Il campanile di San Marco - La "chèba"

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Forse non è noto a tutti che per un paio di secoli il campanile di San Marco ospitò uno strumento di pena che veniva impiegato per delle particolari condanne: la gabbia ("cheba" in dialetto veneziano).
 
Si tratta dell'unica rappresentazione che abbiamo della "chèba" (gabbia) appesa sul campanile di San Marco, tratta da una miscellanea posseduta dall'abate Jacopo Morelli (1745-1819), per quarant'anni Prefetto della Biblioteca Marciana (tratto da "Giustizia Veneta" di Edoardo Rubini, Venezia 2004).
Non sono numerosi i riferimenti tra i cronisti sulla presenza della chèba (gabbia) sul campanile di San Marco.
Lo storico che ha parlato più diffusamente del supplizio della chèba è stato probabilmente l'abate Giambattista Gallicciolli (1733-1806) che lo fa quando questo strumento era stato abbandonato ormai da oltre due secoli.
Pare che questa gabbia fosse stata costruita in legno, irrobustita di ferro ed appesa con delle catene, alcuni scrivono «...con una corda...», ad una trave che sporgeva da un buco a metà altezza della canna di mattoni del campanile, sopra le botteghe dei panettieri: «Era questa gabbia, o stia, non di ferro, ma di legno, e armata di ferro. Sospendevasi in aria attaccata a un palo alla metà circa del campanile di San Marco...».
In un altro testo abbiamo la conferma che occupasse il lato del campanile «...verso la Panateria...» che all'epoca ospitava 19 botteghe.
Molto probabilmente fu anche a causa del materiale usato per costruirla, il legno seppure rinforzato con del ferro, che non ne è restata traccia.
Curiosamente non compare neppure sulla pianta prospettica "a volo d'uccello" di Jacopo de' Barbari del 1500, in genere molto precisa e dettagliata: tanto per fare un esempio, proprio vicino al campanile, il de' Barbari disegnò persino una breccia sulla parete della Beccheria che guarda verso il Bacino di San Marco. Foro dal quale si diramano crepe e fessure, forse conseguenza di un incendio che fece crollare un focolare interno o più semplicemente della vetustà dell'edificio: questo ci fa capire l'attenzione per i dettagli ed i particolari che aveva il de' Barbari.
L'omissione della chèba dal lato meridionale del campanile potrebbe suggerire l'idea che non si trattasse di una installazione permanente, ma che la gabbia venisse issata di volta in volta, quando serviva.
Dentro vi veniva rinchiuso il condannato, si ritiene per qualche settimana; in questo caso la pena aveva una funzione infamante, restando esposto alla curiosità del popolo che spesso infieriva contro di lui con frasi di dileggio, urla di scherno o lazzi.
Tuttavia in certi casi poteva essere considerata come uno strumento di morte: il reo vi veniva rinchiuso per mesi (qualcuno scrive «...o anni...») durante i quali veniva alimentato esclusivamente a pane ed acqua fino a quando non sopraggiungeva il deperimento, l'inedia, la morte. Non si trattava di un modo razionale di soppressione del condannato, ma almeno gli si conservava la speranza di una possibile revisione del processo o di un perdono, quasi che i giudici non se la fossero sentita di comminare esplicitamente la condanna di morte.
«...vi si chiudeva dentro il reo, lasciandolo così esposto giorno e notte all'inclemenza del tempo e delle stagioni, o per certo tratto di giorni, o finché viveva...».
La gabbia sospesa sulla Torre della Gabbia a Mantova (Foto cortesia di Spat dal suo album su Flickr).
Senza voler entrare nei dettagli, dobbiamo essere molto cauti e dubitativi su queste affermazioni, perché nella realtà sono scarsissimi i documenti in proposito ed esiste anche disaccordo tra gli studiosi nel valutare la funzione della «chèba».
Questa pena non era una particolarità di Venezia, ma era in uso in molte altre città, come a Ferrara dove, essendo stati scoperti nel 1510 due laici e due frati che volevano incendiare le galere venete, il Duca Alfonso I d'Este (1476-1534) fece impiccare i due laici; dei due frati, uno riuscì a fuggire, l'altro «...per essere in sacris fu posto in una gabbia a pane e acqua in vita...».
In alcune città della Val Padana possiamo vedere la gabbia ancora collocata al suo posto, e questo ci può dare almeno un'idea di com'era fatta, come era collocata ed in quali condizioni si trovava il condannato.
 
La gabbia sospesa sul campanile del Duomo di Piacenza (Foto cortesia di FFrancesco dal suo album su Flickr).
 
A Piacenza, ad esempio, una gabbia in ferro è appesa dal 1495 sotto la cella campanaria del campanile del Duomo, per ordine di Ludovico il Moro (1452-1508), a somiglianza di quella già esistente sul campanile del Broletto di Milano.
Doveva servire per rinchiudervi pubblicamente gli avversari a monito di quanti si volevano opporre agli Sforza, anche se non vi sarebbero testimonianze che sia stata usata.
A Mantova una simile gabbia in ferro è sospesa su un lato dell'antica Torre Acerbi costruita dall'omonima famiglia.
La gabbia, che misura circa 2 metri per 1 metro, per un'altezza di poco più di un metro, fu voluta dal Duca Guglielmo Gonzaga (1538-1587) e venne collocata nel 1576: da allora la Torre Acerbi cominciò ad essere chiamata Torre della Gabbia.
 
La gabbia sospesa sulla Torre della Gabbia a Mantova (Foto cortesia di Luigi FDV dal suo album su Flickr).
 
Come detto invece nessuna traccia è restata della chèba sul campanile di San Marco e sono scarse anche le cronache del tempo, come la cronaca Erizzo o la cronaca Barbo, entrambe del XVI secolo, alle quali si rifanno gli storici nonostante non siano sempre del tutto attendibili.
Possiamo ritenere che il 1542 sia stato l'ultimo anno in cui si fece ricorso alla chèba, mentre è verosimile che la gabbia non sia stata usata sul campanile prima del Duecento, dal momento che fu sotto il dogado di Vitale Michiel II (Doge dal 1156 al 1172) che la torre campanaria raggiunse un primo completamento definitivo.
Al supplizio della chèba venivano condannati soprattutto gli autori di delitti compiuti in luoghi sacri e quelli commessi da religiosi, anche in luoghi pubblici: in genere si trattava di omicidio, sodomia, bestemmia o falso.
Secondo Gregorio Gattinoni quattro in tutto dovrebbero essere state le condanne certe al supplizio della chèba: una nel XIV secolo, una nel XV secolo e due nel XVI secolo, coprendo così la maggior parte del periodo in cui questa pena fu in uso.
La prima condanna sicura al supplizio della chèba che ci è stata tramandata risale al 1391.
In quell'anno il parroco di San Maurizio, Giacomo Tanto, con la complicità del nobile Tommaso Corner, aveva attirato con l'inganno in una casa alle Carampane un certo prete Giovanni, custode di San Marco. Invece di dargli «...quartas vini malvatici pro dicendis totidem missis...» come gli aveva promesso, con l'aiuto del complice lo assassinò. Poi i due si recarono nella canonica dove abitava il prete Giovanni per derubarla.
Il delitto e i colpevoli furono scoperti: il nobile Corner, che era fuggito rendendosi latitante, venne colpito da bando perpetuo (espulsione a vita dai territori dello Stato veneziano) con sentenza del 28 settembre 1392 mentre il parroco fu condannato «...ad finiendam vitam suam in cavea suspensa ad campanile S. Marci in pane et aqua...».
La matrigna di Giacomo Tanto, non potendo sopportare di vederlo languire d'inedia nella chèba e nel tentativo di prolungargli la vita, con la complicità di un ufficiale dei Signori di Notte e del capo delle guardie di piazza, riuscì a fargli avere «...fugacias fabricatas, et pensatas cum nucibus, mandulis, et zucari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones quibus produxit vitam in longum contra sententiam.». Ma anche questo sotterfugio venne scoperto ed i due finirono sotto processo: il massaro dei Signori di Notte perse l'incarico e venne imprigionato nei Pozzi per un anno. Non si trattava dei Pozzi all'interno del Palazzo Ducale come li conosciamo oggi, che vennero costruiti solo dopo il 1540, ma delle celle che si trovavano al piano terra del palazzo sul lato del Bacino di San Marco.
 
I Pozzi dopo il 1540.
Un forzato con il "gabàn de galìa".
 
Troviamo citata la chèba nel XV secolo a proposito delle conseguenze di una sorta di scandalo che scosse la nobiltà e la borghesia veneziana nel 1406.
I Signori di Notte avevano scoperto, oggi si direbbe in flagranza di reato, un gruppo di giovani che si davano a pratiche di sodomia: una quindicina di questi era costituita da rampolli della più influente nobiltà veneziana; gli altri erano ecclesiastici, figli di funzionari governativi, di facoltose famiglie borghesi.
Si presentò il problema di come applicare equamente la giustizia, non potendo sfuggire ad essa i giovani delle famiglie nobili e borghesi e condannando solo un gran numero di popolani.
La questione, che per pochi mesi prima della sua morte interessò anche il Papa Innocenzo VII (Papa dal 1404 al 1406) per la presenza di chierici, si protrasse per un paio d'anni, ma non è questa la sede per narrare tutti gli avvenimenti.
Qui ci basta segnalare che il Vescovo di Castello, Vito Memo, acconsentì nel 1407 a che uno di questi giovani, un certo Giacomo Barberio, chierico, venisse condannato alla chèba. Ma nel corso della lunga disputa, alcuni amici gli organizzarono la fuga ed il sodomita riuscì a porsi in salvo.
Tutta la vicenda con l'elenco degli imputati è conservata nell'Archivio di Stato di Venezia, Consiglio di Dieci, Misti, Reg. 8 e 9.
Il Gallicciolli, per il XVI secolo, segnala solo due condanne certe al supplizio della chèba: noi qui ne aggiungiamo una terza della quale c'è ampia documentazione nelle cronache ed è ripresa da alcuni storici.
Non seguiamo lo stretto ordine cronologico: nel 1518 c'era nella chiesa di San Polo (San Paolo) un certo prete Francesco, dell'età «...d'anni 30 circa...»; il religioso venne accusato di essere un sodomita e per questo reato in aprile venne rinchiuso «...in Cheba al Campaniel di S. Marco...».
Qualcuno gli aveva «...dato per carità un gaban da galia...»: si trattava di un mantello con le maniche (gabàn, palandrana o gabbano) di panno grosso e ruvido che portavano gli schiavi forzati nelle galere (galìe) venete. Qualcuno scrive che questo gabàn era stato dato al prete «...perché si riparasse dal freddo...», ma è difficile pensare a questa motivazione, essendo il mese di aprile non particolarmente rigido nelle temperature; più probabilmente era stato dato come dotazione del condannato.
Fatto è che il prete, con pazienza, ridusse questo indumento a strisce che unì assieme per ricavarne una sorta di corda con la quale nella notte del 1° luglio cercò di fuggire dalla chèba calandosi a terra.
Il prete Francesco calcolò male le misure, la corda improvvisata era troppo corta e si trovò appeso per aria, ancora troppo lontano dal suolo. «...mancava buon tratto per arrivar ai Cambii...»: i banchetti dei cambisti (cambiavalute) all'epoca si trovavano attorno al campanile; vennero vietati nel 1593.
«...era in pericolo di morte, gridò, e accorse le guardie notturne...».
Così, penzolando nell'aria, si sentì in pericolo di vita e gridò aiuto. Accorsero quindi le guardie di piazza che recuperarono il malcapitato che si trovava in questa ridicola posizione e lo rinchiusero in prigione.
La raffigurazione del supplizio della gabbia in una pubblicazione di fine Ottocento (Collezione privata).
«Nelle carceri quel prete fu largamente soccorso dalla pietà delle monache di S. Zaccaria.»
Il prete Francesco sarà stato sicuramente consolato da queste monache che non avevano fama di grande onestà morale e religiosità: nei loro parlatori si riunivano persone di entrambi i sessi e si davano anche feste mascherate. Si era cercato, senza grande successo, di «...serar (chiudere - N.d.R.) il parlatorio di S. Zacharia per più honestà...».
 
Nel Parlatorio delle monache di San Zaccaria nel XVIII secolo si organizzavano anche spettacoli di burattini (particolare di un dipinto del 1746 di Francesco Guardi, Ca' Rezzonico, Venezia).
 
Nel 1542 non con monache ma con altre donne si consolava il prete Agostino della chiesa di Santa Fosca che in quell'anno venne condannato al supplizio della chèba «...perché giuocando biestemmava...».
Si tratta dell'ultima condanna alla gabbia sul campanile che ci è tramandata.
Il prete Agostino è diventata famoso per i suoi versi che vennero pubblicati e nei quali è descritta la condanna subita.
Veniamo quindi ad avere conferma che la chèba era «...fatta per opera fabrile benché de legni sia la tessitura quadrati e longhi, et non molto sottile...» e che il condannato aveva a disposizione «...un boccal et un cadino per por il cibo...».
Questo prete Agostino era dedito al gioco, durante il quale bestemmiava, e si accompagnava volentieri a donne di morale non proprio integerrima, come risulta dalla sua esortazione: «...fuggite dal guoco, non biastemmate i Santi, manco Idio (...) lasciate il giuoco, biastemme e puttane...».
Secondo la cronaca del Barbo, scritta in volgare veneziano, e secondo quanto pubblicato nella raccolta contenuta nella miscellanea dell'abate Jacopo Morelli, il 7 agosto 1542 il prete Agostino venne portato legato in Piazzetta, tra le colonne di Marco e Todaro, e qui messo in berlina per sei ore: «Prima mi missen fra le due Colonne della Giustitia, ben streto ligato...».
La berlina consisteva in una specie di palco dove il reo era esposto al pubblico. Sul petto era posto un cartello (breve) che riassumeva le nefandezze commesse con indicata la pena inflitta.
Al prete Agostino fu messa in testa una specie di corona con dipinti dei diavoli, quelli ai quali il religioso aveva dato ascolto per commettere i suoi peccati: «...Imperator senza impero m'han fatto (...) fui coronato, senza darmi il scetro, volendomi punir di mia nequitia...».
Venne quindi portato in chèba «...a mezzo il campanile...» dove restò quasi due mesi, fino a tutto settembre: «...duoi mesi a pan et acqua sola et otto star rinchiuso nella Forte.». Il resto della pena, otto mesi, secondo la pubblicazione dell'epoca, dieci mesi secondo Giuseppe Tassini (1827-1899), venne scontata nei gabioni della prexon forte di Terranova, dietro le Procuratie Nuove.
Al termine della detenzione, prete Agostino venne colpito da bando perpetuo (espulsione a vita dai territori dello Stato veneziano).
Sul prete Agostino di Santa Fosca vennero pubblicate alcune poesie o canzonette (messe in bocca rispettivamente alla compagna del prete, ad un facchino ed al prete stesso) in una raccoltina intitolata «Il lamento della femena di Pre Agustino, qual si duol di esser viva vedendolo in tante angustie: et duolesi di non poter morire. Con alcuni aricordi alle donne. Con una Frottola d'un Fachin che gli dà la Paia. Et un sonetto di pre Agustin che la conforta.».
Riportiamo alcune strofe messe in bocca al sacerdote:
Oimè che 'l par che sopra di me piova
L'ira del ciel, o acerbo supplitio,
Creder no 'l può se non colui che 'l prova.
 
Qui ben creder si può che d'ogni vitio
Si chiama in colpa chi vi sta rinchiuso:
O crudel mio destino, o duro hospitio!
 
Mi porgon il mangiar per un sol buso
Con l'acqua che mi dà in vece di vino.
(E con ragion) il mio peccato accuso.
E più mi duol che ogni sera et mattino
Da meggio dì, e a tutte quante l'hore
Mi chiaman i fanciui, o pre Agustino.
 
Mi danno alcuna volta tal stridore
Che son costretto di pissarli adosso,
Per isfogar alquanto il mio dolore.
 
Oimè che dal dolor più dir non posso:
Vengon li huomin fatti ad incitare
I fanciulletti (eh Dio) che dir non osso.
Per chi volesse leggere il testo completo, in questa pagina trova tanto «...il pietoso lamento della femena...» del prete, quanto quello di «...pre Agustino, che si duole della sua sorte...».
Vignetta satirica del 1902 che mostra gli ingegneri ritenuti responsabili del crollo del campanile di San Marco rinchiusi a chiave nella "chèba".
Teniamo per ultima una condanna alla chèba che fu comminata precedentemente, l'11 luglio 1510.
Gli autori ci hanno ripetuto che questo supplizio era destinato soprattutto ai religiosi che si erano macchiati di qualche turpe delitto, o per i colpevoli di delitti commessi in luoghi sacri. In questo caso non sembra che il delitto sia stato compiuto in un luogo sacro, ma solamente che in un luogo sacro (il segrà, lo spazio sacro attorno alla chiesa che era usato per seppellire i defunti) siano stati arrestati i rei.
Fu una donna a subire la condanna, una certa Adriana Misani, moglie del banditore Andrea Massario.
I due abitavano nella parrocchia di Santa Ternita (Santissima Trinità), dove risiedeva anche un certo Francesco, figlio di Magro che faceva il barbiere, con il quale la donna aveva intrecciato una relazione amorosa.
Francesco, che aveva messo gli occhi non solo sulla moglie di Andrea, ma anche sui suoi beni, con la promessa di sposarla la convinse di sbarazzarsi del marito.
Così in una notte del mese di aprile del 1510, con la complicità dell'amante, penetrato in casa uccise a colpi di scure e di spada Andrea Massario mentre dormiva.
Con l'aiuto di due complici, il falegname Giacomo Antonio ed un certo Sebastiano, rinchiuse il cadavere in una cassa che gettò in acqua nel canale dell'Orfano per poi tornare sulla scena del delitto per fare razzia di preziosi.
Il progetto dei due amanti consisteva nel fuggire da Venezia ma, raggiunta Santa Marta per prendere la fuga verso la terraferma, furono arrestati nel sagrato (il segrà, che all'epoca serviva da cimitero).
Sotto tortura confessarono il loro delitto: con sentenza della Quarantia Criminale dell'11 luglio 1510 i due complici vennero condannati al bando di cinque anni (il falegname Giacomo Antonio) ed a quello perpetuo (il Sebastiano); Francesco venne messo a morte e Adriana Misani, dopo aver assistito all'esecuzione dell'amante, venne condannata alla chèba appesa al campanile di San Marco, a pane e acqua, fino alla morte.
Ma tre mesi dopo riuscì a fuggire dalla gabbia, facendo perdere le proprie tracce: «Die XI.mo octobris 1510. Contrascripta Andriana aufugit ex gabia, ut retulit Aloysius de campanile.».
A 460 anni dall'ultima condanna al supplizio della chèba, ritroviamo nuovamente la gabbia, questa volta però citata in maniera satirica subito dopo il crollo del campanile di San Marco avvenuto il 14 luglio 1902.
All'epoca parte dell'opinione pubblica, sostenuta dai giornali più democratici e progressisti come "L'Adriatico" ed "Il Gazzettino", riteneva che la causa del crollo fosse da ricercare nell'«...imperizia degli ingegneri governativi.».
Puntualmente il settimanale satirico "Sior Tonin Bonagrazia", nel numero del 19-20 luglio 1902, non trovò niente di meglio che pubblicare una vignetta che riesumava la chèba nella quale erano state chiuse a chiave le caricature degli ingegneri ritenuti responsabili del crollo.
  
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Pagina aggiornata il 6 aprile 2012