«Dov'era,
com'era»: questa frase che forse non fu mai pronunciata nel Consiglio
Comunale di Venezia nella sera del 14 luglio 1902, divenne una specie di
"mantra" che segnò tutta la fase della ricostruzione del
campanile di San Marco assumendo, a volte, degli aspetti che oggi potremmo
definire ridicoli.
Ma, soprattutto, divenne una diga di irrazionalità che condannò l'intera
città almeno per tutto il XX secolo.
Alcuni progetti per il nuovo
campanile di San Marco. Da sinistra Edoardo Collamarini, F.G. Dear e
Asa Coolidge Warren.
Giulio
Lorenzetti (1886-1951) nel suo "Venezia e il suo estuario" nel
1926 scriveva: «...il Consiglio Comunale, riunitosi di urgenza la sera
stessa del disastro, deliberava che il Campanile dovesse risorgere
"dov'era e com'era"...». Come
abbiamo scritto, le ricerche condotte dal giornalista veneziano
Leopoldo Pietragnoli e pubblicate nel 1992 nel suo lavoro "Cronaca di
una fine annunciata" hanno appurato che di quel motto non c'era
traccia né nella delibera del Consiglio Comunale, né nel discorso del
Sindaco Filippo Grimani (1850-1921), né nel resoconto della seduta.
Quella sera si deliberò solo la «...ricostruzione...» del
campanile con un primo stanziamento di 500.000 lire in cinque annualità. Nei discorsi ufficiali, quel «Dov'era e com'era» apparve per la prima
volta il 25 aprile 1903 nel discorso che il Sindaco Grimani pronunciò in
occasione della cerimonia della posa della prima pietra.
Certamente era un desiderio, dato per scontato nell'animo dei veneziani ed
inizialmente non pronunciato, di vedere ricostruito il campanile dove era
sempre stato e come era stato.
Ma in realtà ci furono degli oppositori a questa idea, oppositori che
coagularono i tradizionalisti custodi della "cultura" veneziana
attorno a quel motto che divenne una specie di mantra che
sopravvisse a lungo ben oltre la fase di ricostruzione e che con ogni
probabilità sopravvive ancora oggi a Venezia.
Sui
francobolli emessi il 25 aprile 1912 per celebrare la
ricostruzione del campanile di San Marco è riportato il motto
«Come era, dove era».
Appena due giorni dopo il crollo, l'architetto austriaco Otto Wagner
(1841-1918) impostò razionalmente il problema della ricostruzione
partendo da un'osservazione che riteniamo ovvia: Venezia città sempre
uguale a se stessa e sempre diversa nei secoli.
Se osserviamo, ad esempio, la Venezia che Jacopo de' Barbari raffigurò
magistralmente nella sua veduta prospettica "a volo
d'uccello" nell'ottobre 1500, riconosciamo con precisione la
Venezia di oggi: la città è rimasta sostanzialmente immutata nella sua "forma
urbis", nei suoi spazi, nelle sue dimensioni, attraversando
cinque secoli di mutamenti stilistici, architettonici, tecnologici ma
anche sociali, civili e politici.
Così scendendo nei dettagli oggi troviamo rappresentati nella città il
romanico del chiostro di Sant'Apollonia accanto al vicino palazzo
rinascimentale Trevisan-Cappello, la gotica conventuale facciata della
chiesa dei Santi Giovanni e Paolo accanto a quella lombardesca della
Scuola Grande di San Marco, il gotico trecentesco dell'abbazia di San
Gregorio accanto al barocco della chiesa di Santa Maria della Salute, e
così via fino ad arrivare alle neoclassiche facciate del teatro La Fenice
e della chiesa di San Simeon Piccolo fino al ponte della
Costituzione dell'architetto spagnolo Santiago Calatrava (nato nel 1951).
La città è tutta una festa di architetture e forse a questo pensava Otto
Wagner quando si poneva l'interrogativo: «Per qual motivo non dovrebbe
essere rappresentato nella piazza di Venezia anche lo stile moderno,
perché ormai la disgrazia è avvenuta?».
Anche se nei secoli passati a Venezia spesso gli stili si erano succeduti
cronologicamente in ritardo rispetto al resto d'Italia, in epoca gotica
chi mai avrebbe costruito in romanico? Ed in tempi rinascimentali chi
avrebbe mai costruito in gotico?
Era un quesito che, legittimamente, andava posto.
Invece irrazionalmente ci fu una diffusa levata di scudi contro
l'architetto austriaco perché a Venezia tutti si aspettavano intimamente
che la ricostruzione sarebbe avvenuta nello «...stile antico...»
senza porsi il problema se, così facendo, si sarebbe perpetuata una
falsificazione della storia dell'arte.
Il
campanile di San Marco nella piazzetta dei Leoncini, al posto del
Palazzo Patriarcale (fotomontaggio d'epoca di G. Jancovich).
Ma
Otto Wagner non si era fermato solo sull'aspetto stilistico: aveva
razionalmente posto il problema nel modo più completo: se comunque la
città ha bisogno di un campanile, «...mi piacerebbe vederlo in un
altro punto, perché là dove era, guastava indubbiamente l'armonia
stilistica della piazza.».
Piazza
San Marco senza il campanile dopo il crollo del 14 luglio
1902.
Non fu l'unico a sostenere questa tesi, che ebbe vari fautori, tanto è
vero che più di qualcuno provò, con disegni e fotomontaggi, ad
immaginare il campanile collocato diversamente.
Il
campanile di San Marco a fianco della Torre dell'Orologio
(fotomontaggio d'epoca di Giovanni Sardi).
Si levarono altre voci a tenere compagnia a quella dell'architetto Wagner:
quando tra il 1906 ed il 1907 i lavori di ricostruzione si fermarono per
delle sterili, ed oggi potremo dire anche ridicole, discussioni
filologiche su taluni aspetti dei lavori, il socialista Elia Musatti
(1869-1936), padre dello psicanalista Cesare Musatti (1897-1989), ribadì
ancora una volta la sua contrarietà alla riedificazione: «...99 su
100 cittadini interpellati vi risponderebbero che preferiscono la piazza
così com'è attualmente...», cioè senza il campanile; «E tanto
più oggi che vediamo ripristinato l'angolo della biblioteca del Sansovino
e il palazzo reale (...) pensiamo con dolore che debba sorgere il
campanile, che toglierà la piacevole vista dell'angolo.».
Anche Giosuè Carducci (1835-1907), utilizzando il suo pseudonimo Enotrio
Romano, tuonò lanciando il suo poderoso «No!» alla
ricostruzione.
Purtroppo mancò un corretto dibattito: i critici vennero tacitati di
essere dei «...fanatici...» senza «...il sentimento e il
culto del bello...». A catalizzare il fronte dei
"ricostruttori" fu il Deputato Pompeo Molmenti (1852-1928) e
probabilmente fu proprio lui a coniare il motto «Dov'era e com'era»
che venne poi ripreso da tutti.
Tuttavia il fronte dei critici, dei «...cervelli novatori strani
progetti...», continuava a farsi sentire al punto che trovarono
benevolo ascolto tra alcuni membri del Governo.
La
palazzina Masieri realizzata secondo il progetto di Carlo
Scarpa.
Fu
in quell'occasione che l'onorevole Pompeo Molmenti, che sarebbe
poi diventato senatore nel 1909, tenne un appassionato discorso alla
Camera dei Deputati per difendere la volontà di ricostruzione già
espressa dal Consiglio Comunale: «La Torre risorgerà, ma nella stessa
forma, badi bene, signor Ministro, nella stessa forma, e nello stesso
luogo!».
Pompeo
Molmenti (1852-1928), al tempo membro della Camera dei
Deputati, poi Senatore del Regno dal 1909.
A seguito di quel discorso e di varie pressioni su Roma, il Governo
rispose che «...il voto preponderante deve essere quello della
popolazione di Venezia. Se questo voto è che il Campanile sorga dove era,
il Governo non potrà fare altro che rispettare la volontà dei Veneziani.».
E la volontà dei veneziani venne ribadita in Consiglio Comunale
dall'Assessore ai Lavori Pubblici Ettore Sorger: «Fino a quando
(...) apparve in tutta la sua desolante amarezza la perdita
dell'insigne monumento, fu espresso, si diffuse, e divenne in breve quasi
unanime il voto che Campanile e loggetta avessero a risorgere al più
presto dalle loro rovine. Fu una attestazione sincera e concorde
dell'affetto che ad essi portavano i Veneziani (...) e di tale
nobile sentimento solennemente si rese interprete il Consiglio,
deliberando unanime nello stesso giorno tristissimo dell'immane sciagura
un generoso contributo per dare alla città un nuovo monumento immagine
fedele del caduto.».
Ogni altra velleità, ogni altra proposta, veniva così messa da parte e,
come ricordato sopra, il 25 aprile 1903, durante la
cerimonia di posa della prima pietra, quel «Dov'era e com'era» riecheggiò
per sei volte nel discorso del Sindaco Filippo Grimani.
E condannò la città all'immobilismo.
Salvo sporadici interventi mal riusciti di dotare la città di moderne
architetture (realizzati per lo più sotto spinte economiche e manovre di
dubbia eticità) Venezia continuò ad autoriprodursi falsificandosi: lo
aveva fatto nel recente passato, ad esempio con palazzo Genovese (1892) e
le pesanti ristrutturazioni di palazzo Franchetti (1896), e continuò a
farlo con la palazzina Salviati, il palazzetto Nigra (1904), la pescheria
di Rialto (1907).
Questo atteggiamento del rifiuto del moderno continuò privando la città
di nuove architetture e di opere come quella di Le Corbusier (1887-1965)
che prevedeva la costruzione di un nuovo e funzionale complesso
ospedaliero nell'area attorno al canale di Cannaregio con la
valorizzazione dell'ex Macello, il cui progetto pur approvato finì piano piano con l'arenarsi.
Un'altra occasione perduta fu la palazzina Masieri che Angelo Masieri
(1921-1952) commissionò a Frank Lloyd Wright (1867-1959): alla morte del
committente nessuno ebbe il coraggio di realizzare il progetto (che
qualcuno definì «...eretico...») dell'architetto statunitense sostituendolo con un'opera dell'architetto
Carlo Scarpa (1906-1978) che, sinceramente, mostra un'insulsa facciata in volta
di Canal, dove si innesta il rio di Ca' Foscari.
La palazzina Masieri secondo
una delle tre varianti di Frank Lloyd Wright: particolare di un "rendering"
dell'artista spagnolo Dionisio
Gonzalez presentato a Milano dalla Galleria ProjectB nella
mostra "Las Horas Claras" dal 17 novembre 2011 al 13
gennaio 2012.
Successivamente (1969) anche il palazzo dei Congressi di Venezia di Louis
Kahn fu destinato a rimanere sulla carta.
Dopo l'incendio del teatro La Fenice del 29 gennaio 1996, a distanza di
poco più di novant'anni, risorse il vecchio motto del «Dov'era e
com'era» e la fantasia si fermò davanti alla pedissequa
riproposizione visuale del teatro «com'era».