Tutti
assieme appassionatamente nell'autobus attraversando la valle dello
Swat.
Alle 17.20 riprendiamo la strada e
subito c'è una deviazione a destra: lasciamo la valle dell'Indo per
dirigerci verso quella dello Swat.
Le pendici delle montagne sono
attraversate dalle terrazze agricole mentre sull'acqua del fiume intravediamo
dei molini che, per meglio sfruttare la forza della corrente, hanno le pale
della ruota disposte orizzontalmente.
Poi il buio ci consente di vedere solo quello che illuminano i fari del
nostro autobus.
La strada è in salita con un succedersi continuo di strette curve.
Sentiamo un odore che si è diffuso nell'aria... uno strano odore che
pervade il nostro autobus. E' il nostro autista che sta fumando, ma...
l'odore non è quello di tabacco!
Lo provochiamo, mettendola un po' sul ridere, e lui tranquillamente, con
aria imperturbabile e rilassata, ci dice che un po' di "fumo" gli
rende la guida meno faticosa e gli fa sentire meno la stanchezza.
Speriamo che abbia ragione, perché la strada continua in salita, al buio
tra mille curve.
Un villaggio che attraversiamo, ma noi ne vediamo solo le luci, dovrebbe
essere Alpuri. Da quello che ci mostrano i fari dell'autobus ci sembra di
essere dentro un bosco di tipo alpino.
Alle 19 l'autobus cessa di salire: l'autista ci annuncia che abbiamo
superato il Shangla Pass (2.042 metri) ed immediatamente inizia una ripida
discesa.
Peccato, a causa del buio, non poter vedere il panorama: di giorno si
dovrebbe ammirare la piana della valle dello Swat.
Al termine della discesa, che ci porta ad un dislivello inferiore di circa
mille metri, troviamo a Khwazakhela la strada che percorre lo Swat: a destra
si risale verso nord (verso l'Upper Swat) mentre noi giriamo a sinistra,
verso sud ed il Lower Swat; in pratica siamo a circa metà strada tra Madyan
e Mingora.
Arriviamo a Mingora alle nove di sera,
che significa notte fonda: per questo non ci mettiamo alla ricerca di un
posto dove dormire, ma ci affidiamo alle conoscenze del nostro autista. Dopo
una cena rapida quanto frugale, crolliamo a letto.
Mingora fu un centro importante della valle dello Swat, dove ferveva una
vivace vita religiosa e dove il buddhismo assunse delle forme gnostiche e
magiche nelle quali affioravano antichissimi riti.
Qui si svolse una delle campagne di studio del professor Giuseppe Tucci
(1894-1984) che portò alla luce elementi che evidenziavano l'incontro tra
Oriente ed Occidente che non fu limitato all'arrivo di Alessandro Magno, ma
che prosperò con l'arte di Gandhara.
Ma non possiamo fermarci a visitare l'area archeologica ed il museo. Altre
sono le visite che abbiamo in programma e così alle 7 del mattino siamo
nuovamente in autobus e dopo tre ore e mezza di viaggio arriviamo al bivio
che porta alle rovine buddhiste di Takht-i-Bahi, uno dei più importanti
siti archeologici del Pakistan.
Dobbiamo lasciare il nostro mezzo e prendere un sentiero sulla destra che
sale verso una collina alta circa 150 metri.
La
collina di Takht-i-Bahi.
E' grazie alla sua posizione elevata che il complesso di Takht-i-Bahi è
sfuggito alle devastazioni degli eserciti che si sono susseguiti per queste
terre, riuscendo a mantenere pressoché intatto il suo carattere originario.
Qui esisteva un grande monastero buddhista che si suppone sia stato fondato
agli inizi del I secolo d. Cr. e per secoli ebbe continui ampliamenti: la
corte degli stupa e l'aula magna risalirebbero al III-IV secolo
mentre il complesso tantrico con le celle per la meditazione apparterebbe al
VI-VII secolo.
Non è molto chiara l'etimologia del nome Takht-i-Bahi: alcuni lo traducono
come il "trono delle origini", altri traducono letteralmente come
"trono della primavera" per l'eterna primavera che si godrebbe
sulla cima della collina.
Dall'alto possiamo osservare i resti di altre costruzioni che spuntano dal
suolo brullo e sassoso, ricoperto da una rada e bassa vegetazione che
ricopre le pendici della collina e di quelle circostanti.
Takht-i-Bahi:
la corte degli "stupa" votivi.
Nicchie
che si aprono oggi vuote sulla corte degli "stupa" votivi.
I
tre cartelli azzurri indicano le altrettante stratificazioni che sono
state trovate dagli archeologi a Sirkap.
Qui vennero ritrovate a cominciare
dall'Ottocento numerose sculture e rilievi, storie della vita di Buddha ed
altre di carattere devozionale, attualmente custodite nel museo di Peshawar.
Anche le nicchie e le cappelle che oggi si aprono vuote sulla corte degli stupa
dovevano originariamente contenere statue in gesso del Buddha, magari donate
da ricchi pellegrini.
Il nostro viaggio prosegue verso Mardan, dove compiamo una breve sosta per
mangiare, e quindi a Nowshera ci congiungiamo con la Grand Trunk Road
incontrando nuovamente il grande fiume, l'Indo.
La strada costeggia il fiume fino all'Attock bridge, dove ci fermiamo per
ammirare, sulla riva opposta, l'Attock Fort.
L'Attock
Fort, fatto costruire da Akbar il Grande.
Il forte venne venne costruito sotto il regno di Akbar il Grande tra il
1581 ed il 1583 in questa posizione strategica che consente il controllo di
quella che era una potente via di comunicazione tra l'Afghanistan e l'India
settentrionale attraverso il Khyber pass.
Si trova alla confluenza del fiume Kabul con l'Indo che da questo punto
comincia ad essere navigabile. La profondità del fiume varia tra i dieci ed
i venti, o anche più, metri nella stagione dello scioglimento delle nevi
sulle montagne a nord.
La fortezza si presenta veramente imponente, circondata da mura, con una
lunghezza di 730 metri ed una profondità di 360, ma nonostante la massiccia
costruzione sulla ripida sponda del fiume non avrebbe potuto offrire
resistenza ad un attacco portato dall'alto, in quanto risulta dominata dalle
alture circostanti.
La sosta dura giusto il tempo per scattare qualche foto e poi riprendiamo il
viaggio allontanandoci dall'Indo che ritroveremo fra circa otto giorni, in
Ladakh.
Alle 15 siamo a Wah e subito dopo prendiamo una deviazione sulla sinistra
per Taxila e ci dirigiamo nell'area archeologica che complessivamente si
estende per 65 chilometri quadrati.
I tre centri di interesse principali sono i resti di altrettanti
insediamenti che si sono succeduti nel tempo e che si trovano a qualche
chilometro l'uno dall'altro.
Le rovine furono scoperte nel 1852: questo centro fiorì per oltre un
millennio sopravvivendo a sette dinastie.
Sin dalle origini era un centro culturale che attirava studenti da
tutto il sub-continente indiano e anche da paesi più lontani. Era una
specie di università dove i sapienti, ciascuno esperto in una particolare
disciplina, si raccoglievano per insegnare il proprio sapere.
A fianco di loro esistevano numerosi monasteri che, in un certo senso,
integravano gli insegnamenti letterari, artistici, scientifici degli
studenti con quelli religiosi.
Antichi testi buddhisti parlano di un luogo dove gli studenti andavano per «completare»
gli studi. Quindi si trattava di giovani che avevano raggiunto una certa
maturità anche intellettuale.
In auge già nel VI secolo a. Cr., nel VII secolo d. Cr. stava vivendo il
suo periodo di fatale e definitiva decadenza, come scriveva il viaggiatore
cinese Hsuang Tsang (vissuto nel VII secolo d. Cr.) che la visitò: «...il
paese di Taksha-sila [Taxila - N.d.R.] ...Qui i capi si combattevano
una guerra aperta, poiché la famiglia reale si era estinta; il paese una
volta era sottomesso ai Kapias, ma adesso era sotto il dominio del Kashmir.
[...] Benché vi fosse un gran numero di monasteri, molti di essi erano
abbandonati ed i monaci, poco numerosi, erano tutti buddhisti, della Scuola
Mahayana».
Uno
dei più antichi "stupa" del sub-continente indiano si trova
a Sirkap.
Il primo sito (Bhir Mound) si trova
vicino al museo di Taxila, al di là di un piccolo fiumiciattolo, il Tamira
Nala. Non aveva un impianto urbanistico organizzato e risulta abitato fino
al 180 a. Cr.
Il secondo sito venne fondato dai Greci nel II secolo a. Cr., ed è
conosciuto come Sirkap, su un pianoro delimitato ad ovest dall'altra sponda
del Tamra Nala e ad est da un picco.
Tracce
degli edifici ai lati della "main road" di Sirkap.
Entrando dalla porta nord si percorre una strada rettilinea che
interseca ad angolo retto altre stradine; ai lati ci sono i resti delle mura
delle case, dei templi, degli stupa: è evidente che era stato
elaborato un piano urbanistico che invece mancava a Bhir Mound.
Sul lato orientale della strada principale (o main road, come viene
chiamata) c'è uno stupa circolare dotato di un muro di protezione: si
tratta di uno degli stupa più antichi di tutto il sub-continente
indiano. Si ipotizza che esso sia stato spostato nella posizione attuale
dopo un tremendo terremoto che devastò l'intera area nel I secolo d. Cr. Al
momento di ricostruire il nuovo centro, lo stupa venne restaurato
proteggendolo, appunto, con questo muro.
Un po' isolato si erge lo stupa chiamato dell'Aquila Bicipite (Stupa
of the double headed eagle)
I pilastri della base assomigliano a
delle colonne in stile greco-corinzio, nell'arco centrale è raffigurato un
tempio greco mentre in quelli esterni un tempio hindù.
Sopra i tempietti è scolpita un'aquila con due teste: si tratta di un
motivo di origine babilonese.
Lo
"stupa" dell'Aquila Bicipite a Sirkap.
Particolare
dei tempietti sormontati dall'aquila.
Decorazioni
sulla base di uno "stupa" a Jaulian.
A qualche decina di metri c'è la
struttura dello Jain Stupa risalente al I secolo d. Cr.: è rimasta solo la
base essendo sparita tutta la sovrastruttura.
Le quattro colonne che si trovano agli angoli con il leone ornamentale non
sono nella loro collocazione originaria: provengono dal cortile dello stupa
e sono state ricollocate qui.
Lo
"Jain stupa" a Sirkap.
A nord-ovest, ad un chilometro e mezzo, troviamo i resti della terza città,
Sirsukh, che risale al periodo del re kusano Kaniska (II secolo d. Cr.) e
che fiorirà per cinque o sei secoli.
La nostra visita in realtà non segue il succedersi cronologico dei tre siti
che sono relativamente discosti uno dall'altro. Questo per cercare di
ottimizzare l'itinerario.
Così teniamo il museo per ultimo, dove troviamo manufatti che danno l'idea
della raffinatezza che aveva raggiunto questa città: gioielli in oro e
argento con pietre incastonate, collane, cinture, braccialetti, persino
forcine per capelli, lavorazioni a filigrana. L'ispirazione è sicuramente
greco-romana.
Tra le monete scoperte a Taxila si va da quelle che risalgono al IV secolo
a. Cr. a quelle più numerose dei sovrani locali; più rare, ma con un
eccellente disegno, sono quelle di epoca ellenistica.
E' esposto anche molto vasellame, giare, piatti, coppe, vasi, anfore dei
vari periodi. In terracotta sono anche delle statuine, alcune di carattere
votivo, ma anche quelle ludiche, per far giocare i bimbi, delle specie di
bamboline!
E ancora: sigilli, timbri, oggetti di madreperla, vetro, pettini ed altri
oggetti da toletta, ....ma tutto non si può ricordare.
Terminiamo la visita e resta ancora il tempo, e la luce, per raggiungere tra
le colline, a sei chilometri dal museo, un'altra località che conserva
quello che resta di un complesso monastico buddhista: Jaulian.
Jaulian è strutturato su due cortili principali circondati da piccoli stupa
e da celle.
Sugli stupa, che alcuni ipotizzano fossero le tombe dei monaci più
venerati, sono presenti ancora dei frammenti di decorazioni a rilievo in
gesso.
Da Jaulian provengono molte statue di Buddha ed alcuni reliquiari esposti in
vari musei pakistani.
All'alba
alla stazione di Rawalpindi sui binari in attesa del treno per Lahore.
Tra quelle restate nel sito, per lo
più
danneggiate dalla furia iconoclasta musulmana, è famoso il Buddha
dell'ombelico: l'ombelico è diventato un foro nella pietra dove i
pellegrini infilerebbero le dita pregando per la guarigione di un proprio
caro; infatti è anche chiamato Buddha della guarigione.
Si conservano anche alcune iscrizioni che dimostrerebbero che il luogo
continuò ad essere utilizzato almeno fino al V secolo d. Cr. Una di queste,
posta sul piedistallo di un Buddha del cortile superiore, racconta che la
statua fu donata da un monaco di nome Budhamitra Dharmanandiu.
La piscina per le immersioni rituali era circondata da edifici di due piani:
del secondo piano è rimasta solo qualche traccia oltre alla scala che
saliva al livello superiore.
Jaulian:
quello che resta della piscina della abluzioni rituali.
Non c'è il tempo per visitare qualche altro luogo attorno a Taxila: qui,
nei dintorni, sorgevano numerosi stupa, monasteri e luoghi di culto
dei quali restano importanti tracce. Basti ricordare lo stupa
Dharmarajika, dove nel 1917 vennero rinvenute delle reliquie di Buddha che
furono donate ai fedeli di Sri Lanka dal Viceré delle Indie che da allora
si conservano nel Tempio
del Dente Kandy, lo stupa dedicato a Kunala, i monasteri di
Mokra Moradu, di Pippala, di Bhamala e Giri.
Tutti segni di quella vitalità e fervore religioso che trovavano linfa dal
grande complesso di quella "università" che era Taxila.
Ma il sole, quasi al tramonto, ci fa capire che è giunto il momento di
rimetterci in viaggio.
Ritorniamo sulla Grand Trunk Road in direzione di Rawalpindi.
Avvicinandoci alla città il traffico aumenta: aumenta soprattutto la
presenza dei grossi camion in entrata ed in uscita dalla città.
Qualche chilometro prima della periferia la strada attraversa dei campi
trasformati in una baraccopoli di tende e case di fortuna, in legno e
lamiera: è un altro campo di profughi afghani.
In città ci dirigiamo all'albergo che già ci aveva ospitato e che avevamo
prenotato per questa notte.
Salutiamo il nostro autista che è stato con noi otto giorni in questo
fantastico giro.
Poi un ultimo giro per le strade chiassose dell'isolato illuminate dalle
luci dei tanti baracchini che vendono di tutto sui marciapiedi e quindi,
stanchi, a letto presto: ci attende una sveglia antelucana.
Il giorno dopo, alle 5 del mattino, siamo di nuovo in piedi.
Di colazione in albergo, a quell'ora, neppure a parlare; ma per fortuna ci
salvano alcuni baracchini sulla strada che probabilmente erano restati
aperti per tutta la notte: almeno si può bere qualche bicchiere di tè
bollente con qualche biscotto secco.
Ieri sera avevamo prenotato dei taxi che arrivano puntuali: carichiamo i
bagagli ed in una città che si sta rianimando con il suo solito traffico
caotico arriviamo alla stazione ferroviaria. Anche qui è un brulicare di
umanità, una specie di formicaio umano.
Dopo un po' di tempo perso in coda, acquistiamo alla biglietteria i
biglietti del treno per Lahore.
Ci portiamo sul binario. Sono ancora accese le luci della notte mentre il
cielo accenna appena a rischiarare.