Giandri's - I miei viaggi - Le alte valli
Le alte valli

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Amarnath yatra (segue),
Thajiwas glacier, Srinagar, Giardini Moghul, partenza
 
  Dopo una decina di chilometri, in una posizione isolata e dominante, vediamo la sagoma del complesso monastico di Likir.
Sono le sette di sera: più di un'ora per percorrere una ventina di chilometri! Fermiamo l'autobus e ci avviamo per l'ultimo tratto a piedi.
Troviamo un giovane monaco che parla un po' d'inglese: a lui chiediamo il permesso di accamparci.
Il monaco scompare per riapparire dopo un po' con un confratello più anziano, dal viso scavato dal sole, dalle rughe e dal tempo. Ci fa cenno sul luogo dove possiamo fermarci, in pratica poco lontano da dove si era fermato il nostro autobus.
Qui, tra gli alberi, troviamo uno spiazzo adatto per le nostre tende e mentre le montiamo c'è già chi si dà subito da fare con i fornelli.
Terminiamo la cena alla luce delle torce elettriche e della lampada a petrolio. La notte non è per nulla calda, ma per fortuna i nostri sacchi a pelo ci isolano dal freddo.
La mattina dopo, con la luce, possiamo lavare le nostre stoviglie nell'acqua di un fiumiciattolo che scorre qui vicino e che forse è quello che abbiamo visto ieri percorrendo la stretta valle che porta sin qui. Smontiamo anche le tende che carichiamo sull'autobus e ci avviamo a piedi verso il monastero per visitarlo.

Secondo una tradizione, non verificabile, sarebbe stato fondato nell'XI secolo dal lama Duwang Chosje sul terreno che gli era stato donato dal quinto re del Ladakh, Lhachen Gyalpo (circa 1050-1080). Altre fonti indicherebbero invece un altro antico re tibetano, Lhachen Utpala (circa 1080-1110).
Il lama Duwang Chojse che aveva fama di sant'uomo dedito alla meditazione, benedì il luogo che gli era stato offerto.
Sette generazioni dopo Lhachen Gyalpo, venne introdotta l'usanza di mandare tutti i novizi a Lhasa. Nel XV secolo il lama Lhawang Chosje (o Lodos Sangphu), discepolo di Tsongkhapa (1357-1419) convertì il lama alla scuola Gelug, nota come scuola dei berretti gialli che indossavano, ed indossano, questi monaci per distinguersi dalle altre scuole non riformate che usano invece cuffie (o berretti) rossi.
 
La facciata del monastero di Likir.
 
  Circa l'antichità di questo monastero, bisogna osservare che riscontri archeologici hanno dimostrato che i reperti più antichi di Likir non sono databili anteriormente al XV secolo.
Il nome Likir significa, all'incirca, "circondato dal serpente": Klu-khil, il dio serpente della mitologia indiana e tibetana. Si crede infatti che il monastero sia circondato in segno di protezione dal corpo del naga (serpente) che abita nel luogo.
Particolare del tetto del monastero di Likir.
Oggi il monastero appare piuttosto isolato, ma una volta non era così: dominava un'importante via di comunicazione con Tingmosgang, Leh ed Hemis.
Tuttora appartiene alla setta dei cappelli gialli, fondata dal riformatore Tsongkhapa. Consiste in un certo numero di santuari che si trovano all'interno del complesso. Oltre ai monaci, ospita una propria scuola dove studiano una trentina di studenti.
La sua struttura risale al XV secolo (sebbene sia stato ampiamente ricostruito nel XVIII secolo a seguito di un incendio che aveva subito) allorché il monastero passò sotto l'influenza di Lhawang Lodos Sangphu, discepolo di Khasdubje, che fece grandi sforzi per far prosperare il monastero che si espanse diventando una piccola fortezza arroccata a difesa del proprio territorio.
Come una fortezza inespugnabile lo vediamo quando ci avviciniamo a piedi, ma poi entrandoci scopriamo gli spazi aperti dedicati alle processioni, ai festival, alle deambulazioni, tipici di ogni monastero buddhista. Riesce così ad unire le esigenze religiose a quelle politiche, dettate dall'importanza che andavano ad assumere questi luoghi nella regione che li faceva luoghi di difesa, ma anche di offesa.
 
Tamburi di preghiera nel monastero di Likir.
 
Un passaggio processionale di preghiera nel monastero di Likir.
A Likir si svolge annualmente il Dosmochey, tra il 27° ed il 29° giorno del dodicesimo mese del calendario tibetano. E' un importante festival con danze sacre e danzatori mascherati, come avviene anche ad Hemis.
Noi circoliamo liberamente per il complesso: i monaci sono affabili e sorridenti e quando restiamo dubbiosi se entrare oppure no davanti ad una porta chiusa, sono loro che con cordiali sorrisi ci aprono quella porta facendoci entrare.
Il monastero ha due Du-khang (sale dell'assemblea): quella più antica è sulla destra del cortile principale con le immagini dei vari stati di Buddha (Amitabha, Sakyamuni, Maitreya) e di Tsongkhapa, il fondatore della setta dei berretti gialli, mentre in quella più recente che si trova, usciti dalla precedente, sul lato opposto del cortile, l'immagine principale è data da Avalokitesvara, dalle mille braccia e dalle undici teste.
Purtroppo non possiamo soffermarci oltre, troppa strada ci attende oggi e così alle otto e venti riprendiamo il nostro autobus: in mezz'ora siamo a Saspol dove, all'incrocio principale del paese, troviamo una bettola dove fermarci per fare una veloce colazione, tè caldo e qualche biscotto secco.
Lasciamo Saspol alle nove e mezza e riprendiamo il ritorno lungo la strada Leh-Srinagar.
Dopo un'ora, tra i paesaggi che avevamo visto qualche giorno fa, siamo costretti a fermarci ad un posto di blocco. Pensiamo che si tratti di qualche convoglio militare che deve passare, anche se il nostro autista, normalmente bene informato dai colleghi sui movimenti di queste lunghissime e lentissime colonne militari che bloccano la strada per ore, non riesce a sapere nulla dai soldati che hanno sbarrato la strada.
Noi, e altri camion che sono sopraggiunti dopo di noi, siamo stati invitati a metterci il più possibile fuori della carreggiata.
Passano le ore.
Verso l'una osserviamo un po' di agitazione al posto di blocco: senza tanti complimenti i militari ci spingono fuori della strada e formano una specie di cordone. Di lì a poco cominciano a passare ad una certa velocità motociclette, camionette, con personaggi in uniforme da colonnello o generale: pezzi grossi insomma!
Dopo ancora pochi minuti d'attesa, finalmente passa la causa di questo blocco alla circolazione: una specie di jeep, di costruzione indiana, con un equipaggiamento che "scimmiotta" le nostre automobili da rally, seguita a distanza da qualche altra macchina simile. Alla guida ci sono militari.
Ci viene spiegato che si tratta del "Rally dell'Himalaya", una specie di manifestazione che, più che intenti sportivi, sembra potersi inserire in una delle tante rivendicazioni di sovranità dell'India su questi territori continuamente rivendicati da Cina e Pakistan.
Tutta questa messa in scena intanto ci è costata quasi tre ore di fermo obbligato! E' infatti quasi l'una e mezza quando riprendiamo il viaggio
 
Rivediamo al ritorno le cime innevate che avevamo ammirato all'andata. 
 
Rivediamo Lamayuru, nella sua spettacolare posizione su uno sperone di roccia che sembra farla sorgere dal fondo della valle!
Ma solo per un quarto d'ora! Infatti adesso è il nostro autista a fermarsi ad un posto di ristoro per il pranzo suo e dell'aiutante!
Si riparte dopo mezz'ora. Ripercorriamo la strada che avevamo fatto in senso inverso cinque giorni fa e dopo aver rivisto il monastero di Lamayuru alle quattro e un quarto superiamo il Fotu La, il punto più alto di questa strada Leh-Srinagar, ma non ci fermiamo per la foto ricordo come nell'andata, perché per noi la giornata non è ancora finita: dopo la discesa la stretta strada riprende a salire tra le curve ed alle sei e mezza superiamo l'altro valico, il Namika La, trecentocinquanta metri più basso del precedente, ma pur sempre una ragguardevole altezza: e tutti e due i passi superati nello stesso giorno! Non a caso il nostro viaggio è dedicato alle "Alte Valli"!
Se non ci fosse stato il contrattempo del rally, saremo riusciti ad allungare questa tappa, invece ancor prima di arrivare a Kargil i nostri autisti ci propongono un camping: si tratta di uno spazio dove sono già montate delle tende, forse di origine militare, dotato dei servizi minimi essenziali, tappa per molti camionisti.
Almeno non dobbiamo montare le nostre tende al buio. Sono le 8 di sera quando ci arriviamo, tredici chilometri prima di Kargil.
Prima di addormentarci, gli autisti ci avvertono che domani si dovrà partire presto,  alle sei, per evitare di restare bloccati sul Zoji La dall'ennesima colonna militare che fa la spola tra le varie caserme dell'esercito indiano poste sul percorso Srinagar-Leh.
Domani riusciamo ad essere puntuali e poco dopo le sei siamo già nel bus con i bagagli caricati.
Il nostro ritorno da Leh, che può sembrare così precipitoso, in realtà era meditato gia nel momento in cui avevamo programmato il viaggio lungo la strada Srinagar-Leh: infatti domani 23 agosto c'è la luna piena; è durante questa occasione, la luna piena del mese di shrawan (che cade tra luglio ed agosto) che si svolge l'Armanath Yatra, uno dei più importanti pellegrinaggi della fede induista.
Avevamo così maturato l'idea di provare a parteciparvi, rubando un po' di tempo alle visite dei principali monasteri che abbiamo incontrato lungo il viaggio, limitando a volte a qualche ora quello che poteva meritare la visita di mezza giornata se non di più.
La strada riprende a salire: incontriamo lo Zoji La, 3.529 metri, l'ultimo passo che dobbiamo affrontare in questo viaggio di ritorno, che era stato il primo che avevamo superato all'andata.
 
Verso lo Zoji La.
 
In cammino con altri pellegrini.
 
E' passato di poco il mezzogiorno quando arriviamo a Sonamarg (2.740 metri).
Al di là dell'importanza militare di questo luogo, il cui nome si può tradurre come "prati dorati", si tratta di una ridente località montana con un clima ed un paesaggio quasi alpino d'estate, ma che diventa praticamente disabitata durante l'inverno, quando è ricoperta da metri di neve. D'inverno è abitata esclusivamente dai militari indiani che sono presenti in guarnigioni e caserme.
In questi giorni, a ridosso del plenilunio di shrawan, Sonamarg è affollatissima di pellegrini perché da qui parte uno dei possibili percorsi del pellegrinaggio che arriva fino alla sacra grotta di Amarnath.
E' tutto un mescolarsi di razze, e non solo unite dalla comune fede induista: è tale l'importanza simbolica della grotta che qui vediamo anche musulmani, che sono poi la maggioranza in questo stato fondamentalmente islamico. Il pellegrinaggio ad Amarnath diventa anche un momento per manifestare la propria identità indiana, al di là del credo religioso.
Riusciamo a sistemarci per la notte in una grande area, pomposamente chiamata Camping Hotel: vi si trovano tende già installate e si possono piantare anche le proprie. Ci si divide in due gruppi: non essendoci posto per tutti, alcuni di noi trovano sistemazione in queste tende, altri montano lì vicino le proprie.
Con l'aiuto dei nostri autisti, cominciamo a chiedere informazioni: le notizie che ricaviamo sono molto contrastanti, c'è anche chi ci dice che la grotta è chiusa per la troppa gente, chi parla (forse esagerando) di centomila pellegrini in cammino verso il luogo santo.
Comunque sia, domani ci vogliamo provare: il percorso a piedi, tra andata e ritorno, si fa generalmente in due giorni. Noi proveremo a farlo in un solo giorno!
Andiamo a letto piuttosto presto perché domani la sveglia è puntata alle tre e mezza!
Cerchiamo di fare una colazione molto energetica ed alle quattro e mezza siamo nel bus  che ci porta all'attaccatura dello Zoji La, dove c'è la barra di controllo ed una caserma di militari. Alle cinque giungiamo al bivio, lasciamo l'autobus e comincia il nostro pellegrinaggio ad Amarnath.
Sotto di noi, tra prati verdi costellati da conifere, si estende la valle di Baltal.
 
La valle di Baltal, qui presenta un paesaggio quasi alpino.
 
Non c'è ancora molta gente in cammino: molti pellegrini sono già arrivati alla sacra grotta per trascorrervi la notte e l'intera giornata del plenilunio; inoltre il pellegrinaggio principale, che dura quattro giorni, parte da Pahalgam, magari utilizzando Baltal come strada per il ritorno, più breve come cammino a piedi.
Mancano dieci minuti alle sei quando arriviamo a Baltal ed ora il sentiero comincia a salire.
La montagna attorno alla vallata è ancora verde, quasi alpina, mentre sotto scorre il fiume.
Cominciamo ad affiancarci ad altri pellegrini: ce ne sono di tutte le età e di ogni condizione sociale.
Camminiamo a mezza costa nella vallata per un sentiero stretto e polveroso sopra un torrentello che la percorre sul fondo.
Dopo un paio di ore  incontriamo un posto di ristoro.
 
Un posto tappa lungo il cammino: qui c'è anche un piccolo pronto soccorso.
 
Ci sono persone che si riposano, altre che bevono dei tè bollenti mangiando qualcosa, altre ancora che fumano nei narghilè.
C'è anche un pronto soccorso, ma inoperoso, nonostante siano molti gli anziani, la cui fede le spinge ad affrontare questo faticoso cammino.
Ci dicono, ma non sappiamo verificarlo, che ci attendono ancora nove chilometri. Noi ci fermiamo giusto mezz'ora ed alle nove riprendiamo la camminata.
Ora abbiamo più compagni di viaggio: pellegrini di ogni età che affrontano questo pellegrinaggio nei modi più disparati: certo, i più sono a piedi, come noi, ma chi può permetterselo si serve di cavallini e muli che con grande destrezza posano gli zoccoli sulle pietre più instabili dello stretto sentiero che, spesso, si snoda lungo il precipizio.
Eppure non abbiamo mai visto che facessero rotolare a valle una qualsiasi pietra.
Ma ci sono anche anziani trasportati a braccia da familiari o da portatori a pagamento.
E persino chi compie il pellegrinaggio trasportato da portantine sorrette da due uomini!
 
In pellegrinaggio trasportato con la portantina!
 
Dopo una discesa fin giù sul ponte, ci attende la risalita.
Direi che ogni condizione sociale e genere umano sono rappresentati in questa variegata umanità: gente comune, intere famiglie, mendicanti, ricchi opulenti, donne avvolte in eleganti e variopinti sari, poveracci vestiti di stracci, gente scalza o con improbabili scarpe, ciarlatani che propongono rimedi miracolosi contro ogni malattia, sadhu con le vesti arancione o seminudi.
Al posto di ristoro avevamo visto chi, oltre a portantine e muli, noleggiava anche scarponi da montagna, ma non ci pareva che facesse grandi affari.
Dopo essere saliti per un tratto, adesso la strada corre in discesa: vediamo che arriva in basso su un pianoro, alla confluenza di due fiumiciattoli che scendono direttamente dal ghiacciaio. Lì in basso scorgiamo un altro punto di ristoro; sono le dieci quando ci fermiamo e, purtroppo, vediamo anche che subito dopo la strada riprende a salire: è questo continuo salire e scendere che ci taglia le gambe!
Anche qui, sedendoci, osserviamo tutta l'umanità che ci gira attorno. Non abbiamo il coraggio di chiedere quanto manca: attraversiamo un ponte in legno sul torrentello e, camminando, si va avanti!
 
I torrentelli che incontriamo hanno origine dai ghiacciai.
 
Sotto il ghiacciaio, che forma come dei ponti di ghiaccio, scorre l'acqua.
Incontriamo i resti di ghiacciai che si sono ritirati in questi mesi estivi: sotto il ghiaccio scorre l'acqua ed il pellegrinaggio continua a tratti su delle specie di ponti di ghiaccio. Pericoloso? Probabilmente sì, ma anche noi, come tutti gli altri pellegrini, ci rimettiamo alla misericordia di Shiva!
 
Il sentiero continua su ponti di ghiaccio, sotto i quali scorre l'acqua.
 
Il sentiero si addentra nella valle tra i ghiacci.
La temperatura dovrebbe essere vicina allo zero nelle zone d'ombra, ma non lo sentiamo perché il nostro corpo è caldo per lo sforzo fisico.
Ci ritroviamo in una stretta gola dove affluiscono dei rigagnoli d'acqua ghiacciata che scendono dal ghiacciaio; ne approfittiamo per rinfrescarci il viso e rinfrancarci dalla fatica.
In certi momenti abbiamo la sensazione che la nostra meta non debba arrivare mai; ma siamo incoraggiati quando vediamo altri pellegrini che sono di ritorno dalla sacra grotta.
La vallata comincia ad aprirsi e sulla parete della montagna sul fondo vediamo aprirsi la grande apertura della grotta; potrebbe sembrare vicina, ma l'illusione ottica della sua apparente vicinanza è dovuta alle sue dimensioni: l'imboccatura è alta una quarantina di metri e la larghezza è ancora maggiore.
In realtà avremo ancora almeno un'ora di cammino per raggiungerla.
 
Scorgiamo in lontananza l'apertura della grotta.
 
I pellegrini si accostano all'acqua che scende dal ghiacciaio per rinfrescarsi o per le loro abluzioni.
 
Residui di ghiacciai lambiscono la conca dove, per lo scioglimento estivo, abbondanti rivoli d'acqua alimentano un fiume che in certi punti si allarga parecchio formando quasi dei laghetti tra neve ghiacciata e sassi.
Da lontano vediamo il brulichio dei pellegrini; molti di questi, quasi nudi, sono impegnati in abluzioni rituali di purificazione in quell'acqua ghiacciata che sgorga dal ghiacciaio.
 
Lavacri di un pellegrino proprio sotto il ghiacciaio.
 
A mezzogiorno siamo alla base dell'ultima salita che porta all'interno della grotta: ormai è ressa, una ressa ordinata e paziente di pellegrini che lentamente, senza spingere, passettino dopo passettino,  salgono verso l'ingresso della grotta.
Ma che cos'è la grotta di Amarnath? Cosa c'è di tanto sacro in questa grotta che viene considerata uno dei luoghi più sacri dell'induismo?
  Il riferimento più antico si trova nel "Rajatarangiri", un poema epico del XII secolo che narra le imprese dei sovrani del Kashmir: la grotta viene chiamata Amareshwara, o Amarnath e sarebbe stato il luogo dove il leggendario Re Arya Raja (riferibile al III secolo a. Cr.) venerava un lingham di ghiaccio. La regina Suryamathi nell'XI secolo avrebbe decorato la grotta con tridenti (simbolo di Shiva) e banalinga.
Si ritiene che poi questa grotta sia stata dimenticata fino a quando, nel XV secolo, sarebbe stata ritrovata da un pastore che scoprì il lingham di ghiaccio.
Esistono diverse leggende sul rapporto di Lord Shiva con questo luogo, ma pur con tante varianti, si possono riassumere in questa (semplificata): un giorno la dea Parvati, volendo ottenere il dono dell'immortalità, aveva chiesto al suo consorte, Shiva, di conoscere il "segreto dei segreti", ovvero il segreto della vita e dell'eternità (l'Amar Katha).
 
Pellegrini verso la grotta.
 
Dopo le insistenze della moglie, alla fine Shiva cedette, ma non voleva essere udito da nessuno mentre faceva la rivelazione del segreto a Parvati.
Scelse quindi di mettersi in cammino tra le montagne del Kashmir, a quasi 4.000 metri di altezza con la moglie ed il loro figlio Ganesha.
A Pahalgam lasciò la sua cavalcatura, il toro Nandi, e la famigliola proseguì a piedi fino a Chandanwari, dove Shiva abbandonò la falce di luna che era sui suoi capelli.
A Pissu Top, Parvati si perse nella foresta; allora Shiva ordinò agli alberi della giungla di ritrovare la propria consorte, ma questi non riuscirono a trovarla.
Un "sadhu" shivaita in cammino verso la grotta.
Così Shiva con il terzo occhio bruciò tutti gli alberi ritrovando la propria sposa: si dice che questo sia il motivo per cui ancora oggi Pissu Top sia rimasto desertico, dopo che tutta la vegetazione era stata arsa dal dio.
Sulle sponde del lago liberò i propri serpenti, poi decise di lasciare anche il loro figlio Ganesha a Mahaguns Parvat, mentre a Panjtarni abbandonò i Cinque Elementi che costituiscono la vita.
Queste sono oggi alcune delle località attraversate dal pellegrinaggio "lungo", quello che i fedeli compiono in genere in quattro giorni partendo da Pahalgam.
Con il fuoco Shiva spaccò la montagna creando la grotta nella quale entrò assieme a Parvati, e per essere sicuro che la sua rivelazione non potesse essere udita da alcun essere vivente propagò un fuoco distruttore.
Finalmente, spogliato di ogni cosa che era vivente, Shiva distese sul pavimento della grotta una pelle di cervo per il samādhi e cominciò a raccontare la grande Amar Katha.
Parvati, nonostante il suo desiderio di conoscere il segreto dei segreti, sopraffatta dalla stanchezza, si addormentò.
Shiva nel samādhi non se ne accorse e continuò a raccontare il segreto dell'immortalità.
Il caso volle che sotto la pelle di cervo su cui era seduto Shiva ci fosse un nido con due uova. Il fuoco provocato dal dio aveva sì annientato ogni essere vivente, ma le due uova non erano ancora esseri viventi.
Quando Shiva cominciò a recitare il mantra e Parvati si era addormentata, le uova si dischiusero, nacquero due piccioni i quali poterono ascoltare il segreto dell'immortalità diventando essi stessi immortali!
Ancora oggi molti pellegrini giurano di vedere nella grotta una coppia di piccioni.
 
Avvicinandoci verso l'ingresso della grotta di Amarnath.
  
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Pagina aggiornata il 23 ottobre 2017. Io ho fatto molti importanti viaggi con Avventure nel Mondo