Alla mattina si lascia Chilas e subito
il caldo si fa sentire: non abbiamo un termometro, ma la sensazione è di
essere abbondantemente sopra i quaranta gradi (forse anche 45°).
Il problema maggiore è quello della disidratazione: non possiamo bere acqua
che non offre alcuna garanzia igienica e l'unica alternativa è data dalle
bibite sigillate, sempre gassate oltre misura.
Quando capita, durante qualche sosta lungo la strada, beviamo del tè caldo
con la speranza che quell'acqua sia stata almeno bollita per qualche minuto.
Inoltre il tè caldo è l'arma migliore per combattere il caldo e tonificare
il fisico.
Ma non siamo solamente noi a risentire della calura: le conseguenze sono
visibili anche nel panorama circostante, una sterminata pietraia
nella quale il fiume si è scavato l'alveo.
Il paesaggio si mantiene molto aspro e totalmente desertico. Il
nostro bus procede solitario; gli incontri con gli altri veicoli, per lo
più camion, sono sempre più rari e preceduti da una gran nuvola di polvere
sollevata sulla strada, visibile da grande distanza.
La strada sembra far parte della montagna, strappata metro per metro, roccia
per roccia. A volte continua per centinaia di metri a picco sul fiume
Il
gruppo del Nanga Parbat (m. 8.125) spunta oltre le montagne più
vicine.
Un lavoro ciclopico, compiuto tutto a
forza di braccia con le mani nude, bloccato per mesi quando le temperature
invernali si facevano proibitive.
In certi tratti sembra che la strada debba sprofondare all'improvviso, sotto
il peso del nostro autobus, oppure che debba precipitarci addosso qualche
grosso macigno che ci sembra in equilibrio precario.
Un
ponte costruito dai cinesi attraversa il fiume Indo.
Dopo un paio d'ore raggiungiamo il Raikot Bridge: qui la Karakoram Highway
supera nuovamente l'Indo portandosi sulla sponda destra mentre una pista,
percorribile in fuoristrada, si inoltra per la Raikot Valley.
Quando vediamo spuntare al di sopra delle montagne che ci circondano la
sagoma del gruppo del Nanga Parbat (m. 8.125) è d'obbligo una sosta
fotografica sui bordi della strada.
Dopo appena qualche chilometro, riusciamo ad intravedere anche un altro
gigante, il Rakaposhi (m. 7.788).
Il
massiccio del Rakaposhi (m. 7.788) seminascosto dalle nuvole.
Le
decorazioni di un
camion alla stazione di rifornimento di Jaglot.
Arriviamo a Jaglot, un punto di
riferimento per gli autisti dei camion che corrono lungo la Highway,
in quanto vi si trova un'area di rifornimento del carburante con
un'officina, attorno alla quale sono sorti dei baracchini di ristoro.
Il nostro autista si ferma per riempire il serbatoio e noi ne approfittiamo
per una meritata sosta fisiologica.
Il
nostro autobus non sfigura con i camion nell'area di servizio di Jaglot.
Possiamo così anche vedere da vicino quei camion folcloristici che
incrociavamo lungo la strada, non meno pittoreschi del nostro autobus con le
loro decorazioni fatte di figure, simboli islamici, scritte (probabilmente
coraniche), vernici dai colori sgargianti ed inverosimili, luci
intermittenti da albero di Natale!
E'
evidente la linea lungo la quale scorre un canale artificiale per
l'acqua ed il verde che vi è cresciuto sotto approfittando delle
infiltrazioni.
Ci si rimette in cammino e dopo pochi
chilometri, alle 13.30, sotto l'Haramosh (m. 7.409), troviamo la confluenza
del fiume Gilgit con l'Indo; la Karakoram Highway abbandona l'Indo per
seguire il corso del Gilgit. Questo è il punto in cui si incontrano le tre
grandi catene: l'Hindukush, l'Himalaya ed il Karakoram. Un cippo eretto
lungo la strada testimonia questo elemento geografico.
Gilgit, che fu un'importante città sulla Via della Seta, lungo la quale il
buddhismo si diffuse dall'Asia meridionale al resto del continente, è come
attorcigliata attorno alla confluenza dell'Hunza con il Gilgit river.
Si trova a circa 1.500 metri d'altezza e per tutto l'inverno, come il resto
della regione, è sommersa dalla neve. Ma adesso siamo nella bella stagione.
Percorriamo una grande strada affiancata da negozi e ombreggiata da un
doppio filare di alberi fino al grande ponte sospeso: è la zona dei bazaar
con tutta l'animazione che tipicamente regna in questi luoghi di commercio e
di scambio.
Nell'aria si sentono frammischiati profumi e odori: quello del tè, quello
del chapati caldo appena cotto, quello del cardamomo, della mandorla e
di altre spezie che ci riesce difficile da identificare.
Ma noi non possiamo fermarci a lungo e dobbiamo proseguire.
Siamo in un territorio che fu testimone di aspri conflitti e battaglie
soprattutto dalla metà dell'Ottocento alla metà del Novecento. Nel 1947-48
fu teatro della guerra indo-pakistana, conclusa con una mediazione delle
Nazioni Unite che portò, il 31 dicembre 1948, a fissare una linea di
cessate il fuoco che lasciò al Pakistan circa due quinti del Kashmir mentre
i restanti tre quinti andarono all'India.
Ci vollero molti anni perché la regione non si sentisse più legata a
Srinagar, in India, e si abituasse a guardare verso il Pakistan.
Comincio a notare dei cambiamenti: il panorama resta desertico, ma si
intravede sempre più spesso qualche oasi di verde.
Osservando con attenzione le pendici di roccia e pietrisco, si intuiscono
delle opere di canalizzazione dell'acqua che probabilmente proviene dai
vicini ghiacciai. Immediatamente sotto questi canali si nota una striscia di
verde: basta così poco per far crescere qualcosa, basta l'acqua!
Ma anche la gente sembra diversa: truce, scostante, armata verso sud, più sorridente
e cordiale qui, anche se continua a notarsi l'assenza delle donne: al
mercato e per le strade, solo uomini!
Cominciamo
a vedere le prime opere di coltivazione del suolo.
Qui a Gilgit sulla destra c'è la
valle del fiume Hunza che si immette nel Gilgit river. E' lungo questa valle
che devia la Karakoram Highway, insinuandosi tra le montagne.
Ancora
macchie di verde lungo le rive del fiume.
Ci fermiamo ad una fontana, da dove sgorga acqua fredda: l'autista ci dice
di non avere timore a berla, è acqua che giunge direttamente dal
ghiacciaio. Noi non ne siamo troppo convinti e Antonio, il nostro
"montanaro", comincia a salire il pendio lungo il torrentello che
alimenta la vasca di pietra da dove zampilla l'acqua. Percorre un centinaio
di metri scrutando il terreno e poi torna da noi. «Si può bere!»,
sentenzia, spiegandoci che il pericolo per noi potrebbe essere dato
dalla presenza di animali, capre o bovini, che a monte se ne abbeverino, ma
lui non ha visto tracce di animali.
Così noi, che inizialmente ci eravamo limitati a rinfrescarci viso e
braccia con quella bell'acqua fredda, cominciamo a riempire le nostre
borracce.
Risaliti in autobus, questo percorre neppure una decina di metri per poi
fermarsi subito: l'autista ha visto attraverso lo specchio retrovisore una
bambina che ci rincorreva con ampi gesti. Tiene tra le mani il cappello che
Luisa aveva dimenticato sul bordo della fontana!
Questa onestà della bambina ci fa riflettere sulla differente indole di
questa gente: avessimo dimenticato un cappello a Thakot, nessuno certamente sarebbe corso dietro
di noi per restituircelo, così come in tanti altri luoghi
del subcontinente indiano che abbiamo visitato.
Riprendiamo a percorrere la valle dell'Hunza che si allarga ai piedi dei due
grandi massicci del Batura e del Rakaposhi, ed il panorama cambia ancora
più profondamente.
Non vediamo più solo esclusivamente le pietre desertiche che ci hanno
accompagnato da ieri: la vallata e la montagna cominciano a rivestirsi di
verde.
C'è tutto il lavoro dell'uomo dietro questo verde: con una serie di
canalizzazioni che iniziano dall'alto della montagna è riuscito a
convogliare l'acqua dei ghiacciai distribuendola sul terreno per ricavarne
fertili appezzamenti agricoli.
Un
bambino ci viene incontro offrendoci delle albicocche da un vassoio.
Proseguendo
il panorama si fa più verde.
Ed oltre alle solite colture cerealicole, ci colpisce la visione di tanti
frutteti.
La maggior parte degli alberi da frutto sono albicocchi e durante una delle
nostre soste fotografiche, lungo la strada, un bambino ci viene incontro con
un sorriso offrendoci delle albicocche poste su un vassoio di ferro
smaltato.
Ancora un contrasto, la gentilezza ed i sorrisi che non avevamo trovato
ieri, lungo la Karakoram Highway: la strada è sempre la stessa, ma adesso
attraversa paesaggi diversi abitati da gente diversa.
Effettivamente qui la popolazione appartiene a differenti etnie, a tribù
ariane discendenti dai primi conquistatori dell'India che dall'Asia
centrale, migliaia di anni fa, spinsero verso sud gli antichi abitanti
della penisola indostanica, i dravidici.
Qualche gruppo, proveniente dal Turkestan, si fermò in queste vallate
racchiuse dalla catena himalajana diventando sedentari.
A causa del loro isolamento geografico riuscirono a mantenere pressoché
inalterate le loro caratteristiche.
Questi gruppi oggi sono identificati soprattutto con i dardi, che abitano
l'alta valle dell'Indo, la regione di Gilgit e tra Hindukush e Chitral, fra
Pakistan ed Afghanistan; i patani, dislocati tra le montagne del Pamir e del
Baluchistan, le genti dello Yeghestan ed infine gli Hunzukuts che vivono in
parte del Kasmir ed in particolare nell'alta valle del fiume Hunza.
Noi ormai stiamo risalendo lungo la valle dell'Hunza. Siamo ad oltre 2.400
metri d'altezza.
Verso le cinque della sera giungiamo a
Karimabad, il capoluogo della divisione amministrativa del territorio Hunza
ed antica capitale, con il nome di Baltit, dello Stato di Hunza.
L'autista ci conduce diretti presso l'unica rest house del paese, dal
nome pomposo di "New Hunza Tourist Hotel".
Purtroppo le camere sono tutte occupate dai membri di una spedizione
alpinistica giapponese, mentre non ci sono problemi per l'utilizzo dei
servizi e del ristorante.
In realtà non abbiamo problemi neppure per dormire, in quanto siamo tutti
attrezzati di tende. Si tratta di decidere dove piantarle.
Il giardino attorno alla rest house sembra ben curato, quindi ci pare
improponibile chiedere di poter montare le tende lì. Qui le costruzioni sono tutte fatte con un tetto piatto, a terrazza. Anche
il tetto della rest house è fatto così; quindi chiediamo, ed
otteniamo, di fissare le tende sopra il tetto!
Dobbiamo solo fare attenzione a non forarlo con i picchetti; il tetto sembra
fatto di fango secco pressato, quindi -pensiamo- dovremo avere gran
facilità ad infilare i picchetti di sostegno delle tende.
Purtroppo ci rendiamo subito conto che dopo pochi centimetri di terra si
incontra il tavolato di legno: i picchetti non entrano in nessun modo.
Le
nostre tende montate sul tetto dell'hotel (a sinistra).
In qualche maniera riusciamo tutti ad arrangiarci ed alla fine possiamo
anche fotografare il nostro campo montato... su un tetto!
Ed è ormai giunta l'ora per scendere (dal tetto!) al ristorante per
mangiare.
La prima cosa che notiamo nella sala, se non altro per le sue dimensioni, è
un grosso cilindro metallico posto in un angolo. Dapprima pensavamo che si
trattasse di una stufa per il riscaldamento del locale durante i freddi mesi
invernali; invece scopriamo che è il serbatoio per l'acqua.
Qui l'acqua è molto buona: scende fresca dai ghiacciai circostanti.
Talmente fredda che abbiamo notato nel giardino dell'albergo scorrere un
ruscelletto nel quale erano immerse alcune cassette di bibite per mantenerle
fresche.
Canalizzazione
idraulica costruita sulla parete rocciosa.
Tuttavia quest'acqua, nello scorrere a valle, si trascina delle
microparticelle sabbiose: la popolazione locale vi si è assuefatta, ma quella
finissima sabbia potrebbe arrecare danni non trascurabili alla salute del
visitatore che non vi è abituato.
Quell'enorme calderone nel ristorante, una specie di cisterna, ha quello
scopo: far decantare l'acqua in modo che depositi sul fondo le
microparticelle sabbiose.
L'acqua
che scende la ghiacciaio è bella fresca...
...ma
lascia depositi di microparticelle di calcare.
Bambina
hunza.
Passiamo tranquillamente la notte in
tenda e l'indomani, uscendo dalle tende, godiamo di una formidabile vista
sulla verde vallata con in fondo la sagoma gigantesca del Rakaposhi.
Dopo aver sopportato tanti chilometri chiusi nel nostro bus, facciamo una
rilassante passeggiata per Karimabad.
Karimabad è il nome ufficiale che venne dato a quella che era stata da sempre
Baltit.
Pare che l'occasione del cambiamento del nome sia stata data da una visita
che fece il principe Karim Aga Khan IV. Karimabad significa infatti
"città (abad) di Karim".
Il principe Karim è il quarantanovesimo Imam ereditario dei Nizariti Khoja,
ritenuto discendente del profeta Maometto attraverso il suo cugino (e
genero) Ali e di sua moglie Fatima, figlia di Maometto.
Per gli sciiti ismaeliti Ali è stato il loro primo Imam ed il principe
Karim è ora il capo spirituale di questa religione, cui appartengono le
genti di Karimabad.
Fino ai primi anni del Novecento, due emissari hunza affrontavano a piedi un
lungo viaggio fino a Bombay, dove risiedeva l'Aga Khan dell'epoca, per
portargli i tributi religiosi della comunità.
La Nazione degli Hunza è stata indipendente per nove secoli, retta da un
principe, o emiro (Mir), anche se il suo titolo tradizionale era Thum,
una forma di riguardo con la quale era chiamato.
Piccolo
rigagnolo che attraversa Karimabad.
Gli inglesi ebbero il controllo della
valle dell'Hunza e della vicina valle del Nagar tra il 1889 ed il 1892 a
seguito di uno spropositato impegno militare. L'allora Mir Safdar Ali
Khan fuggì a Kashghar, in Cina, in quello che si potrebbe chiamare asilo
politico.
Lo Stato di Hunza comunque è riuscito a continuare a sopravvivere fino al
1974, quando venne definitivamente sciolto dal Presidente del Pakistan
Zulfikar Ali Bhutto.
Il principe Karim Aga Khan IV, attraverso la sua fondazione "Aga Khan
Trust for Culture Projects", ha finanziato molte iniziative a favore
dei suoi seguaci nella valle dell'Hunza, come ad esempio presidi sanitari e
scuole. Non a caso la popolazione Hunza ha un tasso di alfabetizzazione
superiore a quello delle altre popolazioni pakistane.
Karimabad non si può certo definire una città: è un paesetto o poco più
di un villaggio sulla riva destra del fiume Hunza disposto su ampie terrazze
inondate dal sole.
Sulla riva sinistra invece abitano i Nagar, un'etnia simile ed affine a
quella degli Hunza, ma diversa; almeno così dicono gli etnologi: noi non ci
siamo accorti di grandi differenze.
Un
fabbro al lavoro a Karimabad.
Coltivazioni
a terrazze sui fianchi della montagna.
Lungo le stradine del paese ci sono uomini in attività: fabbri, tornitori,
falegnami, sarti ed altri artigiani. Per lo più lavorano in strada, davanti
alle loro botteghe. I bericho, cioè i fabbri, esercitano il loro
mestiere per tradizione che si tramanda di padre in figlio. Possono sposarsi
solo fra di loro, affinché il segreto di forgiare il ferro resti ben
custodito. Questa usanza, che pone il fabbro in uno status
particolare, mi ricorda in qualche modo la posizione, quasi sacerdotale, che
ha il fabbro nella cultura
dogon.
Spesso scorrono ai lati delle strade dei rigagnoli, veri e propri
ruscelletti di acqua corrente: è la fresca acqua che scende dai ghiacciai e
viene distribuita a valle da una fitta rete di canalizzazioni che sono
sempre mantenute in buono stato dalla continua vigilanza di questi uomini:
sanno che se la loro valle è così verde e fertile, lo è per merito di
quest'acqua e non di quella del fiume.
Infatti le coltivazioni sfruttano al massimo lo spazio disponibile e dove
questo è costituito da pendii e precipizi, hanno costruito terrazze sui
fianchi della montagna per ricavare aree coltivabili.
Le coltivazioni si trovano centinaia di metri più in alto del fiume, che
corre sotto in una gola profonda: le sue acque non sono accessibili
per le colture.
D'altra parte le precipitazioni non sono sufficienti. Ecco quindi la
necessità di costruire una rete idrica in grado di distribuire
capillarmente le acque che scendono dai ghiacciai.
Questo acquedotto è scavato nella
parete rocciosa, fatto proseguire in canalizzazioni di legno per
attraversare le pareti a picco. Ciascun acquedotto può raggiungere la
lunghezza complessiva di dieci chilometri.
Continuiamo a camminare per Karimabad: le strade non sono in piano ma in un
continuo saliscendi perché il villaggio si è sviluppato su livelli
diversi.