Le alte valli

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Amarnath yatra (segue),
Thajiwas glacier, Srinagar, Giardini Moghul, partenza
 
Uno degli affreschi ancora leggibili nel tempio.
Entrando nel Seng-ge-Sgang, la parte più antica del monastero di Lamayuru, la scultura principale, ben conservata e policroma risalente all'XI secolo, è quella di Vairocana, una delle tante emanazioni dei Buddha risalente ai tempi più antichi.
E' raffigurato seduto su un lato sorretto da due leoni (ricordiamo che Seng-ge in tibetano significa leone): la figura è sovrastata da un Garuda, il mitico uccello della mitologia indiana, ed una coppia di makara (mostri marini).
Attorno ci sono quattro nicchie, due per parte, dove sedute su altri fiori di loto ci sono le quattro più importanti emanazioni di Buddha, rappresentate con i loro particolari colori: Aksobya, "l'imperturbabile" (azzurro), Amitabha, "la luce infinita" (rosso), Amoghasiddhi, "realizzazione insuperabile" (verde) e Ratnasambhava, "nato da un gioiello" (giallo). Vengono anche indicati come i quattro punti cardinali con Vairocana, ovviamente, al centro.
Sulla destra la parete affrescata è completamente rovinata: sono difficilmente decifrabili le immagini, figure in meditazione, forse ancora Vairocana e scene della vita di Buddha Shakyamuni.
Spesso l'intonaco con il colore si è staccato e dove resiste ancora appare dilavato da infiltrazioni d'acqua.
A sinistra è ancora leggibile un mandala di Vairocana, al centro, con le quattro sue emanazioni già viste sull'altare, ed un Avalokitesvara (il Buddha della Compassione) dalle undici teste e dalle mille braccia: undici è la somma dei quattro punti cardinali, delle quattro posizioni intermedie, il centro, lo zenith ed il nadir, per indicare che la compassione è universale; mille (anche se nell'affresco non non sono certo mille) sono le braccia che hanno altrettante mani con disegnato un occhio sul palmo, ad indicare che la compassione guarda (ha occhi) per tutti.
Sopra la testa sono dipinti il sole e la luna.
Interno del monastero di Lamayuru: una sala di preghiera.
  
Passiamo quindi all'edificio che contiene la grande sala delle riunioni (Du-khang).
Questa è stata completamente ridecorata con nuove pitture murali dai colori accesi e vistosi. Oltre a varie statue, che sembrano recenti, c'è una serie di piccoli tempietti o reliquiari.
Sul muro di destra si apre una piccola grotta chiamata Naropa's Cave: è quella che per la tradizione abitò il monaco Naropa. Al suo interno sono collocate tre statue: quella dello stesso Naropa, uno dei fondatori del buddhismo tantrico, quella di Marpa, il monaco suo discepolo che avrebbe portato il buddhismo in Tibet, e quella di Misla Raspa, discepolo di quest'ultimo.
 
Interno del monastero di Lamayuru con un monaco.
  
Venditrici di albicocche al marcato di Khalatse (Khalsi) lungo la strada Srinagar-Leh..
Al piano di sopra vi sono alcune stanze ad uso dei monaci, una adibita a biblioteca ed un piccolo tempietto. Dall'altro lato sia ha uno sguardo su un cortile interno con porticato.
Di fianco al Du-khang c'è un tempietto dedicato a Avalokitesvara: le pitture murali sono tutte recenti ed anche la grande statua della divinità dalle mille braccia e dalle undici teste non sembra essere antica: la posa è comunque molto elegante.
Uscito riprendo a girovagare per gli edifici del monastero in attesa dell'ora dell'appuntamento con l'autobus per riprendere il viaggio.
Ripartiamo alle nove e mezza e continua a scorrere sotto i nostri occhi un paesaggio lunare.
 
Una sequenza di decine di piccoli "chorten" punteggiano di bianco la valle, tra il fiume e le montagne brulle.
 
Fatti pochi chilometri giungiamo a Khalatse (o Khalsi) dove ad un bivio sbocca l'altra strada che costeggiando l'Indo porta a Kargil: è una strada prettamente militare il cui transito è vietato, in particolare agli stranieri. Da qui parte anche l'antica pista carovaniera che, dal lato opposto della vale, conduce a Leh, percorsa oggi da qualche appassionato di trekking.
Qui ci fermiamo per far scorrere avanti una colonna militare che ci precede: gli autisti ne erano a conoscenza, avendo parlato con camionisti che provenivano dalla direzione opposta alla nostra.
La strada per il monastero di Rizong corre parallela ad un torrentello.
Riprendiamo la strada e quando raggiungiamo la colonna militare ci accodiamo per pochi chilometri: infatti poco prima di mezzogiorno nei pressi di Uleytokpo incontriamo un bivio con una strada che percorriamo per un breve tratto. La strada infatti dopo diventa proibitiva per il nostro autobus e dobbiamo proseguire a piedi.
E' il sentiero che conduce al monastero di Rizong. Esso segue il corso di un fiumiciattolo, o torrentello, che scende dalla montagna.
  
Proseguendo lungo la strada per il monastero di Rizong.
    
Senza affanno compiamo questa facile passeggiata sul sentiero ghiaioso ben segnato. A tratti la piccola valle si restringe e camminiamo proprio accanto all'acqua. Questo ci è di sollievo perché, nonostante si sia, presumo, sopra i 3.200 metri (e forse anche di più) il sole si fa sentire ed abbiamo bisogno di idratazione.
Per prudenza l'acqua del ruscello va filtrata prima di essere bevuta: io per bere mi servo di una cannuccia che incorpora una serie di filtri che la purificano e sterilizzano efficacemente.
 
Per bere l'acqua del ruscello è prudente potabilizzarla prima: io mi servo di un'apposita cannuccia contenente dei filtri.
 
 
Il monastero di Rizong chiude la gola della vallata.
Durante la salita incontriamo un paio di monaci che scendono: il saluto è namastè: è composto da due parole sanscrite, namos (inchinarsi, salutare) e te (a te), significa letteralmente "io mi inchino davanti a te". Non è un semplice saluto di cortesia, ma ha anche, e forse soprattutto, una valenza spirituale: infatti in genere è accompagnato dal chinare il capo e congiungere le mani. Allora il significato più completo diviene "mi inchino al Dio che c'è in te".
Il paesaggio cambia: dapprima qualche albero formava delle macchie ombrose di verde che attraversavamo, poi la vegetazione è terminata: resta solo un suolo brullo, sassoso con qualche ghiaione sulle pendici dei monti. Qua e là scorgiamo le sagome bianche di qualche chorten.
Fatta una curva, vediamo all'improvviso in lontananza il riverbero bianco del monastero di Rizong che chiude la gola che stiamo percorrendo.
Abbiamo ancora una mezz'ora di cammino: attraversiamo una specie di porta, in realtà un varco aperto, a fianco della quale, su un pennone, sventola una bandiera buddhista.
Siamo davanti all'edificio del monastero quando ci guardiamo attorno per capire da dove si entra. In quel momento di incertezza escono sorridenti tre monaci: portano ciascuno altrettanti bassi piatti di alluminio di una trentina di centimetri di diametro con i bordi alti tre dita.
Sono fumanti: si tratta del bò cha, il tè tibetano. Ma decisamente non assomiglia per nulla ad un caldo e profumato tè inglese! Sulla superficie galleggiano, sciogliendosi, dei pezzi di burro salato di yak.
E' il segno di benvenuto in nostro onore che ci offrono. Evidentemente ci hanno visto da lontano mentre salivano per il sentiero.
Non possiamo rifiutare l'offerta, anche se il sapore di quella brodaglia bollente, mescolato al gusto acidulo del burro salato, è tutto un qualcosa di abbastanza disgustante.
Qualcuno di noi riesce ad evitare di berlo
Quindi i monaci ci fanno segno di seguirli all'interno della loro casa.
 
Parte della facciata del monastero di Rizong vista dall'alto.
Il monastero di Rizong appartiene alla setta dei berretti gialli. Venne fondato nel 1831 dal lama Tsultim Nima ed è abitato da una quarantina di monaci.
Il monastero è anche chiamato "il Paradiso della meditazione" ed è noto per le sue regole estremamente rigorose.
Dietro al monastero, ma noi non andremo a vederlo, ad un paio di chilometri c'è anche un monastero femminile di chomos (suore): ci dicono che sono una ventina e si chiama Chulichan, o Jelichun.
Per noi occidentali la condizione di queste donne sembra essere quella della schiavitù: devono lavorare tutto il giorno per sostenere economicamente il monastero maschile dal quale, pur essendo sostanzialmente separate anche fisicamente, dipendono per tutto.
Le donne-monache devono dedicarsi all'agricoltura, coltivando gli orti ed i frutteti, soprattutto di albicocche e mele, si occupano della mungitura del bestiame (mucche ma anche yack), della filatura e dell'estrazione dei liquidi combustibili dalle noci delle albicocche, che servono per l'alimentazione delle lampade a petrolio; infatti quassù non c'è energia
elettrica.
In questo modo le chomos riempiono il monastero maschile di granaglie, miele, frutta, latte, burro, vestiti per i monaci e di quant'altro hanno bisogno.
Tutto quello che ricevono è solo una razione prefissata di cibo al giorno.
La tradizione racconta che molto tempo prima della costruzione dell'attuale monastero maschile, il guru Padmasambhava, noto come Rinpoche (VIII secolo d. Cr.), abbia abitato nelle grotte che esistono nei dintorni.
Il Du-khang, o sala dell'assemblea.
  
 
Un libretto con la storia del monastero che ci è stato venduto dai monaci di Rizong: per fortuna erano intercalate le pagine con la traduzione in inglese!
 
Si pensa che queste piccole grotte siano state utilizzate dai lama che vi vivevano in isolamento per anni ricevendo un pasto al giorno dalla gente del luogo che introduceva il cibo attraverso una piccola apertura scavata nella roccia.
Nel XVIII secolo il lama Tsultim Nima, che pare fosse stato un commerciante di Saspol che aveva lasciato gli affari terreni per entrare nella vita religiosa, viveva e meditava in una di queste grotte. Egli pensò di istituire un eremo per i monaci desiderosi di apprendere e approfondire gli insegnamenti di Buddha.
Con l'aiuto di altri monaci costruì delle semplici capanne di legno e terra ed impose delle dettagliate severe regole di comportamento.
Nel corso degli anni questo eremo divenne un luogo di pellegrinaggio e di culto per tutti i buddhisti del Ladakh.
Il numero dei monaci era incredibilmente aumentato, ma data la posizione mancava lo spazio per ampliare l'eremo.
Fu così che il lama Tsultim Nima cercò il luogo adatto, lontano dai villaggi, per costruire un grande monastero. La scelta cadde su questo posto, anche perché c'era disponibilità di acqua (il fiumicello che abbiamo risalito durante la camminata per giungere fin qui) e di legna, utile per la costruzione, ma anche per far fuoco.
Grazie all'apporto del lavoro volontario degli abitanti dei villaggi vicini, la costruzione ebbe inizio nel 1829 e venne completata due anni dopo.
Da allora i monaci hanno mantenuto le rigorose regole di disciplina che aveva dettato Tsultim Nima.
Uno dei monaci che ci aveva accolto con il bò cha caldo ci apre le porte e ci fa entrare nel Du-khang, la sala dell'assemblea, con le postazioni dei monaci: è piena all'inverosimile di suppellettili, oggetti di culto, stoffe, statue, thangka, pitture murali, tanto da farla assomigliare ad un disordinato negozio d'arte orientale.
Sulle panchette, dietro le quali prendono posto i monaci, sono posate campanelle rituali (ghanta), le trombe (radong), i tamburi a doppia faccia, per le loro celebrazioni, mentre stoffe e thankga pendono dal soffitto.
Tra le statue primeggia quella di Buddha Shakyamuni, affiancata da altre divinità.
Sul trono dell'assemblea è messa in bella evidenza una fotografia del Dalai Lama che vive in esilio a Dharmsala dal 1959.
 
Trombe rituali nel monastero di Rizong.
 
La biblioteca del monastero di Rizong.
 
Il monaco ci accompagna poi in un santuario (Sku-Gdung) con un chorten che raccoglie le reliquie del fondatore del monastero; anche questo ambiente è ricoperto da dipinti murali.
Poi ci lascia liberi di circolare liberamente per le sale e gli spazi collettivi del complesso (non entriamo, ovviamente, nelle celle private dei monaci).
Giungiamo in un'altra sala, anche questa ricca di statue di divinità.
Il monaco ce ne indica una dicendoci che si tratta del protettore del loro monastero. C'è anche uno stupa. In un altro ambiente alle pareti sono dipinte scene della vita di Buddha.
Una stanza deve sicuramente essere la biblioteca del monastero: una parete è coperta da armadi a scaffali entro i quali sono conservati volumi evidentemente di carattere sacro e religioso.
Per delle scale possiamo salire ai piani superiori: proprio sopra il Du-khang, sul tetto, vi è il tempio del mandala: nelle quattro direzioni del mandala ci sono altrettante statue.
Continuando a girare, vediamo in una sala alcuni piccoli chorten, dorati oppure argentati.
Ci affacciamo ad una terrazza e vediamo il panorama montagnoso attorno, con in lontananza un tratto del sentiero che abbiamo percorso per giungere fin qui.
Da questa terrazza  vediamo ogni tanto dei monaci che si affacciano dal tetto più alto per guardarci con curiosità: quando cerchiamo di fotografarli si ritraggono o nascondono il viso all'obbiettivo.
  
Un monaco sul tetto del monastero di Rizong, incuriosito ci osserva.
 
Non possiamo trattenerci di più, perché dobbiamo mettere in conto la camminata per ridiscendere il sentiero fino all'autobus che ci attende.
Lasciamo qualche rupia su un vassoio sotto un'altra foto del Dalai Lama, salutiamo il monaco che, con discrezione, ci ha fatto da angelo custode durante la visita e ridiscendiamo a valle.
Sono le quattro e mezza del pomeriggio quando ripartiamo con il bus e subito attraversiamo il villaggio di Uleytokpo, dove poche ore prima avevamo abbandonato la colonna militare che ci precedeva. Speriamo che nel frattempo sia giunta a destinazione!
Riprendiamo così la strada per Leh, nella valle dell'Indo: dopo pochi chilometri superiamo, lasciandolo a destra, il ponte che attraversando il fiume porta verso il monastero di Alchi: ma faremo la deviazione al ritorno.
Il paesaggio continua ad essere fantastico: stiamo attraversando il territorio che era quello dell'antico regno di Basgo e che, dopo la sconfitta del sovrano di Leh per opera di Bhagan, diventò il regno del Ladakh.
 
Panorama su Basgo, una piccola oasi di verde.
 
Piccoli "chorten" nella valle dell'Indo nella regione di Basgo.
 
L'ex-Re di Basgo, Bhagan, divenne il re del Ladakh aggiungendo al proprio nome quello di Namgyal, che significa "il Trionfante", dando origine alla dinastia Namgyal che riuscì in qualche modo a frenare gli attacchi dei predoni provenienti dall'Asia centrale, estendendo il proprio potere fino al Nepal.
Nella prima metà del XVII secolo, per convertire la regione all'Islam, vennero distrutti tantissimi monumenti e simulacri buddhisti, e fu costruita una moschea a Leh.
Nel 1680 la dinastia stabilì la residenza reale in cima al Namgyal Peak dove furono costruiti una fortezza ed un monastero. Di fronte all'imperatore moghul Aurangzeb, il Ladakh perse sempre più la propria indipendenza.
Oggi la fortezza di Basgo è in rovina, ridotta ad un cumulo di macerie.
La strada supera quest'oasi di verde dell'antica regione di Basgo, così carica di storia, in mezzo a pietrischi, rocce e tanta aridità.
Vediamo numerosi chorten attorno, ma il viaggio deve proseguire.
Il palazzo reale di Leh, chiamato anche il "piccolo Potala", seppure non si può far paragone con il Potala di Lhasa.
   
 
L'arrivo a Leh: 0 chilometri per Leh e 434 chilometri dal nostro punto di partenza, Srinagar!.
 
La valle dell'Indo si allarga. Prima di entrare in città, a destra e a sinistra, la strada è costeggiata da delle baracche militari. Poi si vede la città, con gli edifici uno sopra l'altro in un caos urbanistico totale.
Sopra di tutto incombe la cupa presenza di quello che viene chiamato il "piccolo Potala", cioè il palazzo reale (a similitudine del vero Potala che si trova a Lhasa).
Dopo questo viaggio così spettacolare, a prima vista Leh ci appare deludente.
Sono le sette e mezza di sera quando vi arriviamo e ci mettiamo alla ricerca di una sistemazione per la notte: la troviamo all'Himalaja Hotel.
Una rapida cena, confrontandoci sulle sensazioni e le bellezze vissute e viste oggi e crolliamo distrutti dalla stanchezza a letto!
Leh, con i suoi poco più di settemila abitanti, si trova a 3.524 metri d'altezza su un altopiano sul lato destro della vallata dell'Indo, ai piedi di una collina rocciosa caratterizzata dalla presenza del vecchio palazzo reale.
Verso destra, oltre il palazzo, c'è il Namgyal Tsemo, la vetta della Vittoria, con un vecchio forte ed altre costruzioni, tra cui alcuni templi.
Troppo vicina alla città di Shey, dalla quale dista solo una quindicina di chilometri, Leh non appare nella storia prima della fine del XIV secolo. Un re di Shey vi fece costruire una serie di chorten mentre un altro sovrano, Gragsbumde, il cosiddetto tempio rosso consacrato a Maytreya; siamo all'inizio del XV secolo.
Dopo la riunificazione dei due regni ladaki a opera della dinastia di Basgo, che poi divenne quella che prese il nome Namgyal, il Re Tashi Namgyal (1500-1532) fece costruire una fortezza in cima al picco della Vittoria. Il palazzo reale, costruito da Sengge Namgyal (1570-1642) testimonia l'importanza assunta da Leh sotto il regno di questo sovrano.
Questa città era uno dei più grandi centri per le carovane dell'Asia centrale, dove trovavano spazio mercati per proficui scambi commerciali tra l'India, il Tibet e la Cina.
L'ingresso al palazzo reale di Leh.
Le invasioni dei Dardi e soprattutto del Raja dello Jammu nel 1834 portarono alla fine dell'indipendenza del Ladakh, ma non alla fine dei commerci che davano tanta ricchezza a Leh.
A dare i colpi fatali a questa economia fu nel 1950 l'annessione del Tibet alla Cina, la chiusura della frontiera tra India e Cina e la rivolta di Lhasa del 1959 che troncarono del tutto questo cordone ombelicale che, anche sotto il profilo religioso, univa i territori del Ladakh con il Tibet da più di mille anni.
La minaccia cinese che tuttora pesa su questa frontiera ha portato la presenza di un forte contingente dell'esercito indiano in Ladakh in un rapporto di circa un militare ogni due abitanti.
Dopo la colazione, usciamo dal nostro albergo e ci incamminiamo per la larga strada principale cercando di resistere alla tentazione di visitare i negozi ed i bazaar che ci sono ai lati e nelle vie adiacenti.
Alla fine della strada, dove c'è una moschea, entriamo nel labirinto di viuzze che penetrano nella città vecchia.
La strada sale un po': ad un bivio prendiamo la sinistra (a destra si sale al Namgyal Tsemo), poi passiamo davanti al tempio Maitreya che ci appare in stato di abbandono: secondo la tradizione, ma non pare ci siano riscontri storici, sarebbe il tempio rosso innalzato all'inizio del XV secolo da Gragsbumde.
Allo stesso livello del palazzo reale c'è il tempio Avalokiteshvara che conserva all'interno una statua di Buddha Bodhisattva dalle dieci braccia, oltre ai dipinti murali dedicati allo stesso Buddha, ad altre divinità ed ai maestri fondatori della setta dei "Berretti rossi".
Arriviamo così all'ingresso del palazzo reale costruito per sostituire, in modo più importante e solenne, la residenza reale che prima si trovava nella fortezza ormai in rovina sulla cima del Namgyal Tsemo.
Si presume sia stato costruito dopo il 1631 (anno in cui il gesuita portoghese Francisco de Azevedo fu a Leh, ma non parlò di questo palazzo) e prima del 1642 (anno della morte di Sengge Namgyal).
Divinità dipinte sulle rocce di Namgyal Tsemu.
 
Il palazzo è chiamato anche il "piccolo Potala", per una certa somiglianza con il palazzo Potala di Lhasa, che fu residenza dei Dalai Lama fino al 1959. Tuttavia, se somiglianza si vuole trovare, dovettero essere i costruttori del Potala ad ispirarsi al palazzo reale di Leh, essendo il Potala posteriore (la costruzione di quest'ultimo iniziò nel 1645 e, con le ultime aggiunte, si completò nel 1694).
 
Il palazzo reale visto appena oltrepassato il portale d'ingresso con il cortile che ospita il Soma Gompa, costruito nel 1840 dal lama Tashi Tenpel. In precedenza il cortile era occupato dalle stalle reali.
 
La costruzione è di nove piani: quelli superiori ospitavano la famiglia reale mentre sotto c'erano le stalle ed i magazzini. Il palazzo venne abbandonato verso la metà dell'Ottocento, quando il Ladakh perse l'indipendenza.
Oggi lo vediamo come un enorme guscio vuoto, con le finestre aperte prive di infissi; dovrebbe tuttora essere di proprietà della Rani di Stock, erede della vecchia dinastia reale dei Namgyal.
Ridiscendiamo fino al bivio da cui si prende la salita verso il Namgyal Tsemu.
Il sentiero segue le pendici della collina.
Durante la passeggiata vediamo, in alto, tra altre piccole costruzioni, anche il tempio dedicato alle divinità tutelari, in genere, come Mahakala, raffigurate con un aspetto terrifico.
Secondo le cronache (o le leggende?) il Re Tashi Namgyal avrebbe consacrato questo tempio dopo aver riportato una vittoria sulle armate moghul. Avrebbe fatto trasportare i corpi dei nemici uccisi ai piedi della raffigurazione di Mahakala per rappresentare così il proprio potere in modo concreto, meno simbolico rispetto ai corpi che sono generalmente dipinti ai piedi delle divinità tutelari.
Donna con il "kantop" in testa.
 
Sulla cima, un po' più in basso, ci sono i resti in rovina della fortezza: l'aria è cristallina ed il sole batte forte.
Bandiere di preghiera, legate a funi che scendono dall'alto, si agitano sferzate dal vento.
 
Bandiere di preghiera sventolano in cima al Namgyal Tsemu.
 
E' il momento di ridiscendere, con attenzione, per la stessa via che ci ha portato fin qui.
Tempo libero a disposizione per tutti, fino al momento dell'appuntamento con il nostro autobus.
Ritorniamo verso la via principale di Leh e giriamo attorno alla moschea che avevamo incontrato prima.
Per queste stradine si aprono mercatini, bazaar, il luogo migliore per vedere ed incontrare gente.
Al mercato degli ortaggi e della frutta sono molte le donne con i loro caratteristici vestiti, ed in particolare con i cappelli cilindrici, il kantop, detto anche tibi, con i risvolti che all'occorrenza, quando fa freddo, vengono abbassati per coprire nuca ed orecchie. Vendono per lo più patate, tuberi, carote, cipolle, insalata a larghe foglie verdi, fagiolini, albicocche ed altro che non sappiamo identificare.
 
Al mercato donne che portano il "kantop", o "tibi".
 
Pranzo veloce a Leh a base di "noodles".
Nel bazaar si aprono anche dei negozi di antiquariato, ma forse dovremmo chiamarli botteghe da rigattiere e cose vecchie, dove entriamo.
E' giunto il momento di cercare tra i numerosi ristorantini qualcosa da mangiare. Ci separiamo perché entrare tutti assieme nello stesso luogo getterebbe nel panico il gestore poco abituato ad avere troppi clienti contemporaneamente.
Con Lorena ci infiliamo in un locale per accedere al quale si devono salire delle scale: si trova infatti al primo piano e le finestre guardano direttamente verso la strada principale.
Il cibo ci sembra cinese, o per lo meno si deve mangiare con i kuàizi, ovvero le bacchette cinesi. Lasciamo perdere il riso, poco pratico per noi da mangiare in quel modo, e scegliamo in piatto di noodles con carne e verdure.
C'è ancora un'ora di tempo all'appuntamento con l'autobus: possiamo ancora girare per il bazaar alla ricerca di qualche oggettino da acquistare. Ci sono statuette buddhiste di ogni dimensione, in bronzo o in ottone, thangka (moderni, non belli e quelli più belli a cifre decisamente assurdamente elevate se rapportate al costo della vita locale), tappeti, tessuti in cachemire (con una lavorazione molto dozzinale), oggetti in legno, pellicce di animali sciolte, chokor (mulinelli di preghiera), eccetera.
 
E' notte e l'autobus è ancora prigioniero del ghiaino della strada.
Un po' si curiosa, un po' s'acquista...
Alle 16, caricati i bagagli, si parte in direzione sud-est restando a seguire il corso dell'Indo.
Dopo meno di un'ora e mezza arriviamo ad un posto di blocco militare dove ci dobbiamo fermare. Gli stranieri non possono andare oltre, se non per attraversare il ponte a destra del fiume Indo.
C'è un minuzioso controllo individuale dei nostri passaporti e dei documenti degli autisti e dell'autobus.
Dopo un quarto d'ora siamo autorizzati a proseguire: in realtà, ad un centinaio di metri, c'è una sorta di barriera invalicabile presidiata dai militari che costringe l'autista a far deviare l'autobus sulla destra dove, poco dopo, attraversiamo il ponte sul fiume Indo.
La strada si fa accidentata, anche a causa di lavori in corso; l'autobus arranca ma, alla fine, rimane imprigionato in una zona di terriccio e ghiaino grosso: sono quasi le sei di sera.
 
L'inizio dell'insabbiamento del nostro autobus, quando siamo ormai vicini ad Hemis.
 
Gli autisti provano di tutto per smuovere il bus, con noi che siamo scesi per alleggerirlo, ma l'unico risultato è quello di farlo affondare ancora di più.
Vengono in nostro aiuto anche i militari, ma non c'è niente da fare.
Assistiamo così ad un confabulare tra autisti, militari e qualche curioso del quale, ovviamente, non capiamo una parola.
Passa molto tempo e comincia anche a fare buio, quando arriva -evidentemente chiamato da qualcuno, forse i nostri autisti- un enorme carro gru: traina il bus fuori dalla trappola.
Si riprende il viaggio dopo più di due ore, alle otto della sera, quando omai è notte.
In mezz'ora arriviamo ad Hemis dove, sotto la luce dei fari dell'autobus, montiamo le tende. Ci prepariamo qualcosa di caldo da mangiare e da bere, perché la notte si preannuncia fredda: siamo pur sempre sui 3.500 metri di altezza, più o meno.
  
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Pagina aggiornata il 23 ottobre 2017. Io ho fatto molti importanti viaggi con Avventure nel Mondo