Le
"houseboat" a Srinagar, schierate di fronte al Boulevard
Road.
Dopo mezz'ora esatta di volo
atterriamo a Srinagar. Recuperati i bagagli, ci facciamo condurre a Srinagar
con un vecchio e malandato
autobus trovato nella zona dei taxi dell'aeroporto.
Questa città gode di un clima temperato, al riparo dei monsoni,
attraversata dal fiume Jhelum, un affluente dell'Indo, si estende su un
lago, tra innumerevoli canali e giardini galleggianti di loti che richiamano
i chinampa aztechi di Xochimilco.
Per la sua posizione felice è sempre stata prescelta come luogo di
residenza, durante la stagione dei monsoni, degli imperatori moghul e delle
loro famiglie che qui vi costruirono splendidi giardini nel loro tipico
stile.
Anche nell'Ottocento venne particolarmente apprezzata dagli europei, gli
inglesi in particolare, che vi volevano trascorrere i periodi di vacanza.
Avrebbero anche costruito volentieri delle ville per sé, ma il Maharaja
Ranbir Singh (1830-1885) non permetteva l'acquisto di terreni da parte degli
stranieri. Persino il mistico Vivekananda (1863-1902) che aveva chiesto di
poter acquistare un terreno per costruirvi il proprio ashram
ricevette un diniego.
Così nacque la tradizione delle houseboat, case galleggianti
costruite su barche da affittare agli stranieri e, oggi, ai turisti.
Una di queste case galleggianti sarà anche la nostra base durante la
permanenza nella regione, al nostro arrivo e più tardi quando torneremo
dalla nostra escursione in Ladakh.
Una
alla volta le "shikara" ci portano alla "Morning Glory",
la nostra "hoeseboat".
Le houseboat sono schierate sul
lago, dove esso forma un braccio d'acqua che assomiglia ad un largo canale,
sul lato opposto al Boulevard Road, dove scarichiamo i bagagli dall'autobus.
C'è l'imbarazzo della scelta: siamo circondati da intermediari, proprietari
di houseboat e da barcaioli che si offrono di portarci a quella che
conoscono.
Alla fine optiamo per una, la "Morning Glory", che può accogliere l'intero gruppo, sulla quale
avevamo delle note positive da chi era già stato.
Effettuiamo il nostro trasbordo, compresi i bagagli, con delle shikara,
delle piccole imbarcazioni con una leggera copertura che sono condotte da un
solo barcaiolo che rema stando a poppa.
L'interno
della nostra "houseboat": il salottino della "Morning
Glory".
Interno
della "Morning Glory", la nostra "houseboat": la zona pranzo.
Sono ormai le quattro del pomeriggio quando,
completato il trasferimento a bordo, siamo finalmente nella nostra houseboat.
Esternamente le houseboat dispongono di un ampio poggiolo coperto che si
affaccia sul lago, di fronte al Boulevard. Sopra il tetto c'è una terrazza,
parzialmente coperta da una tenda, con sedie a sdraio per chi vuole prendere
il sole.
All'interno ci sono cucina, un salotto con televisore, le camere private con
i servizi. Il tutto in legno con eleganti intagli.
Dalla
terrazza dell'"houseboat" abbiamo la vista su
Boulevard Road.
I proprietari dell'houseboat ci
raccontano come nacque l'idea di questa soluzione per ospitare gli europei
che, nella seconda metà dell'Ottocento, volevano soggiornare a Srinagar
dove, come detto, non potevano acquistare una casa.
Pare che un commerciante, un certo Pandit Naraindas, avesse un negozio in
città: un fabbricato di legno, come allora si usava, che andò a fuoco in
un incendio, avvenimento non raro in una città dove gran parte delle
abitazioni era in legno.
Non potendosi permettere di costruire un nuovo negozio, portò tutta la sua
mercanzia in una barca che ormeggiò a riva continuando con successo i suoi
commerci. La casa attirò l'attenzione di un europeo che
acquistò la barca per trasformarla in abitazione.
Naraindas fece costruire una barca attrezzata a casa galleggiante e riuscì
a venderla senza difficoltà (pare si chiamasse "Princess
Kashmir").
Si trasformò così in costruttore di houseboat e fino al 1948 lui
con la sua famiglia costruirono e gestirono circa 300 di queste
barche-abitazione.
Che la storia sia vera o leggendaria, questo non lo sappiamo: così ci è
stata raccontata.
Trascorriamo il resto del pomeriggio e la sera a bordo, riposandoci un po':
domani mattina avremo la sveglia prestissimo per essere prima dell'alba al
mercato galleggiante che si svolge tutti i giorni sul lago Dal. Prenotiamo
già da subito le shikara che ci verranno a prendere sotto l'houseboat
domani mattina.
Una
"shikara" sul lago Dal.
Il
mercato galleggiante sul lago Dal.
Questa mattina sveglia alle quattro e
cerchiamo di prepararci in fretta.
E' ancora notte quando alle 4 e mezza
arrivano le shikara che avevamo prenotato ieri sera: a turno
scendiamo dalla houseboat scendendo per una scaletta di legno. E'
tutto silenzio: si sente solo lo sciabordare dell'acqua mossa dal tipico
remo dalla forma di un fiore di loto. Non c'è il rumore di un motore, ma solo
quello dell'acqua.
Usciamo da quella specie di insenatura che forma il lago Dal dove sono le houseboat.
Lentamente l'orizzonte si apre sotto il cielo ancora notturno, ma che
promette lo schiarire con l'arrivo dell'alba emettendo dei chiarori
bluastri.
Con meraviglia scopriamo che il lago è trafficatissimo, ma non si tratta di
turisti: ci sono bambini che sulle shikara sono accompagnati ogni
giorno per andare a scuola, ci sono gli uomini che si recano al lavoro, ci
sono le barche che si avvicinano all'area del mercato per fare acquisti. Il
lago non è un deserto specchio d'acqua, è abitato nelle sue isole, nei
canali che lo attraversano.
Troppo buio per fare foto, peccato!
Una flotta di barche, forse un centinaio, cariche di verdure, ortaggi,
fiori, è presa d'assalto da quelle dei compratori. Le barche si toccano, si
spingono, altre cercano di farsi largo nell'ingorgo, come potrebbe avvenire
tra le persone a piedi che si accalcano in un nostro mercatino rionale.
E' un mercato all'ingrosso, ci spiega il barcaiolo del nostro shikara:
i produttori o grossisti vendono le loro merci, per lo più prodotte sulle
isole del lago molto fertili, a venditori al dettaglio. Ci sono anche le
barche dei turisti, forse una decina oltre alle nostre, e così i venditori
hanno qualcosa anche per noi, piccole quantità di frutta, o spuntini, o
mazzetti di fiori.
Al
mercato sul lago Dal si vendono anche mazzetti di fiori!
La vendita e l'acquisto avviene
da una barca all'altra: le barche si accostano e la merce passa di mano.
E come in tutti i mercati del mondo i venditori urlano per attirare
l'attenzione dei clienti magnificando le qualità dei loro prodotti.
Non possiamo non notare che quasi tutte le persone che animano il mercato
sono uomini!
Il
mercato galleggiante sul lago Dal.
Le prime luci del sole irrompono sul lago e rompono la notte. Ora si può
tentare di fare qualche fotografia, ma l'agitazione e il numero delle barche
sono già diminuiti: dura poco questo mercato, un paio d'ore al massimo.
Con il sole lo specchio d'acqua del lago diventa abbagliante. Il nostro giro
continua e noi ci addentriamo per i canali del lago, tra isolette non solo
coltivate, ma anche abitate: case di legno con giardinetti che si affacciano
sull'acqua e sotto le case, invece di automobili, barche!
Esplorando i canali scopriamo scene e personaggi che non potevamo immaginare
di vedere.
Di ritorno sbarchiamo in Boulevard Road e da qui compiamo una tranquilla
passeggiata per Srinagar.
Il nome della città proviene dall'unione di due parole: Sri, un
altro nome della dea Lakshmi, e nagar, che significa città.
Si fa risalire la sua fondazione, secondo alcuni, al Re Pandava Ashok (da
non confondere con l'imperatore Maurya), secondo altri invece proprio
dall'Imperatore Ashoka (304-232 a. Cr.), su un luogo oggi occupato dal
villaggio Pandrethan, a 5 chilometri a nord dell'attuale Srinagar.
In
attesa dell'autobus che tarda ad arrivare.
Ai tempi dell'Imperatore Ashoka faceva
parte dell'impero Maurya. Fu Ashoka ad introdurre il buddhismo nella valle
del Kashmir e le regioni attorno alla città divennero centro del buddhismo.
Nel I secolo la regione era sotto il controllo della dinastia Kusha, che
rafforzò la tradizione buddhista. Caduta sotto gli Unni Eftaliti, una
tribù dell'Asia centrale, attorno al 960 divenne capitale del Kashmir. Il
predominio buddhista durò fino al XIV secolo quando tutta la valle passò
sotto il controllo di vari governanti musulmani.
Con la disgregazione dell'Impero Moghul, a seguito della morte di Aurangzeb
(1707), vi furono delle infiltrazioni di tribù Pashtun e per alcuni
decenni Srinagar fu assoggettata all'impero fondato da Ahmad Shah Durrani
(1722-1773). Il Maharaja del Punjab Ranjit Singh (1780-1839) annesse il
Kashmir, Srinagar compresa. A seguito di un trattato con gli inglesi, nel
1846 la regione, fino al 1947, fece parte di uno dei numerosi stati
principeschi indiani.
Con l'indipendenza dell'India e del Pakistan, ci furono momenti travagliati
per la popolazione, con i territori che furono contesi, oltre da queste due
nazioni, anche dalla Cina. Alcuni confini sono oggi de facto, altri
addirittura non definiti.
Non abbiamo una meta precisa: solo passeggiare mentre alcuni di noi si
soffermano nei negozi di souvenir dove primeggiano i lavori di paper-mâché
con decorazioni ispirate a motivi moghul.
Ma è solo un assaggio della città che visiteremo al nostro ritorno dal
Ladakh. Vista la levataccia mattutina per andare al mercato galleggiante e
la strada che ci aspetta domani, rientriamo presto nella nostra houseboat.
La mattina dopo sveglia e colazione di buon'ora. Ieri sera avevamo già
selezionato le cose da portare via da quelle che possiamo lasciare nell'houseboat
fino al nostro ritorno: solito trasbordo sulla shikara e prima delle 8 siamo
sul Boulevard Road in attesa dell'autobus che si fa attendere.
Arriva in ritardo con due autisti: ci
sembra più malandato di quello che dall'aeroporto ci aveva portato fin qua
appena l'altro ieri. Speriamo!
Sono le 8.45 quando partiamo.
La giornata è bella, splende il sole. Prendiamo la direzione di Gandarbal,
verso nord, e appena fuori Srinagar costeggiamo per un attimo il lago Anchar.
Attraversiamo un territorio di tipo quasi alpino, con pascoli verdi.
Attorno
alla strada, prati e boschi.
L'attuale strada tra Srinagar e Leh è
una costruzione piuttosto recente. Nel XVII e XVIII secolo sembra che fosse
appena un sentiero, impraticabile per i cavalli. Era utilizzata dai
portatori dello Yarkand e tibetani che trasportavano le merci a spalla: si
trattava per lo più di lana pashmina per l'industria dello scialle kashmir.
Attorno al XIX secolo il percorso venne migliorato in modo da farci passare
carovane di cavalli pony.
Negli anni Cinquanta del Novecento erano aumentate le tensioni in Ladakh: la
Cina di nascosto costruiva un'enorme strada militare di 1.200 chilometri da
Xinjiang al Tibet occidentale. Questa strada venne scoperta dagli indiani
nel 1957: la situazione politica precipitava e culminò nella guerra
sino-indiana del 1962. In quell'occasione la strada sul versante cinese fu
un'importante fonte di approvvigionamento per l'Esercito Popolare di
Liberazione che ne era enormemente avvantaggiato. Questo diede lo spunto al
governo indiano di costruire una strada per la mobilitazione ed il
rifornimento delle proprie truppe schierate al confine con la Cina. La
costruzione iniziò a partire da Srinagar nel 1962 e dopo due anni era già
completata fino a Kargil.
La
vallata continua a essere verde.
Queste sono le origini di questa
strada non asfaltata di 434 chilometri che noi stiamo per percorrere per
raggiungere Leh.
La strada continua a mantenere la sua importanza militare ed i civili, per
percorrerla, devono assoggettarsi a delle restrizioni. Ad esempio, nel caso
di mobilitazioni di truppe, queste hanno la precedenza.
Ormai usciti dalla valle di Srinagar, la strada devia verso est seguendo il
corso del fiume Sindh, che ogni tanto abbandoniamo per poi ritrovarlo dopo
qualche chilometro.
Passate di poco le dieci, arriviamo a Kangan per una sosta di meno di mezz'ora, fatta più
che altro per gli autisti che acquistano qualcosa al mercato.
Continua il panorama di tipo alpino con molto verde e dopo circa un'ora e
mezza, passato mezzogiorno, giungiamo a Sonamarg, un luogo noto per le escursioni
ed i facili trekking che si possono fare nei dintorni. Infatti è
attrezzata con numerosi alberghetti e ristorantini.
La sosta è giusto di mezz'ora, tanto per comperare qualcosa da mangiare per
poi proseguire il viaggio alle 13.
Da quando siamo partiti questa mattina, in poco più di quattro ore, abbiamo
percorso solo 84 chilometri.
Si comincia a salire di quota ed il paesaggio muta rapidamente diventando
sempre più desertico e brullo.
Dopo meno di una ventina di chilometri troviamo un posto di guardia: siamo
vicini a Baltal, una specie di campo base per i pellegrini che vogliono
raggiungere la sacra grotta di Amarnath: ma questo al momento non ci
interessa, anche se tra noi ci abbiamo già fatto uno speranzoso pensierino. Ci interessa di più quello che c'è sulla strada: da qui comincia la salita
del Zoji La, il primo passo da affrontare nel nostro viaggio (oltre 3.500 metri
d'altezza) e c'è una sbarra perché, date le condizioni e le difficoltà
del percorso, si sale a senso unico alternato: l'accesso da ciascuna parte
è regolato ogni due ore.
Si
comincia a salire verso il passo Zoji La (3.529 metri).
La barra è alzata, si può passare,
ma i militari del check-point ci dicono che troveremo una colonna
militare che procede nella nostra stessa direzione e saremo costretti ad accodarci.
Infatti, solo dopo pochi chilometri, vediamo un lunghissimo convoglio
militare dell'esercito indiano, composto da vecchi camion, che risale
lentamente la strada che, con dei tornanti, porta alla sommità del passo.
Non abbiamo altra scelta se non quella di stare dietro le camionette che
indicano il "fine colonna".
La lentezza è veramente impressionante: sicuramente saremo più rapidi
proseguendo a piedi!
Sono più di duecento camion: il nostro autista ci dice che in genere queste
colonne sono formate da almeno 220-250 mezzi. Vorrei fare qualche foto dal
finestrino dell'autobus, ma l'autista me lo impedisce: sono mezzi militari
in manovra e si potrebbero passare guai a fotografarli!
Il significato del nome Zoji La non è chiaro: la significa passo,
c'è chi dice che significhi "passo dei quattro demoni",
"passo delle betulle" perché chi proviene in senso opposto al
nostro incontra i boschi del Kashmir, "passo delle donne"; il
gesuita Ippolito Desideri (1684-1733) lo chiama «Kantel», altri
"passo (nel senso di passaggio) di Shiva".
Noi intanto siamo qui, finalmente arrivati sul punto più alto del passo a
3.529 metri, segnalato da un grappolo di bandiere di preghiera piantate su
un piccolo tumulo di sassi, segno del passaggio di buddhisti in un
territorio che, seppure siamo ai margini, è ancora ufficialmente musulmano.
Per questo passo che si apre verso la grande catena himalajana transitava
anche l'antica pista carovaniera che collegava il Kashmir al Ladakh ed al
Tibet.
Anche la discesa è altrettanto lenta: quando la colonna finalmente affronta
una deviazione lasciandoci libera la strada, è quasi notte. Noi contavamo
di arrivare a Kargil, il luogo dove praticamente tutti fanno tappa prima di
arrivare a Leh, ma dovrebbe mancare ancora un'ottantina di chilometri.
Così alle otto e mezza, spersi nella notte fonda, ci fermiamo su uno spiazzo dove
montiamo le tende nel buio, aiutandoci con le nostre torce elettriche.
Lussuosa cena a base di scatolette!
Da questa mattina abbiamo percorso solo circa 150 chilometri!
Sveglia alle sei! Smontiamo velocemente le tende per essere pronti alla
ripartenza, invece sono gli autisti a non essere pronti!
Comunque alle sette e venti si riparte e dopo un'ora e mezza siamo a Kargil. Si
tratta di una grossa cittadina sorta su un importante crocevia di strade
carovaniere che portavano nel territorio degli hunza, nel Tibet e nello
Zanskar.
Si trova alla confluenza di due fiumi, il Drass ed il Suru, ad una ventina
di chilometri dall'Indo.
La popolazione è in prevalenza ancora musulmana. Dovrebbe anche esserci, ma
noi non ne vediamo traccia, una piccola comunità di cristiani protestanti,
appartenente ai Fratelli Moraviani, fondata a fine Ottocento.
Oggi è soprattutto un posto-tappa, a circa metà strada per chi viaggia da
Srinagar a Leh, prima di affrontare il percorso più ad alta quota: infatti
ci sono numerosi alberghetti, negozi ed un mercato dove ci si può
rifornire.
Noi ci fermiamo una quarantina di minuti, anche per fare la colazione che
avevamo saltato questa mattina, e ripartiamo alle nove e mezza.
Le montagne a destra ed a sinistra della valle percorsa dal fiume Wakha si
innalzano con le cime che giungono fino a 5.200-5.400 metri, mentre la
vallata si restringe. Tutto è brullo e desertico.
Il
panorama si fa sempre più brullo.
La
roccia di Mulbekh su cui è scolpita la figura di Buddha.
Ci sono solo piccole macchie di verde attorno al corso del fiume e in
qualche raro terrazzamento che riceve l'acqua chissà da dove.
Ance la strada non asfaltata compie continue curve. Alle undici e venti,
dopo appena 40 chilometri, arriviamo all'antico villaggio di Mulbekh, poche
case lungo la strada.
Siamo a 3.300 metri, ma non ci fermiamo, perché un chilometro più avanti,
fatta una curva, scorgiamo a destra della strada uno sperone di roccia che
si eleva diritto.
Sopra vi è scolpita una imponente figura di Buddha Maitreya (il Buddha dei
Tempi Futuri) in piedi che domina la strada che segue ancora il percorso
dell'antica carovaniera.
Il
Buddha Maitreya scolpito sulla roccia di Mulbekh.
E' alta circa sette metri e, dai fori ed altri segni presenti sulla
roccia, si intuisce che in origine vi fosse stato costruito qualcosa
attorno, forse un semplice riparo o forse anche un edificio più importante.
Il
cippo che segna il punto di massima altezza del passo.
Non possiamo agevolmente vederlo nella
sua interezza perché è parzialmente coperto da vegetazione e da un piccolo
anonimo tempio costruito nel 1975.
L'opera era attribuita ai primi secoli dopo Cristo, all'epoca dell'impero
Kusana; ora si è orientati a datarla attorno al VII secolo, forse anche VI
secolo d. Cr.
Sulla roccia, nelle vicinanze, si trovano due antiche iscrizioni scritte con
l'alfabeto Kharoshthi. La prima è un editto del Re Lde, che governò il
Ladakh occidentale nel XV secolo.
La popolazione allora sacrificava più
volte all'anno una capra strappandole il cuore davanti all'altare: «Oh
Lama [Tsongkapa (1378-1441) - N. d. A.] prendi nota di ciò! Il Re
della fede Grags-pa-bum-ide avendo visto i frutti delle opere nella vita
futura, ordina agli uomini di Mulbe [Mulbekh - N. d. A.] di abolire,
prima di tutto, i sacrifici viventi e saluta il Lama. I sacrifici viventi
sono aboliti.»
Gli abitanti di Mulbekh evidentemente non gradirono l'editto reale, e così
a fianco, sulla stessa roccia, troviamo la scritta: «Cosa dovrebbe dire
la divinità, se la capra si fosse nascosta?»
Ci intratteniamo in questo luogo anche per mangiare qualcosa al sacco e poco
prima dell'una ripartiamo: ci attendono due valichi importanti. Una continua salita ci porta sul colle Namika, dove arriviamo senza fiato:
l'omonimo passo, il Namika La, ci porta fino a 3.737 metri di altezza.
La
salita del Namika La (3.737 metri).
Efficacemente il suo nome significa "pilastro del Cielo". Ed
infatti, con qualche isolata nube di un bianco abbagliante attorno a noi, ci
sembra di toccare il cielo.
Abbiamo impiegato poco più di un'ora per giungere fin qui percorrendo
appena 14 chilometri!
Sulla vetta c'è un cippo ed alcuni massi trattengono a stento delle
bandiere di preghiera sferzate da un vento molto forte.
Rocce
emergenti dopo il Namika La.
Panorama
con le montagne.
Dopo aver scavalcato il passo, la discesa è quasi un'illusione: di ben poco
si scende mentre siamo circondati da un paesaggio desertico dal quale di
tanto in tanto emergono delle rocce erose dal vento. Dopo una quindicina di chilometri, che potremo definire di altopiano, la
strada riprende a salire verso il Fotu La.
Ogni tanto isolata in lontananza si vede qualche bassa costruzione: dal
numero di antenne rizzate sul tetto non è difficile ipotizzare che si
tratti di postazioni militari.
Adesso la strada si inerpica sulla montagna incontrando alcuni tornanti
mentre il panorama attorno appare come lunare.
Quasi
delle rocce lunari.
Accanto
al cippo che indica il Fotu La come il punto più alto della strada
Srinagar-Leh.
Dapprima i tornanti sono ben
distanziati, anche un paio di chilometri l'uno dall'altro, poi la sequenza
si fa più fitta e la salita più dura: il motore del nostro scassato
autobus sembra gemere di dolore!
Non ho contato i tornanti, ma saranno stati una decina, affacciati sul
vuoto: la strada è stretta e dal finestrino laterale sembra di librarsi nel
vuoto se gli scossoni non ci facessero rendere conto che siamo su una
strada.
Sono momenti di tensione sull'autobus, tutti preoccupati a controllare i
bordi della strada di questo viaggio interminabile.
Un
piccolo "chorten" devozionale con bandiere di
preghiera in cima al Fotu La.
Il
panorama sulle montagne del Ladakh dalla cima del Fotu La.
In cima al passo ci fermiamo: è
d'obbligo una foto ricordo sul punto più alto della strada Srinagar-Leh,
4.108 metri.
Abbiamo la sensazione reale di essere in cima al mondo!
Anche qui è stato costruito un piccolo chorten sovrastato da
bandiere di preghiera.
Abbiamo percorso 35 chilometri dalla cima del Namika La ed abbiamo impiegato
tre ore e un quarto, senza soste, per arrivare fin qui: meno di 12 chilometri
all'ora di media!
Dopo una breve sosta sotto un cielo azzurro intenso ed abbagliante,
riprendiamo la strada in discesa.
Durante
la discesa dal Fotu La.
Lamayuru come ci appare
all'improvviso dopo una curva della strada.
La discesa non è meno emozionante
della salita: prima era il motore che andava al massimo per superare
affannosamente il pendio, ora sono i freni ad essere usati per rallentare la
corsa.
La strada è sempre stretta, non asfaltata, ed il precipizio a meno di mezzo
metro dalle ruote, soprattutto nelle curve. Anche su questo versante infatti
ci sono tornanti. Sono le sei di sera quando, fatta una curva che girava attorno ad una parete
di roccia, si presenta all'improvviso il monastero di Lamayuru, in una
posizione spettacolare, incredibilmente su uno sperone che sembra elevarsi
dal fondo della valle.
Ma è tardi. C'è una specie di campeggio collettivo con tende già montate,
probabili forniture militari.
Nonostante la stanchezza accumulata in questa giornata, preferiamo montare
le nostre tende. Un bel sonno e domani visita al monastero.
Alla mattina si ripresenta lo spettacolo di Lamayuru, un grappolo di edifici
abbarbicati sulla roccia.
Siamo a 3.444 metri d'altezza.
La fondazione si perde nella notte dei tempi: è interessante la storia
mitica di questo monastero: ai tempi di Buddha Shakyamuni,
su quest'area esisteva un lago, abitato dai Naga (serpenti sacri). Quando il
venerabile Arhat Madhyantika, inviato dall'Imperatore Ashoka nel Regno di
Gandhara, passò vicino al lago, volle fermarsi per fare offerte d'acqua con
grani di orzo ai Naga.
Accidentalmente, con il suo bastone, ruppe il terreno facendo fuoriuscire
tutta l'acqua del lago, prosciugando gran parte della vallata. Profetizzò
che in quel luogo sarebbero fioriti gli insegnamenti dei sutra e dei tantra
unificati. Più tardi giunse in questi posti il monaco Naropa (circa
1016-1100, ma le
datazioni sono controverse) che si ritirò abitando in una grotta per
meditare.
Questa grotta esiste ancora e fa parte integrante del monastero di Lamayuru:
si apre sul muro di destra del Du-khang. Il monaco Rinchen Zang Po (958-1055), che sarebbe diventato uno dei più
importanti traduttori di testi sacri sanscriti in tibetano, aveva ricevuto
dal Re del Ladakh l'incarico di costruire 108 gompa. Il 108 è un
numero simbolico, magico, per il buddhismo (come anche per altre religioni)
al quale si attribuiscono significati differenti. Uno di questi gompa
si trova proprio a
Lamayuru: si tratterebbe del Seng-ge-Sgang, la parte più antica del
complesso posta sull'estremità meridionale della rocca ancora oggi ben
visibile.
Il
"gompa" Seng-ge-Sgang, il più antico di Lamayuru.
Seng-ge-Sgang,
il "gompa" più antico di Lamayuru, databile 1038, che
si vuole costruito da Rinchen Zang Po.
Effettivamente questo gompa, come molti altri in Ladakh e nelle
regioni circostanti, è databile 1038, all'epoca di Rinchen Zang Po.
Il gompa
originario consisteva di cinque edifici, dei quali uno è discretamente
conservato, mentre degli altri quattro, agli angoli, sono visibili solo dei
resti.
Nel corso del XVI secolo giunsero in Ladakh, su invito di Re Tashi Tamgyal,
il saggio Denma Kunga Drakpa. Il re gli aveva assegnato un piccolo palazzo a
Lamayuru, di sua proprietà. Quando il saggio visitò la grotta di Naropa,
vide che dei grani d'orzo erano germogliati nella forma di svastica (gYung-drung)
e considerò il fatto di buon auspicio: fondò un monastero che chiamò
gYung-drung. La svastica era un simbolo comune a molte religioni: oltre a
quella buddhista c'è anche la religione bon, il cui nome per esteso è
gYung-drung-bon. Questi elementi, assieme ad alcune osservazioni su
particolari dei dipinti, suggerirono a August Hermann Francke (1870-1930) di
formulare l'ipotesi che questo in origine fosse un monastero Bompo. Tuttavia
pare dimostrata l'inconsistenza di questa ipotesi.
Il re del Ladakh ed il principe di Balti avevano in grande considerazione la
sacralità del luogo e stabilirono che anche il più crudele dei criminali
sarebbe potuto sfuggire alla condanna se, prima della sentenza, si fosse
recato personalmente a gYung-drung. Per questo motivo questo monastero era
detto anche Tharpaling (la terra della libertà).
gYung-drug, o Tharpaling, è comunemente conosciuto come Lamayuru.
"Chorten"
nell'area più antica del complesso di Lamayuru.
Questa consuetudine di essere terra
franca per i criminali venne sempre rispettata, non solo dai signori del
Ladakh e di Balti, ma anche dai governanti del Kashmir.
Tanto era il prestigio che aveva assunto Lamayuru, che divenne un territorio
neutrale che ospitò più volte incontri pacificatori tra parti avverse.
Godeva di esenzione fiscale e di un'autonomia superiore a quella di
qualsiasi altro monastero in Ladakh e contava 4/500 monaci, molti dei quali
si spargevano nella regione per aprire nuovi monasteri.
Nel 1834, durante l'invasione di Zorowan Singh, generale del re dello Jammu
Gulab Singh, molti monaci furono massacrati e pochi riuscirono a fuggire
nelle montagne.
Allora il santuario principale fu usato come stalla per i cavalli, porte e
finestre come legna per ardere; gli antichi manoscritti furono strappati e
bruciati, gli oggetti di valore trafugati. Pare che rimase una sola statua
di una certa importanza con qualche suppellettile.
Quando tutto finì, tornarono i monaci dalle montagne: ne erano restati sei!
Un
pellegrino fa roteare i tamburi di preghiera del Seng-ge-Sgang.
Riprendere l'attività spirituale fu difficile: mancavano di tutto, persino
delle ciotole. Acquistarono una campana senza manico per le loro cerimonie
nel villaggio.
Fu così che gli abitanti di Lamayuru inviarono dei loro rappresentanti per
informare dell'accaduto Kyabje Bakula Rangdol Nyma Rimpoche, che si trovava
nella regione, e gli chiesero aiuto. Il Rimpoche rimase molto colpito dal
fatto che dei semplici laici fossero così interessati alla ricostruzione
del monastero. Così fece un'importante donazione per il progetto di
ricostruzione e presto arrivarono altri aiuti: in due anni il monastero
venne ricostruito.
Successivamente diversi choje (maestri) si presero cura del monastero
e nel 1904 fu ricostruito completamente l'attuale edificio di cinque piani.
Oggi sono circa 150 i monaci che abitano a Lamayuru ed i più anziani hanno
studiato nei monasteri tibetani prima dell'invasione cinese del Tibet.
L'aspetto d'assieme del complesso di Lamayuru ci appare come un dedalo di
percorsi, tra chorten in rovina, edifici antichi ma discretamente
conservati, costruzioni relativamente nuove e qualcosa di assolutamente
nuovo: tutto, il vecchio e il nuovo, è costruito in mattoni in questo
labirinto nel quale ci perdiamo volentieri, scoprendo scorci o scene
inaspettati come il pellegrino che cammina davanti ai vecchi tamburi di
preghiera o i bambini-monaci (6-7 anni di età) seduti su dei banchi di
scuola all'aperto o per terra sotto una tettoia di legno, davanti a testi
dalla scrittura che sembra tibetana.
C'è il passato, il presente ed il futuro.