alle dimensioni e
la forma delle fondazioni del campanile: c'era chi sosteneva che erano
profondissime e si estendevano per tutta l'ampiezza della piazza e della
piazzetta messe assieme!
Marco Caccio Sabellico (1436-1506) le descriveva con degli speroni
laterali che si allungavano da tutte le parti formando una stella.
In realtà l'antico masso di fondazione in pietra raggiungeva metri 3,68
di profondità e più sotto vi era la palificazione di tronchi: fra questi
due strati, per una migliore distribuzione dei carichi, era stato inserito
lo zatterone di tavole di rovere.
Abbiamo usato il passato ma, seppure con modifiche ed aggiunte, questo è
sostanzialmente anche l'attuale stato del cuore della fondazione del campanile di
San Marco.
Fu sotto il dogado di Pietro Badoer (Doge dal 939 al 942) che cominciò la
costruzione delle mura: si iniziò «...a fabricar el Campaniel de S.
Marco su le fondamenta zà avanti fatte...», ma «...un
poco ne fece fare perché morì...».
Seguì un periodo turbolento con i successivi due Dogi, Pietro Candiano
III (Doge dal 942 al 959) ed il suo figlio Pietro Candiano IV (Doge dal
959 al 976) che furono anche in lotta tra di loro con il figlio che
prevalse anche con le armi sull'anziano genitore.
Pietro Candiano IV pensò poco alla costruzione della torre, preoccupato
ad allargare la potenza della propria famiglia procurandole varie cariche
civili ed ecclesiastiche ed abbondanti mezzi finanziari attraverso il
monopolio del commercio degli schiavi e quello postale.
Dopo aver ripudiato la moglie Giovanna, che mandò monaca nel convento di
San Zaccaria del quale divenne badessa, si risposò con Waldrada, figlia di
Uberto, Duca di Spoleto, a sua volta figlio illegittimo nato da una
relazione tra il Re d'Italia Ugo di Arles (880-948) e la sua concubina
Wandelmoda; era quindi sorella di Ugo il Grande (950 circa-1001), Marchese di
Toscana. Pietro Candiano IV ottenne in questo modo l'appoggio di Ottone I che vedeva
la possibilità di estendere il proprio potere sulle lagune venete.
Ma questa intimità del Doge Pietro con l'Impero d'Occidente
provocò delle ritorsioni da parte di Bisanzio.
Come se ciò non bastasse, cresceva il malcontento dei veneziani nei
confronti di questo Doge: non solo per i suoi metodi dittatoriali, non
solo per le limitazioni imposte dall'Impero d'Oriente a redditizi
commerci, ma anche, e soprattutto, per la presa di coscienza da parte
degli stessi veneziani che le lotte delle famiglie per predominare nella
vita politica non dovevano coinvolgere l'uno o l'altro dominatore, non
dovevano svolgersi in nome di una o l'altra potenza, ma che il fine
supremo doveva essere l'indipendenza dello Stato, fondamento sacro per
tutte le famiglie in lotta.
Così appena sparì di scena Ottone I e scoppiò in Germania la rivolta
contro Ottone II, i veneziani corsero alle armi per rovesciare lo
sciagurato Doge Pietro Candiano IV.
Il campanile di San Marco
allineato con l'Ospizio Orseolo in una incisione di Franz Hogenberg
(1535-1590) pubblica per la prima volta nel 1578 e acquerellata a mano
(Collezione privata).
Non fu facile conquistare il Palazzo Ducale nel quale si era asserragliato
il Doge: fu necessario distruggerlo con il fuoco e per questo venne
appiccato un incendio alle case situate al di là del canale che
circondava il palazzo: «Unde factum est, quod non modo palatium, verum
etiam sancti Marci sanctique Theodori, nec non sanctae Mariae de Iubianico
ecclesiae et plus quam trecente mansiones eo die urerentur.»
L'incendio distrusse il Palazzo Ducale, le chiese di San Marco, di San Teodoro, di Santa Maria Zobenigo e più di 300 case.
Naturalmente vennero distrutti anche gli archivi con grave danno per
ricostruire la storia del tempo.
Tuttavia sappiamo che l'odio tanto a lungo covato dal popolo esplose in
una carneficina nella quale vennero trucidati il Doge e il piccolo figlio
Pietro che la nutrice aveva salvato dall'incendio. I loro corpi furono
gettati nel mattatoio dove sarebbero imputriditi se la pietà di Giovanni
Gradenigo, poi invocato come beato, non li avesse ricomposti per inumarli
nel monastero di Sant'Ilario.
Si può capire come, sotto i dogadi dei Candiano padre e figlio, poco si
guardasse al completamento dei lavori per la torre, occupati com'erano,
soprattutto il secondo, ad espandere il proprio potere personale.
Ma dopo tanta distruzione, fu il nuovo Doge Pietro Orseolo ad
intraprendere la ricostruzione della città ferita da tanto odio.
Nominato Doge nel 976, fu costretto a stabilire provvisoriamente la sede
dogale nel proprio palazzo, a San Filippo e Giacomo, a causa dei gravi
danni subiti da quello ducale.
Si prodigò nel restauro o rifabbricazione degli edifici distrutti, del
Palazzo Ducale e della chiesa di San Marco nella quale depose in un luogo
segreto il corpo dell'Evangelista ed alla quale donò una pala d'oro
commissionata appositamente ad orafi di Costantinopoli (conglobata poi
nella parte superiore della pala d'oro oggi visibile nella Basilica).
Molte furono anche le opere che fece erigere a proprie spese: oltre al
miglioramento di monasteri e chiese, fece costruire la Ca' di Dio (in
origine ricovero per i pellegrini, poi per donne vecchie prive di
sostentamento) e un ospedale per poveri ed infermi in piazza San Marco
(che venne poi chiamato Ospizio Orseolo e trasferito nel 1581 a San
Gallo).
Non tralasciò la torre «...de missier San Marcho...» che portò
ad un'altezza all'incirca pari a quella dell'ospizio con il quale era
allineato.
Il
campanile di San Marco ancora allineato con l'Ospizio Orseolo
nel lato meridionale della piazza. Particolare della
"Processione della Croce" di Gentile Bellini
(1429-1507) dipinto
nel 1496 per la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista,
oggi alle Gallerie dell'Accademia di Venezia.
Il
campanile di San Marco svetta simbolicamente sulla città facendo da
pilo portabandiera al vessillo marciano in questa veduta di Venezia di
Giovanni Xenodocos da Corfù tratta da "Atlante di tre carte
delle coste atlantiche dell'Europa e del Bacino del
Mediterraneo" del 1520.
Non poté proseguire nella sua opera: da sempre preso profondamente da un
sincero fervore mistico e religioso, dopo due incontri con l'abate
Guarino, nella notte del 1° settembre 978 il Doge Pietro Orseolo si
allontanò da Venezia assieme agli eremiti Marino e Romualdo e con Giovanni
Gradenigo per vestire l'abito di San Benedetto a San Michele di Cuxa, ove
morì in odor di santità in un anno imprecisato (987 secondo la
tradizione monastica, 997 secondo il Dandolo, 982 secondo altri).
Il
Doge Pietro Orseolo è raffigurato inginocchiato ed orante in
questo particolare di un dipinto di scuola belliniana: indossa
l'abito monacale dei camaldolesi mentre il corno dogale è
posato a terra, allusione alla sua rinuncia al potere (Museo
Correr, Venezia).
I lavori alla canna della torre procedettero con il Doge Tribuno Menio, o
Memmo (Doge dal 979 al 991): i cronisti ci dicono che il campanile fu
fabbricato in gran parte sotto questo Doge e forse si cominciò ad usarlo
come torre di vedetta.
Così dovettero restare le cose per circa un secolo durante il quale non
sentiamo più parlare della torre di San Marco. Furono i cronisti del Doge
Domenico Selvo, o Silvo (Doge dal 1071 al 1085/6) a ritornare
sull'argomento: a questo Doge si attribuisce l'aver ordinato di rivestire
a mosaico la chiesa di San Marco e di continuare l'innalzamento della
torre.
Un
disegno che rappresenta approssimativamente l'assetto che poteva avere l'area
marciana nel XII secolo prima dell'interramento del rio Batario.
Di quanto venne innalzata? Quale altezza raggiunse? Possiamo solo fare delle
congetture e ritenere che all'interno vi fossero già 22 rampe di scale
arrivando fino al quinto finestrino.
Come fosse completata in alto la torre, con una merlatura o con una cella,
non sappiamo.
Poi, da parte dei cronisti, ancora silenzio fino alla metà del XII
secolo, ai tempi del dogado di Domenico Morosini (Doge dal 1148 al 1156),
quando veniamo a sapere del completamento della canna che arrivò alla sua
massima altezza con l'ottavo finestrino.
Come se non bastassero i cronisti, esiste un Instrumento de segurtà
del gennaio 1151 more veneto (corrispondente al 1152 del nostro
calendario) rilasciato ai fratelli Pietro e Giovanni Basegio di San
Giovanni Crisostomo per le benemerenze che la famiglia si era meritata per
aver portato a termine la costruzione del campanile (un Ottone Basegio,
Procuratore della chiesa di San Marco, aveva sborsato 2.000 lire venete
per completare la fabbrica).
Nonostante le imprese compiute da Domenico Morosini (concluse dei patti
vantaggiosi e trattati con Federico Barbarossa, col principe di Antiochia
e con i Normanni con i quali Venezia era in guerra, sottomise gli istriani
ed i dalmati, ottenne privilegi dal Papa, rappacificò alcune influenti
famiglie della Repubblica) nella galleria dei ritratti dei Dogi nella sala
del Maggior Consiglio è ricordato dall'iscrizione «Sub me admirandi
operis campanilis construitur».
La
canna era terminata «...usque ad capellam...», fino alla cella,
che però non c'era ancora. Fu alla metà del XII secolo, sotto il dogado di Vitale Michiel II (Doge
dal 1156 al 1172) che tali Nicolò Barattieri (morto presumibilmente nel 1181) e Bartolommeo Malfatto
completarono la cella (e per questa opera il secondo dei due pare
ottenesse l'iscrizione nel Maggior Consiglio).
Con la costruzione della cella probabilmente saranno state collocate anche
delle campane, ma di queste non sappiamo nulla.
La forma e l'altezza della canna della torre rimase invariata nei secoli
con le otto finestrelle che vediamo ancora oggi.
Quella che cambiò tre secoli e mezzo dopo fu la parte terminale con la cella e la cuspide.
Non abbiamo raffigurazioni così antiche che ce la mostri come era
stata compiuta alla metà del XII secolo, tuttavia la possiamo immaginare
racchiusa sui quattro lati da altrettante quadrifore: qualcosa di
somigliante alle celle dei campanili di Santa Maria Assunta a Torcello
(secolo XI) e di San Giacomo dell'Orio a Venezia (secolo XII) completato
da un loggiato sormontato
da una cuspide in legno ricoperto di lastre di rame dorato.
Le
celle dei campanili di Santa Maria Assunta a Torcello (a sinistra) e di San
Giacomo dell'Orio a Venezia (a destra): così doveva assomigliare quella
dell'appena costruito campanile di San Marco dove la cella era
sovrastata da una cuspide piramidale in legno rivestito di rame.