In mezz'ora arriviamo ad Hemis dove,
sotto la luce dei fari dell'autobus, montiamo le tende. Ci prepariamo anche
qualcosa di caldo da mangiare e da bere, perché la notte in tenda si
preannuncia fredda: siamo pur sempre sui 3.500 metri d'altezza, più o meno.
Vicino a noi c'è un altro gruppo campeggiato: è dell'organizzazione
Nouvelles Frontières. Loro hanno personale del luogo che ha fatto trovare
le tende già pronte e che prepara per loro anche da cucinare: uno stile un
po' decadente, coloniale, per viaggiare.
Alla fine siamo tutti nei sacchi a pelo e nelle tende. C'è qualcuna,
particolarmente freddolosa, che in aggiunta si è avvolta anche in una
coperta isotermica: sembra un uovo di Pasqua incartato!
Al mattino usciamo dalle tende e dal calduccio dei nostri sacchi a pelo: la
temperatura è piuttosto rigida e sta diluviando a tratti. Questo non
impedisce ai più volenterosi di accendere i fornellini al riparo delle
tende per preparare un caffè con la moka!
Esternamente le tende sono tutte fradice e c'è anche chi ha avuto delle
infiltrazioni d'acqua all'interno.
Per fortuna il tempo è in miglioramento e possiamo stendere le tende in
qualche modo perché si asciughino un po'
Il gruppo di Nouvelles Frontières non ha i nostri problemi: le loro tende
sono montate e smontate dal loro personale che ha installato anche un gazebo
per la colazione del mattino.
Noi ci avviamo verso il monastero, che si dice fondato da Taktshang Raspa
nel XVII secolo, durante il regno di Segge Namgyal che vi ha insediato
l'ordine Brug-pa della setta dei berretti rossi.
In realtà pare si tratti di una riedificazione: infatti dei manoscritti
ritrovati nella biblioteca del monastero e tradotti agli inizi del XX secolo
proverebbero la presenza in questo luogo del monaco Naropa (1016-1100); tra
l'altro Naropa ebbe fra i suoi discepoli Marpa Lotsawa (1012-1097),
fondatore della scuola Kagyu, della quale Hemis fu la sede principale.
Superiamo una serie di chorten e di muretti fatti di pietre
devozionali di preghiera (mani) ed entriamo in un ampio cortile.
Il
corpo principale del monastero di Hemis visto dal cortile.
L'edificio di destra è preceduto da un lungo porticato all'interno del
quale, sulla parete, ci sono innumerevoli dipinti di divinità buddhiste.
Ospita due sale per le assemblee (Du-khang) precedute da verande in legno
scolpito e dipinto: in quella di sinistra è conservata una statua di Buddha
Shakyamuni con alcuni chorten d'argento.
La sala di destra invece è la più imponente: in essa c'è il trono dove si
siede il capo dei lama, che viene considerato la reincarnazione del
fondatore Taktshang Raspa.
Un
anziano monaco nel monastero di Hemis.
Un
monaco all'interno del Du-khang di Hemis.
Viene eletto come una reincarnazione, con delle modalità simili a
quelle seguite per il Dalai Lama.
Infatti questo monastero, la cui comunità monastica è considerata la più
grande del Ladakh con i suoi quasi duecento monasteri affiliati nella
regione himalajana, merita un'alta guida spirituale.
L'attuale rinpoche di Hemis è stato scelto tra i bambini nati entro
49 giorni dalla morte del precedente lama ed ha avuto una formazione
religiosa in Tibet per alcuni anni, fino all'occupazione cinese di quella
regione nel 1959. E' stato investito nella carica nel 1975, durante l'Hemis
Festival. Negli anni successivi ha continuato a ricevere un'intensa
educazione.
Oggi in realtà non vive solo a Hemis, ma a Takthok in un convento isolato,
a poco più di una ventina di chilometri da qui, oltre Karu, per quella
strada vietata ai noi turisti occidentali.
Attraverso una scala possiamo accedere ai piani superiori del gompa.
Non possiamo entrare nell'antica residenza reale, da dove viene appeso
all'esterno per essere visto il gigantesco thangka che è esposto
ogni 12 anni: l'ultima volta fu esposto cinque anni fa, nel 1978; bisogna
quindi attendere il 1990 per rivederlo. Magari potremo farci un pensierino
per tornare qui in quell'occasione! In questo monastero, e precisamente nel cortile che abbiamo attraversato di
fronte alla porta principale, si svolge ogni anno quello che viene chiamato
il Festival di Hemis. E' una festa che si tiene in una data variabile
(dipende dal calendario lunare) tra giugno e luglio, precisamente tra il
nono ed il decimo giorno del quinto mese tibetano.
Il
monastero di Thikse nella sua veduta più tradizionale.
Per questa festa accorrono pellegrini
da tutto il Ladakh che si esibiscono in danze portando delle particolari
caratteristiche maschere.
La festa è dedicata a Lord Padmasambhava, il primo e più importante
diffusore del buddhismo tantrico.
Salendo possiamo visitare la biblioteca del monastero con le pareti
coperte di scaffali dove sono disposti i libri sacri avvolti in tessuti
variopinti.
Particolare
degli scaffali della biblioteca del monastero di Hemis.
Dopo la visita al monastero, ci inoltriamo in una facile passeggiata in
montagna per raggiungere il monastero di Kotsang.
L'escursione sarebbe piacevole, se non fosse per la pioggia che ha ripreso a
cadere. Ci ripariamo con le mantelline impermeabili e, costeggiando il
fianco della montagna, arriviamo all'eremo fondato da Gyalwa Kotsang: nella
caverna dove meditava ci sarebbero (ma ci vuole molta immaginazione per
vederle) le impronte della sua mano e del suo piede impresse nella roccia.
Ridiscendiamo e pieghiamo definitivamente le tende: se si erano asciugate al
sole di questa mattina, hanno avuto tutto il tempo per bagnarsi di nuovo con
questa ulteriore pioggia.
Caricato l'autobus alle due e tre quarti, incalzati dagli autisti,
ripartiamo. Gli autisti infatti sapevano di una colonna militare che doveva
muoversi a quest'ora e riusciamo, per poco, ad essere davanti ad essa
evitando così di essere costretti alla sua lenta andatura.
Lungo la strada che ci porterà a Thikse vediamo, tra l'altro, uno sperone di
roccia alto 800 metri che si erge isolato sull'altopiano: in cima si staglia
nettamente il piccolo monastero di Stakna. Risale al XVI secolo e sarebbe stato
fondato da un monaco del Bhutan.
Il nome di Stakna letteralmente significa "il naso della tigre"
perché il profilo della collina ricorda (a chi è dotato di fervida
immaginazione) il
muso di questo animale.
Non ci fermiamo perché non lo avevamo messo in programma, ma soprattutto
perché si dovrebbe attraversare un ponte sospeso sull'Indo che non è
praticabile per il nostro autobus.
Alle tre e un quarto arriviamo a Thikse ed iniziamo subito a visitare il
monastero.
Il
monastero di Thikse visto da dietro.
Il complesso monastico, la più grande struttura del genere in Ladakh,
occupa il pendio di una collina ai cui piedi un recinto racchiude uno spazio
da dove inizia una scalinata che porta al gompa principale di dodici
piani.
La storia di Thikse inizia con Tsongkhapa (1357-1419), fondatore della
scuola Gelug, o dei berretti gialli. Egli inviò alcuni suoi discepoli per
le regioni più remote fuori dal Tibet per diffondere la nuova dottrina. Ad
uno di questi discepoli, Sherab Sangpo, consegnò anche una piccola statua
di Amitayus, una forma di Buddha, che conteneva delle ossa in polvere
intrisa di qualche goccia del proprio sangue: era destinata al re del Ladakh
al quale chiedeva l'aiuto per propagandare il buddhismo.
Al re, che a quel tempo risiedeva vicino a Shey, dovette piacere
quel dono ed incaricò un proprio ministro perché aiutasse Sherab Sangpo a
fondare un monastero dei berretti gialli. Quando questo avvenne, tuttavia
accolse un numero assai modesto di monaci.
Alla metà del XV secolo il successore di Sherab Sangpo, Palden Sangpo,
proseguì nell'opera del suo maestro e si ricordò di quanto diceva
profeticamente Tsongkhapa: la nuova dottrina Gelug si sarebbe propagata
sulla riva destra del fiume Indo.
Secondo una leggenda, Sherab Sangpo e Palden Sangpo stavano compiendo dei
riti sacri con l'offerta di torma (delle figurine fatte di farina e
burro) che avevano posto su un altare in cima ad una roccia. Improvvisamente
apparvero due corvi che presero il piatto con i torma volando via.
Palden Sangpo si mise alla ricerca dei torma perduti e li trovò
sulla collina di Thikse, dove i corvi li avevano posati, con il piatto
dell'offerta, in bell'ordine su una pietra.
Palden Sangpo considerò questo fatto prodigioso, come un segno divino, e si
mise a costruire il nuovo monastero ancora più grande su quella collina che
si trovava sul lato destro del fiume. E fu un successo, tanto che altri
monasteri (come Spituk e Likir)
vennero costruiti alla destra dell'Indo.
Il nuovo monastero sorse in cima ad una collina ai cui piedi c'era un
villaggio con lo stesso nome.
Thikse crebbe presto d'importanza (in Ladakh fu secondo solo a Hemis) e
nella regione amministrava una decina di altri monasteri (come Diskit, Spituk,
Likir, Stok ed altri) controllando l'economia di oltre una ventina di
villaggi.
Il
tempio Maitreya all'interno del complesso di Thikse.
Attorno al 1770, il lama del monastero
di Hanle, che si trova su un tratto della carovaniera che unisce il Tibet al
Ladakh, stabilì che il suo figlio maggiore dovesse ereditare il trono del
Ladakh, mentre gli altri principi sarebbero stati lama a Thikse e Spituk. Fu
così che, ad esempio, Jigsmet Namgyal fece servizio come lama a Thikse.
Saliamo a piedi per la stradina che si inerpica sulla collina, circondata
dagli edifici del complesso monastico. Questi sono disposti secondo un
ordine gerarchico e crescono d'importanza mentre si sale: si passa da
edifici secondari ai piedi della collina fino ai templi maggiori in cima con
il Potang in alto, la residenza ufficiale del capo dei lama.
Sia come struttura, così abbarbicata sul colle, sia per apparire quasi come
una fortezza, sia per l'architettura, tutto il complesso ricorda il palazzo
Potala di Lhasa, in Tibet.
Il
panorama della valle visto dall'alto del monastero di Thikse.
Noi passiamo per il lato orientale dell'edificio principale. Prima di
giungere in cima, passiamo a fianco di una statua di una divinità
protettrice del monastero mentre più in alto ci sono alcuni chorten.
Il monastero, dipinto di rosso, accoglie una sessantina di monaci: ha la
tipica struttura del monastero-fortezza.
Il cortile si affaccia sulla pianura alluvionale della valle dell'Indo:
nelle giornate limpide pare si riesca a vedere ad est il gompa di
Matho, verso sud il palazzo reale di Stok e quello di Shey verso occidente.
Per una scalinata raggiungiamo il tempio Maitreya, dedicato al Buddha del
futuro.
In realtà non si tratta di un tempio antico, risalendo a soli 13 anni fa:
venne infatti eretto per celebrare la visita che fece il Dalai Lama a questo
monastero
La
statua di Buddha Maitreya alta 15 metri.
Esso racchiude al suo interno una
gigantesca statua di Buddha Maitreya alta 15 metri, la statua più alta che
ci sia in Ladakh.
Ci sono voluti quattro anni per realizzarla: ci hanno lavorato artisti
locali sotto la direzione dell'Istituto
Centrale degli Studi Buddhisti di Leh utilizzando tecniche antiche ed
impiegando, tra gli altri materiali, argilla, rame e foglia d'oro.
Per la sua altezza occupa due piani all'interno del tempio e per questo
motivo è anche difficile apprezzarla nella sua interezza.
Insolitamente il Buddha è raffigurato seduto nella posizione del loto,
invece delle usuali rappresentazioni dove è in piedi benedicente o assiso
su un alto trono.
Il
volto di Buddha Maitreya.
La
divinità che ho fotografato, con un enorme fallo ricoperto da alcune
sciarpe di garza.
Ritorniamo sul cortile-terrazza e
passiamo per un portico decorato da varie figure murali tra cui un bhavacakra,
o ruota della vita, con al centro l'immagine di un serpente, di un uccello e
di un maiale. Rappresentano rispettivamente l'aggressività, l'attaccamento
e l'ignoranza: ci ricorda che dobbiamo superare questi sentimenti terreni
che ci indeboliscono e ci impediscono di raggiungere la nostra illuminazione
spirituale ed evitare il ciclo delle morti e delle rinascite.
Un
tratto del lungo porticato nel cortile del monastero di Thikse.
Da qui poi accediamo al Du-kang (la sala dell'assemblea). Nella sala
principale sono conservati molti dipinti e libri manoscritti avvolti in seta
colorata e riposti in appositi scaffali.
Dietro c'è un piccolo santuario con le statue di Buddha in diverse forme.
Al centro due seggi: uno per il Dalai Lama, "occupato"
simbolicamente da una sua fotografia, ed a fianco quello per il capo dei
lama del monastero; attorno ci sono le panche per i monaci.
Una sala è dedicata a Tara: un'intera parete è formata da teche nelle
quali sono inserite immagini di questa divinità.
Tra il cortile principale e la scalinata mi imbatto in una porta socchiusa.
La curiosità mi spinge ad aprirla. Considero che in definitiva anche qui i
monaci ci hanno lasciato nella piena libertà di girare all'interno del
complesso, sotto il loro sguardo benevolo, mite ed accondiscendente.
La porta si apre senza difficoltà ed entro in un ambiente buio, dove gli
occhi, ancora abbagliati dal sole esterno, non distinguono nulla.
Nell'oscurità intravedo le forme indistinte di alcune statue, nulla di
più. Avendo ancora il flash collegato alla macchina fotografica, punto
l'obbiettivo un po' a casaccio e scatto una foto. Appena emesso il lampo di
luce, esce da non so dove un anziano monaco, arrabbiatissimo che, urlandomi
contro non so quali frasi in tibetano, mi caccia fuori richiudendo
accuratamente a chiave la porta.
Più tardi leggerò in una guida che in quell'ambiente sono custodite le
statue di alcune divinità protettrici di Thikse, tra cui la principale è
quella dedicata a Cham-spring.
(Solo al ritorno in Italia scoprirò di aver fotografato una divinità
dall'aspetto terrifico, ricoperta di stoffe e veli dai quali spunta, in
mezzo alle gambe, un fallo enorme seminascosto da sciarpe tibetane di garza
che vi sono state appese!)
Particolare
di un "mendong" composto da "mani".
Al piano superiore del monastero c'è
la biblioteca dove sono conservati i libri sacri: in questo luogo possono
entrare solamente gli uomini e ci è vietato fotografare. Accanto altre
stanze sono usate come scuola per l'insegnamento e l'educazione dei ragazzi,
molti dei quali in futuro diventeranno dei lama. Nel piano superiore c'è
anche l'appartamento del capo dei lama di Thikse.
All'interno del complesso monastico esiste anche un convento di monache
buddiste, che noi però non abbiamo visto. Come per quelle di
Rizong, il loro compito principale è quello di lavorare per provvedere
alle necessità dei monaci maschi, restando in una condizione assai vicina a
quella della schiavitù.
Ridiscendiamo dal monastero percorrendo la stessa strada per dove eravamo
saliti a piedi. Raggiungiamo così il luogo dove gli autisti hanno
parcheggiato l'autobus, accanto al quale andiamo a montare le nostre tende.
Questa zona, che si ritrova lateralmente rispetto al complesso di Thikse,
verso la parte posteriore, è percorsa da muretti alti mediamente da un
metro al metro e mezzo che si sviluppano per la lunghezza di molte decine di metri:
sono i mendong, formati migliaia di sassi e pietre appiattite su cui
sono incise le sei sillabe che formano il mantra di Avalokiteshvara:
«Om Mani Padme Hum».
Sono incisioni fatte dai fedeli buddisti, per i quali le uniche speranze di
ottenere un giorno la liberazione dal ciclo della morte e della rinascita
sono date dalla lettura di testi sacri, dalla venerazione dei luoghi sacri,
dalle donazioni e dalle preghiere. Possono pregare in modi diversi ed uno di
questi è l'incidere formule di preghiera sulle pietra che poi vengono
lasciate a formare, una sopra l'altra, muri lungo le strade o piccoli cumuli
in luoghi significativi (un incrocio, un bivio, la sommità di un passo, il
guado di un torrente, la vicinanza con un luogo sacro come può essere un
monastero, eccetera).
Il camminare accanto a questi mendong, o girare attorno ai cumuli di
mani, tenendoli sempre alla propria destra, per il fedele buddista
equivale a ripetere il mantra, o la preghiera che è scritta sui ciottoli.
Le pietre incise più antiche si
trovano alla base di questi accumuli, dove di continuo se ne aggiungono, in
alto, delle nuove.
Troviamo non solo mantra incisi, ma alcune lastre di pietra di
maggiori dimensioni recano raffigurazioni di Buddha, o di altre divinità
buddhiste. Abbiamo visto anche un paio di pietre con inciso il disegno di un
mandala.
Devo confessare che in questo luogo ho compiuto un furto: una piccola pietra
con inciso il classico «Om Mani Padme Hum» è finita dentro il mio
zaino ed ora fa parte della mia privata collezione.
Un "mani" con
inciso il "mantra «Om Mani Padme Hum» (Collezione
privata)
Le
trombe che accompagnano le preghiere dei monaci.
Dopo la cena collettiva fatta fuori
delle tende, ci corichiamo per un'altra notte fredda da trascorrere a poche
centinaia di metri dalla base della collina di Thikse.
L'indomani il risveglio è presto, prima dell'alba: vogliamo infatti essere
dentro il monastero prima delle sei e mezza, quando iniziano i riti e le
preghiere dei monaci.
Ripercorriamo quindi la salita che ci porta fino in alto, dove c'è la sala
principale dell'assemblea.
Qui troviamo i monaci riuniti a recitare, seduti davanti alle loro panche,
le preghiere ed i mantra.
I
monaci riuniti all'alba nella sala dell'assemblea per le
preghiere del mattino.
Il salmodiare cantilenante dei monaci si fonde con i suoni dei tamburi, dei
cimbali, delle trombe di vario tipo e dimensioni.
Il rituale è complesso, e per noi anche abbastanza oscuro. Dei ragazzi,
vestiti come i monaci, forse dei novizi, fanno il giro dei confratelli
più anziani con delle brocche con le quali riempiono le loro ciotole.
Ci sembra acqua, o forse è del bò cha, il tè tibetano.
Un
monaco novizio porta qualcosa da bere ai monaci in preghiera.
I monaci bevono, le ciotole vengono
riempite di nuovo. Viene aggiunta della polvere bianca, forse della farina,
ottenendo una sostanza densa, quasi una specie di polentina morbida che i
monaci mescolano con le dita e che poi si portano alla bocca.
Ci dicono che tra i monaci ce ne sarebbe uno, molto anziano, in grado di
entrare in comunicazione con le potenze soprannaturali. Questo lama
riuscirebbe a raggiungere la divinità mentre si trova in uno stato di trance;
sarebbe in grado di parlare con gli spiriti in tibetano, lingua che in
condizioni normali non comprende e non parla (ma ci sembra strano).
Lui stesso avrebbe poteri miracolosi e sovrannaturali, come quelli di
predire il futuro e di guarire i malati: con una specie di cannuccia
riuscirebbe a "succhiare" la malattia fuori dal corpo del malato,
che in questo modo guarirebbe perfettamente dal male.
Dopo aver ascoltato questa storia, usciamo per la terrazza e saliamo per una
scala esterna sul tetto sovrastante dal quale proviene un suono basso e
vibrante: sono due monaci che suonano i Dung-dkar, le tipiche trombe
di conchiglia.
Monaci
sul tetto del monastero di Thikse mentre suonano i "Dung-dkar".
Il
complesso di Shey visto dal basso.
La parola tibetana significa infatti
"conchiglia bianca" perché la parte principale di questi
strumenti è costituita da una conchiglia che è stata incastonata dentro
una decorazione fatta d'argento, bronzo, con motivi ornamentali ed
inclusioni di pietre dure e gemme come turchesi, rubini, pezzi di corallo.
I due monaci vi soffiano dentro attraverso un boccaglio. La nota si propaga
nell'aria, si diffonde nella vallata, sembra voler raggiungere le vette più
alte dell'Himalaja.
Il popolo è convinto che questo suono, che esprime energia positiva, sia
capace di invocare gli spiriti benigni e scacciare i demoni.
E' ormai tempo di ritornare al campo, dove facciamo colazione; quindi
smontiamo le tende e caricato il tutto sull'autobus, alle nove e un quarto
partiamo alla volta di Shey.
La strada per arrivare è suggestiva, soprattutto per gli innumerevoli chorten
bianchi di ogni dimensione sparsi su un paesaggio spesso quasi desertico. Impieghiamo un quarto d'ora per arrivare e subito avvistiamo il complesso,
in gran parte in rovina, in cima ad una collina.
Una volta qui c'era la fortezza dei sovrani del Ladakh, almeno fino a quando
il paese venne diviso in due regni e la capitale fu spostata a Leh.
Shey tuttavia non perse d'importanza, rimanendo in seguito residenza estiva
della famiglia reale.
Il nome potrebbe significare, per un'assonanza con il tibetano, specchio,
riflesso: potrebbe essere un riferimento al riflesso che si vede sul lago
sottostante. Ma siamo nel campo delle congetture.
Il palazzo reale venne costruito agli inizi del XVII secolo da Re Sengge
Namgyal mentre il monastero che si trova al suo interno risale al 1655,
quando il figlio Deldan Namgyal (1642-1672) rimaneggiò il palazzo e volle
che ci fosse un monastero in memoria di suo padre.
Quando i Dogra dello Jammu invasero il Ladakh nel 1842, la famiglia reale
della dinastia Namgyal abbandonò il palazzo e riparò sul lato opposto del
fiume Indo a Stok, che elessero a loro residenza permanente.
Un
altro bel "chorten" a Shey.
Si pensa che il forte, del quale oggi
restano poche tracce, ed il palazzo caddero definitivamente in rovina
proprio a seguito di questa invasione.
Ora di questa antica capitale sopravvive un vasto ammasso di rovine sparse
sulla cresta rocciosa che domina una pianura costellata di centinaia di chorten,
grandi e piccoli, che danno un aspetto fantastico al paesaggio e segnata da
tumuli di mani.
Saliamo per dei ripidi scalini verso il complesso, ma quando giungiamo nel
cortile il monastero è chiuso: pare che ci sia un unico lama che lo apre
solo all'alba per il tempo necessario per recitare le sue preghiere.
"Chorten"
a fianco del monastero di Shey.
Due sono i templi: quello inferiore dovrebbe conservare delle pitture murali
che raffigurano alcuni mistici buddhisti, discepoli e lo stesso Buddha.
Il tempio superiore invece dovrebbe ospitare una statua colossale di Buddha
Shakyamuni eretta da Deldan Namgyal. Più in alto ci sono le rovine della
vecchia cittadella.
Ai piedi della collina una roccia è scolpita con i bassorilievi dei Cinque
Buddha del buddhismo tibetano che sono raffigurati assieme ai loro animali
simbolici (veicoli) che li caratterizzano: nell'ordine vediamo Ratnasambhava
(con il cavallo), Aksobhya (con l'elefante), al centro il Buddha Mahavairo
Cana (il Grande Illuminatore, con il leone), Amitabha (con il pavone) ed
infine Amogjasiddhi (con il Garuda).
Leggendo la guida veniamo a sapere anche che da qualche parte, forse nei chorten,
dovrebbe essere riposta una raccolta di steli scolpite risalenti anche all'VIII
secolo, una biblioteca ed una grande collezione di thangka, ma
purtroppo quello che non è stato distrutto è tutto chiuso e non riusciamo a
vedere nulla dell'interno.
E dire che in questo luogo dovrebbe esserci un oracolo, in grado di parlare
con l'essere supremo, che secondo il popolo è più importante e più potente
di quello di Thikse.
Lasciamo Shey un po' delusi per quello che non siamo riusciti a vedere, e
forse un po' anche a causa della giornata durante la quale si sono rincorse
le nuvole, a volte basse nella vallata.
Una
donna che porta il "peràk".
Raggiungiamo Leh. Qui gli autisti devono fermarsi per far controllare una
ruota dell'autobus. Noi ne approfittiamo per passeggiare nella città,
visitare nuovamente i mercatini, fare qualche altro acquisto e pranzare.
Incontriamo la solita gente di chiare origini tibetane con le tipiche vesti
di quella regione, le donne con il berretto peràk caratterizzato
dalla lunga banda di cuoio e stoffa rossa che scende dietro, sulla schiena,
adornata di turchesi: quanto più è lunga e ricca, tanto maggiore è la
condizione economica e lo status sociale della famiglia.
C'è una specie di gerarchia: nove file di turchesi per la regina, sette per
la moderna aristocrazia, cinque fili per le benestanti e solo tre file per i
ranghi inferiori. Le pietre che li adornano rappresentano delle divinità
che così possono proteggere e guidare chi li indossa nel loro viaggio
attraverso i pericoli del mondo terreno.
In genere è un accessorio di abbigliamento che si tramanda di madre in
figlia, cosicché certi peràk sono discretamente antichi.
Dopo la sosta a Leh, alle dodici e un quarto siamo nuovamente in viaggio;
siamo però fermati quasi subito da un posto di blocco: c'è un attento
controllo dei nostri passaporti e dei documenti degli autisti e
dell'autobus.
Ripartiamo dopo un quarto d'ora.
All'una e tre quarti siamo a Basgo, per dove eravamo già passati nel
viaggio di andata. Anche qui una sosta brevissima per scattare alcune foto
sul panorama che si vede da quella che era stata un'antica fortezza dei re
di questo luogo che diedero inizio alla dinastia Namgyal.
Ci fermiamo a Saspol. E' un insignificante villaggio posto lungo la strada,
ai piedi di una falesia sulla cui cima ci sono pochi resti di un forte. Il luogo è noto per essere
stato frequentato da seguaci della scuola tibetana Dikung Kagyu, fondata nel
XII secolo, che seguiva le pratiche meditative. Questi anacoreti avevano
trovato il naturale rifugio nelle grotte che numerose costellano la falesia.
Le pareti di queste grotte sono ricoperte da una specie di intonaco fatto
d'argilla. Sono presenti anche colori vivaci e ci sono rappresentazioni di
divinità buddhiste. La sosta dura in tutto mezz'ora e non tutti sono andati
alle grotte: qualcuno è restato nel villaggio a scaldarsi con un tè
bollente.
Parte
di una
parete totalmente decorata del Sumtsek di Alchi.
Ripresa la strada, dopo pochissimo,
credo veramente due chilometri, non di più, incrociamo sulla sinistra il
ponte sul fiume Indo che ci porta ad Alchi. Attraversato il ponte, proprio
sulle due curve con cui prosegue la strada, ci sono delle rocce che recano
incise delle scritte e dei disegni che risalgono all'VIII e IX secolo,
quando qui si accampò l'esercito tibetano. Dalla forma di quei graffiti si
potrebbe risalire al luogo d'origine del soldato che li tracciò.
La strada è stretta e dopo un po' ci dobbiamo arrestare e proseguire a
piedi.
Il monastero sarebbe stato fondato dal monaco Rinchen Zang Po (958-1055)
che, come abbiamo
ricordato in precedenza, aveva fatto costruire altri monasteri in Ladakh
e Tibet. Anzi, secondo la credenza popolare lo avrebbe costruito assieme
agli altri vicini di Sumda Chun e di Mangyu in una sola notte!
Il terreno attorno al villaggio è molto fertile ed infatti si vedono numerose
coltivazioni agricole.
Oggi Alchi è sotto il controllo religioso del vicino monastero di Likir,
dove dovremo arrivare questa sera. Il monaco che ci ha fatto pagare il
biglietto per la visita è distaccato qui come custode del luogo, proprio da
Likir.
Il complesso di Alchi è costituito da cinque edifici: in fondo i templi
più tardi (XII o XIII secolo) Lotsawa Lakhang e Manjushri Lakhang. Il primo
dedicato al fondatore Rinchen Zang Po, nato a Sumda, un villaggio sulla
montagna a poche ore di cammino a sud di Alchi, che vi è raffigurato con il
mantello rosso ed il capo scoperto in una pittura a sinistra della parete
occidentale della stanza. Il secondo è dedicato a Bodhisattva Manjushri,
che viene mostrato con le quattro facce rivolte ai quattro punti cardinali
con i relativi colori identificative: verde per il Nord, blu per l'Est,
giallo per il Sud e rosso per l'Ovest.
Poi c'è il Soma Lakhang, il nuovo tempio, edificato probabilmente nel XIII
secolo con una grande profusione di pitture murali con evidenti riferimenti
tantrici e con influenze pittoriche tipiche dell'arte giainista, come gli
alberi di palma e l'occhio aggiunto fuori del viso quando questo è
raffigurato di profilo, elementi che troviamo anche nei più antichi manoscritti
giainisti sull'Illuminazione.
Non è chiaro come questi particolari siano giunti ad Alchi, ma sicuramente
dimostrano un intricato intreccio di influenze artistiche.
Non dobbiamo poi dimenticare che questi ambienti, che noi ammiriamo
superficialmente, che ospitano fedeli che giungono in pellegrinaggio per
accendere le loro lampade votive, erano utilizzati soprattutto dai monaci
per le loro pratiche di meditazione.
Dietro il Sumtsek c'è il Du-khang, o sala delle riunioni, elemento
essenziale nella vita del monastero: vi si accede per un cortile
parzialmente coperto con bei legni intagliati, come la cornice della porta
che è un gioiellino dell'arte kashmira dell'XI secolo.
La
facciata principale del Sumtsek di Alchi.
Nella sala delle assemblee è posta
l'immagine dorata con quattro teste della divinità principale, Vairocana,
sontuosamente vestito di seta attorniato da creature fantastiche ed esseri,
alcuni dei quali suonano una tromba. Alle pareti laterali si trovano statue
in terracotta dipinta di altre divinità, pitture parietali e alcuni mandala.
Torniamo verso il tempio più interessante, che avevamo incontrato arrivando
ma che avevamo lasciato per ultimo, il Sumtsek.
Si tratta di un edificio la cui funzione non è stata esattamente definita.
E' un edificio a tre piani, come dice il suo nome: gsum-brtsegs in
tibetano significa "tre ordini", o "tre piani". E' di
piccole dimensioni, costruito in pietra ed argilla secondo una tecnica
tibetana.
Tuttavia, come per il Du-khang, anche l'entrata al Sumtsek è un
bell'esempio originale di decorazione lignea in stile kashmiro, con figure
inserite nel disegno architettonico, anche se purtroppo in uno stato di
conservazione precario.
Anche la parte lignea interna mostra chiaramente la mano di artisti kashmiri,
costruzione rara, e forse unica, della metà dell'XI secolo. Da quanto ne
so, si possono paragonare a questo gioiello una porta dello Jokhang di Lhasa
ed il telaio di una porta del White Temple di Tsaparang, anche queste opera
di artisti kashmiri.
Quando si entra, i nostri occhi devono abituarsi all'oscurità: infatti
manca una qualsiasi forma di illuminazione e la principale luce che
abbiamo proviene da un lucernaio in alto. Per terra c'è un piccolo chorten.
Ci troviamo circondati da tre giganti dalle quattro braccia che si levano in
piedi entro delle nicchie ricavate sulle pareti. Curiosamente le due braccia
"aggiuntive" non si dipartono dalle spalle o dal busto, bensì dai
gomiti delle due braccia "regolari".
Sono tanto alti che non possiamo vedere le teste che si trovano all'altezza
del secondo piano!
Uno
dei tre Bodhisattva all'interno del Sumtsek: il luogo è angusto
e stretto, la statua è alta quattro metri, difficile da
fotografare. Credo che non ci sia un centimetro di parete che
non sia stato dipinto.
Una
divinità dalle tre teste e dalle moltissime braccia.
Sono vestiti con un dhoti, il
tradizionale indumento degli uomini indiani, un rettangolo di stoffa che
scende dai fianchi fino ai piedi, quasi si trattasse di un pareo. Ciascun dhoti
è decorato in modo diverso.
Quello di Awalokiteshvara (il Buddha della compassione, entrando sulla
parete di sinistra) mostra i luoghi santi con case e templi, palazzi reali
con la gente di corte. Questi templi e palazzi sono sconosciuti: è stato
ipotizzato che gli artisti kashmiri che li hanno dipinti abbiano voluto
raffigurare luoghi contemporanei che i pittori ben conoscevano e che oggi non
ci sono più.
Il dhoti di Maitreya (sulla parete di fondo, opposta a quella
d'ingresso) raffigura scene ed episodi della vita di Buddha; infine il dhoti
di Manjushri (sulla parete di destra) a prima vista sembra avere solo una
decorazione con motivi geometrici di quadrati rossi ed arancioni su uno
sfondo verde, ma avvicinandosi e guardando con attenzione si intravedono
vari personaggi, santoni, guru con adepti e seguaci.
La rappresentazione della vita di Buddha dipinta su un dhoti
rappresenta un qualcosa di unico.
Tutte le tre statue dei Bodhisattva sono alte circa quattro metri (solo
quella centrale è mezzo metro più alta), hanno quattro braccia e sono
attorniate ciascuna da quattro divinità associate, con una coppia di apsaras
volteggianti attorno.
Le pareti e le nicchie sono completamente ricoperte di pitture:
non c'è un centimetro quadrato che non sia dipinto: è uno spettacolo
incredibile quello che scorgiamo alla luce che proviene dal lucernaio,
centinaia, forse migliaia, di piccoli Buddha seduti dipinti in ocra, nero,
verde, azzurro e oro.
Tra di essi sono dipinte varie raffigurazioni, come fossero dei thangka
appesi al muro, con divinità anche con moltissime braccia.
Con somma attenzione, lentamente, saliamo al secondo piano, tutto in legno,
tra tavole scricchiolanti. Si tratta di una specie di ballatoio interno che
si affaccia sulla stanza. Da qui spuntano le teste dei tre Bodhisattva che
abbiamo visto dal piano terra, in particolare quella di Maitreya, che è la
più alta delle tre.
Sotto di essa si scorge dipinta una
testa di Vairocana e, sugli altri muri, altre pitture tra cui tre mandala
e altri Bodhisattva. Più in alto tre divinità protettrici e tre personaggi
vestiti da monaci.
Dall'alto pende un ombrello-baldacchino di stoffa gialla.
"Mandala"
dipinti sul muro del ballatoio interno al secondo piano del
Sumtsek. In basso, seminascosta dalla colonna, spunta la testa
di una delle statue che avevamo visto al piano terra.
Sono quasi le sei del pomeriggio quando lasciamo il monastero di Alchi e
raggiungiamo il nostro autobus che ci aspetta là dove terminava la strada.
Riattraversiamo il ponte sull'Indo e svoltiamo verso Saspol che
oltrepassiamo fino a quando, dopo una decina di chilometri, si incontra a
sinistra una pista che sale verso la montagna attraverso una stretta valle
percorsa da un fiumiciattolo torrentizio.
Con fatica il nostro autobus arranca.
Dopo una decina di chilometri, in una posizione isolata e dominate, vediamo
la bianca sagoma del complesso monastico di Likir.