Le alte valli

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Tende di profughi afghani fotografate lungo la strada.
La pianura verde è delimitata da colline dai pendii dolci.
Lungo la strada si susseguono molte tende, isolate ma anche raggruppate. Attorno vediamo solo donne. Pensiamo che siano abitazioni di nomadi, ma l'autista invece ci dice che sono profughi afghani che hanno trovato asilo in Pakistan.
La strada ora si inerpica per queste colline costeggiando un piccolo fiume e quindi scende verso la conca nella quale si trova Abbottabad.
Di fatto stiamo già percorrendo la famosa Karakoram Highway, considerata la strada asfaltata più alta del mondo e dai pakistani annoverata come una nuova meraviglia del mondo.
La strada inizia a Havelian per arrivare a Kashgar, nello Xinjiang cinese, attraversando una delle terre più inospitali del mondo, snodandosi fra il Pamir, l'Hindukush, il Karakoram e le estreme propaggini dell'Himalaya con la salita al Khunjerab Pass (4.602 metri).
Noi stiamo già percorrendo la Karakoram Highway da qualche chilometro, dal momento che essa è incorporata, nel sistema stradale pakistano, nella N-35 della quale costituisce una specie di diramazione.
Arriviamo ad Abbottabad quando ormai è già buio e troviamo sistemazione in una piccola pensione, il Miss Devil Hotel, in posizione abbastanza centrale.
Il monumento alle vittime del lavoro per la costruzione della Karakoram Highway. 
Alla mattina possiamo appena vedere un paio di strade di Abbottabad che si presentano piacevoli, ordinate e con aiole fiorite (almeno quelle attorno al nostro albergo).
Questa città, dal clima temperato (si trova a circa 1.250 metri di altitudine), è un famoso luogo di vacanza per i pakistani, come lo era durante il periodo coloniale per gli inglesi. Nel periodo estivo, quando in altre regioni del Pakistan si raggiungono temperature superiori ai 40°, accoglie un gran numero di ospiti. Per merito del turismo il reddito qui è aumentato di molto e ciò ha permesso di dotare la città di molte strutture e servizi, scuole superiori, un moderno ospedale, impianti sportivi; vicino ci sono aree attrezzate per il pic-nic, per il gioco del polo ed anche un campo da golf.
Deve il suo nome al maggiore James Abbott (1807-1896) che si insediò in questo distretto nel 1848, dopo l'annessione del Punjab. Subito dopo divenne il primo vice-commissario del distretto tra il 1849 ed il 1853.
Il maggiore Abbott, prima del suo ritorno in Gran Bretagna, aveva scritto un poema ("Abbottabad") nel quale aveva raccontato la propria passione per la città e la sua tristezza nel doverla lasciare.
In suo onore la città fondata venne chiamata ufficialmente Abbottabad (città di Abbott).
Lasciamo questo piacevole luogo alle otto: ci aspettano infatti molti chilometri da percorrere sulla Karakoram Highway.
Si iniziò la costruzione di questa strada, il cui nome viene comunemente abbreviato in KKH, nel 1959 congiuntamente da Pakistan e Repubblica Popolare Cinese. In Cina è chiamata anche "Strada dell'Amicizia" (Friendship Highway). Per la sua realizzazione, sul fronte pakistano se ne occupò il Frontier Works Organization (F.W.O.) che si servì del Pakistan Army Corps of Engineers.
I cinesi si dedicarono soprattutto alla costruzione dei numerosi ponti necessari, mentre i pakistani si incaricarono di realizzare il tracciato. La strada venne aperta praticamente a mano e a forza di braccia tra strapiombi, gole, pareti a picco, rocce instabili, corsi d'acqua torrenziali. L'impiego di macchine pesanti, trattori, Caterpillar, fu reso praticamente impossibile dalle asperità del terreno e dalla sua franosità.
Occorsero vent'anni per completarla. In certi momenti furono impiegati contemporaneamente lungo il tracciato 15.000 lavoratori pakistani e 10.000 cinesi.
Il tributo di vittime tra i lavoratori fu altissimo ed è stimato tra 500 e 800 morti, per non dire dei feriti che spesso riportarono menomazioni anche gravissime.
Gente che si lava ad un fiume.
Lasciata Abbottabad, la strada si snoda in un magnifico ambiente ricco di verde.
Dapprima sembra di essere immersi tra le conifere e gli alberi da frutto di un panorama alpino, poi la vista si trasforma lasciando il passo a campi di grano, mais, patate, orzo; quindi è la volta delle risaie e di alcuni terrazzamenti agricoli collinari.
 
La strada attraversa un panorama verde di tipo alpino.
  
Risaie.
 
Superiamo un bivio, la cui deviazione a destra porta alla Kaghan Valley, quella che avremmo voluto fare percorrendo una strada che sarebbe culminata nel Babusar Pass girando attorno alla mole del Nanga Parbat per poi ridiscendere a Chilas.
Per tratti la Karakoram Highway segue il percorso di un piccolo fiume dove ogni tanto vediamo gruppi di persone che si bagnano e lavandaie: dovrebbe essere il Nandhiar, ma non ne siamo poi così sicuri perché la nostra mappa della John Bartholomew & Son di Edimburgo non ci sembra troppo dettagliata e precisa.
Poco dopo ci fermiamo per una delle tante soste: la strada taglia la collina e sulla destra raggiungiamo tre grandi blocchi di granito. Non sembrano nulla di particolare, ma guardando con attenzione si intravedono sulla superficie dei massi, molto rovinate, alcune iscrizioni.
Si tratta del testo di uno dei tanti editti che il grande imperatore Ashoka (circa 270-230 a. Cr.) ha disseminato in tutte le parti del suo vasto impero; questo dovrebbe riguardare la diffusione del buddhismo e dei buoni principi che contiene. Un cartello ne riporta la traduzione in inglese.
Il monte Pir Sar, da dove secondo alcuni storici sarebbe iniziata la ritirata delle truppe di Alessandro Magno.
La strada prosegue tra curve e saliscendi che la fanno sparire alla vista per poi farla riapparire improvvisamente, come in un gioco a rimpiattino.
Il paesaggio si fa montano e superiamo anche un passo. La strada poi scende tra le curve sul lato destro di un fiume: forse si tratta del Nandhiar River.
Lungo la strada ci sono delle povere case, poi all'improvviso, tra una curva e l'altra, si apre l'immagine maestosa dell'Indo.
 
Il fiume Indo dove riceve il Nandhiar River.
 
Singh in urdo, diventa Sindhu in hindi ed in sanscrito, è detto Hinduo o Hidu dai persiani, Indos dai greci. Per noi è l'Indo, il fiume più lungo del subcontinente indiano.
Nasce in Cina, nella regione del Tibet, sui monti Kailas o Gangri, con il nome Shin Quan He, ed ha una lunghezza totale di circa 3.180 chilometri prima di sfociare nel Mare Arabico presso Karachi.
Qui, dove il Nandhiar River si getta nell'Indo, c'è la piccola cittadina di Thakot.
Siamo sulla sponda sinistra dell'Indo.
Ci fermiamo su una piazzola panoramica, proprio sopra la confluenza dei due fiumi.
Un cartello ci avverte che di fronte a noi c'è il monte Pir Sar (circa 2.160 metri).
Secondo sir Aurel Stein (1862-1943) questo monte sarebbe da identificarsi con il luogo dove c'era la fortezza di Aornos, il punto dal quale iniziò nel 326 a. Cr., dopo la battaglia di Idaspe, la disastrosa ritirata di Alessandro Magno verso Babilonia dove morì nel 323 a. Cr.
Tuttavia pare che successive ricerche abbiano collocato la fortezza di Aornos sul monte Ilam, nello Swat.
Tipi pakistani.
Sostiamo un quarto d'ora in questo posto, anche per sgranchirci un po' le gambe dopo essere stati costretti sui sedili, non proprio spaziosi, del nostro autobus.
Naturalmente destiamo la curiosità di alcune persone: al nostro arrivo non c'era nessuno, ora come per incanto si sono materializzati ragazzini e uomini, quasi tutti armati.
 
Siamo oggetto della curiosità di molti.
 
Cerchiamo di salutare tutti con ampi sorrisi, che per fortuna vengono ricambiati.
Appena ripartiti incontriamo il primo ponte che ci fa attraversare l'Indo, portandoci dalla riva sinistra a quella destra: è uno di quei ponti che sono stati costruiti dai cinesi e lo stile è inequivocabilmente cinese.
Appena attraversato ci fermiamo ad un check-point: si tratta di un semplice controllo dei passaporti fatto svogliatamente.
Incontriamo altre località lungo il percorso: solo dei nomi sulla carta geografica ai quali corrispondono poche case costruite lungo la strada.
Non vediamo donne, ma solo uomini, vecchi e bambini. Sembra che non stiano facendo nulla, e forse non fanno nulla veramente! Per lo più se ne stanno seduti o sdraiati sui charpov; ci vedono passare e ci seguono con lo sguardo. I bambini invece, come sempre, sono più curiosi ed espansivi: ci urlano e ci salutano con ampi gesti delle braccia.
Di cosa viva questa gente, quasi sempre armata, è difficile dire. Dal panorama che vediamo, brullo e arido, dubitiamo che possa esistere qualche attività agricola.
Lungo la strada si incontrano, nei pressi di questi villaggi, delle specie di ristorantini all'aperto e quelle che sembrano essere delle officine: ma nessuno mangia e nessuno ripara i motori!
La strada si stringe nel costeggiare le pareti delle montagne ed in certi punti fiancheggia un precipizio non proprio tranquillizzante.
Incontriamo le conseguenze di una frana: la montagna è venuta giù portandosi via la strada.
Il tratto di strada mancante è stato sostituito da una specie di ponte, o di passerella, realizzato con putrelle in ferro e pavimentato con delle tavole di legno in parte sostituite e rabberciate da pezzi di lamiera di differenti origini.
L'autista ritiene opportuno alleggerire l'autobus, così ci fa scendere e noi superiamo questo tratto a piedi. Quindi passa, molto lentamente e con molta attenzione, anche il nostro autobus.
 
Si attraversa a piedi la passerella che sostituisce la strada franata con la montagna.
 
Attraversiamo quello che una volta era il confine del Kohistan e che oggi segna solamente l'ingresso nell'omonimo distretto.
Si tratta del territorio più isolato del Pakistan che, prima della costruzione della Karakoram Highway, restava tagliato fuori dalle vie di comunicazione.
Questo isolamento lo trasformò in terra accogliente per tutti quelli che volevano allontanarsi dalla civiltà: soprattutto fuorilegge e ribelli. Infatti il nome della regione deriva dal persiano Yaghistan, che significa "Terra di ribelli".
E' un territorio, di fatto, semiautonomo e la polizia raccomanda agli stranieri di non abbandonare la Highway.
Ed è un peccato, perché ci sono resoconti di viaggiatori che parlano di vallate bellissime, tra cui spicca quella di Chowa Dara.
Il distretto è popolato da un miscuglio di etnie eterogenee: patan, kamian, cinesi, mongoli e anche turchi.
A Komila si attraversa nuovamente l'Indo e ci portiamo sulla sponda sinistra.
Dopo mezz'ora la strada, seguendo il corso del fiume, piega decisamente verso oriente.
Se prima era semplicemente caldo, molto caldo, adesso si è anche levato un forte vento che convoglia quest'aria torrida soffiandola dentro la vallata.
 
Il fiume Indo è parecchie centinaia di metri sotto di noi. 
La desolata arida vallata entro la quale scorre il fiume Indo. 
 
La strada prende quota sulle ripide pendici franose delle montagne che racchiudono il corso del fiume: in certi momenti l'Indo quasi scompare alla vista, tanto siamo alti (anche settecento metri sopra l'alveo del fiume), per poi farsi rivedere sotto di noi, sul fondo di un precipizio.
Continuiamo ad attraversare villaggi, agglomerati di case fatte di legno ai quali non sappiamo dare un nome.
E per strada, altri bambini, uomini, solo uomini e solo armati.
Attraversiamo nuovamente un ponte e ci riportiamo sulla sponda sinistra del fiume.
L'Indo sembra scorrere dentro una pietraia: tutto è arido, scarsissimo il verde.
 
La Karakoram Highway segue il percorso del fiume Indo. 
 
Foto di gruppo con i nostri autisti e qualche sconosciuto che si è aggregato nella "rest house" di Chilas.
In certe zone dove il terreno non è a strapiombo sul fiume, vediamo qualche macchia di verde; e così anche vicino agli affluenti, che molte volte sono in realtà dei modesti rigagnoli che scendono dalla montagna: bastano quelle poche infiltrazioni d'acqua per far crescere nelle immediate vicinanze la vegetazione.
Qualche volta, ma molto raramente, scorgiamo sulle pendici del monte qualche tentativo di terrazzamento.
Il viaggio è lungo e deve apparire monotono a qualche compagno infervorato in discussioni sugli attacchi degli sci o sulle marche degli scarponi: io, sinceramente, non riesco a distaccarmi dal panorama che vedo scorrere oltre i finestrini dell'autobus.
Il sole tramonta tra le nuvole, al di là delle montagne.
 
Il tramonto sulla valle dell'Indo, a Chilas.
 
E' quasi notte quando, dopo aver percorso circa 330 chilometri in quasi dodici ore, soste comprese, arriviamo a Chilas.
Il nostro autista ci porta diretti ad una rest house che lui conosce.
Anche durante la notte continua a soffiare un vento caldo, che assomiglia a quello del deserto: oltre alla temperatura già alta nell'aria, sembra di avere in aggiunta anche un fohn puntato in continuazione sulla faccia.
Trascorriamo assieme la serata e dopo la cena restiamo alzati, soprattutto per bere. Si rischia veramente di rimanere disidratati!
Chilas è sempre stata un'importante stazione di transito, ancora prima che fosse aperta la Karakoram Highway.
In pratica si trovava sulla Via della Seta: da Kashgar scendeva fin qui una pista; da Chilas si poteva poi proseguire lungo la valle dell'Indo, oppure scendere verso Rawalpindi scavalcando la catena del Nanga Parbat, attraverso il Babusar Pass, percorrendo la Kaghan Valley.
A testimonianza del passaggio di tanti viaggiatori, soprattutto mercanti, monaci e pellegrini, qui e nei dintorni sono state scoperte numerosissime incisioni rupestri. Molte sono opera anche di popolazioni del posto. Si valutano che siano oltre 20.000 e le più antiche risalgono ad un'epoca compresa tra il 5000 ed il 1000 a. Cr.: rappresentano scene di caccia, con gli animali disegnati più grandi dei cacciatori che presentano il corpo a forma triangolare. In genere più recenti sono i graffiti con immagini di Buddha, di stupa ed altri simboli religiosi: vasi, lampade, ombrelli, bandiere di preghiera, conchiglie, ecc. Sono riconoscibili anche alcuni stili, come il kashmiro ed il gandhara.
L'archeologo ed etnologo austriaco Karl Jettmar (1918-2002), che tra l'altro prese parte alla famosa spedizione himalayana austriaca del 1958, ha ricostruito in un libro la storia di quest'area partendo anche dalle incisioni ed iscrizioni di Chilas.
Tra l'altro, qui a Chilas è stata scoperta un'iscrizione in scrittura kharoshthi che contiene il termine kaboa, o kamboa. L'iscrizione è stata studiata, tradotta ed interpretata dall'archeologo e linguista pakistano Ahmad Hasan Dani (1920-2009) che ritenne che questo termine fosse una deformazione dello sanscrito Kamboja. Tutto ciò farebbe supporre che Chilas fosse appartenuta all'antico Regno di Cambogia.
  
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Pagina aggiornata il 23 ottobre 2017. Io ho fatto molti importanti viaggi con Avventure nel Mondo